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NEL REGNO DELLE MASCHERE

DELLO STESSO AUTORE

Epistolario, compreso quello amoroso, d* Ugo Fo- scolo e Quirina >Iagiotti-]Mocenni. Firenze , Sa- lani, 1888. Un volume. (Seconda edizione, 1904).

!MÌSterÌ di Polizia. Storia Italiana degli ultimi tempi, rica- vata dalle carte d'un Archivio segreto di Stato. Firenze, Sa- lani, 1890. Un volume.

Un amore di Giuseppe Mazzini. Milano, Kantorowicz, 1895. Un volume. (Esaurito).

Cospirazioni Romane. Roma, Voghera, 1899. Un volume.

Fascino di Donna. Romanzo moderno. Torino , Stre- glio, 1900. Un volume.

Fra le quinte della Storia. Torino, fratelli Bocca, 1903.

Un volume.

Roma che ride. Settant'anni di satira (1800-1870). Roma- Torino, Roux e Viarengo, 1904. Un volume.

Vittorio Alfieri e la Contessa d* Albany. Roma-To- rino, Roux e Viarengo, 1904, Un volume.

Giuseppe Mazzini e Giuditta Sidoli. Torino, Sten, 1909.

EMILIO DEL CERRO

(N. NICEFORO)

vO

Nel^regno delle maschere

DALLA COMMEDIA DELL'ARTE A CARLO GOLDONI

CON PREFAZIONE

DI

BENEDETTO CROCE

NAPOLI

FRANCESCO PERRELLA

Sodeti Aaosima Editti»

1914

Proprietà Letteraria

NAPOLI-TIR S, MORANO-S. SEBASTIANO 48 R P

PREFAZIONE

La commedia dell* arte è stata oggetto di molto la- vorio fantastico. La vita girovaga di quei comici ; // loro spargersi fuori d* Italia, in Francia, in Ispagna^ in Inghilterra, in Germania ; le loro avventure in- fiorate di tanti aneddoti ; e , soprattutto , /' attitudine ad essi attribuita dell* improvvisare come in una spe- cie di furor comicus ; hanno circondato la comme- dia delVarte del nimbo di non so qual mistero o pro- digio ; e se ne parla volentieri come di un mirabile e singolare prodotto dell* ingegno italiano, che brillò di luce vivissima per circa due secoli e si spense poi per sempre. Taluno è giunto perfino ad attribuire a quei comici erranti il sacro deposito della nazionalità ita- liana , che solo per loro mezzo si sarebbe affermata, sarcastica protesta contro lo straniero e gli oppressori di ogni sorta. Si tratta, insomma, di una leggenda, la cui origine non è difficile spiegare ; e che ha il suo analogo nel caso della " poesia popolare ", o, più prossimo ancora, in quello dei poeti improvvisatori.

VI

Olirà gloria che rifulse nei secoli di decadenza e che ora, per buona fortuna, è al tutto finita.

Quando io lessi, or sono quattro anni, in manoscritto il presente libro del Del Cerro, non solo mi parve de- gno di pubblicazione perchè l'autore aveva pel primo procurato di mettere a frutto i molti documenti sulla Commedia dell* arte venuti fuori nei decennii seguenti al lavoro di Adolfo Cartoli; ma precipuamente mi piacque perchè vidi che il Del Cerro, con fermo buon senso e con sana critica d' arte , intendeva a dissipa- re la " leggenda " della commedia dell' arte. Que- sta commedia fu improvvisata per modo di dire : sotto l'apparente improvvisazione (come, in altri modi, acca- deva sotto quella dei poeti improvvisanti) e era la preparazione e il meccanismo ; sotto V apparente ric' chezza , la povertà ; e rimase sempre o quasi sem- pre in un basso livello spirituale, con V intrigo delle sue azioni, i caratteri-caricature, le facezie grossolane, i lazzi triviali. E se piacque principibus viris, ammessa e festeggiata nelle corti, codesto non tanto fu sua lode, quanto piuttosto effetto del persistere di compiacenze e costumanze ancora rozze e medievali nelle classi sociali elevate dei secoli decimosesto e decimosettimo. E quando i costumi s'ingentilirono, la commedia del- l'arte decadde o fu costretta a trasformarsi. Il Del Cerro ha ben visto che, col Goldoni, entra nella com-

VII

media un contenuto etico, indizio di arte pili alta, e che questo per Vappunto costituisce Vessenziale della riforma goldoniana.

Con ciò non si vuol dire che la commedia dell arte non ritenga alcun pregio. Si vuol semplicemente otte- nere che sia conosciuta meglio, nella sua schietta realtà, allontanando le fantasticherie. Pregio della commedia dell'arte fu l'elemento popolaresco e una certa libertà di argomenti e di movimenti, ch'essa potè serbare con- tro r irrigidimento della commedia regolare ; e, segna- tamente, Vaver creato e disciplinato ottime compagnie di attori drammatici, e perfezionato la tecnica teatrale: e per quest'ultima parte veramente /' Italia concorse, prima e più efficacemente di ogni altro popolo, alla creazione del teatro moderno.

tNiapoli, dicembre Ì9Ì4.

Benedetto Croce

CAPITOLO PRIMO

La Commedia dell' Arte e la sua Storia.

Tutti sanno che tra la seconda metà del secolo XVI e i primi anni del secolo XVIII fiorì in Italia la com- media detta dell' arte, o a braccia, o a soggetto, o all'im- provviso, poiché essa ebbe tutte codeste denominazioni ; tutti sanno che essa, dopo un lungo ed anche glorioso regno, fu detronizzata da Carlo Goldoni con la sua riforma del teatro comico italiano ; però non tutti co- noscono le sue vicende, la sua natura, i suoi pregi, le sue deficienze. Da molti, anzi, ed anche non indotti, se ne parla così, ad orecchio. Le stesse nostre storie let- terarie non se ne sono occupate che di sfuggita onde constatarne la morte per anemia , per esaurimento , o per recitcìre sulla sua tomba un frettoloso : riposa in pace ! Però non sempre i morti scendono intieramente nel sepolcro ; spesso lasciano di se, nell'animo dei vivi, qualche cosa che a suo tempo fruttifica : ed infatti , nella seconda metà del secolo scorso, sopratutto in Francia, dove la commedia dell'arte, cosa tutta italiana» ebbe vita gloriosa, la povera morta cominciò a iai pai-

V^tl Regno delle Maschere 1

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lare di se, dando origine ad una letteratura piuttosto copiosa. Codesto movimento, sebbene con minore ef- ficacia, fu seguito in Italia. Adolfo Bartoli dapprima, altri dopo lo Scherillo e il Croce segnatamente hanno pubblicato studi o monografie assai importanti sul proposito : ma il movimento è appena iniziato, anche perchè pochi, assai pochi, presso di noi, hanno avuto la cura di prendere in esame il materiale che tuttavia giace inedito nelle biblioteche sia pubbliche che pri- vate. Laonde se noi conosciamo discretamente l'ossa- tura della commedia dell'arte, non che parecchie delle trasformazioni di forma e di contenuto a cui andò sog- getta lungo la sua brillante esistenza; se possediamo un sufficiente numero di particolari biografici intorno ai maggiori interpreti di siffatto spettacolo teatrale ; se intorno a parecchi di codesti interpreti abbiamo la storia del loro soggiorno in Francia , dove la commedia a soggetto, recitata da italiani, ebbe vita lunga ed ono- rata, non abbiamo ancora un'opera che esamini insieme all'ossatura o impalcatura del genere teatrale di cui ci occupiamo non che alle sue origini, al suo fiorire e al suo decadimento, anche il suo spirito, la sua intima essenza in rapporto alla società in cui la commedia dell'arte nacque, fiorì e si spense. Anche nei suoi rap- porti con Carlo Goldoni, e precisamente con la riforma dal grande veneziano intrapresa e felicemente condotta a termine, ci sembra che esista una lacuna. Non vo- gliamo dire con ciò che non sieno state indagate, con una certa ampiezza di sviluppo, le cause diverse che provocarono la riforma goldoniana, poiché non si può

:?

ponderatamente discorrere dei rapporti della commedia dell'arte o a soggetto con la riforma del Goldoni senza che non si tenga conto delle cause che provocarono la riforma stessa : no ; non ci si attribuisca siffatto concetto, perchè non corrisponderebbe al vero. Vogliamo soltanto dire che gli scrittori che di codeste cause si sono occu- pati, non hanno sempre colpito nel segno : tutti, o quasi tutti, si sono fatti sedurre dal genio del grande comme- diografo veneziano e la riforma della commedia da lui com.piuta hanno giudicato come un atto spontaneo' e semplice della volontà dello scrittore. Se Carlo Gol- doni non avesse voluto, di proposito, intraprendere la riforma del teatro comico italiano, continuando a bat- tere la vecchia strada, come, per altro, aveva fatto nei primi anni della sua carriera , la commedia dell' arte non sarebbe morta. Ora, questo, a noi sembra errore. Generalmente si ritiene che l'arte, nelle sue diverse manifestazioni, non sia che un prodotto volontario del- l'uomo, il quale, se accompagnato dal genio, le imprime il carattere d' una vera creazione : ma non è precisa- mente così. L'arte, nelle sue svariate manifestazioni, è frutto d'ambiente, il quale, alla sua volta, è l'elabora- zione di ambienti precedenti, di tradizioni, di tentativi ora riusciti , tal' altra rimasti allo stato d' un semplice conato, le cui origini, come un tempo quelle del Nilo, spesso sono oscure, avvolte nel mistero. L' individuo, certamente , in questa lunga e faticosa elaborazione delle forme dell' arte , ha la sua parte più o meno grande a seconda ch'egli si chiami Tespi o Aristofane, Nevio o Plauto, Cimabue o Giotto, Brunetto Latini o

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Dante Alighieri, lacopone da Todi o Francesco Pe- trcirca, Durante, l'autore del Romanzo della ^osa in italiano, o Ludovico Ariosto, Marlowe o Shakspeare; ma nessuno di costoro , nemmeno il più grande , può sottrarsi ai suoi tempi. Dante Alighieri, malgrado che le due o tre ultime generazioni d' italiani l'abbiano voluto strappare all' Italia del secolo XIV per farne il precursore, anzi l' interprete dell' Italia moderna, resta sempre un uomo medievale , cioè , il figlio dei suoi tempi. La riforma del teatro comico italiano nel secolo XVIII s' impersonò in Cailo Goldoni ; ma anche senza di quest'ultimo e della sua audacia riformatrice, la com- media dell'arte sarebbe morta ; sarebbe morta, proba- bilmente, qualche dozzina d'anni più tardi, ma sarebbe morta, o avrebbe trasportato i suoi lari sulle scene po- polari, fra le plebi, poiché oramai essa non rappresen- tava che la vis comica plebea; vis comica che prima dell'apparizione del Goldoni sulla scena, e per parec- chie generazioni, era stata quella delle altre classi so- ciali. Imperocché, codeste classi classi dirigenti sin dalla fine del secolo XVII, e più propriamente sin dal principio del secolo successivo, sotto l'influenza d'un gusto più raffinato , di abitudini meno grossolane , di sentimenti più delicati , avevano, in Italia, subito una trasformazione : il loro stato d'animo era sensibilmente diverso da quello delle generazioni precedenti , e un gentiluomo dei primi anni del secolo XVIII si sarebbe vergognato di ridere di quel riso grasso, rumoroso, come s'era fatto sin' allora, dinanzi alle trivialità condite di sudicerie o alle scipitezze o alle insulsaggini d'un Ar-

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lecchino o d*un Brighella, d'un Pantalone o d'un Dot- tore Graziano , d* uno Scaramuccia o d' un Capitano Spavento della commedia dell'arte : trivialità, sconcezze, insulsaggini e scipitezze che pur avevano fatto ridere sovrani come Enrico III ed Enrico IV, Luigi XIII e Luigi XIV, regine come Caterina e Maria dei Me- dici, principi come i Gonzaga di Mantova, i D'Este di Ferrara, i Della Rovere d'Urbino, uomini di Stato come il Colbert, cardinali come l'Aldobrandini (il ni- pote di Clemente VIII) e il Mazzarino, letterati come il Tasso, il Chiabrera, il Marino, artisti come Salvator Rosa e il Bernini . . .

Che cosa era la commedia dell' arte ?

Era una commedia di cui l' autore non scriveva il dialogo; scriveva soltanto lo scenario o soggetto: l'at- tore ne improvvisava il resto. Scrisse Adolfo Bartoli : " Si chiamò commedia improvvisa o dell' arte quella della quale non è disteso il dialogo, ma semplicemente è fatta la divisione delle scene ed accennato ciò che i personaggi debbono dire (1). " E il Baschet: " C'était une comédie improvisée , développée , détaillée en quelque sorte par inspiration et selon tous les caprices de r esprit , sur un sujet donne , sur un canevas pré - pare (2). "

(1) Scenari Inedili della Comm. dell' Arte. Firenze, Sansoni, 1880. Introd. p. IX.

(2) Les Comédiens Italiens à la Cour de France sous Charles IX, Henri III. Henri IV et Louis XIII. Paris. Plon et C. 1882, p. 10-11.

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Quanta parte la commedia dell'arte lasciasse all' im- provvisazione, e quindi all'ispirazione particolare del- l'artista, vedremo più innanzi. Ora ci domandiamo: quando nacque la commedia dell' arte ?

Segnare l'anno preciso della sua nascita, quasi che i generi letterari avessero il loro Stato Civile, e quindi facile riscontrarne la venuta al mondo con la produ- zione dell'atto relativo, sarebbe quasi impossibile. Le manifestazioni letterarie o artistiche del pensiero umano non sono che lente e spesso faticose elaborazioni con un continuo passaggio da una forma all'altra, che non di rado non differisce dalla precedente che in particolari secondari, quasi impercettibili. Risalire dalla forma com- pletamente evoluta ai suoi primi embrioni, per quanto r indagine sia largamente praticata, pure non è cosa sem- pre facile o sicura : quando s' è, o si crede d'essere alle origini, ecco che mediante un'ulteriore indagine, risa- lendo sempre più in alto, troviamo ancora traccie, più o meno appariscenti, di quel genere letterario o artistico. Ma per non troppo divagare dal nostro tema, ecco che le origini della commedia dell' arte o a soggetto, so- rella minore di quella scritta o letteraria, si fanno ri- salire sino al Medio Evo, non perchè scenari di com- medie improvvise o a braccia di quel tempo siano per- venuti sino a noi, oppure, perchè storici o cronisti fac- ciano menzione che durante quell'evo, o in qualche suo deriodo, si fosse rappresentato qualcosa di simile ; ma sib- bene perchè le origini o le prime manifestazioni dello spettacolo a braccia si è creduto di riscontrare nelle farse

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o dialoghi recitati, come scrive il Bartoli (1), dai più volgari istrioni mezzi commedianti e mezzi saltimban- chi. Altri volle dcire alla commedia dell'arte origini più antiche, e trovò che essa discendeva in linea retta dalle famose farse della Campania, chiamate appunto da Ateìla, il paese d'origine, Fabulae Atellanae (2)y le cui quattro maschere trovano un riscontro in alcune di quelle della commedia improvvisa, e che scomparse dalla scena aristocratica, restano ancora a far ridere il volgo dagli umili teatri popolari. Opinione codesta forse non troppo ardita, e che troverebbe la sua documen-

(1) Op. cit. p. IX-X.

(2) Baschet; op. cit. p. 11-12. Il Bernardin scrive: " Plusieurs siècles avant l'ère Christiane il se jouait en Campanie, dans la petite ville d'Atella, des comédies populaires . . . C'étaient Manducus et Lamia, l'ogre et la goule, et surtout, Dossennus, le sage bossu, le maigre Maccus, làche, voluptueux et gourmand, et Pappus, le veillard amoureux et avare, toujours dupé. On s* amusait à les revétir d' un costume et à les piacer dans une situalion absolument contraire a leur caractère et à leurs goùts, montrant, par exemple, le poltron Maccus en demoiselle à marier. Les Atellanes peìgnaient plus volentier les moeurs des petits gens: bou- langers, pécheurs, gladiateurs .... Le dialogue fut long temps improvisé par les comédiens sur un canevas trace d'avance. " La Comédìe ItC' henne et il '77héa(re de la Foire ; Paris, Revue Bleue, 1 902. SuU'as- serta discendenza della commedia dell' arte dalle antiche Atellane scrisse ampiamente ed acutamente Benedetto Croce nel suo scritto : Pulcinella e le relazioni della Commedia dell'arte con la commedia popolare romana, stampato in: Arch. St. per le Prov. Napol. Voi. XXIII, e di recente ristampato in : Saggi sulla letteratura italiana del Seicento ; Bari, Laterza e figli, 1910; p. 195. Con lo scritto predetto il Croce mette molta acqua nel vino di coloro che vorrebbero vedere nella com- media a soggetto la diretta e legittima discendente delle Atellane. Con-

tazione o base che dir si voglia nell'elemento etnico; poiché la Campania hi ed è sempre la patria del riso pieno, irresistibile, comunicativo, del motto salace, della frase sboccata, del gesto più espressivo, più eloquente della stessa parola ; doti tutte che costituiscono la base dello spettacolo comico di cui ci occupiamo. Anche oggi il rappresentante più diretto delle Fahulae JlteU lanae è certamente Pulcinella, la maschera più briosa di tutte le maschere italiane e più rassomigliante a quel Maccus che nelle città e nelle borgate sorgenti in- torno al Vesuvio rallegrò i contemporanei di Plauto, di Orazio, di Cicerone e di Virgilio. S' aggiunga che i

vinto propugnatore della predetta discendenza si mostrò in Italia il De Amicis (Vincenzo) nel suo studio: U Imitazione latina nella Commedia Ita- liana del XVI secolo, stampato, nel 1871, a Pisa, e poi con aggiunte e correzioni ristampato dal Sansoni a Firenze nel 1897. Ma di recente un tedesco ha veduto più lontano dei De Amicis. 11 Reich nella sua opera: ©er Mimus, ec. ec. (Voi I, Theorie des ^JìiCimus; Berlin, Widmann, 1 903) scrive che nel mondo letterario greco accanto alla poesia idealistica, al dramma classico (Eschilo, Sofocle, Euripide) fiorì una specie di let- teratura di secondo ordine, realistica, il mimo, cioè, il dramma mimico. Il dramma classico si svolse poscia con Seneca a Roma , con Marlow^e e Shakspeare in Inghilterra, con Corneille e Racine in Francia , con Schiller e Goethe in Germania. Il dramma realistico esordisce col mimo; dalla Gre- cia passa a Roma, a Costantinopoli ; nella seconda metà del secolo XV, in Costantinopoli divenuta Stambul, diventa Karagoz, una maschera turca. Da Roma va in giro per l' Europa medievale coi buffoni , giullari e s'introduce nei Misteri; infine, crea la Commedia dell'Arte, forse per via di Costantinopoli, o meglio di Stambul. Il Croce, giustamente, trova tutto ciò parecchio ardito e senza documentazione. Ved. Croce in: Saggi ec. ce. p., 261 e segg.

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primi saggi di commedia popolare italiana si riscon- trano appunto in certe farse che furono scritte a Napoli nella seconda metà del secolo XV e sul principio del secolo seguente, dette Cavajole, perchè tra i perso- naggi figuravano persone di Cava, un paese che godeva fama d' essere abitato da gente rozza, credenzona, stu- pida. E in queste brevi composizioni comiche che per la prima volta s' incontra un vero spunto di vis comica nonché la riproduzione della vita fatta in senso realista. Sin' allora lo spettacolo dominante, anzi il solo spet- tacolo teatrale signoreggiante la scena, era stata la Rappresentazione religiosa succeduta alla Laude dei Disciplinati delle verdi vallate umbre e nella quale r illustre Alessandro D'Ancona trova il primo em- brione dello spettacolo teatrale italiano ( 1 ) : era la Rappresentazione religiosa o cM^istero un' esposizione cronologica dei fatti del Vecchio e del Nuovo Testa- mento più o meno inframmezzata delle leggende che intorno ai medesimi fatti aveva creato la fantasia del popolo o di qualche frate meno incolto dei suoi com- pagni dichiostro. Non passioni umane, non analisi d' anime, non caratteri, ma tipi foggiati dalla tradizione e quasi mai modificati dal poeta. 1 personaggi di quei lavori , scriveva il Torraca (2), non sono persone. La

(1) Origini del Teatro Italiano; Torino, Lcescher, 1891, Voi. I, pagina 2.

(2) // Teatro italiano nei secoli XIII, XIV e XV Firenze, Sansoni, 1885, p. XVI -XVII; e Io stesso Torraca: Studi di Storia Letteraria Napoletana; Livorno, Vigo, 1884. (I capitoli: P. A. Ca- racciolo e Le farse Cavajole.

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Rappresentazione religiosa era intanto penetrata a Na- poli; ma qui, lo spirito del vecchio Maccus, quel vecchio spirito salace, beffardo, che si stemperava in un riso largo, in buffonate, in lazzi, s' appiccicò allo stesso dramma religioso e ne vennero fuori le Farse Spirituali, Maccus, che aveva riso nel trivio, accanto al tempio di Venere o di honte al foro dove i gio- vanotti galanti mormoravano i versi di Catullo o di Properzio all' orecchio delle belle matrone o delle gentili fanciulle, aveva voluto ridere anche in chiesa, accanto ai gravi personaggi del racconto biblico, ai santi e alle sante della agiografia cristiana. Ma a Na- poli, la farsa popolare, vero studio dal vero, esatta riproduzione di costumi locali, liberatasi dalle pastoie religiose, ebbe presto a sollevarsi a dignità d' opera d* arte. San Carlino , il famoso teatrucolo dove per tanti anni scoppiettò lo spirito napoletano, non fece che continuare la tradizione degli umili teatri, dove furono recitate le cavajole.

Applaudite cavajole scrisse, fra la fine del secolo XV e il principio del secolo XVI, Antonio Caracciolo. Il Napoli - Signorelli (1) ne ricorda alcune insieme a curiose notizie sulle stesse ; ma andarono perdute, meno qualcuna. Fra le smarrite, il Napoli-Signorelli ricorda V Ammalato dove figurano tre medici, che probabil- mente avranno messo in ridicolo i loro colleghi e la scienza da loro professata due secoli prima che il Mo- lière facesse lo stesso in Francia. Un' altra, pubblicata

(1) Coltura delle due Sicilie; voi. Ili, pag. 236.

dal Torraca (1), introduce a parlare una cita, lo citOy una vecchia, un notaro, lo Preite, lo Vacano et uno terzo. E una farsa assai magra, ma già vi si riscontra lo spirito che poi doveva informare la commedia let- teraria italiana non che quella dell* arte. Eccone una scena.

Il notaio Fiorillo stipula, sulla scena, il contratto di nozze e lo legge :

Voi che siete a lo torno qui in presentia,

Ognuno ad udientia s' apparecchie

Da prestarmi l'orecchie in questa parte,

Per fin che queste carte avrò lette.

Oggi che so li sette de febraro,

Che vene da po' jennaro, in presenti anno

Che corre senza affanno 1514.

Uno dei patti :

E ditta cita Se obbliga a la sua vita non mancare De maje s'accarezzare co lo cito Se proprio isso ha appetito da pigliarla La notte et abbracciarla, e quanno invario Facesse lo contrario, che isso possa Romperle tutte 1' ossa et la cacciare. E da po' se pigliare per mogliere Chi le fosse in piacere.

Un altro patto :

Ifem promette et jura qua davante Che se issa qualche amante pigliare. De non se ne accorare, et se accascasse Che isso maje la trovasse ne lo letto,

(1) Op. cit. p. 305.

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Promette altro dispetto non le fare Se no de se n'andare et stare fore Pe quatto o cinque hore et non tornare Se no lo fa chiamare; ma de patto Vole che che ha fatto la mogliera De farcelo assaporare sia costretta.

LA CITA Puro che me prometta non m' accidere.

LO CITO

Io me ne voglio ridere.

Letti i capitoli, viene lo Prevete, il quale, interro- i gati i testimoni, congiunge gli sposi con espressioni burlesche.

Un' altra farsa popolare (cavajola), non del Carac- ciolo, ma di Vincenzo Braca, s' intitola : Farsa cava- iola della Schola (1). Riportiamo la lezione del maestro:

. . . Pigliate e lettiuni. Tacete omnes, Conticuere omnes poslquam ilìa Dido Trovato havea no nido de Cianfroni, Edificava e mura de Cartagine Con tutte quante e magine de Trojani E de antichi Romani a natione. A regina Junone contra Enea Con Eolo ne venea, armata mano, E pigliao, sano sano, o coloniello Da dietro no vasciello, e s'annegao. Enea se n'adonao, e disse: o Fato,

(1) Torraca; op. cit. pag. 431.

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Oh, che sciagura è stato, eo songo puosto Che so de o sangue vuosto, e mo m'anneo. Così pregando Deo dette a sborrare Natando dintro a o mare, e a Pezzulo Se n'andao sulo, sulo. In chesto Acate, Che l'era come frate, o secutava E con isso natava co e bessicKe, Lassando e navi amiche ncanna a l'onde. Ma Venere e nasconde dintro a neglia Dando a* sordati a veglia, e co a fortuna lero a luce de luna po' a sbarcare Dove vedero fare na Cetate Dell' Afreca a e contrate, dove Dudone Voze ntendere a raggione, che i gricci Commattero anni dieci contro Troja. Ejiea, che avea a fojade a Regina, Comenzao na matina cossi a narrare: Conticuere omnes et intentique Angustie sunt ubique bora tenebant. Ita Trojani dicebant: inde Thoro, Pregando Santo Aitoro : eh, regina. Tu vuoi stammatina, jubes rennovare, Accomenza a cantare, dolerem . . .

Il maestro continua ancora un poco, poi si ferma e dice:

Pe chello, che me veo, ca sto secundo No o p>o ntendere Ramundo.

(Gli scolari si chiamavano: Ramundo, Parmades, Ciardullo, Giandisco, Paduano e Masullo).

RAM. Maffeo . . .

MAF. manco Giarmisco, Paduano . . .

PAD. Ciardullo co o Masullo sta confuso . . .

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CIAR. Liei, Masto, o Furiuso . . . PARM. E Antonio Bruno ... MAR. E a storia de Liunbruni. MASTRO Quetollà,

Voglio fa punto eo cha. CIARD. Mastro, feria ! MASTRO Ca non potimo sta miseria comportare.

Abbiamo voluto riportare codeste due scene di farse cavajole, perchè già vi si comincia a disegnare un motivo, che in seguito fu ampiamente sviluppato dalla commedia dell' arte, la quale in questo ebbe a compagna quella letteraria o scritta. Difatti, nelle due scene sopra trascritte, e dove nell'una il notaio legge il contratto nu- ziale, e nell'altra il maestro impartisce la sua lezione agli scolari, fa capolino la parodia. Qui il notaio e il maestro toccano il grottesco. Non è più il sorriso che increspa il labbro ; è il riso largo, sguaiato che trasforma la bocca in una smorfia. C è la rappresentazione del vero, ma quasi sempre la rappresentazione precipita nella caricatura. Le maschere, che dovranno costituire più tardi la base della commedia dell'arte, già si sen- tono, s'intravedono nelle farse cavajole. Quel notaio, quel maestro di scuola , l' uno grottesco, l' altro igno- rante, preannunziano l'arrivo sulla scena di personaggi, che la commedia dell'arte renderà famosi. Se non che, non abbiamo ancora la commedia a soggetto: le parti delle Cavajole sono scritte, a meno che un primo al- bore — un albore pallido, diremmo quasi incerto dello spettacolo improvviso non si volesse vedere in quelle facezie, o meglio, in quei lazzi con che i per-

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sonaggi delle farse del Caracciolo e del Braca accom- pagnavano i loro discorsi ; per esempio, gli atti burle- schi con che il 'Preite, nella farsa del primo dei due sopra ricordati scrittori, infiorava la celebrazione delle nozze.

Quasi al punto opposto della penisola, nel Piemonte, e precisamente ad Asti , Gio. Giorgio Allione , con- tenporaneo degli scrittori delle Cavajole, scriveva com- medie e farse in vecchio dialetto astigiano misto qua e al fiancese , ricordo della calata di Carlo Vili : ma la vis comica v' è povera , e quelle commedie e quelle farse hanno tutta l'aria di discendere dalle vec- chie Moralités e Soitises francesi (azioni dialogate).

La commedia popolare, o, semplicemente, farsa, non fu, sulla fine del Quattrocento, un prodotto esclusiva- mente napoletano. Farse, o commedie popolari furono scritte e recitate anche fuori di Napoli ; potrebbe dirsi, anzi, che sulla fine del secolo predetto se ne fosse dif- fuso il gusto in tutta la penisola. L'anima italiana, sin' al- lora terribilmente stretta fra le morse del misticismo medie- vale, serrata fra le penombre delle chiese dalle strette finestre ogivali , materiata di leggende foggiate nelle oscure e malinconiche celle dei conventi, quotidiana- mente minacciata dalle pene eterne dell' inferno, ral- legrata soltanto da uno spettacolo scenico, qual' era la Rappresentazione religiosa, dove tanta parte dell'anima stessa, il sentimento amoroso, era severamente soppressa, sentiva il bisogno di respirare più liberamente, di ri- cordarsi che viveva insieme alla carne , che se l' una aveva i suoi bisogni, anche l'altra aveva i propri. La

lo- carne; ecco il nuovo personaggio che nella seconda metà del Quattrocento entrava sulla scena della vita ; un personaggio che il Medio Evo, se non aveva igno- rato, riteneva che fosse perfettamente trascurabile dopo d'averlo reso impotente. L'uomo usciva fuori del triste sogno; si svegliava ed aprendo gli occhi alla luce, s'accorgeva che quanto gli stava intorno, vivente sotto la volta del cielo azzurro, non era così brutto come era stato dipinto dai teologi e dai moralisti : la donna, sopratutto, non era quell'essere inferiore, quasi sozzura vivente, nemica dell' uomo e della sua salute eterna , che gli avevano descritto, bersaglio d'anatemi, d'ironie crudeli, d'oltraggi senza fine. Si ricordava, finalmente, che prima di quell' incubo, tante volte secolare, l'uomo, sotto quello stesso cielo azzurro, accanto a quei monti superbi o a quelle colline dalle linee delicate, su quei campi che il sole di giugno indorava nelle messi e quello di settembre e d'ottobre imporporava nei grap- poH pendenti dalla vite maritata all'olmo o corrente, a guisa di festone, da un albero all'altro, era vissuto lietamente, non turbato dai sogni o dai presentimenti della vita futura. Perchè egli non avrebbe fatto come i suoi antichi padri se nulla intorno a lui era cambiato, se la natura era sempre la stessa?

Certamente, codesto cambiamento della psiche uma- na, in Italia, non avvenne d'un tratto; sarebbe quasi impossibile il segnare il giorno di questo risvegliarsi dell'anima italiana alla vita novella. I primi segni pre- cursori si ritroverebbero, forse, nell'Italia del mezzo- giorno, alla corte di Federigo II svevo, dove l' impe-

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ratore e re, tedesco d'origine, ma nato in Italia, e i suoi cortigiani, metà soldati , metà trovatori , si beffa- vano delle pene dell'inferno, e in quella del Setten- trione e del Centro alla prima invasione dei poeti pro- venzali o del gusto della poesia provenzale. Ma non era che un' esigua , sottile corrente intellettuale attra- versante, quasi limpido fiumicello, le masse popolari, specie d' oceano torbido , profondo , travagliato dalle superstizioni, dall' ignoranza, dal fanatismo. Dante stesso, spirito superiore al suo secolo, non seppe intieramente sottrarsi alle sue credenze d'uomo medievale, e se non ebbe il coraggio di condannare Manfredi , soldato , poeta ed innamorato, all' inferno, lo cacciò nel purga- torio.

Ma verso la metà del Quattrocento, in Italia, il di- stacco fra l'uomo-nuovo e l'uomo-medievale, nelle classi elevate o dirigenti, è completo. Re, principi, uomini di spada, poeti, eruditi, rappresentano la nuova vita, e con loro anche i papi, i cardinali, i vescovi. Il ri- sveglio della vita, il ritorno al culto della natura, è così profondo, è così baldo che pervade e vince il suo antico nemico : la Chiesa. Si comincia a sentire il bi- sogno di conoscere più intimamente il vecchio mondo, quello pagano, così calunniato, così laidamente dipinto dai padri della Chiesa e dai filosofi cristiani ; si fruga negli archivi e nelle biblioteche; si fruga sotto le ro- vine, e ne vengono fuori e manoscritti e statue. Si re- staura il culto di Roma e d'Atene pagane. Il teatro di Plauto, sopratutto, ottiene un successo trionfale ; di- venne per l'ultima generazione intellettuale del Quat-

S^el Regno delle t^aschcre 2

trecento, per quella generazione che presenziò la sco- perta del Guitemberg e dell'America, lo scrittore tea- trale di moda, diremmo quasi il Dumas figlio o il Sardou di quei tempi. Terenzio , forse perchè meno sboccato, meno ricco di vis comica, sebbene più cor- retto, piacque meno. I grandi signori furono i loro edi- tori teatrali , i loro buttafuori , non esclusi i papi. ì ty^enecmi, di Plauto, furono recitati alla corte di Ferrara nel 1 482 ; nel 1 484 furono recitati dagli alunni di Paolo Comparirti a Firenze, cittadella, come scrisse il D'Ancona (1), della Rappresentazione sacra; sotto Alessandro VI Borgia e alla sua presenza si recita- rono, a Roma, oltre i ^M^enecmi, i Fantasmi, dello stesso Plauto. A Mantova, ad Urbino, come a Fer- rara e a Roma, Plauto e Terenzio sono i poeti comici favoriti. Del primo, oltre le due ricordate commedie, furono poste in iscena il JTO/es Qloriosus, ì Captivi, il Trinummo, il Truculento, X Jlsinaria, YAulularia; del secondo, VAndria e qualchedun' altra, senza tener conto delle riduzioni e dei raffazzonamenti più o meno liberi. Non è un'esumazione, un esercizio o passatempo accademico, d' intellettuali ; è uno spettacolo che real- mente piace, che incontra il favore del pubblico, che esilara dotti ed indotti. E Plauto e Terenzio furono subito imitati : e di qui ebbe origine il teatro comico italiano letterario, che però per difetto d'un Carlo Gol- doni nel Cinquecento, meno la ^Jì^andragora del Ma- chiavelli , non diede che frutti senza sapore , privi di

(1) Op. cit. voi. lì; p. 61.

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spirito , freddi, compassate riproduzioni delle opere del teatro latino. Pure ai contemporanei, quelle commedie, non parvero cattive : la Calandra, di Bernardo Dovizi da Bibbiena, che oggi, riprodotta, addormenterebbe il pubblico , quando apparve sulla scena divertì papi e cardinali, dame e gentiluomini ; ne il suo successo fu effìmero , poiché troviamo che nel 1 548, cioè, più di mezzo secolo dopo eh' era stata scritta , fu recitata, a Lione, da una compagnia di comici italiani per festeg- giare in quella città l' ingresso di Enrico II e di Ca- terina dei Medici (1).

Ma qui noi non dobbiamo fare la storia della com- media letteraria. La farsa popolare, che a Napoli ac- quistò perfezione sopratutto per opera del ricordato Caracciolo e di Giosuè Capasse, si diffuse, come già dicemmo , per tutta Y Italia. Essa si distingueva da quella erudita perchè più spigliata , più leggiera, più ricca di vis comica ; si distingueva segnatamente perchè aveva risentito meno l' influenza del teatro comico la- tino, e quindi essa anziché plasmarsi troppo fedelmente sulle opere di Plauto e di Terenzio, riproduceva più o meno felicemente dal vero i suoi personaggi. In somma , essa era cosa viva ; Y altra non era che una esercitazione letteraria.

(I) E la fredda Calandra piacque davvero in Francia. Un con- temporaneo lasciò scrino che essa fu scelta, a Lione, nel 1 543, " per ciò che piacevolissima era e di sollazzevoli motti piena et dsii più in- tendenti stata sempre lodala e pregiata molto. "

Baschet, op. cit. pag. 7.

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A Firenze scrisse commedie popolari il Cecchi ; ma i suoi lavori sono meno vivaci di quelli dei suoi confratelli di Napoli (1). Allo stesso Cecchi dobbiamo la definizione della commedia o farsa popolare : la togliamo dal Prologo della Romanesca. Eccola:

La farsa è una terza cosa nuova

Tra !a tragedia e la commedia : gode

Della larghezza di tutte due loro,

E fugge la strettezza lor ; perchè

Raccatta in li gran signori e principi :

Il che non fa la comedia ; raccetta

Com' essa fosse o albergo o spedale,

La gente come sia, vile e plebea ;

Il che non vuol far mai donna Tragedia ;

Non è ristretta ai casi; che li toglie

E lieti e mesti, profani e di Chiesa,

Civili, rozzi, funesti e piacevoli ;

Non tien conto di luogo : fa il proscenio

Ed in Chiesa ed in piazza e in ogni luogo :

Non di tempo; onde s'ella non entrasse

In un dì, lo terrebbe in due, in tre;

Che importa ? E insomma, eli' è la più piacevole

E più accomodata foresozza

E la più dolce che si trovi al mondo,

E si potrebbe agguagliarla a quel monaco

II quale volea promettere all' abate

Fuor che 1' ubbidienza, ogn' altra cosa.

La quale definizione non abbiamo riportato a solo titolo di curiosità ; perocché , come vedremo innanzi , quasi tutti gì' ingredienti di cui il Cecchi ci ha fornito

(1) Torraca; op. cil. p. XVII.

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I

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la ricetta , entreranno a far parte delia composizione della commedia dell'arte; anzi, quest'ultima, meno la parte scritta, non sarà che una farsa popolare riveduta e corretta, specie con l'introduzione delle maschere o col più ampio sviluppo a loro dato.

La farsa, o commedia popolare, come già avvertimmo, s'innalzò subito a vero lavoro d'arte per quel certo suo spunto d'originalità di cui fu cosparsa, il che non av- venne per la sua sorella maggiore, la commedia lette- raria, che vivacchiò fra i ricordi classici, più che arte e viva riproduzione di vita vissuta, imparaticcio d'eru- diti brancolanti fra persone e cose morte per quanto su quest'ultime, tratto tratto, passasse un soffio di vita, un'eco del mondo contemporaneo : imperocché, lo scrit- tore, pur restando fedele alla falsariga del capolavoro d'un'altra età, non poteva a quando a quando, anche alla sua insaputa, non dar sfogo al proprio spirito. Certo, fra le due sorelle, il distacco non fu così enorme da non più ravvisare fra l'una e l'altra la comune origine : molte situazioni , parecchi tipi , certi atteggiamenti , e qua e qualche derivazione dal tronco originario ri- masero comuni; ma la sorella maggiore restò più so- stenuta, più obbediente alle tradizioni classiche, anche quando volle rispecchiare le diverse correnti letterarie imperanti nella penisola, sia se d'origini nostrane , sia se esotiche , mentre la sorella minore più briosa , per nulla pedante, ribelle al dominio delle accademie e dei canoni, anche se questi dettati in nome d'Aristo- tile, più a contatto col popolo e da esso attingendo le sue ispirazioni, il suo riso piuttosto volgare , fìnanco i

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lazzi più indecenti, conservò una freschezza quasi rin- novantesi di generazione in generazione tanto da assi- curarle una vita rigogliosa, brillante, la cui fama ben presto varcò le Alpi diffondendosi pel mondo civile d' allora.

Ma la caratteristica che meglio di qualsiasi altra doveva far distinguere la commedia letteraria o soste- nuta, come anche si disse, dalla popolare, fu l'aboli- zione del dialogo scritto in quest'ultima ; mentre l'una continuò sempre ad essere scritta, di modo che l'attore non doveva recitare che la parte dettata dal comme- diografo, l'altra, soltanto ideata e sceneggiata dal suo autore, venne affidata, quanto al dialogo, all' ispirazione dei comici. '%

Quando avvenne tale separazione ? Quando il com- mediografo si limitò a trovare il soagetio del suo la- t voro e a dividerlo in atti e scene, lasciando che l'ar- tista ne inventasse il dialogo su una breve indicazione o traccia fornita dall'autore stesso? Già dicemmo come non fosse diffìcile che qualche cosa di spontaneo, nella rappresentazione delle Cat^o/o/e napoletane, fosse lasciato all'ispirazione dell'artista, quasi ricordo o continuazione di quanto gì' istrioni o buffoni o saltimbanchi praticavano nei loro spettacoli o ludi da piazza o da fiera ma le prime manifestazioni della commedia dell'arte o improv- visa non dubbie, ne limitate a qualche sola parte, s'hanno nella prima metà del Cinquecento (1). Come quasi

(I) Lo Stoppato {La Commedia popolare in Italia; Padova, 1887) conto d'una farsa o satira morale di Venturino Venturi, pesarese, anteriore probabilmente al 1521, con personaggi parte allegorici e parte

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sempre, il creatore rimane avvolto nel mistero : ecco la commedia dell' arte ; essa regna sulla scena ; ma chi fu il primo a stendere un intiero scenario con tutte le parti dei personaggi non scritte , ma solo indicate ? Adolfo Bartoìi (I) ritiene che il tedesco Klein (^e- schichte des Drama's , IV, Das italienische T)raTna ^ I, 903) s'inganni quando fa il nome di Francesco Cherea come inventore della commedia a soggetto ap- poggiandosi ad un passo dalla Venetia descritta ecc. del Sansovino. Questi , parlando del Cherea , eh' era commediograio ed attore, scrisse : " Egli il Cherea piacque grandemente ai nostri, onde inventori, in queste parti di recitar commedie, si suscitarono in quei tempi a sua persuasione diversi nobili ingegni, che ne reci- tarono di belle ed onorate. Perciò che allora mise mano a questa impresa Antonio da Molino inteso Burchiella, " huomo piacevole et che parlava in lingua greca et schiavona corretta con l' italiana, con le più ridicolose et strane inventioni et chimere del mondo ..."

Il passo del Sansovino non darebbe , secondo il nostro modesto parere, tanto torto allo scrittore tedesco ; in quel Cherea, eh' è inventore non solo di commedie,

umani, fra i quali ultimi è notevole lo Spampana che viene in iscena bravando , dimostrandosi in parole e in gesti bravissimo bravo , tipo anticipato del Capitano della commedia a soggetto. Ma siamo sempre il ; più che d' una commedia, si tratterebbe d'una sola parte a braccia. Ved. D'Ancona; op. cil.. Voi. II, p. 53.

(1) Op. cit. p. X (in nota).

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come fu realmente (1), ma anche inventore in queste parti di recitar commedie ; in quel Burchiella, che recita sulla scena in lingue straniere più o meno italianiz- zate le più ridicolose et strane inventioni et chimere^ ci parrebbe di vedere qualche cosa di diverso dal sem- plice attore recitante una parte scritta. In ogni modo, la cosa resta avvolta nel dubbio, il quale solo potrebbe dissipare Y esumazione del teatro a soggetto del Cherea, ove pure questi ne avesse scritto uno e qualche esem- plare ne esistesse sepolto in qualche nostra biblioteca, specie del veneto. Qualunque però fosse stato il tempo in cui la commedia dell'arte apparve sulla scena, egli è certo che nella seconda metà del secolo XVI essa era fiorente; non s'arresta entro i confini d'Italia, ma valica le Alpi, e noi vediamo che i suoi interpreti, nel 1 570, in Francia, coi loro lazzi, con le loro facezie, con le loro trovate più o meno spiritose fanno ridere Carlo IX, sua madre, Caterina dei Medici, ed i loro cortigiani: riso, lazzi, facezie, trovate che non impe- dirono a quella corte, quattro anni più tardi, di con- sumare quell'orrendo misfatto, che passò alla storia sotto il nome di notte di San Bartolomeo , o sempli- cemente, Saint-Barthélemy.

(I) Cherea, nome tolto dai teatro terenziano, era Francesco dei Nobili, lucchese, che fu favorito, insieme a tanti altri comici istrion^ cantori e poeti, di Leone X. Visse molti anni della sua vita a Ve- nezia, dove, nel 1 508, chiese ed ottenne da quel Senato il privilegio della stampa delle sue commedie e tragedie alcune delle quali dovevano essere riduzioni ed anche semplici traduzioni dal latino come lo dimo- strano i titoli: il ó^iles, VAmphitrione, XAulularia, la Mastellaria, * Menecmi. Ved. D'Ancona; op. cit. Voi. II; p. 111.

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Comici italiani della commedia dell'arte apparvero verso quel tempo anche in Austria ed in Ispagna; il che dimostrerebbe come già in quel tempo il nuovo spettacolo fosse non solo adulto, pieno di giovinezza, ma anche assai gustato da pubblici di temperamento, cultura e gusto diversi. Ne è da far le meraviglie : la commedia letteraria o sostenuta era stata sin' allora una povera cosa; fredda, pedestre imitazione della la- tina, essa aveva avuto una certa fortuna dinanzi ad un pubblico che sazio delle vecchie Rappresentazioni sacre, o dei MisterU o delle <^oralità informate ad uno spirito che non era più quello del tempo, faceva buon viso al nuovo spettacolo, se non altio per la novità del suo contenuto. Bisogna risalire sino alle generazioni che vissero tra la seconda metà del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento e fare, anche compendiosamente, un inventario delle loro credenze, delia loro cultura, dei loro libri favoriti di lettura, dei loro divertimenti, sia privati che pubblici, per farsi un' idea della sorpresa piacevole che la nuova commedia dovette produrre sul loro animo. Per quanto il nuovo spettacolo comico a soggetto fosse calcato, sino a certo punto, su quello letterau-io, e questo su quello classico, di guisa che ca- ratteri e personaggi, ed anche situazioni, non presen- tassero che uno scarso sapore di novità (1), pure l'im- provvisazione, che formava la pietra angolare della nuova commedia, dava a quest' ultima un'attrattiva, un

(1) A. Bartoli; op. cit. p. LVill.

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fascino che non si riscontrava nelFaltra. Il Gherardi (1) scriveva : " Qui dit bon comédien italien dit un homme, qu' a du fond, qui joue plus d' imagination que de memoire, qui compose, en jouant, tout ce qu' il dit. " Ed un altro scrittore (2) : " La fagon dont les comé- diens italiens composent , apprennent , et représentent leurs comédies , est inexprimible , et si je T ose dire , inconcevable, par la quantité d' agréments et des dis- cours non étudiés qu' ils y ajoutent. " Sebbene codesti due giudizi contengano un po' d' esagerazione, poiché, come dimostreremo, non è esatto il dire che tutto il dialogo della commedia a soggetto fosse improvvisato, pure il nuovo spettacolo avvicinandosi di molto più che r altro al vero, alla vita reale, non poteva che piacere grandemente ad una società che sino a quel momento per suo pascolo intellettuale non aveva avuto che lavori esumati di sotto alle rovine d* un mondo scomparso o calcati sugli antichi. Così si spiega il grande favore che acquistò la commedia dell'arte non solo in Italia, ma anche in Francia, dove, recitata da italiani, sino a divenirvi uno spettacolo diremmo quasi nazionale, sopravvisse, sebbene di poco, alla sua scom- parsa nel paese d'origine. Il teatro francese, meno qual- che produzione , verso la fine del Cinquecento , era d'argomento sacro: il vecchio Mistero e la vecchia Moralité si strascinavano sulle scene, sebbene avessero assunto forme moderne, o meglio classiche. Sul prin-

(1) Le Théàtre Italien de Qherardi, ou Recueil Qen. de toutes les comédies, ec. Paris, 1717. Advertissement.

(2) A. Bartoli; op. cit. p. LXXI (in nc.a).

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cipio del Seicento gli argomenti sacri non erano ancora scomparsi dal teatro : nel 1 60 1 troviamo un Joseph le Chaste, un Achab, una Lutece ou L'Jlmour divìn, del De Marie ; una Sainte Cécile e un Job del Sainte-Marthe. Dopo la comparsa dei primi comici italiani alla corte di Francia sotto il regno di Carlo IX, nel 1581, sotto il regno di Enrico ili, apparve alla stessa corte la famosa compagnia dei Gelosi già esi- stente a Firenze sin dal 1 578. Ne facevano parte i celebri coniugi Francesco ed Isabella Andreini : questa non era soltanto una grande attrice, era anche poetessa, e i suoi contemporanei la celebrarono in prosa e in versi (I). Morì giovane a Lione, nel 1604, mentre era in viaggio per rientrare in Italia. La Municipalità di Lione le rese solenni onoranze funebri come se fosse una regina o una principessa reale, ed uno scrittore fran- cese del tempo, Pietro Mathieu, ne volle conservare, col suo stile pomposo, il ricordo nella sua Histoire de

(I) In Italia fu celebrata da Torquato Tasso, che la conobbe a Roma, presso il cardinale Aldobrandini, nipote di Clemente Vili, e dal Chiabrera ; in Francia, al momento della sua partenza per l' Italia, Isacco de Ryer, cantò :

Je ne crois point qu' Isabelle Soit une femme mortelle. C est plutot quelqu* un des Dieux Qui s' est déguisé en femme A fin de nous ravir l àme Par roreille et par Ics yeux.

Baschet ; op. cit. p. 134.

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France: " Si elle eust vescu en Grece au tems que la comédie estoit en vogue, on lui eust douné les statues et eust re^ué sur le théhàtre autant de fleurs, comme les mauvais joùeurs y recevoient de coups de pierre (1). " Il marito, che fu anche scrittore, creò o meglio, rinfrescò con nuovi atteggiamenti la parte del Capitano, che egli battezzò col nome di Capitan Spa- vento di Valle Inferna; una parte, o maschera, che risaliva sino al t^iles Qloriosus di Plauto, ma che in realtà era la parodia dei soldati spagnuoli allora spa- droneggianti in Italia. Narrando le sue gesta d' alcova , poiché egli s'atteggiava a formidabile seduttore, diceva, per esempio, eh' egli in una sola notte aveva posto fuori combattimento duecento donne , e discorrendo delle doti meravigliose della sua persona narrava che la natura per formarlo aveva preso l' oro della prima età, l'argento della seconda, il bronzo della terza e il ferro della quarta, e che, fatta questa scelta, gli aveva fregiato il capo con l'oro, il corpo con l'ar- gento, le gambe col bronzo e le braccia col ferro; j oppure, facendo l'inventario degli oggetti preziosi dafl lui posseduti, citava la sua spada fabbricata da Vul-" cano poi offerta al Fato, che l' aveva data a Serse, il quale, alla sua volta, l' aveva dato a Dario passando successivamente per le mani d'Alessandro, di Romolo, di Tarquinio, del Senato Romano e di Cesare dal quale pervenne in quelle gloriose di lui. il carattere di Capitan Spavento di Valle inferna divenne presto

(1) Baschet; op. cit. p, 147-148.

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celebre ; egli fu imitato, copiato e non si scrisse o non si ideò commedia sostenuta o a soggetto di quei tempi che a quel personaggio fanfarone non si assegnasse una delle prime parti : lo stesso Andreini ne volle dare un saggio abbastanza ampio in un suo libro dal titolo: Le Bravure del Capitano Spavento, divise in molti ragionamenti in forma di dialogo, la cui prima parte fu stampata a Venezia nel 1607 e la seconda nel 1618. L'intiera opera fu ristampata, sempre a Ve- nezia, nel 1 624 e nel 1 669 ; segno, certamente, questo del successo ottenuto da un* opera che sebbene scritta in uno stile ampolloso, gonfio, riboccante di esagera- zioni ed iperboli grottesche, pur rispecchiava il gusto delirante del tempo (1).

Essendo entrata pienamente la commedia dell' arte nel gusto del pubblico, alcuni principi italiani pensa- rono di prendere al loro stipendio i migliori attori del tempo creando così delle vere compagnie comiche di corte, quasi stabili. 1 principi di Mantova, sotto questo aspetto , potrebbero , anzi , chiamarsi gì' impresari più fortunati che abbia avuto l' Italia tra la fine del Cin- quecento e i primi tre decenni del Seicento ; difatti, tutte le volte che la corte di Francia volle sentire dei buoni comici improvvisi, fu sempre costretta a chiedere al duca di Mantova la cessione di quelli da lui sti-

( I ) Le tre prime edizioni sono citate dal BascKet, op. cit. ; un esem- plare di quella del 1669, si trova nella Biblioteca Nazionale di Pa- lermo. Le Bravure (prima parte) furono tradotte in Francia e stampate, nel 1608, a Parigi; ma l'opera francese, in verità, più che una tra- duzione, è una riduzione.

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pendiati. Ne le trattative per averli per qualche sta- gione erano facili : una gita dei comici di Sua Altezza Serenissima il signor duca di Mantova a Parigi assu- meva tutta r importanza d' un affare di Stato ; non ba- stava un semplice scambio di lettere fia ministri e mi- nistri; occorreva nientemeno che il re o la regina di Francia scrivessero direttamente per ottenere che i com- medianti del signor duca, profumatamente pagati e re- galati , recitassero al palazzo di Borgogna, la c7^Caison delia commedia italiana di quel tempo a Parigi. Quivi erano attesi con impazienza ed ascoltati con estrema benevolenza, anche perchè la lingua italiana era allora assai conosciuta in Francia, ove , come scrive il Ber- nardin (1), " depuis les guerres d'Italie et le mariage de Catherine de Medicis, Y italien on parlait beaucoup et bien des parisiens étaient capables de comprendre et de suivre une comédie italienne. "

Le compagnie comiche, per altro, si moltiplicarono col crescente successo della commedia dell* arte ; lo spettacolo a soggetto o a braccia era allora diventato il divertimento più gradito, più gustato delle alte classi sociali. Gli istrioni italiani facevano ridere re e regine, ministri ed alti dignitari di Corte. Mentre V Italia spro- fondava nella miseria, essa rideva e faceva ridere. Ecco perchè nessuno, nemmeno essa stessa, se ne accorgeva. L* Italia era stesa sul cataletto, che la Spagna le aveva preparato ; ma che importava ? O gì' italiani non ride- vano?

(1) Op. clt. ; p. 10-11.

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Interessante, certo, riuscirebbe una storia delle compa- gnie comiche che interpretarono la commedia dell' arte in Italia e fuori ; se non che, le indagini, lunghe, pazienti che richiederebbe un lavoro simile, non ne hanno reso possibile sino a questo momento l'attuazione. Il Baschet tentò, su documenti inediti esistenti in Francia e nel- l'Archivio di Stato di Mantova, una storia dei com- medianti italiani che recitarono in Francia sotto i regni di Carlo IX, Enrico II, Enrico III, Enrico IV e Luigi XIII ; ma, come si vede, occorrerebbe riempire ancora delle lacune, e vaste, poiché le recite dei comici ita- liani in Francia continuarono sotto i regni di Luigi XIV, di Luigi XV, e non cessarono completamente, sebbene avessero smesso di adoperare la lingua propria, che sotto il regno di Luigi XVI (1). Però delle mag- giori compagnie, come dei maggiori comici, che recita- rono in Italia, non mancano notizie, anche perchè Fran- cesco Bartoli, un amoroso cultore della storia dell'arte comica, dopo d'essersi ritirato dalle scene, stampò a Pa- dova, nel 1781, un grosso volume di polizie Storiche dei Comici italiani. Prima di lui, sullo stesso argomento, un copioso materiale (ma per la storia della commedia italiana dell'arte in Francia) avevano radunato il Ricco- boni e il Gherardi, come il Bartoli, scrittori e comici ; e dopo lo stesso Bartoli, abbiamo avuto Maurizio Sand col suo prezioso libro: ty^asques et BuffonSy ed altri

( 1 ) Sulle vicende dei comici italiani a Parigi sotto i regni di Luigi XIV, Luigi XV e Luigi XVI, ha dato, di recente, curiose notizie il Bernardin. Ved. op. cit.

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come il Campardon, il Moland, il Magnin, il BaschetJ

il Bernardin, e fra gì' italiani Adolfo Bartoli e Luigi Rasi, il primo con la sua Introduzione agli Scenari Ineditiì e il secondo col T)izionario biografico dei Comici ita\ lianì (1).

Una delle più vecchie compagnie comiche italiana che ricordi la storia è certamente quella di Drusiam Martinelli, che dopo d'essere stata in Francia, fu nel 1577 in Inghilterra alla corte della grande Elisabetta^ un'altra, diretta da un certo Ganassa , fu in Ispagna alla corte di Filippo II, formando la delizia del tetre Tiberio spagnuolo. Il Ganassa recitava le parti del secondo Zanni', recitò anche in Francia e scrisse ui Lamento con messer Stefano Bottargo sopra la morte d'un pidocco. Una compagnia che acquistò subito fama grandissima fu quella detta dei Gelosi costituitasi a Fi- renze qualche anno innanzi al 1 580 con gli avanzi di due altre compagnie l'una delle quali detta dei Confidenti e l'altra, come la nuova, dei Gelosi, che per qualche tempo formarono una sola Compagnia detta dei Comici Uniti, Dei nuovi Qelosi erano principale orna- mento i due artisti già da noi ricordati, Francesco An- dreini e la moglie di lui, Isabella ; gli altri artisti erano Lodovico da Bologna (Arlecchino), Giulio Pasquali (Pantalone), Simone da Bologna (Zanni), Gabriele da Bologna (Francatrippa), Mario da Padova (Innamo^ rato), Adriano Valerini (secondo Innamorato), Giro-

(1) Per quanto riguarda le provincia napoletane è importante l'opera del Croce : / Teatri di Napoli ; Napoli, Pierro, 1 89 1 .

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lamo Salimbeni da Firenze (vecchio borghese), Silvia Rovaglia (Franceschina o fantesca). Di questa compa- gnia lo stesso Francesco Andreini, quando, in seguito della morte della moglie, si ritirò dalle scene, scrisse che " la fama non avrebbe mai visto l'ultima notte ! " In una delle sue trasformazioni, essa ebbe per capo o direttore Flaminio Scala, il quale scrisse parecchie com- medie a soggetto i cui scenari furono stampati dallo stesso Scala a Venezia , nel 1 60 1 col titolo : Teatro delle Favole rappresentative ( 1 ) : e sono i più antichi che si conoscano. Nel 1 599, sotto gli auspici del duca di Mantova, si formò una compagnia d' " Arlecchino " , dalla maschera che n' era il capo. Il nome della ma- schera aveva quasi soppresso il nome dell'artista che la portava, e con tale nome gli scrisse Enrico IV il il 2 1 dicembre 1 599 per iscritturarlo coi suoi comici pel teatro di palazzo Bourgogne. " Arlequin, Etant venue jusqu' a moi votre renommée et celle de la bonne compagnie de comédiens que vous avez en Italie, j'ai

( 1 ) Altri Scenari, ma inediti, sono quelli di Basilio Luccatello o Loccatello, romano, conservati nella Biblioteca Casanatense, di Roma. Hanno per titolo : Della Scena di soggetti comici, di B. L. R. ; in Roma; (P. I.) MDCXVIII e (P. II.) MDCXXII. Leone Allacci, nella sua Dramaturgia, Roma, 1666, stampò, ma non esattamente, completamente, i titoli delle commedie del Loccatello, che furono ri- prodotti da A. Bartoli (op. cit.) correggendoli, completandoli. Due altri manoscritti di Scenari conservansi nelle nostre biblioteche pub- bliche, l'uno nella Corsiniana, di Roma, l'altro in due volumi, alla Nazionale, di Napoli, a cui fu donato da Benedetto Croce. Quest'ul- tima raccolta è la più ampia che si conosca contenendo 183 scenari. Il primo volume porta in fronte la seguente indicazione: Gihaldone da

3^el Regno delle Maschere 3

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desiré de vous faire passer en mon royame ecc. ecc. (I). " Però il nome dell'Arlecchino del serenissimo duca di Mantova pervenne ai posteri : egli era Tristano Mar- tinelli, fratello di Drusiano e marito di madama An- gelica, prima donna. La compagnia era detta degli j^ccesi e pare che fosse la più rinomata che allora contasse l' Italia. Ne faceva parte Pier Maria Cecchini, che si rese celebre nella parte di Frittellino. Era anche autore di commedie a soggetto.

Un' altra compagnia di comici italiani, che percorse con gloria non solo le nostre scene, ma anche quelle francesi oramai i comici italiani avevano acquistato diritto di cittadinanza in Francia fu quella diretta da Giambattista Andreini, figlio di Francesco e d' Isabella. Ne facevano parte Virginia, detta florinda, moglie del capo-comico, alla quale fece il ritratto il Bronzino,

recitarsi all'Impronto. Alcuni propri e gli altri da diversi, raccolti da D. Annibale Sersale, Conte di Cas amarciano. Il secondo volume è intitolato: Gibaldone Comico di Vari Suggetti di Comedie ed Opere Bellissime copiate da me Antonino Passanti detto Oratio il Cala- brese, per comando dell' Ill.mo signor Conte di Casamarciano, ì 700. Il manoscritto originale di quelli editi dal Bartoli appartiene alla Ma- gliabechiana, di Firenze. S'ha ricordo d'altri scenari, per esempio, di quelli di Domenico Biancolelli, che possono leggersi riassunti nella Hi- stoire de l'Jlnc. Théàtre Italien, del Gherardi. Altri titoli di Sce- nari, ma del teatro italiano di Parigi, si possono rilevare dal Bartoli, op. cit. p. XXXVII e segg. Infine diciotto Scenari si leggono in un manoscritto conservato nella Biblioteca Comunale di Perugia (A. 20)j e del quale rese conto Benedetto Croce in: Giornale Storico della Leti. Italiana, XXXI, p. 458 (ved. nostre Appendici).

(l) Baschet; op. cit. p. 106.

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Eularia Coris, assai bella, Giovanni Paolo Fabri, Nic- colò Barbieri, detto Beltrame, eh' era anche scrittore di commedie, Domenico Bruni, Diana Ponti (Lavinia), Niccolò Zeno (Bar (olino), Girolamo Caravini {Capitan Rinoceronte), ed altri. L'Andreini, come il padre, come la madre, era colto e scriveva commedie e tra- gedie, e fra queste ultime si ricorda ancora V Adamo dal quale qualcuno pretese che il Milton avesse preso l'idea del suo Paradiso Perduto. La compagnia si chiamava dei Fedeli e si ha notizia che nel 1608 fu a Milano, nel 1609 a Torino, dove recitò Florinda, tragedia, dalla quale poi la prima attrice della compa- gnia. Virginia Andreini, prese il suo nome d' arte, nel 1612 a Bologna, nel 1612 di nuovo a Milano. Poscia i Fedeli andarono a Parigi, chiamativi da Maria dei Medici, e vi stettero sino al 1618; ritornati in Italia, furono a Milano nello stesso anno 1618, a Venezia nel 1619, poi ancora a Milano. In seguito *la regina Maria de' Medici li volle nuovamente a Parigi, dove stettero sino al 1623; indi passarono a Torino, poi a Venezia. Li troviamo ancora a Parigi nel 1 624 ; nel 1625 sono a Venezia, a Praga nel 1630, a Venezia nel 1633, a Bologna nell'anno seguente, a Perugia nel 641. Nel 1645, si formò una nuova compagnia sotto la direzione del Barbieri, detto Beltrame, la quale, regnando in Francia Luigi XIII, passò a Parigi, dove stette tre anni. Un' altra, condotta da Giuseppe Bianchi, che recitava le parti di Capitano Spezzaferro, andò ugualmente a Parigi, dove fu una prima volta nel 1639 ed una seconda nel 1645. Ne facevano parte Tiberio

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Fiorini, che vi acquistò fama grandissima creando la parte di Scaramuccia (1), Gabriella Locatelli, Giulio Gabrielli, Margherita Bertolazzi, Domenico Locatelli {Trivellino), Brigida Bianchi ed altri. La compagnia recitò a\V Hotel Bourgogne sino al 1647 o 1648. Altra compagnia di comici italiani che recitò a Parigi un pò* più tardi (1653), fu quella di cui facevano parte insieme a parecchi artisti della compagnia precedente, il Turi (pantalone), Costantino Lolli {T)ottore), Marco Romagnesi (Innamorato), Beatrice Adami (Diamantina), Quest' ultima pare che sia stata molto apprezzata nella capitale francese, se un poeta potè cantare di lei:

Mademoiselle Béatrix Emporta ce jour le prix.

La compagnia, che cominciò a recitare al Petit- Bourbon, nel 1660 passò al Palais-Royal aggregandosi via via nuovi attori i cui nomi possono leggersi in: Masques et Buffons, del Sand. Se non che, nel 1 668, il favore che sin' allora aveva goduto in Francia la commedia italiana dell' arte cominciò a decrescere : le recite non si fecero più esclusivamente in italiano. Era cessata in gran parte la conoscenza della lingua ita- liana ; il pubblico cominciava a non capir più la lingua

( I ) Morto il Fiorini, sotto un ritratto di lui furono posti i seguenti due versi:

Il fut maitre de Molière, Et la nature fu le sien.

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dell* Ariosto e del Tasso, specie che col matrimonio di Luigi XIV con una principessa della casa reale di Spagna, la lingua del Cervantes, del Calderon e di Lope de Vega era divenuta di moda in Francia. Al teatro italiano, dunque, le produzioni nella lingua dei comici si alternarono con commedie e farse in lingua francese, distinguendovisi Francesco e Caterina figli di Domenico Biancolelli (1), Evaristo Gherardi, autore di parecchie commedie a soggetto e della Histoire de V Ancien Théàtre Italien, Giuseppe Tortoriti e Angelo Costantini (cM^ezzettino), che s' acquistò fama non solo per le sue attitudini artistiche, ma anche per le sue avventure (2). Sotto un ritratto di lui , dipinto dal De Troy, il La Fontaine scrisse i versi seguenti :

lei de Mézetin, rare et noveau Prothée,

La figure est raprésentée:

La Nature l'ayant pourvù

Des dons de la métamorphose ;

Qui ne le voit pas, n' a rien vù.

Qui le voit, a toute chose.

( 1 ) L* autore degli Scenarii riassunti dal Gherardi nella Histoire de r Ancien Théàtre Italien.

(2) Il Costantini, lasciato Parigi, andò in Sassonia chiamatovi da quell'Elettore (Augusto II) per formare e dirigere una compagnia co- mico-lirica. S'acquistò la benevolenza e la slima del principe e da questo fu creato nobile nonché suo cameriere intimo e tesoriere dei suoi minuti piaceri. Ma il Costantini non parve contento di tutta codesta pioggia di favori; cercò di rapire al principe l'amante. Augusto II obliò com- pletamente le allegre risate che doveva a Mezzettino, e Io fece arre- stare ed imprigionare nel castello di Konigstein dove rimase più di venti anni. Infine, un' altra amante del principe ottenne la sua liberazione. A. Bartoli, Op. cit. p. CXLVIII, in nota.

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(

Se non che, nel 1697, quando sembrava che i co- mici italiani avessero posto salde radici in Francia, vennero bruscamente espulsi, si disse per una commedia dove si volle vedere più d' una allusione a madama Maintenon, la quale, in quel tempo, dall'alcova di Luigi XIV, governava dispoticamente. Scaramuccia, Mezzet- tino, Brighella, Frittellino, Arlecchino non fecero più echeggiare delle loro grasse risate le sale deWHótel Bourgogne ; essi si sparsero un po' qua , un po' là, anche in Francia, perchè a loro non fu interdetta che la sola scena parigina; ma morto il Re-5o/ez7, nel 1716 il duca d'Orleans, Reggente del regno, che non aveva gH scrupoli della vecchia Maintenon, richiamò i nostri buoni comici a Parigi, dove, la sera del 18 maggio, diedero la loro prima rappresentazione alla presenza dello stesso Reggente. Vi rimasero sino al 1729; poi fecero una punta in Italia, ritornando a Parigi nel 1731.

Ma se italiani erano i comici, italiano non era più il repertorio : questo era divenuto completamente fran- cese ; d' italiano non aveva che le vecchie, le allegre, J le gloriose maschere. Arlecchino era Tommaso An- tonio Vicentini ; Pantalone, Pietro Alberghetti ; il Dot- tore, Francesco Materazzi.

Se le vicende del teatro comico italiano a soggetto in Francia possono oggi riassumersi molto facilmente grazie ai lavori storici dei nostri vicini d' oltre Varo , non è lo stesso per quelle del teatro comico a soggetto in Italia : non mancano, in verità, le notizie, ma sono scarse, e quasi nulle per alcune regioni della penisola. Di parecchie compagnie s' hanno però gli elenchi, che

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si possono leggere nell'opera più volte ricordata di Adolfo Bartoli, rari nei primi anni del Seicento, nu- merosi fra la fine di questo e il principio del Sette- cento; ma già, in quest'ultimi elenchi, cominciano a far capolino i nomi di quegli attori ai quali Carlo Gol- doni doveva far recitare le sue commedie.

Di cotesti attori della commedia dell'arte a soggetto, molti ebbero certamente attitudini comiche di primo ordine, se re, regine e principi se li disputarono ; pa- recchi ebbero cultura non ordinaria ; non pochi rag- giunsero la celebrità. La maggioranza, anzi la grande maggioranza, non era certamente ne colta, ne probabil- mente bene educata, visto che l' educazione, in quei tempi, difettava anche nelle classi elevate , dirigenti : era povera gente che non sapendo adattarsi ad un mestiere manovale, si buttava all'arte, ove, se non altro, quando indossava un abito gallonato o un cappello piumato poteva illudersi d'essere qualche cosa di più dei suoi pari. I guitti d' oggi , che vagano di paese in paese, che lasciano all'albergatore in pegno i loro costumi di velluto di cotone o semplicemente i loro abiti ordinari , non nacquero ne ieri , ne ieri l' altro ; ma discendono da quei comici che i primi resero po- polare la commedia a soggetto, discendenti, alla loro volta, da quegli istrioni, buffoni o saltimbanchi che nel Medio-Evo divertivano con le loro facezie, con le loro canzoni, coi loro salti castellane e popolane, genti- luomini e borghesi. Ma quanto all' ingegno, e, sopra- tutto, alla cultura, meno le eccezioni delle quali ab- biamo oià fatto cenno, non crediamo che ne avessero in

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misura straordineiria, ed esagerava certamente Adolfo Bartoli quando scriveva: " Certo è che per improv- visare quel dialogo o anche per adattare alle varie situazioni le cose già lette e imparate a memoria, si richiedeva nei comici dell' arte non solamente ingegno e disposizione naturale, ma anche coltura. E questa necessità ci spiega un fatto che riuscirà forse nuovo a molti, cioè, gli attori dei secoli passati furono scrit- tori (1). " Giudizio questo, ripetiamo, che pecca d'esa- gerazione, ed anche d' inesattezza : d' accordo che per diventare grande attore o grande attrice occorre un'at- titudine speciale, diremo anche eccezionale, per ripro- durre tipi e caratteri, per investirsi degli afletti e delle passioni del personaggio che si rappresenta sulla scena. L' ingegno di Garrick o di Talma, della Rachel o della Ristori, di Gustavo Modena o di Tommaso Salvini, sotto questo aspetto, non è minore di quello di un grande poeta, d' un grande scultore o d' un grande pittore; ma argomentare da questo ingegno speciale la cultura dell'artista, non ci sembra esatto. Dimo- streremo più innanzi come il dialogo, nella commedia dell' arte, non fosse affatto improvvisato, o per lo meno, all'improvvisazione non fosse lasciata che una parte assai modesta per quanto la commedia a soggetto o a braccia fosse chiamata " improvvisa " , ed essa, sulla carta, non si riducesse che ad un magro scenario e a sobrie indicazioni. Per altro, compulsando bene la storia, si troverebbe che dei tanti comici-commedio-

(1) Op. cit. p. CIX.

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grafi ricordati da essa, nessuno, proprio nessuno, lasciò un* opera, anche breve, che fosse degna d' essere ri- cordata, meno forse Y Adamo di Giambattista Andreini, non tanto pel suo valore intrinseco quanto per essere stato ritenuto da parecchi il punto di partenza, per Giovanni Milton, del suo Paradiso Perduto : lo stesso Bartoli, in sostanza, ne conviene tanto che per met- tere insieme una rassegna di comici-scrittori, ebbe a frugare faticosamente nelle biblioteche dalle quali non trasse fuori che nomi d'autori e titoli di commedie perfettamente dimenticati. Ciò non pertanto, codesti comici - scrittori costituiscono una pagina della storia della commedia dell'arte, ne, in questo nostro lavoro, deve passarsi sotto silenzio. Così oltre il Cherea da noi ricordato , scrissero commedie o tragedie Angelo Beolco, detto il Ruzzante (1), il quale forse fu il primo ad introdurre sulla scena i diversi dialetti d' I- talia , Flaminio Scala, che fu il primo a compilare o a raccogliere gli Scenari (2), Giovanni Donato Lom- bardo , Giovanni da Pistoja , Bernardino Lombardi, autore d' un A Ichimista, in cui il Bartoli trova qualche pregio, Fabrizio de Fornaris, Pier Maria Cecchini ,

( 1 ) Il Ruzzante fu erroneamente ritenuto come autore di commedie a soggetto. Le sue commedie sono tutte distese. " Se il carattere della commedia dell* arte è quello d'essere improvvisata, è chiaro che tale non può dirsi la commedia del Ruzzante. Diciamola commedia popo- lare, sì, ma non dell' arte, se non vogliamo confonder tutto. " A. Bar- toli; op. cit. p. CXXVII, (in nota).

(2) Si ha a stampa una commedia distesa dello Scala: Il finto ma- rito (Venetia, 1619).

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che scrisse anche sul modo di recitare le commedie, Niccolò Barbieri detto Beltrame, che scrisse anche a difesa dei comici e del teatro comico, tacciati gli uni e l'altro d'immoralità, Andrea Calmo sotto il nome del quale va anche qualche commedia del Ruzzante (I), Pietro Cotta, detto Celio, Silvio Fiorillo, Francesco Bartoli, che scrisse anche [Njìtizie Storiche dei Comici Italiani e fu marito di quella Teresa Ricci, comme- diante come il Bartoli, che fu corteggiata da Gaspare Gozzi; Giuseppe Imer, di Genova, Brigida Bianchi, Francesco Bassi, Pietro Adolfatti, Pietro Rosa, Andrea Patriarchi, Pompilio Miti, Nicodemo Manni, Placido Grani, Domenico Fortunati, ed altri ed altri. Scrissero pel teatro comico italiano di Parigi Pier Francesco Biancolelli, Elena Belletti-Riccoboni, Giovanni Anto- nio Romagnesi, Fabio Strioti, Carlo Veronese.

Ma tutti codesti nomi non arrivano a farci cambiare di parere; la grande maggioranza di quei comici era plebe. Il Perrucci (2) scriveva : " Il male si è che oggi si stima abile per ingolfarsi nella Comica improv- visa, e la più vile feccia della plebe vi s'impiega, stimandola cosa facile ; ma il non conoscere il pericolo nasce dall' ignoranza Ond' è che i vilissimi ciur- matori e saltimbanchi che s' hanno posto in testa d' al- lettare le genti vogliono rappresentare nelle pub- bliche piazze commedie all' improvviso, storpiando i soggetti, parlando allo sproposito, gestendo da matti ,

(1) L. Rasi; Dizionari v. Biogr. Voi. I.; p. 350.

(2) Dell'Arte liappreserìtaliva, ec. Napoli, 1699, pag. 189.

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e quel eh* è peggio, facendo mille oscenità e spor- chezze ..."

Come abbiamo potuto vedere, la commedia italiana, sia distesa o scritta, sia a soggetto, sino ai primi anni del secolo XVIII, e quindi prima del Goldoni, non aveva avuto ancora ne un Plauto , ne un Molière : solo era emersa quella improvvisa, ma per virtù dei suoi interpreti i quali per due secoli avevano avuto la virtù di far ridere i pubblici di Italia e di Francia; ma era virtuosità d' artisti : sulla scena del teatro comico italiano non era ancora apparso un genio creatore di un tipo di commedia che non fosse ne quella degli eru- diti, calcata sulle orme dei classici, ne quella a braccia affidata allo spirito e all'arte dei comici.

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CAPITOLO SECONDO

La Forma della Commedia dell'Arte

Sebbene tutte le forme dell'arte subiscano, più o meno, l' influenza dei tempi attraverso i quali si evol- vono, pure la commedia dell' arte o a soggetto, nella sua parte esteriore, materiale, non obbedì che lenta- mente, assai lentamente, a siffatta legge. La forma della commedia dell'arte si badi, forma, e non contenuto durante la vita quasi bicentenaria di quello spettacolo, e quindi durante la seconda metà del Cinquecento, tutto il Seicento, e una parte del Settecento, è quasi immobile, quasi cristallizzata in quella latina o erudita: essa non ricalca che molto pedestremente le orme di Plauto e di Terenzio. Se si riducesse a scenario o a soggetto una delle comme- die di questi due ultimi scrittori, si vedrebbe che il nuovo scenario o soggetto plautino o terenziano non differirebbe che in maniera impercettibile da uno di quelli del teatro di Flaminio Scala o del Loccatello. Come nella tragedia a tipo classico la forma non s' i- spirò che ai precetti d' Aristotile, e questi almeno in

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Italia e in Francia non furono posti da parte che as- sai tardi, quando, cioè, la reazione contro il classici- smo prese vigore e consistenza sotto il nome di ro- manticismo, così nella commedia dell* arte la forma latina non fu abbandonata completamente che con la riforma goldoniana. Si confronti una commedia di Plauto o di Terenzio con una commedia dell' arte, e subito ciò salterà all'occhio : c'è la stessa immobilità di scena ; questa, sempre, o quasi sempre, non rappresenta che una piazza o una strada; le case dei personaggi che prendono parte all'azione, o quelle dei principa- li, si trovano in quella piazza, in quella via : i loro inquilini, gli amici dei loro inquilini, vi entrano o ne escono a loro talento, secondo i bisogni dell'azione (1). L'immobilità della scena con tutte le sue incoeren- ze, che non possono passare inosservate nemmeno al più ingenuo degli spettatori, regna sovrana tanto nella commedia latina come in quella a soggetto. Vi si sente quasi l'infanzia dell'arte, la quale se è spiega- bile nel teatro latino, anche per le abitudini di vive- re in pubblico, nei fori, nelle basiliche, nelle terme, non trova nessuna giustificazione nel teatro a braccia nato e cresciuto in una società affatto diversa. Lo stesso Plauto, lo stesso Terenzio, s' accorgevano bene

(1) Contrariamente agli Scenarii dello Scala, della Magliabe- chiana, del Loccatello e d'altri, parecchi di quelli della Raccolta Na- poletana offrono esempi di cambiamenti di scena: se non che trattasi di scenarii o soggetti della fine del 700 o rimaneggiati verso quel tempo e quindi quando il teatro spagnuolo con le sue libertà anti-ari- stoteliche era stato fatto proprio dai comici italiani.

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di tutte le difficoltà che si traeva seco V immobilità della scena; se non che, non sapevano superarle, o credevano d' averle superate con ripieghi, con mez- zucci, eh' erano addirittura infantili. Plauto, per esem- pio, nella Casina (Atto II, Se. I), immagina che Cleostrata ha bisogno di recarsi in casa della sua a- mica Mirrina, la cui casa e lì, sulla piazza, accanto alla propria ; ma ecco che 1' amica ne vien fuori, e quindi è evitato il cambiamento di scena:

E or anderò qui dalla vicina

A lamentarmi della mia fortuna;

Ma crepita la porta : eccola viene

Fuori essa stessa : non mi mossi a tempo,

Per Ercole (1).

Nella stessa Casina ( atto IV, se. I) , non potendo Fautore fare assistere il pubblico al banchetto che si celebrava per le nozze della fìnta Casina col villico Olimpione, perchè ha luogo in casa di Stalinone , è costretto a farne fare la descrizione dalla serva Parda- lisca, mentre questa se ne sta sulla piazza :

Tutti si danno gran moto per la casa. Il vecchio grida in cucina ed esorta I cuochi. Oggi che fate? Che ci date, Se pur qualche cosa date? Fate presto: La cena bisognava che fosse Cotta. E il villico con una corona. Bianco vestito ne va avanti e indietro

(1) Traduzione del senatore Gaspare Finali.

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Tutto lindo e azzimato. Esse poi vestono

Dentro una stanza l'armigero, il quale

Dee far da moglie invece della Casina ;

Ma san dissimular quel che accadrà.

I cuochi fanno in maniera che il vecchio

Non ceni; ora ribaltan le pignate,

Ora spengon il fuoco con dell'acqua...

Sempre nella stessa Casina (atto IV, se. II), il vec- chio Stalinone, che ha divisato di godere i favori della giovine schiava Casina, che ha creduto di maritare al suo villico Olimpione , mentre la moglie con sottile astuzia ha sostituito alla schiava un soldato, annunzia alla sua famiglia, stando sulla porta della casa, ch'egU si reca in campagna:

Voi se sapete fare, moglie mia. Andrete a cena appena che sia cotta;

10 cenerò in campagna, dove voglio

11 novello marito accompagnare,

E la novella sposa: so pur troppo Quanti uomini vi son di male affare Che potrebber rapirla. Ora voi fate Tutto il vostro piacere

Si comprende che la moglie del vecchio Stalinone sta in casa e non è vista dagli spettatori.

Nel 'Punitore di se stesso, di Terenzio, i due amici Cremete e Menedemo, sono in iscena, cioè, in piazza: occorre all'autore, ai fini dell' azione, che il secondo dei detti personaggi resti solo, ed allora Cremete dice ch'egli è stato proposto arbitro in una causa e deve

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andar via. Va via, difatti, e poco dopo rientra e dice d'aver fatto tutto (atto I; se. I e segg.) Nella stessa commedia Sostrata , moglie di Cremete , scopre , me- diante un anello, che la ragazza che ha in casa, è sua figlia; vuol dare la lieta novella al marito, esce fuori, s'imbatte in quest'ultimo, e sulla via gli narra la sco- perta e il modo con che si sbarazzò della figlia dopo d'averla messa al mondo (atto IV; se. I).

Questi esempi si potrebbero moltiplicare all'infinito, poiché la commedia latina, imbarazzata dalla stabilità della scena, era costretta di ricorrere a cento e cento ripieghi, la cui scarsa ingegnosità, come abbiamo visto, lasciava travedere un'arte veramente infantile. Ne di-i versamente procedette la commedia a soggetto. Se noi che, qualche volta l'azione non si piega alla stabilità della scena per quanto l'autore si affatichi a piegarvela; ed allora il personaggio stesso s'incarica di far cono- scere al pubblico il luogo dove in quel momento si svolge l'azione.

Nella Vedova costante (1), l'azione ha luogo sulla strada, dinanzi alle case d'Isabella e d'Ardelia, questa figlia d' Ubaldo , quella del Dottore ; Isabella ad Orazio, un amante da lei non corrisposto, un appun- tamento fuori le mura della città: ora si reca al luogo designato, ma siccome la scena non ceunbia, così egli per far conoscere agli spettatori che la scena cambia, dice semplicemente che quello li è il posto fissato per l'appuntamento.

(1) A. Bartoli; op. cit. p. 13.

I

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AI contrario della commedia latina, quella dell'arte ha saputo rendere più varia la stabilità della scena traendo profitto dalle mutate condizioni dell'architettura. La finestra, nella commedia a soggetto, serve spesso a dissimulare le difficoltà che presenta l'immobilità della scena: dalla finestra si ascolta facilmente, quasi senza ricorrere a ripieghi più o meno ingegnosi, quello che si dice e fa sulla piazza o sulla via, e da questa quello che si dice e fa in quella, senza tener conto che i colloqui fra coloro che stanno alla finestra e quelli che stanno sotto sono facili e naturali. La finestra , poi , aiuta a complicare l'intrigo: si salta assai agevolmente da essa sulla strada, e da questa su quella. Nella com- media // Medico volante (1), Cola, servitore e finto medico (Atto II; Se. XVII e XVIII), rappresenta due personaggi, dei quali uno deve trovarsi in casa del vecchio Ubaldo e l'altro in piazza: ebbene, Cola saltando, attraverso la finestra, dalla casa sulla piazza e da questa in quella, rappresenta, imbrogliando l'in- trigo, le due parti. Lo stesso esercizio Cola ripete nel- l'atto terzo della commedia medesima. Nel teatro co- mico latino, pel difetto, nelle case private, di finestre sporgenti sulla via o sulla piazza, l'autore non poteva ricorrere a codesto artifizio: i personaggi si fermavano sulla porta e di discorrevano con coloro che stavano dentro la casa o venivano di fuori.

La finestra si porgeva, poi, nella commedia del- l' arte, a rendere facili i colloqui amorosi, specie che

(1) A. Bartoli; op. cit. p. 103.

!ACel Regno delle ^^aschere 4

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i padri e i mariti erano, quasi sempre, dipinti diffiden- ti, gelosi, e chiudevano a chiave le figlie e le mo- gli. Puntalone dei Bisognosi, o il vecchio Ubaldo o il suo vicino di casa Pandolfo questi due ultimi personaggi non erano che una sotto-varietà del pri- mo — avevano un bel raccomandare, uscendo di ca- sa, alla figlia o alla moglie di non metter hiori della finestra la punta del naso: raccomandazione sprecata, la finestra era aperta o socchiusa, e, nella assenza del padre o del marito, i colloqui fioccavano. Se la porta di casa non era serrata, si spiava dalla finestra r arrivo del padrone, e l' amante, che la serva o il servo compiacente aveva introdotto in casa, aveva tutto il tempo per nascondersi o svignarsela. Non parliamo poi delle serenate fatte, al chiaro di luna, di sotto alla finestra. Quando non e' era la finestra, e* era il tenazzino: allora la padrona o la serva vi pigliava il fresco, o vi stava a contemplare la luna, mentre, di sotto, dalla strada, un Lelio o un Florindo spiava r occasione di far giungere all' amata una let- terina esprimente il suo amore.

Tanto nella commedia latina quanto in quella del- l' arte, i personaggi che non occorre vono più per far scena, si mandavano via spesso senza un apparente motivo ; andavano e venivano con tutto il loro comodo; e quando di questo loro andare avanti ed indietro volevano fornire una spiegazione, questa era spesso ingenua, sciocca. Plauto mandava via di scena ordi- nariamente i suoi personaggi, se vecchi, col pretesto d' andare al foro per difendervi la causa d' un clien-

si- te, o per dare il suo giudizio come arbitro; nella commedia dell' arte, questo pretesto era diverso, ma non meno estraneo, allo svolgimento dell'azione, di quanto lo fosse quello delle commedie di Plauto e di Terenzio.

L' azione, spesso, si svolgeva per narrazione ; i per- sonaggi, più che agire, raccontavano ciò che avevano fatto o che avrebbero fatto. Nei comici latini questo mezzo assai ingenuo e primitivo per far progredire r azione o portarla a cognizione del pubblico era an- cora, se possibile, più ingenuo e primitivo; poiché r attore, che recitava il Prologo, s' incaricava, prima che cominciasse la rappresentazione, di spiegare agli spettatori quanto sarebbe avvenuto sulla scena. Nel- r Aulularia, di Plauto, il prologo è recitato dal La- re della famiglia, il quale narra che in una di quel- le case, che si vedono sulla scena, sta un certo Eu- clione, un vecchio avaro e padre d' una bella fan- ciulla. C era sepolto un tesoro ed egH, il Lare, lo fece rinvenire a quel vecchio e ne aggiunge il mo- tivo:

In grazia degli onori che mi rende

Feci che quel tesoro ritrovasse

Euclione, affinchè più facilmente

Possa darle [alla figlia) marito. Un giovinotto

Di gran famiglia ad essa usò violenza;

Il giovinotto la conosce bene,

Ma non sa dessa chi sia stato, e il padre

Non sa che la figliuola sia violata.

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Oggi io farò che il vecchio (1) di qui presso Per la chiegga in moglie; io farò questo Perchè più facilmente la conduca In moglie quegli che le usò violenza.

Lo stesso Plauto, nel prologo dei Prigionieri (Ca- pteivi), e più esplicito; espone l'azione sin nei più minuti particolari :

Questi due prigionieri che vedete Qui stare, i due che son fermi, stanno Ambedue in pie non già a sedere. Egione il vecchio che sta qui presso, E' padre di costui ; ma per qual caso Questi al suo padre serva, innanzi a voi Lo spiegherò, se m'ascoltate....

Terenzio non faceva diversamente ; egli, veramente» faceva qualche cosa di più, discuteva anche nel pro- logo coi suoi critici che gli rinfacciavano i suoi plagi» dei quali egli, per altro, menava vanto (2).

Però, il prologo, che ad imitazione della comme- dia latina aveva messo radice dapprima nelle rap- presentazioni religiose, poi nelle commedie letterarie del Cinquecento, fu abolito in quelle dell' arte : in

(1) Megadoro, uno dei personaggi della commedia.

(2) Nel Punitore di stesso: " Quanto alle voci propagate dai malevoli, cioè, eh' egli abbia mescolato poche commedie greche, men- tre ne compone poche latine non gliene rincrebbe per nulla; anzi ha intenzione di farlo anche in avvenire. In ciò egli segue I' esempio dei buoni autori.... E probabilmente alludeva a Plauto.

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queste l' autore volle che la curiosità del pubblico restasse viva e sospesa sino alla fine dello spettacolo, senza che uno degli attori , prima dell' alzarsi del si- pario, uscisse fuori a sciuparla raccontando l' intieccio della commedia.

La caratteristica principale della commedia dell'arte, in ordine alla forma, era, come si sa, l* improvvisazione. Andrea Ferrucci, scrivendo sulla fine del secolo XVII l'opera: Dell'Arte rappresentativa premeditata e allo improvviso, dichiarava che alla prima rispondeva la commedia letteraria, intieramente dialogata, e alla se- conda la commedia dell' arte o a soggetto e della quale non si scriveva che il solo scenario.

Improvvisa, realmente, fu chiamata quest' ultima com- media, e così si continua a chiamare ; se non che, se non tutti, certamente parecchi di coloro che ne hanno scritto, o continuano a scriverne, hanno ritenuto, o con- tinuano a ritenere, che sulla commedia dell' arte il solo canovaccio, cioè, l'argomento svolto nelle sue grandi e piccole divisioni d' atti e di scene, appartenesse al- l' autore ; il resto, cioè, il dialogo, fosse opera esclusiva dei comici. Divisione, codesta, in forza della quale la parte riservata al commediografo era assai povera cosa, o, per lo meno, non era la principale, la più impor- tante, poiché spesso, nello scenario o soggetto, le si- tuazioni non erano che superficialmente accennate , quando non lo erano affatto. Molti degli scenari della commedia dell' arte non danno che una idea assai vaga, confusa dell' azione : qui, più che un canovaccio, si direbbe una linea; là, un segno ; era addirittura l'artista

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che non solo recitava, ma creava di sana pianta la parte. Negli Scenari corsiniani questa sobrietà d'in- dicazioni è incredibile : degli atti intieri sono condensati in poche righe (1). Quindi s'ingannerebbe a partito chi prendesse alla lettera la denominazione di commedia improvvisa, o a soggetto o a braccia; in realtà, assai poco, veramente assai poco, era lasciato all'improvvi- sazione, anche perchè non tutti i comici che prende- vano parte alla recita avevano cultura o attitudine per dire all' improvviso : e se commedia premeditata fu detta allora quella intieramente scritta, non meno premeditata in gran parte si potrebbe chiamare quella improvvisa. E difatti, impropriamente improvvisa fu detta quest' ul- tima; ne noi, dicendo così, affermiamo cosa che non possa giustificarsi, come subito si vedrà, con le prove alla mano.

Chi non conosce il retroscena della commedia del- l'arte, chi non l'ha studiato nei suoi particolari intimi, specie nella sua preparazione e nel suo allestimento scenico, potrebbe supporre che la parte dialogata della azione s'improvvisasse sulla scena, come in quei tempi, e nei posteriori, i poeti improvvisavano versi e magari tragedie sul semplice tema offerto da uno degli uditori. Certamente, una commedia improvvisata in tal modo avrebbe dato al pubblico un saggio assai apprezzabile

(1) Però ogni scenario (e sono in tutto cento) porta in fronte una tavola a colori rappresentante in tutti i suoi particolari la scena-madre o principale: cosa assai importante per una futura storia del costume teatrale italiano.

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non solo della valentia tecnica dell' artista, ma anche del suo ingegno e della sua istruzione. I dialoghi briosi, le trovate comiche, i lazzi degli zanni, le uscite sen- timentali dell' innamorato e della innamorata, quelle roboanti di Capitan Spavento, i discorsi infarciti di latino del Dottor Graziano, le parole o le frasi a doppio senso, tutto in tal modo sarebbe stato il prodotto del- l'ispirazione del momento. Ma nessuno ha mai pensato sin' ora che se realmente le cose fossero passate così sulle scene del teatro comico a soggetto, le compagnie della commedia dell' arte avrebbero dovuto reclutare il loro personale artistico fra gl'ingegni più svegliati, più arguti, più riboccanti di fantasia e di vis comica del tempo, senza tener conto che in tal modo composte le compagnie, avrebbero queste avuto degli eccellenti improvvisatori, ma non sempre comici valorosi ; poiché è risaputo come difficilmente le due qualità, cioè, di inventore e d' interprete, vadano riunite nella stessa per- sona. E vero che nei comici della commedia dell'arte codeste due qualità andarono qualche volta accoppiate; ma ove si pensi che codesti attori ed autori ad un tempo non costituivano che una quasi impercettibile minoranza di fronte all' immensa turba degli interpreti dotati d* una superfìcialissima cultura e sforniti di facoltà inventiva, incapaci di mettere insieme poche battute di dialogo, un soliloquio magari di forma più che minuscola, già è bello e detto come il concetto d' una commedia im- provvisata, nella parte dialogata, per lì, sulla scena, alla presenza degli spettatori, sia da relegarsi fra le leggende. Del resto, qui non si tratta di congetture,

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poiché, come già dicemmo, possiamo provare quanto ora affermiamo, anche perchè i fatti si accordano con le ragioni dell' arte, non potendosi immaginare un' a- zione ben concatenata fra le sue parti e sopratutto ben dialogata senza che sia preceduta da un accurato al- lestimento, e quindi senza quella tale premeditazione,] come scriveva il seicentista Ferrucci, che solo rende possibile la perfetta esecuzione d'una commedia. jj

Ma entriamo, per un istante, con un leggiero sforzo della nostra immaginazione sussidiata da qualche do- cumento del tempo, in uno dei teatri in cui nel se- colo XVII si recitava la commedia a soggetto. Entriamo in teatro nell' ora della prova, un po' prima di mezzodì. Noi abbiamo una buona guida che ci assisterà durante la nostra presenza sul palcoscenico svelandoci i segreti dell'arte comica di quei tempi. E il Ferrucci da noij. più volte ricordato. 1

Come su tutti i palcoscenici nell' ora mattutina delle prove, la luce non piove sulla scena che in modo assai scarso ; entrando dall' usciolo d' ingresso, posto ordina- riamente in fondo al corridoio dei palchi di prima fila, non ci si vede affatto tanto le ombre avvolgono cose e persone. Inciampando ora in una sedia, ora in una quinta, dando ora la punta del naso in una canucola pendente dall' aito, ora sulla parte estrema d' una scena alzata per metà, noi arriviamo a pervenire sul proscenio, in prossimità del cupolino del suggeritore. Il nostre occhio che nel frattempo s' è abituato a quella mezza luce che regna dentro, comincia a distinguere, ur po' alla volta, tutte le particolarità del luogo, comprese

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le persone. Queste attirano subito la nostra attenzione: sono i comici riuniti per la prima prova d'una com- media a soggetto, poiché la commedia dell' arte, sebbene detta improvvisa, si provava e riprovava come se fosse una commedia distesa o letteraria.

Non duriamo molta fatica a riconoscere le attrici: la prima donna, l' amorosa, la servetta. Ecco gli attori: I due vecchi, cioè, Pantalone e il Dottore, l' innamorato, il Capitano, gli Zanni sotto le diverse denominazioni di Stoppino , Trappola , Cola , Pulcinella , Brighella , Arlecchino. Tutti costoro fanno cerchio, chi seduto, chi all' impiedi , al direttore , che il Perrucci con una parola presa a prestito dal teatro greco, chiama corago. Questi ha in mano un fascicoletto assai sottile, mano- scritto ; e lo scenario o soggetto della commedia che si concerta. Possiamo scegliere, per lo spettacolo che si mette in prova, a piacere, e poiché siamo verso la fine del secolo XVII, la scelta può cadere benissimo su d' uno degli Scenari editi da A. Bartoli. Si concerta, dunque, Y Incauto, ovvero, l'Inavvertito. Un secondo esemplare del soggetto sta attaccato ad una quinta , perchè possa essere consultato da chiunque , mentre ognuno degli artisti ne ha in mano una copia per proprio uso. Il corago (1) legge dapprima il titolo della com-

( 1 ) " Lorsqu'on doit jouer une pièce nouvelle , ou une de celles que l'on remet au théatre, ou méme lorsque la troupe est composée d'acteurs qui n'ont pas encore joué ensemble, le premier acteur les réunit le matin; leur lit le pian de la pièce, et leur explique fort au long tout ce qui la compose; en un mot, il joue lui seul devant eux la

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media, poi l' elenco dei personaggi ; con parola facile, ed ampiezza di particolari, egli spiega il soggetto atto per atto, scena per scena. Il luogo dell' azione lo preoc- cupa ; imperocché, egli dice, occorre che Y attore co- nosca bene il luogo dove l'azione si svolge, e non dica per esempio, che si trova a Venezia, mentre deve dire a Milano : si accrescerebbe poi il ridicolo della situa- zione ove un' altro attore venisse a dire che l' azione ha luogo non a Venezia, ne a Milano, ma a Genova. In seguito, il corago aggiunge : Questa volta l' azione si svolge a Napoli e i personaggi della commedia sono.... e qui indica le personae dramalis. Indi de- scrive la scena : questa è la casa d' Ubaldo, padre di Valerio ; quell' altra, là, è la casa di Pandolfo, padre d'Ardelia; la terza è la casa dove alloggia Lucinda, la giovine schiava, che poi si scopre essere Clarice. Occorre che l'artista conosca bene la disposizione delle diverse case sulla scena perchè non succedano equivoci e non si scambi la casa dell'uno per quella dell'altro. Sull'assegnazione delle parti non può più rimanere dubbio: Ubaldo, uno dei due vecchi, è il padre di Valerio ; questi, s' intende è l' innamorato ; Cola è il servo di Valerio, e la sua parte spetta ad uno degli zanni'. Pulcinella, mercante di schiavi e padrone di

pièce entière ; rappelle à chacun ce qu'il doit dire, quant au fond ; lui indique les traits brillans qui, consacrés par le temps, sont devenus in- dispensables ; les jeux de théàtre que porte la scène et la manière don* les lazis doivent se répondre les uns aux autres.

Hist. Jlnc. du Théàtre hai Paris, 1769; voi. 1; p. 41.

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Lucinda, è un altro zanni e con Cola ha 1* incarico di divertire il pubblico ; Lucinda è 1' amorosa ; un' altra amorosa e Ardelia; Pandolfo, secondo vecchio, è il padre di quest* ultima ; un terzo servo, amico di Cola, è Stoppino , anche lui , come l' altro , incaricato di far ridere gli spettatori, e quindi la sua parte è recitata da un terzo zanni; Doretta è una seconda schiava, ed è parte di amorosa ; è parte d* innamorato quella di Ottavio ; infine , e' è il Capitano , lo spaccamontagna , r ammazzasette, che finisce sempre col pigliarle da Cola o da Stoppino, quando non le piglia da tutti e due insieme.

Assegnate le diverse parti, il corago, passa a spie- gare diffusamente l' intreccio della commedia. Pulcinella, mercante di schiavi, è capitato a Napoli con una parte della sua triste merce : fa parte di questa la giovane e graziosa Lucinda , della quale s' innammorano per- dutamente due buoni amici, Valerio ed Ottavio, seb- bene il primo sia fidanzato d' Ardelia, la quale non r ama, ma ama, invece, Ottavio, il quale, a sua volta, per r amore che porta alla schiava , non ne contrac- cambia r affetto.

Tutti e due i giovani, Valerio ed Ottavio, vogliono venire in possesso di Lucinda e cercano di comprarla da Pulcinella, ma in seguito a diverse avventure, ecco che un terzo la compra, ed e il Capitano ; questi che è innamorato di una certa Isabella, fatta schiava, crede di ritrovarla in Lucinda ; ma s' inganna , poiché que- st' ultima non è che la sorella d* Isabella, ma a lei molto somigliante, e tutte e due tratte in ischiavitìi dai pirati.

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In seguito a tale scoperta, tutti sono contenti, poiché il Capitano va via, Valerio sposa Lucinda dalla quale è riamato, ed Ottavio, non potendo sposare la schiava, impalma Ardelia, che 1' amava segretamente. Durante r azione, Cola e Stoppino, i due zanni, aiutano i pa- droni nei loro amori, si moltiplicano per trarli hiori dalle situazioni critiche , si burlano di Pulcinella e dei due vecchi tenendo sempre allegro il pubblico coi loro lazzi.

Più minutamente il corago spiega le situazioni più importanti abozzandone anche il dialogo e tratto tratto aggiunge : qui ci vuole il tale lazzo ; qui occorre una scena equivoca e ne suggerisce la trama ; oppure : qui occorre un* uscita più lunga, bisogna infiorare il dia- logo con tale o tal' altra figura o metafora (non dimen- tichi il lettore che siamo nel Seicento) ; qui bisogna che il dialogo proceda con rapidità, che sia più diffuso per dar tempo ad un travestimento. Eppoi altri suggerì- 1 menti : badino i signori comici a non esser lunghi di soverchio nei lazzi, che, spesso, la lunghezza di questi fa perdere o interrompe bruscamente il filo dell' intrec- cio, o si stenta , finito che sia il lazzo , ad afferrarlo di nuovo ; badino, sempre nei lazzi, anche se vecchi, a non fare a fidanza con la memoria, perchè non sempre i coraghi li concertano nella stessa maniera, ne sempre i particolari della commedia sono i medesimi.

Come si vede, la tanto decantata improvvisazione della commedia dell' arte comincia già a dissiparsi. Ma si ascolti ancora il Perrucci, il quale, mentre il corago continua a concertare coi suoi artisti la commedia, ci dice : Questi signori comici possono benissimo appli-

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care alla loro recitazione improvvisa qualche cosa di preparato tanto se il pezzo sia stato scritto apposta per la commedia alla quale prendono parte, quanto se sia di cose universali che si tengono a mente per applicarsi a qual- sivoglia commedia, come sono le Prime Uscite, le Di- sperazioni, ì Corìcetti, ì Rimproveri, i Saluti, i Pa- ralleli, e, infine, uno o più dialoghi , secondo casi. Occorre però che il tutto sia disposto non a casaccio, a modo d' una rabberciatura qualunque , ma opportu- namente, con discernimento, perchè non paia che stia come i cavoli a merenda, o come Pilato nel Credo ( 1 ) ; che, in quest' ultimo caso, il collocamento ozioso o inop- portuno di quella Prima Uscita, o di quel Concetto, o d' altra simile cosa , salterebbe subito all' occhio. Del resto, ogni buon comico deve avere la mente riem- pita di sentenze , di descrizioni, di discorsi d' amore, di disperazione , di deliri e simili per averli sempre pronti air occasione. Occorre, poi, che il comico parli bene l' italiano , che riproduca con esattezza la parte che recita e questa vivifichi con Y anima sua e il suo pensiero. Un ultimo consiglio : ogni comico sia prov- visto d' uno Zibaldone o Repertorio ove sieno raccolti Concetti ed altre materie attinenti alla propria parte.

(I) Il comico Pier Maria Cecchini scriveva: "Sogliono questi che si compiacciono di recitare la difficile parte d' Innammorato, arricchirsi prima la mente d'una leggiadra quantità di nobili discorsi attinenti alla varietà delle materie che la scena suol apportar seco. Ma è da avver- tire che le parole susseguenti alle imparate vogliono avere uniformità alle prime acciò il furto appaia patrimonio, e non rapina, " Frutti delle moderne commedie et avvisi a chi li recita ", Padova, 1628.

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I Concetti, per esempio , sono diversi : concetti d' in- namorato, d' amor corrisposto, di gelosia, di priego, di scaccio, di sdegno j di pace, d* amicizia, di merito, di partenza. Vi sono poi i soliloqui, parti toscane (I); ahri soliloqui sono le ^rime Uscite, che portano nomi diversi, cioè, d* amante corrisposto, d' amante tacito , d' amante disprezzato, d* amante sdegnoso. Altre 7-^r/- me Uscite sono quelle contro amore, contro la fortuna, d' un forestiere che viene in città, d' uno che ritorna in patria. C è di tutto e per tutti in quei benedetti Zibaldoni (2); la pentola è sempre piena ; basta attin- gervi a tempo opportuno e scodellare con garbo. Per esempio ; i soliloqui, che bisogna aver sempre sotto mano, sono infiniti : e' è il soliloquio con tropi, quello con figure di parole, 1* altro di rimprovero con figure ritrovate per accrescere vaghezza, oppure quello di di' sperazione d' amante disprezzato, e così via via.

La poesia, ali* occorrenza, viene in aiuto della prosa ; alla fine d' una scena o d' un soliloquio, oppure d' un dialogo, prende posto la chiusetta composta d* ordinario,

(1) Ecco come l'Adriani (manoscritto della Biblioteca Comunale di Perugia) spiega i propositi che lo guidarono nel formare il suo Zibal- done o Seha : " La Seltìa io 1' ho fatta perchè ho provato e toccato con mano che anche i più bravi recitanti all' impronto dovendo fare 15 o 20 recite diverse li mancano le forme, si vuol dire le parole, e per lo più replicano l' istesso ; ancora chi sa la parola sola d'Innamo- rato, si trovi pronto per li dialoghi d' amore, di sdegno ecc. ecc. e per questo ho raccolto tutto acciò ognuno abbia panno per vestirsi ".

(2) Cioè, dei personaggi che non parlavano il dialetto. Erano sempre parti toscane quelle dell' innamarato e dell'amorosa o prima donna.

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di due versi ; e quindi e* è la chiusetta d' amante ta- cito, quella per salutare la donna amata , oppure di priego, di partenza, d' infelicità, d' amicizia, ed altre. Eccone una d' amante tacito.

Per scoprir, per parlar la mente adopro. Penso assai, poco tento, nulla scopro.

Chiusetta contro V amore :

Amor, angue tu sei, se il tuo veleno

Sen corre al col, mentre mi serpe in seno.

Di priego :

Se mi sdegni, vedremo

Chi più stabile sia.

La tua fierezza, o la costanza mia.

Di disperazione :

Pietà più nel mio cuor non trova luoco. Vada il regno d'Amor a sangue e fuoco.

Il Ferrucci continua ad ammonire : Di codesti zi- baldoni o repertori ogni attore o attrice abbia il suo formato in base alle parti che recita o al carattere o maschera che rappresenta. Così chi fa le parti di padre deve avere la sua raccolta di Consigli, di Persuasioni, di ^Maledizioni al figlio ; il Dottore i suoi sproloqui o infilzate di cose sciocche, strampalate, buffonesche, lardellate di latino, riboccanti di nomi pomposi di fi- losofi, di medici, di giureconsulti ; il Capitano, sia che

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si chiami Spavento, o Rinoceronte, o Spezzaferro, deve avere sempre pronti i suoi racconti di battaglie san- guinosissime, da lui non combattute ne viste, di am- mazzamenti, non che un' odissea di viaggi fantastici e una sfilata interminabile di conquiste amorose. Si fac- cia altrettanto dagli Zanni pei loro lazzi o trovate comiche, dagli innammorati e dalle amorose per i loro discorsi patetici ecc.

Lo Zanni, aggiunge il Ferrucci, il quale coi suoi precetti sembra che voglia ad ogni istante provare come la commedia improvvisa non sia che una commedia premeditata lo Zanni, il cui ufficio è di tirare in- nanzi V intrigo ed imbrogliare le carte (1), ha bisogno d* avere tutto il soggetto a memoria, come suol dirsi, per portar franco l'intreccio e le invenzioni senza men- dicarle, esser pronto e vivace nelle risposte, non uscir tanto fuori del soggetto che subito non vi possa rien- trare, dire a tempo i motti arguti e caldi, ma che non abbiano dello sciocco ; infine, non esca dalla sua parte con tagliare i motti ridicoli al secondo Zanni.

Intanto il corago o direttore della compagnia è an- dato già innanzi nella spiegazione del soggetto o scenario in prova. Egli è arrivato alla scena seconda dell' atto secondo. Diamo un' occhiata allo scenario dove la scena è accennata con le seguenti magre indicazioni :

Pulcinella e Pandolfo.

" Sente Pulcinella che Pandolfo vuol comprare la schiava , gli narra la cosa del sequestro , Landolfo

( 1 ) Ferrucci ; op. cit. pag. 283.

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glielo legge, e Io conduce seco al Giudice per libe- rarlo da tal sequestro (1). "

Ecco ora come il corago, facendo tanto la parte di Pulcinella quanto quella di Pandolfo, spiega e rende dialogata la scena di sopra trascritta (2) :

feltrarne e CMiezzettino,

BEL. O di casa! MEZZ. Chi è là?

BEL. Amici. MEZZ. Che amici ?

BEL. Sono Beltrame. Olà, che voce languida è questa ? Mes- ser Mezzettino, una parola.

MEZZ. Perdonatemi, messer Beltrame, non posso aprire.

BEL. E che avete le mani in pasta ?

MEZZ. Sto in modo che non mi posso muovere.

BEL. E che cosa avete ?

MELZZ. Cosa tale che non posso venire.

BEL. E che siete storpiato ?

MEZZ. Peggio, signore.

(1) BartoH A. Op. cit. p. 96.

(2) Non volendo porre in bocca al corago un dialogo di nostra invenzione, ci siamo attenuti ad un piccolo artifìcio: abbiamo tolta la scena dialogata riportata nel testo da una commedia di Nicolò Bar- bieri, comico, il quale, sebbene con un titolo un po' diverso (L' Inav- vertito, ovvero Scapino disturbato e Mezzettino travestito, Venezia , 1630), distese, cioè, scrisse la parte dialogata dello scenario spiegato dal nostro corago ai suoi comici. S'avverta però che il Barbieri, nel distendere lo scenario, v'introdusse qualche cambiamento: ridusse gli atti e le scene ad un numero minore e cambio i nomi dei personaggi. 'Pulcinella e Pandolfo divennero c^ezzettino e feltrarne. (Bartoli A. Op. cit. p. XCVIII).

5\^e/ Regno delle Maschere 5

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BEL. Ma in buon'ora, fate ch'io sappia almeno quello che avete.

MEZZ. Sono sequestrato.

BEL. Come sequestrato? Siete sequestrato in casa?

MEZZ. Non so ; so bene che sono sequestrato tutto.

BEL. Aprite la porta, e non uscite voi se siete sequestrato in casa.

MEZZ. Ma credo sia sequestrata anche la porta.

BEL. O mi fate ridere, voi siete ben balordo. E come si se- questrano le porte e

MEZZ. (venendo fuori) Eccomi; ma avvertite che se io vad in pena alcuna, che ne siete cagione voi.

BEL. Ov' è il sequestro ?

MEZZ. Qui in scarsella.

BEL. Mostratemelo un poco.

MEZZ. Come mostrarvelo s'egli è sequestralo ?

BEL. O questa che è da scemo! Siete così ignorante o pur fate il balordo per qualche vostro interesse ?

MEZZ. Io non sono stato mai in questo intrigo. Mio padre morì disgraziatamente per giustizia, ed io con l' esempio mi sono av- vilito in modo che vedendo i birri, mi pare d'essere legato.

BEL. E come morì vostro padre ?

MEIZZ. Lo strozzarono per aver fatto la sentinella.

BEL. Doveva aver fatto qualche segnale al nemico o passato qualche accordo seco.

MEZZ. Anzi r impiccarono per essere troppo fedele. BEL. lo ciò non V intendo, se non parlate più chiaro.

MEZZ. Faceva la sentinella mentre certi suoi compagni rompe- vano una bottega, acciocché la Corte non sopraggiungesse, ed uno in- vidioso del bene altrui gli diede la querela, e per far servizio al suo prossimo, fu col prossimo mandato in Piccardia.

BEL. Veramente queste sono certe carità che non meritano altra ricompensa. E voi che cosa avete fatto ?

MEZZ. Niente di male eh' io sappia e per niente sono ridotto a questo passo. Hu, hu, hu

I

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BEL. Non piangete , siete così pusillanime ? E vergogna , un uomo come voi siete, pratico del mondo, dare in queste bassezze?

MEZZ. Do nelle bassezze per tema di dare nelle altezze e ri- maner per aria. E una mala cosa l'esser stato predestinato a fare il fine del padre e cominciare la giustizia venirmi a casa. Il male co- mincia spesso da poco , e quel poco s' avanza tanto che tira le per- sone alla morte. La giustizia ha cominciato ; non so altro.

BEL. Mostratemi, di grazia, questo sequestro.

MEZZ, Toglietelo voi fuori di scarsella, che io non voglio pre- terire r ordine della signora Giustizia ; ma avvertite a quello che fate voi.

BEL. Lasciate la cura a me. De mandato magnae Curiae *U/- cariae.

MEZZ. Chi ha mandato alcuna vigliaceu'ia ?

BEL. A proposito I Non dico vigliacaria, dico d' ordine della Gran Corte della Vicaria. Non sapete che cosa è Vicaria in Napoli ?

MEZZ. Signor sì, dove sono gì' incarcerati ; ed ecco che que- sto è un principio di disgrazia. Oh cielo! Aiutami!

BEL, Fermatevi, jìd istantiam domini Fulvii de Bisognosis....

MEZZ. Signor no, signor no ; io non ha fatto istanza al signor Fulvio, è lui che voleva la mia schiava, il signor Pantalone ha torto a mandarmi la giustizia a casa.

BEL. Piano, piano, che il signor Pantalone non vi fa torto, dice che abbia fatto istanza al signor Fulvio. Sequeslreiur omne per illud quod reperitur penes Domino Mezzettino....

MEZZ. lo non ho reperito, rapito penne, pennacchi a nessuno, la giustizta é male informata.

BEL. Tacete in buon'ora, che non parla di rapine, di rubare ; uti bona pertinentia ad Dominum Cinlhium Fidentium...

MEZZ. Non è vero; io non ho fatto impertinenze al signor Cinzio; io gli ho parlato sempre con somma riverenza.

BEL. Se voi non avete pazienza, non la finiremo maù ; non in- tendete, e però tacete ; scolarem Beneventanum , videlicei aurum et argentum...

MEZZ. Sono dugento ducati d' oro, ed io non ho argento ecco, e non l' ho rubati, che sono per il riscatto della schiava.

BEl^. in buon'ora; et in ispecie...

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MEZZ. Io non ho spezie...

BEL, Non parlo di vostre spezie, ascoltatemi ; dico mancipium unam captivam...

MEZZ. Che mi vogliano porre una mano in ceppi perchè è cattiva ? E qual mano ho io cattiva ?

BEL. Non vi turbate, che non dice così. Udite : cum declara- tione quod ipse non possit amplius eam tenere ncque possidere...

MEZZ. Ch' io non possa più sedere ? Oimè ! Sono rovinato, oh meschino, è impossibile ch'io possa stare sempre in piedi!

BEL. O pazzo, non dice che non possiate sedere, dice che non possiate possedere: ncque in pedihus.

MEZZ. Neanco in piedi ! Oh poveretto me ! Sono morto I

BEL. Voi mi volete far perdere la pazienza. Fermatevi in buon'ora, che starete seduto e in piedi, come vorrete voi! Ut dicitur alienum constituere, et quod ficret in contrarium fiat frusta.

MEZZ. O quella che l' ho intesa e non me la imbroglierete. Contrarium frusta vuol dire che mi frusteranno per le contrade...

BEL. Voi mi volete far morire di ridere. O che voi dubitate dei vostri meriti o che voi v' interpretate a forza di paura.

MEZZ, Ah , signore , voi non volete esser quello che mi dia cattiva nova; ma io intendo per discrezione.

BEL. Oh, se v'intendete tanto di mangiare, non occorrerebbero maestre di torte o musiche de maccheroni. Datevi pace ed abbiate f>azienza ch'io vi legga il tutto: Ed hacc sub poena Ontiarum auri centum...

MEZZ. Che mi vogliono ungere in cento ?

BEL. A proposito ; le onze d' oro sono un valore di moneta , e credo che sia di cinque ducati d'oro un'onza; T^cgio Fisco appli- candarum...

MEZZ. Che mi vogliono appiccare al fresco ? Oh , poveretto me! Oh, mia madre, che triste novella intenderete dell'unico vostro figliuolo! Almanco si potesse sapere perchè...

BEI.. Eh, quietatevi, che non vuol dir così, no. Applicandarum dice, e non apicandum , da applicarsi al Fisco , da darsi alla Corte ; intendete? Registratum per publicum Notarium éJìiCoscttinus Calerà...

MEZZ. Oh, questa non si può dir più chiara! Mezzettino in galera!

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BEL. Voi diventate pazzo tra la vostra paura e la vostra inter- pretazione. Mosettinus vuol dire Moisè in diminuitivo, e Calerà è una casata spagnuola.

MEZZ. lo non voglio andare in Ispagna. Ma in che linguaggio è scritta questa carta?

BEL. In latino.

MEZZ. Deve venir dunque questo sequestro dal paese dei Latini ed io non so dove sia.

BEL. 11 paese dei Latini è l'Italia ecc. ecc.

Non aggiungiamo altri esempi tolti dal repertorio o zibaldore che ogni comico aveva l' abitudine di tener suo costantemente durante le sue peregrinazioni da un teatro all' altro, per dimostrare come la commedia im- provvisa non fosse meno pensata e distesa di quella letteraria o scritta, anche perchè più innanzi, quando e' intratterremo del contenuto della commedia a soggetto, dovremo ritornare sull' argomento. In sostanza, una sola casa differenziava il primo dal secondo spettacolo ; men- tre questo, il letterario, presentava tutte le parti dei per- sonaggi scritte dallo stesso commediografo, l' altro, quello a braccia o a soggetto, aveva le parti scritte da persone diverse e per lo più raccattate di qua e di là, o modi- ficate dal capriccio o dal gusto dei comici stessi.

L' artista, certamente, anche nelle parti che non in- ventava, ci metteva del suo, specie se all' abilità tecnica del comico accoppiava un ingegno colto, vivace, crea- tore : v' aggiungeva certamente meno se quest' ultima qualità possedeva in misura minore; ripeteva ciò che altri prima di lui avevano detto nella stessa parte, o non s' allontanava affatto da ciò che aveva imparato sulle pagine dello Zibaldone, se mancava completa-

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mente d' ingegno e di cultura. Nei soliloqui, sopratutto, la fantasia d' un artista poteva spaziare a suo pieno talento, anche perchè non avendo ad aspettare la ri- sposta del compagno di scena, o da darla a questo, era più libero. Spesso un vuoto di scena, come i co- mici chiamano la mancata entrata d' un personaggio, si riempiva prolungando il soliloquio per dar tempo al- l' altro attore d* entrare. Carlo Gozzi, che, come si sa, fu strenuo propugnatore della commedia dell' arte quando questa, sotto i colpi della riforma goldoniana, non dava più che segni di vita stentata, nelle sue Memorie Inu- tili (1) narra come egli, nella sua giovinezza, recitando a Zara nel teatro di Corte, per la mancata entrata in iscena d' un comico, che rappresentava Pantalone , fosse stato costretto a prolungare un suo soliloquio. A mal- grado di ciò, ad un certo punto, egli si trovava proprio sulle spine, perchè Pantalone non solo non usciva in iscena, ma, non si sa per qual motivo, nemmeno era arrivato in teatro. " Levai lo sguardo ai palchetti ac- cidentalmente — prosegue il Gozzi e vidi in uno di proscenio quella Tonina di mal costume risplendere in una bellezza e in una gala illuminatrice del frutto dei ! suoi delitti, che baldanzosamente rideva più degli altri delle mie freddure donnesche (2). Mi risovvenne in quel punto il pericolo che aveva corso delle trom- bonate per di lei cagione. Parvemi d' aver trova- to un tesoro, e un lampo di novello argomento ri- Ci) Venezia, 1797; Parte I.; Gap. XIII. (2) 11 Gozzi recitava una parte di donna allattante la sua bambina.

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svegliò in me un' eloquenza ardita , eh' e permessa e goduta in un teatro non venale .... e potei soccorrere il mio povero soliloquio eh' era spirante. Posi in sul fatto il nome di Tonina alla mia figliuo- letta bamboccia, e rivolsi il mio discorso a quella. L' accarezzai , contemplai le sue fattezze , mi lusingai che la mia figlia Tonina dovesse crescere una bella ragazza . . . Esclamai quindi verso la mia piccola Tonina . . . che se ad onta delle mie cure materne ella dovesse cadere un giorno nei tali e tali errori . . . sarebbe la peggior Tonina del mondo. Non vidi ai giorni miei avere maggiori acclamazioni un comico so- liloquio del mio. Tutti generalmente gli spettatori a punto voltano i loro visi al palchetto della bella To- nina in gala con la maggior chiamata di risa e mag- gior fracasso di picchÌ2u*e di mani che fosse giammai udito. . . Giunse, finalmente, Pantalone ".

Ma codesto modo più o meno ingegnoso di non fare accorgere il pubblico d'un vuoto di scena, non era, per altro, una caratteristica esclusiva dei comici a sog- getto. Basta avere una conoscenza anche superficiale della vita del palcoscenico, non solo dei tempi passati, ma anche moderni, per sapere come in parecchie oc- casioni del genere accennato dal Gozzi, anche l'artista della commedia letteraria o dialogata ricorresse, o ri- corra, a ripieghi improvvisi. Senonchè, noi abbiam voluto dimostrare, come già dicemmo e il ripeterlo giova che se in qualche parte, in qualche scena, o dialogo, o soliloquio, il comico dell'arte improvvisava, generalmente l'improvvisazione si riduceva a ripetere

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ciò che si sapeva già a memoria o pazientemente era stato concertato in precedenza. La parte dialogata na- sceva e si stendeva nelle stesse condizioni in cui na- sceva e si stendeva nella commedia scritta ; studiosa- mente, amorosamente, in lunghe e ripetute prove, col concorso di tutti gli attori, e sotto la guida del capo- comico, si riempiva la tela dei dialoghi, dei soliloqui, delle uscite; si concertavano i lazzi; il tutto con l'aiuto dei propri ricordi, delle tradizioni sceniche, ma, sopra- tutto, con la collaborazione dei repertori o zibaldoni, mercè la quale, anche l' attore o 1* attrice meno intel- gente era in grado di recitare nel modo piìi brillante la sua parte a soggetto o a braccia. Che più ? I lazzi, la parte più vivace, più spigliata, la più riboccante di vis comica, diremmo quasi la più ribelle alle regole, della vecchia commedia, erano, direbbe il Ferrucci, premeditati. Il pubblico rideva, rideva anche sino alle lagrime, e batteva le mani alle felici e geniali improv- visazioni deir attore ; ma quel lazzo, che metteva tanto di buon umore la platea, aveva tanto di barba da due o tre generazioni, più o meno riveduto e corretto, aveva rallegrato i pubblici ; qualche volta non aveva di particolare, di proprio, che qualche insignificante aggiunta ; spesso era tale quale da anni ed anni vedeva la luce della ribalta, di guisa che per gli spettatori non era che una vecchia conoscenza. Lo si sapeva a memoria e non lo rendeva geniale e gradito che la sapiente abilità dell'interprete.

Negli scenari o soggetti ì lazzi erano appena ac- cennati col loro nome : il lazzo di torna a bussare, il

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lazzo di lascia questo e prendi quello, il lazzo deW aquila a due teste (1), oppure il lazzo della circoncisione nel Finto Principe (2) ecc. ecc. Ma bastava il solo titolo del lazzo perchè lo Zanni lo svolgesse con tutto il suo brio : egli , però , quasi sempre , non faceva che ripetere con più o meno genialità un vecchio motivo (3).

Sebbene tutto ciò si sapesse, pure si riteneva gene- ralmente che la commedia a soggetto s'improvvisasse. Ne lo riteneva soltanto il grosso pubblico, quello che applaudiva dal lubbione ; lo ritenevano anche le persone colte. Il presidente De Brosses nelle sue Lettres sur r Italie (4), scriveva : " Cette manière de jouer à l'im- promptu., .rend l'action très-vive et très-vraie... Le geste et r inflexion de la voix se marient toujours avec le propos au théàtre; les acteurs vont et viennent, dia- loguent et agissent comme chez eux. Cette action toute autrement naturelle, a un tout autre air de verité, que de voir, comme aux Frangais, quatre ou cinq acteurs rangés à la file sur une ligne , comme un bas-relief, au-devant du théàtre , débitant leur dialogue chacun a leur tour. "

Qui si vede che il buon presidente francese giudicava dalla platea e che non aveva mai posto il piede su

(1) Perrucci; op. cit. p. 363.

(2) A. Bartoli ; Scenari Inediti.

(3) " E certo poi che a poco per volta andò quasi stereotipandosi nella commedia dell'Arte, " A. Bartoli; op. cit. p. LXXII.

(4) II; p. 254,

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d*un palcoscenico durante una faticosa prova della commedia a soggetto : egli doveva perfettamente igno- rare r esistenza dei repertori o zibaldoni dai quali l'artista attingeva in gran parte il suo spirito, la sua parlata facile, brillante, i suoi lazzi; di vero soltanto e' era eh' egli, il De Brosses, restava ammaliato dalla spigliatezza, dalla vivacità, dalla naturalezza del modo di recitare dei nostri commedianti , i quali pare che non rassomigliassero affatto ai comici del suo paese , freddi, compassati ed addormentatori di pubblici.

Ma il pregiudizio di cui abbiamo parlato guadagnava qualche volta anche lo spirito di coloro che vivevano della vita stessa dei comici della commedia dell' arte e ne conoscevano , quindi, i segreti ; difatti , il Ghe- rardi scriveva neW Advertisssment del Théàtre Italien ou Recueil general de toutes les comédies et scènes fran- caises jouée par les comédiens Italiens. " Qui dit co- médien italien dit un homme qui a du fond, qui joue plus d' imagination que de mémoire, qui compose, en jouant, tout ce qu' il dit, qui fait seconder celui avec qui il se trouve sur le théàtre e' est à dire, qu' il marie si bien ses paroles et ses actions avec celles de son ca- marade, qu' il entre sur le champ dans tous les mu- vements que l* autre demande d' une manière à faire croire à tout le monde qu' ils étoient déjà concertés " . Proprio così : a far credere che fossero concertati ! O i comici e questo lo sapeva bene il Gherardi non venivano in iscena dopo d' aver concertato la com- media e quando ciascuno di loro era sicuro della parte a lui affidata ? Ma insieme al Gherardi quel pregiu-

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dizio aveva guadagnato altri : Carlo Gozzi scriveva così : " Contemplo nella commedia improvvisa un pregio del- l' Italia. Lo giudico un trattenimento d' una specie af- fatto separata da quella delle rappresentazioni scritte o maturate. Animo i talenti colti a produrne di buone e regolate, e non appello con chiara sfacciataggine igno- rante plebaglia quell' uditorio , che vedo cogli occhi miei propri alla commedia improvvisa e alla premedi- tata essere il medesimo. Considero i valenti comici air improvviso molto più di quei poeti improvvisatori, che senza dir nulla, cagionano la meraviglia di quelle adunanze che l'affollano per ascoltarli (I). "

Ma già dalle stesse parole del Gozzi si comprende come la commedia detta improvvisa fosse ammalata , assai ammalata, quasi in fin di vita, ai tempi dell'au- tore delle Fiabe. E solo al letto degli infermi che i medici danno consulti.

Il Gozzi aveva un bel dare consigli ai " talenti colti " a produrre buone e regolate commedie improv- vise ; i tempi non volgevano più propizi a siffatto ge- nere di spettacolo, a cui lo stesso Gozzi con le sue Fiabe aveva voluto infondere, sebbene inutilmente, nuo- va vita.

(1) Opere; voi. I. Ragionamento ingenuo e storia sincera dell'o- rigine delle mie dieci Fiabe teatrali.

CAPITOLO TERZO

II contenuto della Commedia dell'Arte.

La commedia dell'arte fu per eccellenza una comme- dia d'intreccio, quasi sempre amoroso, per non dire addi- rittura sempre amoroso. Non sappiamo se sia stato da altri osservato ; ma la commedia d' intrigo è stata sempre la commedia dei popoli primitivi. Lo scrittore trova più facile il suo compito svolgendo dinanzi al suo uditorio la tela d' un' azione mediante una serie più o meno complicata d' avventure, anziché mediante una pittura di caratteri, uno studio di costumi, un'analisi di pas- sioni, una ricostruzione d' ambiente. Quest' ultimo lavoro richiede uno spirito d'osservazione, un' acutezza di mente, | una ricca messe d'indagini, un profondo studio del cuore umano che non possono riscontrarsi che nei com- mediografi di società più evolute dove quasi sempre il senso dell' analisi e dominante. Si nóirra facilmente da tutti ; ma non si scruta nel fondo dell' anima umana, non se ne riscontrano i segreti, non se ne rilevano le sfumature anche più delicate, non si riproduce un ca-

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rattere con nitidezza di contorni come sopra una lastra fotografica, non si fissa su d' una tela tutto un ambiente, non esclusi i particolari d'ordine più infimo, che da pochi ingegni eletti, diremmo quasi esercitati a noto- mizzare un* anima, un sentimento, una società. Si confronti Terenzio con Plauto : sebbene il primo non sia vissuto che poche dozzine d'anni dopo il secondo, pure il succedersi d' una o due generazioni, e quindi il mag- giore evolversi della società latina avvenuto nel frat- tempo, bastò perchè il poeta africano, a differenza del- l' umbro, si mostrasse meno incompleto nello studio dei caratteri e nell' analisi delle passioni, senza che la sua commedia cessasse per ciò d'essere una commedia di intreccio. La commedia dell' arte o a soggetto, venuta al mondo nella seconda metà del Cinquecento, cam- minando, quanto al suo organismo, sulle orme di quella letteraria, la quale, alla sua volta, s' era formata su quella latina, mantenne per tutta la sua vita codesto carattere : fu sempre d'intreccio.

La riproduzione comica della vita non fu studiata che dal lato della successione dei fatti attraverso i quali la vita stessa si manifesta. Lo spettacolo a soggetto fu una specie di cinematografo ; lo spettatore non era chia- mato ad assistere ad uno studio di caratteri, o di pas- sioni, o di costumi ; non gli s' impostava una tesi d' ordine morale, economico o politico per risolverla o sentirla risolvere ; no. Egli assisteva soltanto allo svolgersi di un' avventura più o meno comica, più o meno interes- sante. Quando il commediografo voleva accrescere l' in- teresse o la comicità della sua azione, non ricorreva ad

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un esame più diligente di caratteri o di passioni ; ma solo sovraccaricava d' avventure, d'episodi la sua azione, o meglio, parallelamente all' intreccio principale ne face- va correre un secondo, un terzo, magciri un quarto. Ciò, come si diceva allora, imbrogliava V azione, e ne accresceva l' interesse, Plauto e Terenzio, peraltro, non avevano fatto diversamente.

Neil' jìndria di quest' ultimo abbiamo una doppia azione amorosa ; quella del giovane Panfilo e di Gli- cerio, e l' altra di Carino e la figlia di Cremete. Lo interesse della conmiedia terenziana sta in questo : Si- mone, padre di Panfilo, vuol dare a questo in moglie la figlia di Cremete, mentre questa è amata da Carino e Panfilo ama Glicerio, una giovinetta forestiera e della quale s'ignora il casato. Si scopre che quest'ultima è figlia di Cremete e quindi di buona ed agiata famiglia, e cessa ogni ostacolo per contrarre matrimonio col figlio di Si- mone. Così sono poste in iscena due azioni, due amori due intrecci che si rincorrono, s' attraversano, s'aggrovigliano sino alla scena finale, dove un doppio matrimonio re- stituisce la calma e la felicità nel seno di due famiglie. Nella commedia dell'arte, come dicemmo, se l'autore sente il bisogno di rendere l'opera sua più densa di interesse , sovrappone un intreccio ad un altro intrec- cio ; le file della tela non corrono diritte, ma qua e si confondono ; ad un certo punto la matassa si arruffa in modo tale da riuscire quasi impossibile il tro- varne il bandolo ; ma un fortunato incidente, un'astuzia preparata bene e meglio condotta da un servo, o una scoperta opportunamente fatta rischiara il buio pesto

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che si è andato addensando intorno all'azione prin- cipale ; le cose ritornano al loro posto, la matassa non e più arruffata, ma si dipana quasi da se, e la tela scende sui personaggi tutti contenti come pasque.

L' intreccio è quasi sempre, se non sempre, amoroso, anche se duplice o triplice. Gli amori, in quest'ultimo caso, s' incrociano, si mescolano ; poi, al tocco della verga d* un mago, ogni amore riprende il suo posto e le nozze si celebrano. Ne le fanciulle, ne le vedove giovani e belle, alla fine della commedia, restano mai desolate : un tocco di marito lo trovano sempre. Qualche volta l'azione s'imbroglia in un modo incredibile. Negli Intrighi d'Amore (1), per esempio, l'azione non è ne duplice, ne triplice, o quadrupla ; è sestupla ; vi sono sei amori ; Lucinda ama Valerio ; Ubaldo aspira alla mano di Lucinda ; Ottavio, fratello non conosciuto di questa, ama la sorella ; Pasquella, cameriera, spera di farsi sposare dal vecchio Pandolfo, Colombina, altra cameriera, da Stoppino ; infine, il vecchio Ubaldo, non potendo ottenere Lucinda, vuol fare sua Pasquella. Ma per quanto l'intreccio s'aggrovigli, i mezzi che il commediografo adopera per destare l'interesse o accre- scere la comicità della situazione, sono sempre infan- tili, grossolani, d' una vis comica, che confina spesso col grottesco. Si direbbe che il commediografo non scriva che per un pubblico di grandi bambini o d'un popolo primitivo, grossolano.

Già abbiamo detto come l'azione si svolga gene-

(1) A. Bartoli; op. cit. p. 119.

ralmente sulla piazza o sulla via in un modo del tutto contrario alle leggi del verosimile, e come in un modo non meno inverosimile i personaggi entrino in iscena, s' incontrino, odano gli uni i discorsi degli altri, com- presi gli a solo, ed escano. Adolfo Bartoli (1), a que- sto proposito, scriveva : " I mezzi dei quali si serve {la commedia dell' arte) sono generalmente poveri e vol- gari. Per metterci sotto gli occhi le segrete furfanterie d* un uomo , si fa eh* egli stesso , in un soliloquio , le racconti al pubblico (2). Per far credere d' essere morti, si ricorre ad un sonnifero (3). Una donna pei suoi intrighi d' amore si finge muta e spiritata (4) , e spi- ritati si fìngono gli assenti ed i servi (5). " Nelle Tre Gravide (6) i mezzi che il commediografo impiega per svolgere Y intreccio sono addirittura grotteschi nella loro sconcezza. Le tre fanciulle costrette a nascondere la loro gravidanza, si dichiarano ammalate e per impedire che i medici scoprano il vero, il posto di quest' ultimi, con molte buffonate è preso dai loro amanti.

Nei ^re Becchi (7) , Valerio, amante di Lucinda, si fa introdurre in casa di questa dentro una cassa, che

(1) Op. cit. p. X-XI.

(2) Nel Pedante, di F. Scala.

(3) Nella Creduta ^Miorta e nei 'tragici successi, di F. Scala.

(4) Nei due Fidi Notati, di F. Scala.

(5) Nel Finto Negromante e nei Quattro finti Spiritati di F. Scala.

(6) A. Bartoli; op. cit. p. 149.

(7) A. Bartoli; op. cit. p. 165.

si- lo stesso marito di Lucinda , il vecchio Landolfo , aiuta a mandar dentro ; nell'ultimo atto, Lucinda, per mandar via di casa Valerio senza che Pandolfo se ne accorga, dice al marito che il suo ferraiuolo è tutto inzaccherato ; gliene alza un lembo : Valerio, nascosto da questo, scappa. Nella stessa commedia Colombina per far fuggire l'amante senza che lo veda il marito, mette in capo a costui un bigonciolo. Nella Finta ^Niotte di Colafronio (1), Zanni ha una collana, Pul- cinella gliela adocchia e pensa di rubargliela ; si ve- ste da diavolo e fa il colpo ; Cola , che in disparte ha visto tutto , si veste da Morte e mette le mani sulla collana, che Pulcinella, spaventato da quella ap- parizione, si lascia portar via : ma Pandolfo ed Ubaldo , che hanno assistito alla scena , si vestono da birri e fìngono di menare in prigione Cola ; questi lascia la collana e fugge. Nei Quattro Pazzi (2), quattro im- pazziscono per amore ; un mago sopravviene, sorprende i quattro matti nel sonno e mediante un suo sortile- gio li guarisce. Qualche volta la situazione dramma- tica con r introduzione del comico banale diventa grot- tesca : nella Cameriera dei manoscritti Croce della Nazionale di Napoli, due coppie d'amanti, ritenen- dosi falsamente vittime di reciproco inganno, si avve- lenano ; già sentono prossima l' ora estrema , quando Pulcinella che aveva preparato la pozione mortifera , interviene e spiega che nella terribile fiala egli non

(1) A. Bartoli; op. cit. p. 1 7 . (2; A. Bartoli; op. cit. p. 203.

!ACel Regno delle ^^aschere. 6

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aveva introdotto che della " pisciazza " . Grottesco ed indecente.

Un mezzo molto comune nelle commedie dell'arte sono i travestimenti : non sono quasi mai ingegnosi ; quasi sempre sono infantili ; il che conferma sempre di più il nostro concetto sulla ingenuità primitiva della trama della commedia improvvisa o a soggetto e del gusto grossolano degli spettatori di quel tempo. Nella %)edoVa Costante {]) , Isabella che ama Orazio, lo ritiene ucciso da Ottavio suo rivale, e giura di ven- dicarlo ; indossa abiti maschili e si fa soldato : ugual- mente si arruola nello stesso reggimento Orazio, anche lui travestito ; ma ne luna riconosce l'altio, ne questi quella , sebbene fra loro si stringa intima relazione. Anche Ardelia, che ama Orazio, senza esserne cor- risposta, si veste da uomo e si arruola nella compa- gnia d'Orazio, senza che questi la riconosca. Nel T^a- dre Crudele (2), Ottavio, che indossa il ferraiuolo e il cappello di Valerio, è scambiato per quest'ultimo, si busca così una schioppettata, fortunatamente, inno- cua , perchè Cola , che ha avuto l' incaiico di ucci- derlo , dimenticò , pel vino copiosamente bevuto , di mettere la palla nell'archibugio. Nella stessa comme- dia il vecchio Ubaldo per entrare senza essere rico- nosciuto in casa di Colombina , indossa abiti femmi- nili ; Zanni lo scambia per la stessa Colombina e gli fa lazzi di amore, infine , scopre 1' inganno e manda

(1) A. Bartoli, op. cit. p. 3.

(2) Id. op. cit, p. 3.

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via Ubaldo scorbacchiato e vergognoso. NeWIncauto ovvero r Inavvertito ( 1 ) i travestimenti sono diversi ; si travestono Cola ed Ottavio da magnani, lo stesso Cola e Stoppino da marinai. Nel (dedico Volante (2) Cola si traveste da medico per visitare Lucinda , ne esa- mina l'orina e spiattella una serqua di aforismi burle- schi. Nella stessa commedia Ottavio e Valerio per parlare con le loro innamorate si tiavestono da suo- natori. Neil' Onorata fuga di Lucinda (3) , la prota- gonista per raggiungere l'amante che l'ha abbandonata, si traveste da uomo, stringe amicizia con lo stesso Va- lerio, senza che questi dubiti del sesso del suo nuovo amico. Nei ^re pecchi (4) , Ottavio per introdursi in casa d'Ardelia, si traveste da mendicante. Nel Finto Principe (5), Cola mediante una certa radice datagli da un mago, può a suo talento trasformarsi in principe e da principe nel buffone di lui. Nei '^re Principi di Salerno (6) , Briseide e Rosetta si travestono da uomini , sono scambiate pei loro mariti , Lionello e Cola, ricercati dagli sgherri del principe regnante, ed uccise. Nei Quattro T^azzi (7) Giangurgolo e Cola, perchè il Capitano non sposi Lucinda , si travestono da birri e fingono d'essere mandati dalla comunità di

(1) A. Bartoli, p. 91.

(2) Id. p. 105.

(3) Id. p. 135.

(4) Id, p. n5.

(5) Id. p. 193.

(6) Id. p. 193. <7) Id. p. 203.

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Orbetello per arrestare il Capitano come ladro. Nel Giuoco della Primiera ( I ) , Pantalone ottiene da Co- viello la mano della figlia e quattromila ducati che dovrà riscuotere dal banco della " Simia ". Dispera- zione della ragazza, la quale ama Lelio figlio di Pan- talone : Zanni, servo, viene in aiuto degli amanti ; sa che Pantalone, suo padrone, deve andare a riscuotere la dote, si traveste con gli abiti di quest' ultimo , va al banco e ritira i denari ; poi, va da Coviello e gli dice che tutto sta bene e che affretti le nozze. Pan- talone, alla sua volta, va al banco, ne è mandato via come un truffatore, e corre a lamentarsene con Coviello , il quale ne resta meravigliato e gli fa osservare che poco prima gli aveva pur confessato d'aver ritirato la dote. Naturalmente, gli equivoci si dissipano e Lelio sposa la figlia di Coviello. Nelle T)isgrazie di Pul- cinella (2) , il Dottore promette la mano di Isabella sua figlia a Pulcinella, che sta a Napoli, e ne aspetta a Bologna l'arrivo per celebrare le nozze. Disperazione d'Isabella che ama Orazio e ne è riamata ; ma costui con l'aiuto d'un servo astuto si traveste da Pulcinella e si presenta al Dottore. Questi l'accoglie a braccia aperte, ne diversamente fa Isabella, la quale sotto la ma- schera dell'altro ha riconosciuto il proprio amante. Arriva Pulcinella, ma è accolto male, anzi è cacciato via di casa. Dopo diverse avventure, si teme che l' inganno si scopra, e Rosetta, la cameriera d' Isabella, si tra-

(1) Scenari di B. Luccatello della Casanatense di Roma.

(2) Scenari Croce della Nazionale di Napoli.

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veste e si spaccia per la moglie di Pulcinella ; è ac- compagnata dai figli, che vedendo il loro padre , gli fanno festa. Pulcinella protesta e dice che non ha mo- glie, ne figli ; ma le sue proteste come i suoi giura- menti non valgono a cambiare la sua posizione ; il Dottore minaccia di farlo arrestare , ed egli riprende la via di Napoli. E una serie di travestimenti la com- media le (Metamorfosi Pulcinella, del manoscritto della Comunale di Perugia. Il Dottore ha due figlie, che custodisce gelosamente in casa ; i loro innamo- rati , che vogliono entrare in carteggio amoroso con loro, non ne sanno trovare il modo. Coviello, servo di uno dei giovani, s'incarica di trovarlo lui, e consegna le lettere a Pulcinella, il quale , per entrare in casa del Dottore , si traveste in cinque o sei foggie , ma sempre inutilmente, sino a che Coviello, con un'ulti- ma invenzione, non arriva a far conchiudere le nozze. Altro mezzo di destare l' interesse e di provocare un facile scioglimento dell' azione, erano i riconosci- menti. Qui la commedia dell' arte scendeva in linea retta da quella di Plauto e di Terenzio. Come si sa, questi due ultimi ne fecero quasi il capo-saldo delle loro commedie nelle quali un riconoscimento era quasi sempre indispensabile. Nei Prigionieri del primo n' è la base ; neWEpidico, dello stesso autore, Perifane ri- nosce sua figlia nella schiava che il proprio servo ha riscattato ; nella Donna d'Andria, del secondo, Cre- mete riconosce sua figlia in Glicerio ; nel Punitore di se stesso, del medesimo Terenzio, Cremete ritrova sua figlia in Antifila ; un'altra giovinetta perduta e poi

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ritrovata, Panfìla, noi riscontriamo nell'Eunuco, ed in Formione il vecchio Cremete riconosce sua figlia in Fanio. Codesti riconoscimenti, che coronavano la fine d'una commedia, dovevano essere ricchi di emozioni pel pubblico, se essi dapprima a Roma repubblicana ed imperiale, e, poi, nell'Italia della Rinascenza e della preponderanza spagnuola, formarono ininterrottamente la delizia delle platee. Del resto, nel Cinquecento e nel Seicento, i fanciulli e le fanciulle rapiti da cor- sari e poi riscattati, non costituivano una reminiscenza di letture classiche. Sulle spiagge del Mediterraneo gli sciabecchi di Tunisi , di Algieri e di Tripoli da- vano una caccia spietata alle nostre popolazioni, men- tre a Venezia, con la protezione delle leggi, si com- pravano schiavi turchi predati dalle navi vittoriose della repubblica nei mari di levante. Erano, sopratutto, fan- ciulle tratte in cattività dopo l' espugnazione d' una città o d'un castello, o rapite da pirati lungo una riva, che davano così materia al nodo e allo scioglimento della commedia. Nel teatro latino , codeste fanciulle rapite si presentavano quasi sempre cadute nelle mani d'un lenone o d'una lenona, e col loro riconoscimento da parte dei loro genitori passavano dalla casa infame in quella d'un onesto cittadino, senza che questo im- provviso passaggio con la non meno improvvisa riabilita- zione morale stomacasse il pubblico ; nel teatro ita- liano, compreso quello dell' arte, alle fanciulle rapite o sperdute, non toccava sempre una sorte tanto triste ; non cadevano sempre nelle mani di lenoni e alla fine della commedia non passavano con la massima disin-

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voltura dal lupanare alla casa maritale. Nei T)ue Schiavi Rivenduti {\), Ubaldo ha fatto comprare due giovani schiavi di sesso diverso che alleva in casa e tiene a modo di figli, dopo che V unica sua figliuola insieme alla balia gli era stata rapita dai corsari. Essi si chiamano 1' uno Ali e 1' altra Armellina ; già s' a- mavano prima che fossero stati venduti ad Ubaldo, ed ora sono felici, perchè possono amarsi anche sotto il tetto del nuovo padrone. Se non che, il vecchio s'innamora della giovinetta, e vuole sposarla; ma questa ricusa, per- chè ama Ali : Ubaldo va in collera e si raccomonda al servo, Cola, per ottenere la mano della schiava. An- che Ali si raccomanda a Cola perchè il vecchio ri- nunzi alla mano di Armellina , e Cola che ha pro- messo il suo aiuto ad Ubaldo, lo promette ugualmente ad Ali. Intanto arriva il Capitano ; viene dalla Spagna ed è diretto a Tunisi per liberare un suo fratello fatto schiavo parecchi anni prima e colà condotto : vede Armellina e se ne innamora, rinunzia al suo viaggio e saputo che il vecchio Ubaldo, in seguito alle ripulse della giovinetta, la vuol vendere, risolve di comprarla. Ali , che a malgrado del nome turchesco è cristiano e si chiama Valerio, scopre che la sua compagna, la bella Armellina, è d'origine italiana ; fu rapita ancora bambina insieme alla balia dai pirati e condotta in Barberia, e con le indicazioni che gli Cola, sco- pre che è la figlia d' Ubaldo : la sua disperazione è al colmo, perchè se prima poteva sperare di far sua

(1) Bartoli ; op. cit. p. 43.

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Armellina, schiava , ora non lo spera più : essa e la figlia del proprio padrone. Ma la sua disperazione e breve ; arriva il momento dei riconoscimenti : il Ca- pitano ritrova in Ali il fratello perduto , il vecchio Ubaldo ritrova in Armellina la figlia rapita dai pirati e la in moglie a Valerio. Nel ^adre Crudele (I), Paldolfo, che ha perduto il suo unico figliuolo in un incendio, alleva presso di se ed ama come se fosse il proprio, il figlio di un amico, Valerio, che ama Lu- cinda, una giovanetta alla cui mano aspira il vecchio. Questi scopre i loro amori innocenti e caccia Vale- rio di casa. Intanto il padre di Lucinda s' impegna di dare la figlia a Landolfo ; disperazione dei due gio- vani ; se non che , dopo una serie di avventure tra- gico-comiche, si scopre che Valerio è figlio di Pan- dolfo, il quale non si oppone più alle nozze dei due giovani. Nella commedia l'/ncau/o, ovvero V Inavver- tito (2), nella protagonista è riconosciuta una fanciulla già rapita. Negli Intrighi d'Amore (3), Pandolfo ebbe rapito dai turchi il suo unico figliuolo ; ora ha con se una figlia, Lucinda , che vuole accasare. Questa è amata da Valerio, ma il padre di lui, Ubaldo, la vuol prendere lui stesso in moglie e ne ottiene il consenso da Pandolfo. Arriva Ottavio, il quale si è potuto li- berare dalla schiavitù in cui era caduto con la sua virtù, vede Lucinda e se ne innamora. Dolore di Va-

(1) Bartoli; op. cit. p. 73.

(2) Bartoli; op. cit, p. 91.

(3) Bartoli; op. cit. p. 191.

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lerio, che apprende che l'altro vuole impalmare la gio- vinetta da lui amata; Ottavio si adopera presso Pandolro per ottenere la mano di Lucinda, ne ottiene il consenso, ma la fanciulla continua ad amoreggiare con Valerio; il padre la sorprende alla finestra nell'atto che parla col suo damo ; la sgrida, ma Valerio lo persuade che si è ingannato. Ottavio, intanto, si crede felice, spo- serà presto Lucinda. All' incontro , Valerio è sulle furie; ma ecco, Pandolfo scopre che Ottavio è il pro- prio figliuolo ; il suo matrimonio con Lucinda è im- possibile e questa, in mezzo alla gioia di tutti, sposa Valerio. Nei Tre <^atti (ì), Ubaldo Lanterni, dopo diverse peripezie, diventa commissario dell'isola d'Elba; ha una figlia, che s' innamora del servo Orazio ; per amoreggiare liberamente si finge pazza , ma il Capi- tano che l'ha domandata in moglie, indica un medico per guarirla. Intanto, Ardelia , figlia di Fabrizio, sa- pendo che il proprio amante, Orazio, trovasi schiavo all' Elba , si traveste da uomo insieme a Colombina sua serva ed approda nell'isola recando il danaro ne- cessario per riscattare dalla schiavitù il giovane. Qui ha luogo una serie d' avventure strane ; ad Ardelia rubajio il denaro che porta ; intanto mercè una certa acqua portentosa che doveva guarire la pazzia di Lu- cinda, Ardelia, Colombina e Zanni amante di costei e lo stesso Ubaldo diventano matti : è stato un sem- plice equivoco , giacche invece di bere 1' acqua che restituiva il senno, bevvero quella che lo fa perdere.

(I) Bartoli ; op. cit. p. 237.

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Qui altre avventure , ma comiche ; infine , si scopre che Orazio è figho d'Ubaldo e sposa ArdeUa , Lu- cinda sposa Fabrizio fratello di questa, Colombina sposa Zanni. Anche in Commedia de! p. Adriani, Pan- talone riconosce nel Capitano un suo figliuolo.

Altra caratteristica della commedia dell'arte è il ru- more che fanno i personaggi sulla scena, specialmente alla fine del primo e secondo atto dell'azione col re- lativo panico e fuggi fuggi dei personaggi, anche per cose da nulla. L'azione, allora, diventa caotica, tutti gridano , gesticolano , si rincorrono o fuggono per la strada o si rinchiudono in casa. Spesso i personaggi si bastonano fra loro, si scambiano schiaffi, calci ; chi cade , travolge nella caduta il compagno o getta a terra chi arriva. Non cadono soli ; trascinano nella ca- duta anche i mobili. Quasi tutti codesti finali d'atti meno l'ultimo in cui con le nozze ritorna la calma non sono che scene di fracasso. Nello scenario : For- tuna di Flavio, dello Scala, leggiamo : " Arlecchino fa accomodare il banco da montare a vendere la roba ; poi Servitori vi mettono sopra la sedia, la valigia, poi chiama i compagni Gratiano e Turchetto vengono fuori dall' hosteria , montano tutti in banco ; Turchetto co- mincia a suonare e cantare ; in quello Flaminia alla finestra sta a guardare i ciarlatani ; in quello Burat- tino viene ad ascoltare ; in quello Franceschina arriva, si ferma per vedere : in quello l^antalone arriva, sa- luta Oratio e tutti si fermano a vedere. Qui Gratiano sopra la sua roba fa l'imbonimento, jìrlecchino il si- mile ; Turchetto suona e canta ; in quello Capitano

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vedendo Flaminia alla finestra subito la saluta ; Fran- ceschina saluta lo schiavo ; Capitano osserva Arlec- chino e lo riconosce per quello che aveva in governo la sua donna, Io tira giù dal banco ; Pantalone dice ad Oratio quello Capitano essere suo nemico ; Oratio caccia mano contro Capitano ; Capitano il simile ; ylr- lecchino fugge ; Capitano lo seguita e in quel mo- mento il banco va per terra, ognuno fugge a casa sua ; Pantalone e Pedr olino li seguono (1) ". Il finale del- l'atto secondo della Finta U^otte di Colafronio e in- dicato così : " Scena X. jìrdelia. Isabella, ^asquella. Zanni e Colombina. Ar delia chiama Isabella la- mentandosi del torto che riceve da lei benché povera vedova , mentre gli vuol torre Ottavio quale gli ha dato parola di sposarla : lei dice che sempre visse amante d'Ottavio siccome ella fu amante di Valerio ; Pasquella si duole con Colombina che le tolga il suo Pulcinella. Le padrone vengono agli schiaffi, le serve ai capelli, Zanni di mezzo sparte e finisce l'atto (2) ". Ecco il finale dei Due Schiavi l^ivenduti : " Scena XV. Ubaldo e Cola. Ubaldo viene con le gioie, vuole entrare in casa , sente un gran rumore , si rompono pentole ; diversi strepiti; esce {Cola) fuori con bastone, bastona il vecchio ed entra ; vecchio fugge (3) ". Nella stessa commedia la traccia della scena quinta dell'atto terzo è la seguente : " Cola si rallegra con Valerio

(1) Bartoli; op. cit. p. XII.

(2) Id. op. cit. p. 24.

(3) Id. op. cit. p. 50.

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che r invenzione cammina bene ; in questa rientra il Capitano e il servo, Cola bastona ; loro paura e fug- gono ^'. Ecco le due ultime scene dell'atto primo del Padre Crudele : " Scena VI. T^asquella e Colombina, vengono discorrendo insieme a ragionamenti amorosi, si domandano chi sia il damo , tutte dicono d'essere amanti di Stoppino dove alterate si azzuffano ; e in questo : Scene VII ; Stoppino e le dette. Entra di mezzo, e vuole intendere la causa della contesa, cia- scheduna la vuol dire, l'una non lascia parlare l'altra, di nuovo si danno, Stoppino frusta tutte e due, esse fuggono in casa ( 1 ) " . Negli Intrighi d' ylmore, Pa- squella e Colombina si tirano i capelli nel primo atto; si picchiano nel secondo ; Pandolfo bastona Lucin- da (2) ". NeW Onorata fuga di Lucinda, Valerio va a fare una serenata sotto la finestra di Ardelia , ma Pantalone, padre della ragazza, gli tira sul capo una pentola; Valerio e il suo servo, impauriti, fuggono (3). Nelle Tre Gravide, i tre falsi medici (Cocivola, Co- cilla e Birimbocciola) bastonano il vero medico (4); Colombina bastona Cola e il Capitano ; le tre gravide, fìngendosi spiritate, s'avventono sul vero medico e gli danno pugni e calci : quest'ultimo dice che sono ar- rabbiate e tutti fuggono. Nelle T)isgrazie di Colafro- nio , Cola è bastonato da tutti , da Fabrizio perchè l'ha messo in disgrazia di Lucinda, da Orazio perchè

(1) Id. p. 76-77.

(2) Id. p. 119.

(3) Id. p. 143.

(4) Id. p. 155.

V:>

r ha messo in disgrazia d' Ardelia, dal Capitano perchè gli ha sviato il servo (1). Nei Tappeti, Zanni travi- sato da diavolo bastona il Capitano, Pantalone e tutti gli altri personaggi che si trovano sulla scena ; tutti prendono la fuga e finisce l'atto secondo (2). Anche le donne maneggiano il bastone e mettono in fuga i personaggi. NeWylmante Geloso della raccolta Croce, Angiola e Vittoria bastonano Pulcinella e Coviello (atto secondo) ; nella Cameriera, della stessa raccolta, Florinda, per gelosia, bastona Angiola e qumdi Orazio suo amante perchè implora perdono per quest'ultima. Nella commedia dell'arte le trivialità e le sconcezze dal titolo passavano nel contenuto. Nelle Tre (gra- vide il Capitano è innamorato di Lucinda e Cola suo servo di Colombina : si presentano alle due donne, fanno la loro dichiarazione, ma sono bastonati ; le due donne msieme ad Ardelia, sorella di Lucinda , par- lano dei loro amori ; Lucinda ama Orazio ; Ardelia, Ottavio ; Colombina, Zanni servo d' Ottavio. Tutte e tre sono rimaste incinte ; temono d' essere scoperte, Lucinda e Colombina sopratutto, perchè hanno ap- preso che i loro amanti devono partire per Pisa senza che prima possano sposarle. Pandolfo, padre d'Orazio, difatti, ha imposto a suo figlio d'andare a fare i suoi scudi in quella città e Zanni deve seguirlo. Lo stesso Pandolfo, ch'è vedovo, domanda la mano di Lucinda, ma Ubaldo, padre di questa, non può subito accon- ci) Id. p. 255. (2) Id. p. 287.

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sentire alle nozze perchè la figlia è indisposta ; oc- corre che prima guarisca ; poi contentissimo di dar- gliela in isposa.

Il male della figlia progredisce ; progredisce quello di Colombina, la quale dice che ha dolori matricali perchè ha mangiato fave. Cresce col male l' imbarazzo delle donne ; Zanni si mette loro intorno e le con- siglia di non farsi toccare il polso dal medico, ne di mostrargli le orine; gridino che non vogliono esser vi- sitate da medici e fingano di esser spiritate. Il Capi- tano che s'è visto respinto da Lucinda, la chiede diret- tamente in moglie al padre , questi risponde che la ragazza è ammalata , ma 1' altro s' impegna di farla guarire, e corre per un dottore. I tre innamorati, Ora- zio, Ottavio e Zanni, travestiti da medici, si presen- tano , si presenta anche il medico chiamato dal Ca- pitano, ma i primi tre si mettono contro l'ultimo ve- nuto, che, alla fine, scappa. Nell'atto secondo, il Ca- pitano e Cola vengono in iscena vestiti da dottori e dicono che sono Esculapio e Galeno , vogliono visi- tare Colombina, ma questa li bastona. Torna il me- dico vero e visita le tre donne ; queste gridano, di- cono che hanno addosso gli spiriti, bistrattano il me- dico, il quale dichiara che tutte e tre sono arrabbiate. Si chiama un negromante ; questi arriva , ma non è che uno degli amanti, Orazio , il quale si chiude in camera con Lucinda per fare i circoli ; arriva Otta- vio vestito da mago e si chiude in camera con Ar- delia per preparare 1' incantesimo. Anche Colombina vuole un astrologo o un mago ; Zanni è pronto ad

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assumere tale qualità e si chiude in camera con Co- lombina. Il vecchio Ubaldo dice che anche lui va a chia- mare un astrologo per far guarire la sua mula. Nell'atto terzo , il Capitano e Cola vestiti da astrologhi pic- chiano alla porta d' Ubaldo ; vien fuori Zanni vestito da astrologo, chiama Ottavio ed Orazio e tutti e tre bastonano il Capitano e Cola, i quali se la danno a gambe. Ubaldo domanda ad Orazio se le donne sono spiritate e il giovane risponde che sono soltanto me- lanconiche perchè desiderano prender marito ; il che saputo il vecchio Pandolfo , dichiara ad Ubaldo che è pronto a sposare Lucinda. Questa è chiamata in- sieme ad Ardelia e Colombina e Ubaldo partecipa alla prima che Pandolfo ha richiesto la sua mano. Co- lombina protesta per le tre gravide, dice che il loro male non può essere conosciuto da astrologhi, ma da donne ; Ubaldo risponde che manderà a chiamare una levatrice. Imbarazzo delle tra giovani , si vedono già scoperte, ma Zanni viene in loro aiuto ; difatti, poco dopo, uno dei tre innamorati , Orazio , viene vestito da levatrice : vengono fuori le tre ragazze, e Lucinda con la fìnta levatrice rientra in casa. Arriva Ottavio ugualmente vestito da levatrice e con Ardelia si ri- tira in casa ; arriva parimente Zanni vestito da leva- trice e con Colombina si chiude in casa. Intanto, di dentro , Lucinda grida che finalmente il suo male è stato conosciuto ; viene fuori, Ubaldo le domanda che male e il suo, l'altra risponde che è gravida e 1' ha in- gravidata la levatrice. Il padre ride, ride anche Pan- dolfo. Orazio vien fuori in abiti maschili e dichiara

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che l'autore di quella gravidanza e lui. Lo stesso di- chiara Ottavio per Ardelia e Zanni per Colombina. Tutti allegri, quando piombano in mezzo a loro il Ca- pitano e Cola travestiti da levatrici offrendo i loro servizi, ma sono ringraziati e messi alla porta.

Negli Scenari di Flaminio Scala l'oscenità assume le forme più plebee, più stomachevoli. Nel %)ecchio Geloso , Burattino , ortolano , alla figliuola lezioni sul modo di maneggiare la zappa , un doppio senso sconcissimo che faceva sbellicare dalle risa le dame e i cavalieri che ascoltavano la commedia. Lo stesso Burattino, nelle Gelosie d' Isabella y chiamava Pedro- lino " signore impregnatore " ; sempre la stessa ma- schera, nella Caccia, prega tutti " che facciano poco! romore, perchè il medico possa meglio impregnare sua figlia "; nel Uecchio Geloso domanda a Pantalone " se| Gratiano avendo usato con sua moglie , egli può es- sere chiamato becco " ; nel Finto Negromante una gio- 1 vane domanda all'innamorato " se la sposerà essendo la gravidanza al colmo ". Nel Pedante , PedrolinoJ Arlecchino e Burattino " tutti e tre vestiti da beccai e da castraporci con coltellacci grandi in mano e una] conca di rame si accingono a castrare Cataldo pe-! dante". NelF/r?/oA^egroman/e, Arlecchino vomita "sfor- zandosi di far del corpo ". In un'altra commedia (1),

(1) É il Vecchio Geloso. Ecco come ne è indicata la scena : " Men-j tre si balla Isabella accenna a suo marito di voler orinare ; Pasquella subito con licenza di Pantalone la conduce in casa. Pantalone subito, per gelosia si pone alla guardia della porta ... Ognuno vorrebbe en- trare in casa Pasquella per fare qualche servizio, e Pantalone dice :

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durante una festa, la moglie di Pantalone si chiude per un certo suo bisogno in camera do\e già l'aspet- tava l'amante ; il marito , perchè la sua onesta metà non sia turbata in quella sua funzione fisiologica , si mette, di guardia, accanto alla porta : la moglie vien fuori, tutta rossa , sudata e gli abiti in disordine , e Pantalone, premuroso, le ricompone il vestito e con un fazzoletto le asciuga il sudore.

Che più ? 11 Perrucci, che neWArte Rappresenta- tiva s'ingegna ripetutamente di far comprendere ai co- mici come debbano eviteire nel loro linguaggio non solo ogni oscenità ma anche i doppi sensi palesemente immorali, nel proporre ai commedianti all' improvviso alcune forme di dire figurato o arricchite di tropi, gli mette sott'occhio i seguenti esempi tratti da commedie molto in voga ai suoi tempi ( 1 ).

A.) Con occulto sospetto di cosa oscena :

" Ma subito , Bertuccia mia , che la terra sia guasta per troppo scavarla ? ".

B.) Concedendo ciò che s'oppone.

FL. Ruffiano sfacciato...

TOC. Questa è l'arte mia, e non la niego.

FL. Non t'arrossisci di non mantener la parola ?

TOC. Se son ruffiano come vuoi che n'arrossisca ?

FL. Scellerato I...

TOC. Per guadagno, signor sì.

Di grazia, non andate a disturbare mia moglie, la quale fa un servizio... Vien fuori Isabella tutta sudata ; Pantoione subito la rasciuga col suo fazzoletto dicendole che quando le vengono quelle volontà che se le levi, e non patisca ". Scala, op. cit. pp. 2 1 -22. (1) Op. cit. p. 213.

!ACel Regno delle ^asehere 7

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C.) Con la vera sciocchezza.

" T^asquella. Fra le muraglie di questa rocca è sempre battuta la bellezza ; non posso muovere il piede ch'io non sia adirala. Se io vo in mercato , mi gridan dietro come s' io fussi l' immagine della Dea Venere : Oh che fa l'esser bella! Oh, come vi sono queste poppone, che paiono due zucche prataie ; vanno pazzi costoro di me ! ( 1 ) ".

D.) Rimprovero di serva al servo. " A me dunque far questo, Becco con tutto il resto ? Dunque, l'amasti tanto E il tanto sospirar è stato vano ? Mezzo cornuto e tutto ruffiano !

O razza di lumaca,

O cervo a paletta, razza di Lioncorno,

Già che fu la tua fé' per me di vetro.

Quello, ch'heù in testa, che ti corra dietro! (2)

E.) Rimprovero (di Pulcinella) alla serva, in dialetto napoletano.

" Ah, cana arrennegata , arma cotta ; accossì quanno credeva a la chiazza de ssa 'bellezza fare eo sportiello de gaudebilia, non solamente me vinne la rrobba contr' assisa , ma trovola chiù fraceta e stantiva ! Lo pane a ruotolo è divenuto palatella d'assisa, l'erve de le speranze so' mosce e nsocetute, lo vino de la grazia è spunto, sbolluto e ghiunto a Tacito ; li pisce de le mpromesse ne af archiate a la grotta de l'in- ganno, che pareno vive , fetono ; li frutte de li guste ammoruse pa- reno belle, e nce so dinto li vierme ; lo lardo de sa janchezza pare frisco e sa di scartato ; pe' parte de vetella de Sorrento trovo carne de vacca de cient'anne; lo caso è fraceto , le ricotte so acetizze , li frutte de mare che speravo di trovare chine, so' bacante pe' essere a la scolatura de la luna e dinto la pasticceria de ssa bellezza trovo pa-

(1) Op. cit. pp. 323-27,

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sticcie de inganne, pizze sfogliate de imbroglie... e sfogliatelle e mat- tonate de carne de ciuccio, de mosche... (1) ".

F.) Scherzi al vecchio innamorato.

" 1 cervi e i vecchi sono simili perchè nella vecchiaja aggravandosi la testa dei corni, non possono più innalzarla. I vecchi sono come le piante, che quando hanno per l'età pigliato la piega, non v'è peri- colo che si possano più raddrizzare (2) ".

Per riassumere : il contenuto della commedia del- l' arte non è superiore a quello delle farse che oggi si rappresentano nei teatri dialettali d'infimo ordine e dove la maschera rallegra ancora i pomeriggi e le serate della plebe. Pasquino, Pulcinella, Meneghino, Cassandrino, Gianduja , ancora fanno ridere coi loro lazzi, con le loro boccacce, con le loro trivialità, coi loro doppi sensi più o meno apertamente osceni in commedie, che come quelle improvvise d' una volta, hanno per base un' intreccio infantile ; soltanto codeste maschere, oggi, non fanno ridere che le serve, i guat- teri, i portinai, i rivenduglioli, insomma , un uditorio infinitamente plebeo , mentre le vecchie , quelle glo- riose del Cinquecento e del Seicento , facevano ri- dere dame gentili e cavalieri inappuntabili, nobili e gente di lettere, abati di spirito ed uomini di spada. Quale caduta !

Se qualcuno l'avesse predetto al nostro buon Per- rucci il domani della pubblicazione del suo libro, forse lo scrittore palermitano gli avrebbe gridato : IJa

(1) Op. cit. p. 297.

(2) Op. cit. p. 305.

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retro, Satana ! Per sua fortuna, quando egli morì, la commedia dell'arte era ancora piena di vitalità ed egli potè portar seco nel sepolcro la convinzione che quel genere di spettacolo avrebbe sempre costituito una delle glorie più pure e meno discusse dell' Italia nostra.

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CAPITOLO QUARTO

I Personaggi della Commedia dell'Arte

Certamente l'attrattiva maggiore della commedia del- l'arte non deve cercarsi nella orditura della comme- dia stessa, ma nei suoi personaggi, anzi , nelle Ma- schere. Chi , per altro , diceva commedia dell' arte, diceva maschere : era impossibile immaginare 1' una senza le altre ; se lo scenario costituiva l'ossatura, lo scheletro della prima , le maschere n'erano il sangue e le carni ; n'erano, anzi, 1' anima. Senza queste ul- time , probabilmente , la commedia a soggetto non avrebbe fatto il giro di tanta parte d' Europa e 1' I- talia avrebbe avuto una gloria letteraria di meno.

Esse, più che caratteri , rappresentavano tipi , che lo scrittore comico e l' artista resero quasi immobili, quasi condannati a muoversi inesorabilmente dentro li- miti tracciati dalla tradizione e dall'arte stessa e senza che nessuna delle tante sfumature che presentano i ca- ratteri umani modificasse, meno casi rarissimi, una sola piega del loro volto. La stessa maschera che copriva

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il viso dell'artista, contribuiva, con la sua immobilità, a rendere non meno immobile il tipo che la medesi- ma rappresentava. Qualche volta cambiavano i parti- colari, ma il personaggio rimaneva sempre lo stesso, fisso , rinchiuso diremmo quasi nella sua cristallizza- zione. Pantalone poteva cambiare professione o me- stiere. Arlecchino, o Pulcinella , poteva per un mo- mento nascondere la sua livrea di servo , ma il suo carattere non variava d'una linea.

Fra i personaggi principali o maschere della com- media dell'arte prendevano posto i %)ecchi. General- mente i vecchi erano due, ma non portarono sempre e dappertutto lo stesso nome. Furono però più cono- scinti r uno sotto il nome di Pantalone e 1' altro di Dottore Graziano o semplicemente di Dottore. Negli Scenari dello Scala c'è Pantalone ; in quelli editi dal Bartoli codesti due nomi non figurano che di rado; nel T)ottore Bacchettone, che crediamo anteriore e quindi non una derivazione del 'tartufo del Molière (1), il dotr,

(1) carattere del bacchettone è vecchio nella commedia italiana. Scomparso o quasi, nel Seicento, durante 1* infierire della reeizione cat- tolica, riapparve sulle scene nel Settecento col Gigli, toscano. Nel li- cenzioso Cinquecento Pietro Aretino intitolò dall' ipocrita una delle sue commedie, la quale, certamente, fu conosciuta dal Molière. Scrive un francese : " Le personnage principal de la comédie de Lo Ipocrito a de commun avec Tartuffe, non seulement l'hypocrisie, mais ancore la gourmandise et la sensualité. 11 emploie les mémes moyens pour conquérir son prestige et son influence : simagrées pieuses, humilité feinte, jargon de la dévotion. 11 est place dans un milieu pareil, au sein de la famille oìi il exerce une autorité dangereuse ". Moland, Molière et la Comèdie Italìenne; Paris, Didier et C. 1 867, p. 222.

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tore si chiama appunto Graziano; ma è bacchettone, don- naiuolo e strozzino; Pantalone figura nella stessa com- media, nei Tappeti, e poi in nessun'altra. I %)ecchi si chiamano Pandolfo ed Ubaldo ; Pantalone ricompaire negli Scenari del Luccatello, ma scompare , o quasi in quelli della raccolta Croce, tutti composti o rima- neggiati a Napoli, dove la maschera, d'origine vene- ziana, perdeva, per così dire , la sua nazionalità per quella napoletana diventando Giangurgolo , o Pasca- riello, o Tartaglia.

I %!)ecchi , per altro , sono sempre i genitori della coppia amorosa ; gridano, ammoniscono, fanno mostra di molta severità, lodano i tempi antichi e bistrattano i presenti; i| che non impedisce loro d'innamorarsi, qualche volta , d'una giovinetta o d' una vedova , e qualche altra di sposare la serva ; ma sono sempre burlati se fanno i galanti , e il loro rigore di padri burberi ed inaccessibili ai sentimenti gentili sfuma di botto quando il sipario sta per cadere sull'ultima sce- na della commedia. Ma gli Ubaldi , i Pandolfi ed altri simili, come i Giangurgolo, i Tartaglia, non ebbero che una celebrità relativa, forse appena regionale; gli immortali, coloro che scrissero a caratteri d'oro il loro nome nelle pagine della storia dell'arte comica furono Pantalone e il Dottor Graziano.

Sebbene appartengano l'uno a Venezia e l'altro a Bologna, pure s' è voluto dar loro un' origine remota, assai remota ; il loro capostipite sarebbe stato il Senex della commedia latina. Non diciamo che più d' un punto di rassomiglianza non esista fra le due maschere

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italiane e i X)ecchi del teatro di Plauto e di Teren- zio ; per esempio, Pantalone che soffre di mal d'amore e il Dottor Graziano che fa il galante a Colombina o a Pasquella potrebbero benissimo trovare un riscontro non forzato, non stiracchiato, ma naturale, nel vecchio Stalinone della Casina, di Plauto, che vuole ottenere i favori della schiava : del resto, un vero Don Gio- vanni con gli acciacchi della vecchiaia in di più co- desto Stalinone , il quale , nella scena terza dell'atto terzo, scioglie un inno all'amore, che tradotto in ve- neziano o in bolognese, oppure in napoletano avrebbe potuto trovar posto fra le Prime Uscite dei X)ecchi d'una commedia dell'arte.

Nel mondo

Cosa v'è più splendido e leggiadro

Dell'Amore? Che cosa ricordare

Si potria, più piacevole e gustosa ?

Meraviglio che tanti condimenti

Usino i cuochi e non usin quell'uno

Che ogni altro avanza. Quando in una cosa

V'è un condimento d'amore, a ciascuno

Piace di certo ; e per contrario nulla

Può essere soave e saporito

Quando l'amore non v'è misto. Il fiele,

Che tanto amaro, fa diventar miele,

E l'uom da triste, disinvolto e lepido.

{Trad. di G. Finali)

Ma tolti pochi punti di rassomiglianza, dovuti na- turalmente alla circostanza che tanto i comici latini quanto gli italiani non crearono che lo stesso tipo o

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carattere, e quindi con esso riproducevano tutte le debolezze che sono comuni ai vecchi di tutti i tempi, le due maschere della commedia a soggetto hanno una fisonomia tutta loro propria ed eminentemente ca- ratteristica perchè si possano ritenere una semplice ri- produzione di quelle della vecchia Roma. Esse , di- fatti, rispecchiano, sebbene in caricatura , che spesso tocca il grottesco , le debolezze , i difetti, i vizi dei vecchi della società italiana dei secoli XVI , XVII e XVIII : severi coi figli, partigiani della più assoluta autorità paterna in famiglia , mariti burberi, essi fini- scono sempre col cedere ai desideri dei figli , o col secondare i capricci delle mogli ; bacchettoni , colli- torti, ossequienti a preti e a frati, tutti chiesa e con- fessionile, di nascosto professano una morale comoda, assai comoda , e trovano il tempo e il modo d' inta- volare uu intrigo galante , di prestare il denaro ad usure fenomenali o di perderlo in una bisca o nel- l'alcova d'una donna ; memori dei peccati e dei di- fetti della loro giovinezza, ora, nella vecchiaia , vor- rebbero ripeterli ; la qualcosa , forse , spiega perchè finiscono sempre col dar ragione ai giovani e perdo- nare ai loro trascorsi. Di caratteristico , di regionale, codeste due maschere hanno questo : in Pantalone, nella persona del quale s' incarna il mercante vene- ziano , stitico , avaro , facile ad innamorarsi come a ciarlare, si riscontra spesso l'uomo prudente , la per- sona dai buoni consigli, giacche , allora , i veneziani erano in fama di diplomatici accorti , tanti Machia- velli trapiantati dalla terra di Dante in quella di San

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Marco ( 1 ) ; nel Dottor Graziano, ch'è bolognese (2), si riscontra la sapienza e l'erudiizione , perchè Bono" nia docet ; se non che, la sua sapienza e la sua eru-

(1) Ferrucci, op. cit. , p. 245. Era naturale che si volesse cono- scere Y origine del nome di Pantalone. Chi scrisse che derivasse da pianta-leoni, poiché i veneziani, nelle terre da loro conquistate, met- tevano in marmo, come segno del loro dominio , la loro gloriosa in- segna : il leone di S. Marco ; altri lo derivò da un nome molto usato, almeno nei tempi andati, a Venezia : Pantaleone.

(2) Come Pantalone fu detto dei Bisognosi, il Dottor Graziano fu detto Balanzon. Qualcuno pretese che prima d' assumere quest'ultimo nome, ne avesse un altro, Baloardo. Quello di Balanzon pare che lo abbia preso nel 1570, quasi derivandolo dalla professione che eserci- tavano i comici di quei tempi prima di salire le scene. Erano quasi tutti ex saltatori, ex ballerini. Corrado Ricci (/ 'teatri di Bologna nei ' Secoli XVII e XVIII; Bologna, succ. Monti, 1888) però crede che venga da balla (frottola). Il Sarti (// 'teatro Dialettale bolognese; \ Bologna, Zanchelli, 1895, p. 142) opina, invece, che venga da ba- \ lama (bilancia), emblema della giustizia. Sulle origini delle maschere

e dei loro nomi, si può veramente ripetere : tante teste, tante sentenze. Però anche il teatro greco conobbe un personaggio quasi simile al Dot- tore bolognese, cioè, un personaggio dai discorsi senza costrutto. In una commedia di Sofrone un retore fa discorsi spropositati, in un'altra : di Epicarmo un filosofo della scuola d'Eraclito spiega balordamente la '■ teoria della perenne trasformazione d'ogni cosa. Di qui le varie deri- ' vazioni : il Socrate delle Nubi, l'Euripide degli Acarnesi ed altri per- sonaggi del teatro aristofanesco. Secondo il Sarti l'inventore della ma- : schera del Dottor Gratiano sarebbe stato Luzio Burchiello , il quale sottoscrivendosi Lus Burchiello Gratià , aveva preso ad imitare un vecchio barbiere detto Gratiano delle Cotiche. Del resto, lo stesso Sarti cita diverse lettere di comici fioriti nella seconda metà del Cinquecento che si firmavano : Dottor Qratiano dei Gelosi (la famosa compagnia comica), oppure : Comico Andreazzo Gratiano o Dottor Gratiano Scarpazon. (Op. cit. p. 135).

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dizione sono vecchi e muffiti (ondi di magazzino messi insieme a casaccio da una mente squilibrata e non meno a casaccio posti fuori da una bocca ciarliera. E la caricatura del dottore bolognese.JLaonde, scrive il Ferrucci ( 1 )^ è "un Dottore ciarlone che non fa respirare chi seco parla toccandosi in ciò il difetto di alcuni letterati, che non voglion far fare una base la loro compagno , per dimostrare che v' è farina nei

sacco ",

Dal libro dello stesso Ferrucci togliamo unVesempio. òìjConsigtio e un altro df^ersuasiva che ci daranno un idea del linguaggio che si metteva in bocca a codeste due maschere. Il Consiglio e in dialetto ve- neziano , e parla Fantalone ; la Persuasiva e in dia- letto bolognese alquanto italianizzato per comodo degli spettatori non nati all' ombra del tempio di San Pe- tronio, e parla il Dottore.

" CONSEGUO.

" I antighi Egizii, Ezzellentissimo Prinzipe, volendo mostrar un ze- rogrifico del conseggio , i fava un Pluton con el Zimier in sol cao, che robava Proserpina, in sto muodo volendo dir che chi vuol far acquisto de la ocasion el ghà d* aver custodìo el cao del zimier del conseggio ; chi vuol raccoger el fruto da quel chi ha seminao s'è ne- cessitae che se vaia del semenaor del consegger per cogmosser el tempo che sia ben a farlo. Chi vuol alzar l'edifìzio della Politica, el se ser\à del fondamento della rason, perchè senza questa anderà per tera tutta la rnachma. El comandar a la orba un voler cascar dentro un fuogo de disgrazie ; per non star a scuro bisogna haver el moccolo del giu- dizio. El bisogno che el timon governi 'a gal;a del Regno, per no

((ly'Op. cit. p. 245.

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dar into i scoggi e inte le secche d'un mar pericoloso, le cui aque so avelenae da le bisse delle turbolenze, e no se fa chiare, che col corno del Lioncorno. E el cavai del Governo non anderà mai dreto se noi vien governao dal cavezon del consulto. Fa ben donca Vostra Zelenza come Pluton a servirse del Zimier del conseggio, come terà a servirse del semenaor del conseger, come edifizio a fabbricar sora el fondamento de la Prudenza. Fra la scuritae servirse del nostro mocolo per non andar a taston ; come Galìa a tior da drio el nostro timon de la acutezza ; come Lioncorno a scarzar col nostro corno de la Providenzia el Velen de le oculte trapole ; e come cavai a farse rezer dal cavezon del saver d'i soi(l)".

" PERSUASIVA ALLO STUDIO.

" L'è rhom al mond senzi al saver sicul asinus sine capistro. perchè se ha el cavezon, chi el mena per la strada de la virtù, el va a scave- zacol al prezipiz. L'è appunt sicut porcus in luto, che se non s'ingrassa col beveron de la Dutrina, el non sarà bon per ingrassar la minestra de la conversazion ; al l'è un papagal int'al bosc eh' al non articutat verba; de muod che se dal maestr non l'è post int la gabbia, e vien ammaistrà ad articolar i azzient, non c'è pericol che sippa ne gotta. A l'è al boja mal prattic che non savendo struzar la ignoranza, al se espon al pericol de le sassà del popol. Voi mi per tant che ti set l'asin, ma col cavezon meae disciplinae ; el porc, ma col beveron de mi document ; el papagal, ma che sippa reddere voces ; el boja, ma praitic che ti possa iugulare igno^ rantiam. Perchè di ti non si possa dir as/nus ad liram, porcus inter glan- des, psittacus in nemore et carnifex in furcis, ma asin cargà de sapienza, porc gras de dutrina per ingrassar le pentole dell'Accademia, papagal int' la gabbia de la Corte per saper adular el prossimo, e boja del pu- blic, per struzar l'ignoranza, haved i applausi da i ragazzi, e così ti sarat el l'asin d'or d'Apulejo, ch'era asin ma filosof, el porc d'Enea, ch'ai fu f prognostic del regni , el papagal che diss ad Ottavia : Ave , Caesar [ Imperator, ed il boja de tedesc che l'avent tajà più melone, al diviè

(I)) Perrucci, op, cit. p. 247.

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Cavalier. In sto muod ti sarat e l'asin, el porc, el papagal, el boja, e mi el cavezon, el beveron, el maest e la forc per fari prattic int al me- slier (1) ".

Il Cecchini, che come comico acquistò una grande notorietà recitando nella parte di Frittellino, nei suoi Fruiti ecc. , scriveva a proposito della maschera del Dottor Graziano : " La pcute del Dottor Gratiano tanto grata a chi l'ascolta (quando vien fatta da chi l'intende) vien hoggi dal poco conoscimento d'alcuni adulterata in guisa , che non gli vien lasciato altro, che 'l semplice nome. Ditemi, e chi è quello il quale possa trattare senza sdegno con uno che essendo tu Pantalone, ti dica : T^antalimon, T^etulon, Pultranzon, e peggio?... Un'altra spetie Grationatoria si è ritro- vata, ed è che pensando questa di correggere T uso del parlar rovescio (2) , si è posta a dir motti latini e sentenze tirate.... in guisa che non lasciando mai parlare chi seco tratta, confonde e snerva il filo della favola ". Ed aggiunge : " Costumano i nostri comici italiani di servirsi per consigliere del prelibato signor Gratiano il quale... principio al suo discorso con una : Sacra Cremona, o vero : Sacra Carlona, o Sa-

(1) Ferrucci, op. cit. p. 269.

(2) Il Ferrucci scriveva: " Molti anni sono s'introdusse un modo di recitare da Dottore che stravolgea i vocaboli, v. g. TerribiI Orinai per Tribunale ; Amerigo piega la groppa all'asino per dir l' America, l'Africa, l'Europa e l'Asia, e così si cavava la risata dal nome storpio... Ma per- chè si conobbe far il Dottore da troppo semplice balordo, si è disusato... lasciando al dottor Graiziano la dottrina soda ed erudita, ma accompa- gnata dalle dicerie lunghissime ". Op. cit. p. 254.

no

lada Menestra ". E sempre lo stesso Cecchini seri- | veva : '' Per rappresentare... questo così gratioso per- sonaggio direi che quello che si dispone di portarlo in scena, si formasse ben prima l'idea di tal huomo, !' il quale voglia essere moderno al rispetto dell' anti- i chità e che a tempo mandasse fuori sentenze spropo- sitate quando alla materia , e sgangherate quanto al- Tespressura, il condimento delle quali fosse una lingua bolognese in quella forma eh' ella vien esercitata da chi si crede non si possa dir meglio, et poi di quando in quando lasciarsi (con qualche sobrietà) uscir di bocca di quelle parole secondo loro più scelte , ma secondo il vero le più ridicole che si ascoltino; come sarebbe a dire : interpretare per impetrare, urore per terrore, suolari (credendo di parlar toscano) per scuo- ■. lari .... Bisognerebbe anche talvolta dar di piglio a qualche materia sciocca , triviale et molto ben cono- sciuta, et quindi mostrare o fìngere di credere ch'ella sia la più curiosa, la più nova et la più incognita del mondo : onde senza dar punto segno di ridere darsi a credere di ha ver fatto stupire (1) ".

Un' altra_maschera__era__quelljL^^^ d^^^ Capitano. Era costui rappresentato come un soldataccio spaccone, va- naglorioso, bugiardo, tagliacantoni a parole, ma sem- pre pronto a pigliar pugni calci e colpi di randello. Era sempre innamorato, di maniere esagerate, galanti e cerimoniose con le donne, le quaH lo pigliavano,

(1) Frutti delie moderne Commedie et Avviso a chi le recita. Pa- dova, 1628.

s' intende, in giro, dichiarandosi ostinatamente insensibili alle sue appassionate proteste d' amore, ai suoi sma- glianti galloni, alla sua formidabile durlindana, ai suoi baffi dalle punte fieramente rialzate, al suo largo cap- pello enormemonte carico di piume. Era una specie di don Giovanni - guerriero imbottito di tutte le più ardite, le più strampalate, le più sgangherate metafore foggiate, nel Seicento, in Italia e in Ispagna. Anche questa maschera , come Pantalone , come il Dottore, si presenta col suo albero genealogico, che mette capo ai soldati millantatori del teatro latino, al famoso Miles Gloriosus, di Plauto, e all'altro (Trasone) un po' meno famoso, deir Eunuco, di Terenzio. "_jE._ ^^^^sta una parte , scrive il Perrucci ( 1 ) , ampollosa di parole e di gesti, che si vanta di bellezza, di grazia e di ric- chezza ; quando per altro è un mostro di natura, un balordo , un codardo , un pover' uomo , e matto da ' catena, che vuol vivere col credito d' essere tenuto ; quello che non è , dei quali non pochi si raggirano nel mondo (2) ".

(1) Ferrucci, op. cit. p, 274. /

(2) I caratteri che il Perrucci riscontra nel Capitano dei suoi tempi, si riscontrano ugualmente nel Miles plautino (atto secondo) :

" Borioso, svergognato, Vile, pien di menzogna e d'adulteri ; Si vanta che lo seguono bramose Tutte le donne ; in ridicolo è messo Da tutti e ovunque vada ; però qui Le meretrici in farne tanto scherno Colle labbra, vedrai la maggior parte Colla bocca contorta "'

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Codesta maschera, tra la fine del Cinquecento e il principio del Seicento, fu quasi rifatta da cima a fondo da uno dei più grandi attori della commedia dell'arte, e precisamente da quel Francesco Andreini che in-

Ed una cortigiana ne fa quest'altra pittura (atto terzo) :

" .... a tutti egli è antipatico, Millantator, ricciuto, porcellone, Profumato.... ".

Lo stesso ^^iles si descrive così (atto quarto) :

" .... In me non nacque mai L'avarizia | abbastanza ho di ricchezze. Non fo per dir, ma di fìlippi d'oro Ho mille moggia .... . . . . O donne, io nacqui Il giorno dopo che Opi partoriva Giove.... ".

Del resto, anche sulle stesse scene greche, cercando bene, si potrebbe ritrovare il progenitore del Capitano nell'Atleta, che poi si trasformò nei goldati dai nomi altisonanti, come nel nostro Seicento: uno di codesti bra- vacci, nel Filippo, di Mnesimaco, diceva come un capitan Rodomonte o un capitan Terremoto qualunque :

" Sai tu con chi devi azzuffarti ? Noi Mangiamo a pranzo spade acuminate. Fiaccole ardenti trangugiamo a cena ;

E dopo il pranzo

Metto in tavola cuspidi cretesi Per frutta, a mo' di ceci, e troncon' franti Di lancia ; e per guanciali usiam corazze, E il fronte inghirlandiam di catapulte ".

(Le Commedie di Aristofane, trad. da E. Romagnoli; Torino, Bocca, 1909. Introd. p. 6).

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sieme alla moglie, rattrice-poetessa Isabella, abbiamo visto essere splendido ornamento della commedia a soggetto. Ritirandosi dalle scene, TAndreini compose e pubblicò a Venezia un libro intolato : Bravure del Capitano Spavento divise in molti ragionamenti in for- ma di dialogo. Le Bravure erano i discorsi o le Tirate del Capitano del genere di quelle ^rime Uscite, di quei Saluti, di quei Consigli e di quelle Persuasive che il Ferrucci più tardi doveva scrivere pel suo libro suWArte ed altri pei loro Zibaldoni.

Se non che, le Bravure dell' Andreini sono dialogate, e non in forma di soliloqui , giacche oltre la parte del Capitano c'è quella del servo o scudiere di que- st'ultimo, ch'era sempre rappresentato da uno dei due Zanni della compagnia, quello sciocco. Battezzò an- che l'Andreini il Capitano da lui rappresentato sulle scene con un nome particolare, che divenne quasi si- nonimo di quello dell'attore. Egli lo chiamò Capitan Spavento, anzi , Capitan Spavento di Valle Inferno. Aveva avuto prima, ed ebbe dopo , altri nomi, tutti reboanti, tutti terrificanti: capitan Rodomonte, capitan Matamoros , capitan Coccodrillo , capitan Terremoto, capitan Spezzaferro, capitan Spaccamonte, ecc. Anche il Miles Gloriosus, di Plauto , porta un nome da far venire la pelle d' oca : Pirgopolinice (distruttore di città) ; ma il Capitano dell'Andreini, oltre quello di Spavento, aveva altri nomi : capitan Aviarasche , ca- pitan Diacatolicon , capitan Leucopigo , capitan Me- lampigo. Questi ultimi nomi , certamente , erano pel pubblico scelto, per gli eruditi, per gli studiosi, per i

\"e/ regno delle v^aschere. 8

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membri di quelle cento e cento accademie che al- lora formicolavano nella penisola. Pel grosso pubblico del lubbione codesti nomi dovevano riuscire più oscuri di un indovinello. Lo stesso Andreini s' affretta, nel suo libro, a spiegarli : " Diacatolicon vuol dire capi- tano universale, capitan Ariarasche vuol dire principe della milizia , capitan Melampigo vuol dire capitan Cui bianco ".

In codesta maschera , ai nostri tempi, si volle ve- dere una caricatura o una satira feroce del soldato spagnuolo che tra il sorgere e il tramonto della Com- media dell'arte, spadroneggiò in quasi tutta Italia. Pos- sibile; giacche la commedia, anche quella più obbe- diente alle tradizioni letterarie, anche quella più pe- destremente seguace di vecchi modelli, non può fare astrazione dai tempi in cui vive e dagli uomini a cui deve parlare. Del resto, i soldati del Seicento, anche italiani , non erano fior di cortesia. Più che soldati, erano dei bravacci professanti un' arte che alla gente onesta di quei tempi sembrava semplicemente da mal- fattori. Ecco come il Garzoni ne parla : " Quest'arte

{militare) ci insegna a tessere inganni , a mettere

aguati, a usar diversi stratagemmi contro l'inimico.... a spogliar chiese e saccheggiare città, a spiantar ca- stella.... a conculcar leggi, adulterar matrone, stuprar vedove, rapir donzelle. Attende per lo più massima- mente ai nostri tempi a questo fine di farsi nome di minatori del mondo e valorosi omicidi e trasformare gli uomini in usanze di fiere e costumi di bestie. Però la guerra par che non sia altro che un comune omi-

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cidio... I titoli di molti sono questi : ladroni, guasta- tori , raptori , stupratori , ruffiani , puttanieri, adulteri, traditori, sagrileghi, manigoldi, giuocatori, bestiammia- tori, assassini , corsari , incendiari , tiranni et altri si- mili... Tutti questi ditetti chi gli vuole imprimere in una parola dica : soldati moderni (1) ". Ma comunque sia, e certo che la maschera è più vecchia della do- minazione spagnuola in Italia, anche perchè essa trovò le sue origini nel teatro latino , la cui resurrezione nella seconda metà del secolo XV non poteva re- stare assolutamente estranea alla creazione dei carat- teri della commedia italiana tanto letteraria quanto air improvviso , senza tener conto che essa prosperò anche in luoghi, specialmente a Venezia, dove non arrivò ne la signoria, ne l' influenza politica spagnuola. Non neghiamo però che qualche tratto più o meno caratteristico di questa maschera non sia stato preso dal soldato spagnuolo ; se non che, a siffatta deriva- zione, non bisogna dare molta importanza, se i con- temporanei non la videro, e se ebbero, anzi, la pre- mura di distinguere la maschera del Capitano italico da quella del Capitano spagnuolo. Erano, queste, due maschere diverse, sebbene fra loro avessero parecchi tratti comuni. 11 Ferrucci (2), che pur doveva saperne qualche cosa, scriveva che la parte di Capitano bravo " molti autori.... per lo più forestieri.... la praticano

(1) La 'Piazza universale di tutte le professioni del mondo; Ve- nezia, 1614, p. 637.

(2) Op. cit. p. 293.

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\ per deridere i napoletani vanagloriosi. " Altro che caricatura di soldati spagnuoli! La satira o caricatura che dir si voglia, sarebbe quindi non d' un carattere straniero, ma paesano. Lo stesso Ferrucci , scrivendo per gli attori le bravure da recitarsi, poneva cura, nel foggiare quelle del Capitano spagnuolo , di farle di- verse da quelle del Capitano italiano , e scriveva : " Quando si fanno (le bravure) in spagnuolo, bisogna farlo con decoro, perchè questa Nazione per ogni verso gloriosa, non patisce esser derisa come non lo soffrono le altre (1), facendosi deridere i Napoletani per scioc- chi e linguacciuti ; i Bolognesi per ciarloni ; i Fran- cesi per ubbriachi ; i Siciliani per garruli e conten- ziosi, i quali non si alterano anzi ne godono. Ma Io Spagnuolo ride nell* ascoltare le bravure; ma non vuol vedere nella parte, benché fìnta d'un soldato, codar- die ". E volendo dare un saggio di una bravura spa- gnuola fatta con " decoro ", cioè, senza buffonate e trivialità, presenta in lingua spagnuola la seguente

bravura spagnuola (2) :

" Non sapete chi sono ? Non avete visto il bagliore di questo braccio che ha vinto Firro , Annibale , gli Scipioni, Marcello, i Fabi, Alessandro e sino Ercole ?

e 1 ) Qualche volta il povero comico le pigliava sul serio dagli spagnuoli senza che la sua durlindana da palcoscenico servisse a qualche cosa. Il Croce ricorda un disgraiziato Capitano che a Pesaro fu bastonato a morte da alcuni uffiziali spagnuoli, (Saggi, p. 242, n.).

(2) Per maggiore comodità dei lettori la riproduciamo in italiano.

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Prode in campo aperto, negli assalti, nelle difese, ho ammazzato, scannato, devastato, distrutto, incenerito, annientato migliaia e migliaia di soldati d'ogni grado ed arma. Picchieri, moschettieri, cavalieri, colonnelli, maestri di campo, sergenti generali, generali, re, sol- dani, imperatori , ed anche giganti e pigmei. Il mio corpo e una fortezza , il mio petto è una trincea , il mio capo un castello , il mio stomaco un campo , le mie braccia sono due cannoni, la mia voce è un tuono e le mie armi sono fulmini : il mio valore fa tremare il mondo ".

Esempi di bravure di Capitani non forestieri sono quelli che ci porge l'Ardreini nell'opera sopra ricor- data. E sempre una sfilata di ampollosità , di erudi- zione barocca, di frasi strampalate , di periodi rigur- gitanti di metafore puro sangue seicento. Sono meno scurrili, meno plebee di quelle, che con gesto tragico, col cappellaccio piumato sulle ventitré, recitavano i ca- pitani da strapazzo, da fiera ; ciò non ostante, la frase volgare, la trivialità sciatta, disadorna, fa capolino qua e insieme all' irrompere delle metafore più goffe. Nar- rando le sue grandi imprese, il Capitano dice che una volta salvò il mondo dal diluvio. Incerto dapprima "o di bevere tutta l'acqua che pioveva o veramente quella che da tutti i fiumi traboccava... per ultima resolutio- ne me ne andai nella valle del Settentrione, e quivi pigHai una grandissima nube, la quale s'era calata nel mar del nord per abbevereirsi; pigliata eh' io ebbi la sgonfiata nuvola, subito vi cacciai dentro i venti, tutte le piogge, tutti i fiumi, legandola in modo che non

potessero uscire ; poscia con grandissimo ardore, slan- ciandola, la slanciai verso il sesto cielo , dove ar- rivando, percuotendo, e spezzandosi, affogò Giove con tutto il concistoro degli Dei; e così per opera mia fu salvato il mondo da un diluvio d'acqua (1) ".Un'al- tra volta racconta la guerra ch'egli mosse alle stelle. " Io cominciai ad armarmi alla bizzarra ed alla fan- tastica ponendomi indosso la torre di Nembrotte per| tonica e il monte Tauro per morione. Armato eh' io mi ebbi il capo, il petto, gli omeri e le braccia, pi- gliai l'arco baleno per balestra e il laberinto di Creta per carcasso e tutte le Piramidi d'Egitto per frecce e vir- rettoni, poscia pieno d' ira e di furore, ascesi alla ci- ma del monte Olimpo , con ferma intenzione di fra- cassare l'uno e l'altro Polo : pervenuto ch'io fui sulla cima dell'altissimo monte, cominciai a balestrare il fir- mamento, e tante balestre gli tirai eh' io lo sforacchiai come un crivello (2) ".

Il pubblico rideva e trovava che il Capitano aveva una fantasia ariostesca , foderata d' una solida erudi- zione.

Ascoltiamo ora il Capitan bravo innamorato. La ti- rata la togliamo dal nostro Perrucci ridotta da lui stesso in italiano dal dialetto calabrese :

" Ben abbia quando ti vidi : codeste treccie son li- gami d'oro, funi e cordelle eh' han cinto d'intorno lo erede della Magna Grecia. Quegli occhi, che vibrano

0)Rag. III. (2) Rag. IL

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saette, hanno pertugiato, succhiato, bucato, perforato il cuore al cuore di tutti i cuori miei ; la bocca è un fialone ove fanno nido le Grazie, e l'Amore fatto Ape vola fra i fiori succhiandone il miele, o fiore di Zum- pano (1). Le tue narici sono pezzi d'artiglieria che sparando e colpendo in questo petto fanno un dirupo della casamatta della bravura del mondo : insomma, codesta bellezza è lo specchio d'Archimede che ac- cende un incendio nelle viscere del più gran Capi- tano degli Eserciti. Quindi, giacche mi prendesti come pettirosso, beccafico, o merlo al trabocchetto, non mi far desiare, liquefare e andare in succhio. Brami cin- que o sei cittadi di quelle che prese Platone nel cavo della luna, vuoi il grembiale di Giunone ? La spada di lama della lupa di Marte ? Lo scudo di Pallade ? I cavalli lattanti del sole? Brami il colascione che fece Mercurio d'una tartaruga ? Apri la bocca e se tu an- che volessi il pitale di Giove fatto di stelle e 1' ori- nale fatto d'un pezzo di luce, te lo porterò; e con un passo disteso ascendo al cielo e fo saltare a calci in e... gli Arieti, i Tori, i Leoni, gli Scorpioni, i Ge- mini, le Orse , gli Asini e tutte le bestiahtadi delle Stelle.

Che altra bestia son* io che non son quelle ? (2) ".

Passiamo ora alle altre maschere. Cccoci aglrsZann/i La regola ottava della parte seconda dell'opera del

(1) Casale di Cosenza. (1) Op. cit. pag. 277.

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Ferrucci tratta: Delle parti ridicole di primo e secondo Zanni, " In questa regola scrive il citato autore I sta tutta la difficoltà del rappresentare all'improvviso, perchè se la commedia, come dice Aristotele, è fatta per lo riso, e tanto più l' improvvisata, senza dubbio saranno le parti più essenziali i ridicoli (1) ".

Erano gli Zanni i servi della commedia dell' arte, e questa ne conosceva due : il primo Zanni e il se- condo Zanni avendo ciascuna di queste due maschere una fisionomia particolare. " Il primo scrive il Fer- rucci— ha da essere astuto, pronto, faceto, arguto, che vaglia ad intricare, deludere, beffare, ingannare il se- condo, mordace, ma cum moderamine , di modo che 5 le arguzie sue dette dai latini Dicteria , abbiano del salato e non dello sciocco. La parte de! secondo servo deve essere sciocco , balordo , insensato , di maniera che non sappia qual sia la destra o la sinistra ".

Erano il principale sostegno della commedia del- l'arte, anzi le due maschere maggiori, le più apprez- zate, certamente le più popolari. Gli Zanni, del re- -^o, potevano vantare di discendere dal teatro comico / latino , dove spesso i servi rappresentavano Ja^parte ^ principale. Se non sempre, quasi sempre, erano essi che imbrogliavano, complicavano l'azione, sino al mo- mento in cui quest' ultima , sbarcizzandosi di tutti gli incidenti, si schiariva e filava al suo fine. Ricordiamo ' ai nostri lettori come esempio tipico di siffatto genere i di commedia , 1' Epidico, di Flauto , dove l' azione è

(1) Op. cit. pag. 280.

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diretta da un servo tanto che quella commedia po- trebbe chiamarsi Le astuzie d' Epidico (perchè è ap- punto Epidico il servo), e la Donna d J^ndria, di Te- renzio, dove la parte principale è affidata a Davo, servo. La commedia a soggetto accrebbe smisurata- mente r importanza del servo nell' azione ; questi di- ventò il personaggio più importante della commedia ; egli creava le situazioni, guidava T intrigo, lo invilup- pava sino air inverosimile , 1' arrestava , lo distrigava. Non c'era ostacolo più difficile eh' egli non sapesse superare , trabocchetto più insidioso eh' egli non sa- pesse preparare, sorpresa più stupefacente ch'egli non sapesse accogliere senza batter ciglio. Si comprende che questo era il servo astuto, non lo sciocco. Ombra del suo padrone, ne seguiva i passi, ne indovinava i pen- sieri, ne favoriva le avventure, specie se galanti ; ne divideva i pericoli come le gioie. Spesso, e con pia- cere, pigliava le bastonate dirette al padrone, quando non poteva farle pigliare al servo sciocco. Del resto, gli affari del suo cuore egli li faceva camminare di pari passo con quelli del suo signore, con questa sola differenza, che mentre il padroncino , alla fine della commedia, sposava la figlia d'un mercante o d'un dot- tore, egli ne sposava la serva. Le due azioni amorose o i due intrighi , si svolgevano parallelamente , senza che il cammino dell'uno arrestasse o intralciasse quello dell'altro , ma sempre porgendosi aiuto , sempre ren- dendo più vivace, più spigliata l'azione.

11 servo scjocco (uno sciocco, però , che in fondo ^ilTe sue sciocchezze metteva sempre un grano di

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sale, e, qualche volta , più d' un grano di fine astu- zia), il servo sciocco, diciamo , naturalmente, era il contrapposto del suo fratello numero uno : non faceva sfoggio, neir azione, d' astuzia , o , per lo meno , in apparenza, non era astuto ; se non che , i suoi con- trattempi, i suoi equivoci, le sue goffaggini , se esa- minati bene, erano spesso piccoli capolavori di spi- rito , d' arguzia e non servivano all' interesse scenico meno dello spirito inventivo, della frase incisiva, del- l' arguzia , della disinvoltura dell' altro servo.y^nche

, Jui , lo zanni sciocco , contribuiva ad ingarbugliare r azione , a renderla più briosa , più ridanciana e , spesso , a condurla allo scioglimento/ Anche lui era f o^fibr^ vjeppuo) ne^dron^ il_mezzano dei suoi amori, cteTcome l' altro servo, conduceva di pari passo coi propri, che finivano, come quelli de! padroncino, con

,le_nozze. Solo piìi di .qi^felle del suo furbo compa^ gQo>^ più di quelle di tutti i personaggi della com- media, le sue spalle s' arrossavano _SQttQ-_i colpi del bastone.

Codesti servi assunsero nomi diversi, sebbene, ge- neralmente, compresi sotto la denominazione di zanni. Anche qui s' invocò l'erudizione per farli discendere dal sannio delle atellane (l). Altri non crede a siffatta discendenza, e l'origine del nome riscontra nella parola zanni, che è una corruzione o deformazione di Gianni o

(1) De Amicis V. Lo stesso autore (op. cit. p. 23) cita Cicerone il quale scriveva ; " Quid enim potest tara ridiculum quam Saanio esse ? Qui ore, vultu, imitandis motibus, voce denique corpore ridetur ipso ".

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Zuane o Giovanni (1). E certo però che sin dalla metà del secolo XVI, codesto nome si dava ad un personag- gio burlesco, e probabilmente veneto , o dei domini della Serenissima se si mandava a spasso, nel carne- vale, " avec son Magnifique à la Venitienne (2) ". Se non il più celebre, certamente uno dei più celebri di codesti nomi , è quello d' Arlecchino che rappresen- tava la parte del servo sciocco. Anche qui si è scritto a lungo sulle origini del nome. Arlecchino? Hanno domandato a se stessi gli erudiri , e, naturalmente , ognuno di loro ha trovato una risposta , che non è sempre quella degli altri. Qualcuno ha voluto ritro- vare r origine del nome della nostra maschera , in quello d' un eroe della mitologia scandinava, un certo Herlenkonig , altri in quello di Alichino , uno dei diavoli dell' Inferno di Dante, trasformato in seguito sulla scena francese in quello di Hallequin, e d'Ar-

(1) Croce, Saggi ec. p. 220.

(2) Ioachim du Belley nei suoi Regrels, stampati per la prima volta nel 1558, cantava a proposito del carnevale di Roma :

" Voicy le Carneval, menons shacun la sienne, Allons baller en masque, allons nous promener, Allons voir Marc-Antoine ou Zany bouffener Avec son Magnifique à la Venitienne ".

Si crede che sia la prima volta che in un* opera stampala si faccia cenno d'un Zanni o Zany. E sempre òmÌY origine degli Zanni: il Va- sari, nella vita di Battista Franco, scrive a : " I Zani o Zanni sorsero nella metà del secolo XVI e riapparvero nelle commedie fatte fare a Roma da una brigata d'artisti e beili umori a capo dei quali era Gio- vanni Andrea .Anguillara... Lo Zanni è maschera lombarda e veneziana ".

lecchino in quella italiana ; altri nel nome d' un co- mico o zanni italiano che andato a Parigi ai tempi d'Enrico III, trovò un protettore in un gentiluomo della Corte, certo Achille de Harlay, e che da questo no- me si chiamò Harlequin. Ma un altro ha sentenziato: no, non fu Achille de Harlay, ma un altro Harlay, che fu il quinto degli Harlay, Francesco Harlay de Cha- valon, che dette il suo nome alla maschera {Harla})- Quint). Un altro erudito volle dare al brioso comico origini imperiali e le trovò nel nome di Carlo Quinto C^harles Quint). Per un altro, il nome d' Arlecchino potrebbe derivare da jìrlotto e cocchìno fari e eoe- chino, ari e chino). Adolfo Bartoli (1) le chiama eti- mologie impossibili ; noi le chiamiamo etimologie di eruditi sfaccendati. Più recentemente, un tedesco. Otto Driesen, con molta erudizione , mise in chiaro, e in modo inconfutabile, come scrive il Croce (2), nell'opera: Der Ursprung des Harlequin ec. (Berlin, Dunker, 1 904) che il nome d' Arlecchino deriva dal medio evo fran- cese. Harlequin, Herlequin, Hellequin era il nome d' un diavolo conduttore di schiere di diavoli, di Har- lequins , che trovarono il loro posto nella letteratura francese dal secolo XI in poi in drammi, fahleaux , misteri ec. Ma, evidentemente, tutto ciò non riguarda che il nome, non la maschera.

(1) Op. cit. IntT. p. CLXXIV.

(2) Op. cit, p. 269. Ved. pure : Renier, Svaghi Critici; Bari, La Terza, 1910, pp. 465-83; laffei, 5\^o/e Critiche su le t^aschere ec. in: Rivista d'Italia, (Roma), maggio 1910.

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Ma qualunque sia l' origine del nome e dello stesso personaggio (1), Arlecchino è uno dei principali so- stegni della commedia dell' arte. Con le sue facezie, coi suoi lazzi, con le sue stesse balordaggini, egli si- gnoreggia la scena. Langue 1' azione? Egli è pronto a rialzarla con una frase, con un gesto , magari con una delle sue tante goffagini, soprattutto con un lazzo. Il pubblico è di cattivo umore ? Egli sa subito rab- bonirlo. La cassetta del capo-comico segna zero ? Egli è là, col suo vestito multicolore e il suo bastone di paglia, pronto a mettere su uno spettacolo atto a chia- mare il pubblico a teatro e far ridere fìnanco gl'ipo-

4l) Tanto Arlecchino quanto il suo compagno Brighella sono stati sempre ritenuti come due maschere bergamasche, perchè gli zanni che hanno portato codesti nomi hanno sempre parlato nelle commedie del- 'arte in bergamasco. Non diciamo gli storici, ma coloro che scrivono la storia fondandosi sulla leggenda, hanno narrato che i due zanni, essendo nati a Bergamo, l' uno (Arlecchino) nella città bassa, V altro (Brighella) nella città alta, rappresentano a meraviglia il diverso carattere degli abi- :anti, l'uno con la sua goffagine, l'altro con la sua furberia. E qui, a rommento di quanto asseriscono, aggiungono che, a Bergamo, gH abi- anti della città bassa hanno sempre goduto fama di gente di corto intel- etto, e quelli della città alta, dove l' aria è più sottile, sono stati ritenuti >er gente che sa far bene i propri affari (Sand, Masques et (Quffons ; ol. 1, p. 75). Ma a smentire siffatta leggenda, ecco un' altra leggenda, fecondo il Riccoboni (Hisl. du Théàtre it. voi. II, p. 218) i due zanni Iella commedia napoletana corrispondenti ai due zanni veneti, sareb- bero nati a Benevento, quello sciocco nella città bassa, il furbo in quella Ita. " On dit que cette ville, qui est moitié sur la hauteur d'une monta- ne et moitié au bas, produit les hommes d' un caractère tant diffé- ent. Ceux de la haute ville sont vifs et très actifs. Ceux de la basse ille sont paresseux, ignorants et presque stupides ". Leggende, ripetiamo-

.... :"" , . . ,<

condriaci. E sciocco, è bastonato, è schiaffeggiato, è preso a calci; ma egli è sempre di buon umore, ride e fa ridere. E mezzano, truffatore, bugiardo, ingordo, ubbriacone, poltrone, vigliacco, ma tutti codesti suoi difetti non sono che motivi di riso. Che più ? Anche le sue disgrazie, specie se coniugali, fanno ridere. Non e soltanto goffo, è anche triviale , anzi trivialissimo ; il suo liuguaggio, quando non sa di lupanare, sa d' o- steria e di stalla. Se non che, anche qui il pubblico ride ; egli gli vuole un bene matto. Ed Arlecchino lo sa : di qui, il suo linguaggio senza misura, il suo gesto, j in certi momenti , osceno. E il beniamino del pub- blico, e questo non solo !' ama, ma gli sa perdonare molte cose.

Ciò nondimeno. Arlecchino, sebbene fosse una ma- schera assai popolare ed apprezzata, non era che un secondo Zanni; il primo , cioè , la maschera sagace, astuta, salacissima nel linguaggio se non più , certa- mente, quanto Arlecchino, portò diversi nomi. Si chiame Brighella, Coviello, Zaccagnino, Truffaldino, Mezzet tino, Gradellino, Stoppino ecc. ecc. Ma parecchi d codesti nomi non ebbero che notorietà regionale; altri col volgere del tempo, furono smessi per essere sosti tuiti da altri; il più celebre, però, fu Brighella e il su< regno iu anche il più lungo, il più assoluto nell'Alt Italia, ed anche nella Centrale ; nell'Italia del Sud (prò vincie napoletane) il servo astuto portò se non sempre quasi sempre, il nome di Coviello.

Un'avvertenza è qui necessaria : non sempre la d stinzione fra servo astuto e servo sciocco era manU

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nuta nettamente nella pratica. Non.era^rai:0-ilcaso che ^^ in una commedia il posto di Brighella fosse preso da_ A^

Arlecchino, e viceversa. Ciò dipendeva anche dal ca- priccio o dalle esigenze dei comici, i quali, se rap- presentavano parti sciocche , non si sapeveno frenare dal mostrarsi astuti, e se recitavano parti astute, dal mostrar ch'erana capaci di parere goffi. Il Ferrucci av- vertiva, difatti, i comici del suo tempo a non trasmo- dare ; ognuno, diceva, si contenga nei propri confini. Ma se facile è dettare precetti, non è sempre facile metterli in pratica.

Un'altra maschera, che non è ancora morta, e forse non morrà , sebbene relegata in poveri teatrucoli , è quella di Pulcinella. E una maschera prettamente na- poletana. Anche essa ha la sua storia e le sue origini si fanno risalire ad un buffone delle Atellane, Macco, il quale pare che in quelle farse rappresentasse un ca- rattere non diverso dal Pulcinella napoletano , come può rilevarsi dai titoli di quelle farse stesse {Maccus caupo, Maccus virgo, Maccus miles, Macci gemini); la sola cosa rimastaci di tutto quel teatro primitivo.

Non si finirebbe mai se si dovesse tener conto di tutte le ricerche più o meno ingegnose fatte per assodare le origini di Pulcinella o per lo meno del suo nome. Per esempio : il Fainelli ( Gior. St. della Leit. Ital. voi. 54, p. 59) fa risalire il nome della maschera napole- tana ad un Pulcinella Dalle Carceri, veronese, vissuto nel secolo XIII. Il suo Dalle Carceri fu persona furba, mtrigante ; fu anche soldato ; imprigionato , fuggì dal 1 carcere , e finche visse seppe sottrarsi ai suoi perse-

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cutori. Non si comprende però come quel Pulcinella sia passato, anche nel solo nome, da Verona a Na- poli. Il Levi (Fr, di Vannozzo e la lirica nelle Corti Lombarde ecc. Firenze, 1908, pag. 381), trova l'ori- gine del nome di Pulcinella nei versi d*un certo De Bonis, poeta del 300, il quale, parlando della discesa dell' Imperatore in Italia , vedeva 1' aquila imperiale, già avvilita, venire

perseguendo i pulcinelli

Perchè voltati mantelli

E mutansi di senno in ora in ora.

Altri non fan risalire al Medio Evo il nome di Pul- cinella , il quale pare che per la prima volta abbia fatto la sua comparsa letteraria in un poemetto di Giu- lio Cesare Cortese, napoletano, il Viaggio di Parnaso, stampato a Napoli nel 1 62 1 . Immagina il poeta che in una commedia rappresentata nel Parnaso, Pulcinella, nel Prologo, metta in Cciricatura i pzu-latori e gli scrit- tori toscaneggianti (I). Se questa fu forse la prima apparizione letteraria o poetica, quella teatrale sembra che sia stata in una commedia, la Colombina, di Vir- gilio Verucci, romano, e stampata la prima volta a Foligno nel 1628. Pulcinella vi parla in dialetto na- poletano, ma soverchiamente italianizzato ed è il servo del Capitano. Come costui, egli è spaccone, vigliacco ; - è mangione ed amico del bicchiere. Probabilmente il Verucci non sarà stato il primo commediografo a met-

(1) Croce, op. cit. pag. 232.

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teie sulla scena Pulcinella, servo e napoletano ; anzi l'avere egli, romano, messo in bocca al suo Zanni il dialetto napoletano , fa supporre che sulla scena del teatro partenopeo, non lettercirio, ma a soggetto, quella maschera fosse piuttosto comune. I caratteri o tipi tea- trali , per altro , non si creano a un tratto nella pie- nezza di tutti i loro particolari ; hanno sempre dei pre- cedenti più o meno incerti, più o meno oscuri ed appena abbozzati sino a che un uomo di genio non ne cavi fuori una figura spiccata, scultoria, che non morrà. E qua- si* uomo di genio , per la maschera di Pulcinella , fu un comico napoletano del Seicento, Silvio Fiorillo, che rappresentava le parti di Capitan Matamoros, il quale nel 1632, a Milano, scrisse e stampò una commedia: La Lucilla costante con le ridicolose disfide e prodezze di Policenella. Due anni dopo, nel 1634, Francesco Guerrini, romano, stampava una sua commedia intito- lata : / Cinque Carcerati, dove uno di costoro è appunto Pulcinella (1). Ma già il nome di Pulcinella era uscito dall'oscurità e le commedie dove esso figurava, non si contavano più ; nel 1 664 la maschera di tal nome era appresentata dal capo-comico della compagnia che re- stava al teatro S. Bartolomeo di Napoli (2). Essa compendiava la commedia napoletana.

Ma ai grandi inventori, comò si sa , non si rende empre giustizia. Cristoforo Colombo non fu che uno li codesti grandi disconosciuti. Così, nella stessa Na-

(1) Croce, op. cit. p. 254.

(2) Croce, loc. cit.

5V"e/ regno delle ^^aachere. 9

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poli che diede i natali a Silvio Fiorillo e che lo vide certamente recitare da Pulcinella , verso la fine del Seicento , il Ferrucci scriveva che in quella città si credeva che la briosa maschera fosse la creazione di un giureconsulto, certo Andrea Ciuccio, che nei mo- menti in cui si riposava dalle fatiche del fóro recitava delle parti buffe nei teatri partenopei; se non che, lo stesso Ferrucci, meno ingiusto dei napoletani dei suoi tempi, s'affretta a dire che, in realtà, la maschera era stata una creazione del Fiorillo, e solo Andrea Cal- cese, soprannominato il Ciuccio (che razza di sopran- nome per un dotto giureconsulto !), morto nella pesti- lenza del 1656, l'aveva perfezionato (1). "La quale maschera, scrive il medesimo autore, accompagnando la fisionomia sciocca con Fazione, s'è fatta così usuale con scherzare, con la veste eh' è di canape grosso, e con la maschera, che nel carnevale altro non si vede a Napoli che Folicenelli, volendo far del grazioso ". Fili d' uno ha voluto dare la definizione di Pulci- nella (2) e quindi tracciare nei limiti della stessa de-

(1) Op. cit., pag. 293.

(2) Il D'Ambra nel D/z/onar/o Napoletano- 'toscano (Napoli, 1873) ha una poesia in vernacolo napoletano , che ha la pretesa di conte- nere il ritratto di Pulcinella. Eccola:

Pollecenella è furbo ; E cheslo non se fegne ; '

Ma pe n'avè disturbo Chillo fa marcagegne.

Si tra gente bone No jorno s'asciarrà,

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finizione il carattere della maschera. Il Croce ( I ) dice che Pulcinella non può definirsi, e dice bene ; ma si potrebbe anche dire lo stesso per altre maschere ; im- perocché, le diverse sfumature d'un carattere o d'un

Nozente qua peccione

Isso addeventarrà. Pollecenella è tristo,

Se dice p'ogne lato

Ma quello fa 1' ntisto

Pe n'essere accoppato.

Lo munno è na coccagna,

Ognuno se lo sa.

Lo lupo se lo magna

Chi pecora si fa.

Pollecenella è smocco,

Credono pe sta terra ;

Ma chillo fa lo locco

Pe non ghire a la guerra. Aspetta lo minuto

Che pure à da torna,

P'addeventà saputo

E farvi straluna.

Pollecenella è chiunzo,

O puro è nu frabutto.

Ma chillo s'era abbrunzo,

Nzi a no sarriasi strutto- Chi non se fa marmotta,

E sape scimià.

Abbotta, abbotta, abbotta,

E nfine crepa.

{marcagegne, furbo, intrigante peccione , piccione ntisto , mole- sto — smocco, sciocco chiunzo, pigro). (1) Op. cit. pp. 197 e segg.

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tipo teatrale, che ha avuto una esistenza più volte se- colare , che ha subito 1' influenza d' ambienti diversi, nonché di correnti letterarie non meno diverse, d' a- dattamenti e rifacimenti continui, sebbene qualche volta lenti o quasi insensibili, non può definirsi, o, meglio» la definizione che ne vien fuori, anche se fatta da cri- tici eminenti, per esempio, come Francesco De Sanctis, che volle provarsi a dare quella della nostra masche- ra (I), riesce monca o falsa. La definizione si rende anche più difficile , perchè Pulcinella non sempre si presenta sulla scena in qualità di servo. Negli Sce- nari della Nazionale, di Napoli, come in altri , egli assume mestieri, professioni e qualità che nulla hanno da fare coi servo : è fornaio, oste, guardiano di mo- nasteri , ortolano , villano , mercante , pittore , soldato, ladro, bandito ecc. ecc. Non è sempre sciocco, è an- che furbo. Se non che , è sempre Pulcinella , anche quando non tutti i suoi caratteri corrispondano al tipo tradizionale. Chi lo vede agire, anche sotto un trave- stimento, lo riconosce subito ed esclama : è lui, è Pul- cinella ! Ma non solo s* è voluto definire Pulcinella, ma più d'uno ha domandato : che cosa rappresenta ? E la risposta è stata pronta : il popolo napoletanoTrra coloro che hanno risposto in tal modo vi è il Goethe. A noi sembra che tale rassomiglianza non esista che sino ad un certo punto. Pulcinella è creazione pura- mente napoletana , ma non è il napoletano plebeo o

(1) " Pulcinella rappresenta il popolano sciocco e borioso ". Scritti ' inediti e rari, pubblicati da B. Croce; Napoli, Morano, 1898, p. 196.

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semiplebeo. Certamente fra la maschera e quest'ultimo i punti di contatto sono parecchi , ma il ritratto non esiste. La plebe napoletana può chiamarsi pigra, amante del dolce far niente, ghiottona, credula, superstiziosa; ma non tutto un popolo, anche se con questa denomi- nazione si voglia intendere la sola parte cenciosa dello stesso, è mezzano, vigliacco, ubbriacone, ladro, truffa- tore, doti queste non belle e che spesso la maschera possiede. Tutto al più in Pulcinella potrebbe vedersi il rappresentante dei vizi della plebe napoletana.

Come per le altre maschere o personaggi della com- media a soggetto, così anche per Pulcinella si vollero disciplinare e preparare le Prime uscite, le Tirate ecc. affinchè gli artisti recitando... all'improvviso attinges- sero la loro ispirazione... al premeditato, come scriveva il Perrucci, dal libro del quale riportiamo una

Prima uscita

nella quale Pulcinella paragona 1' innamorata al trot- toletto chiamato in napoletano strumholo.

" Addommannammo 'na vota a no masto de scola che cosa fosse I st Ammore, che fa muovere lo vermiciello 'nt'a la rocchia ; mime de- cette eh* era no peccerillo , che sempe pazzaja ; io penzanno a che ghiuoco va ghiuocanno, vego che non ghiuocava ad autro ch'a lo strum- molo. Perchè se lo strummolo è fatto a lo tuorno , lo nnamorato è posto a la rota de fortuna: a lo strummolo se 'mpizza nponta no flerro, e a lo nnamorato Ammore le schiaffa ncuorpo tanto na frezza. Lo strummolo s'arravoglia con la fonecella, lo nnamorato è intorniato de lazze ; lo strummolo sol' essere speretecchio , lo nnamorato spereta pe la gnora ; lo strummolo fa na fìtta quann' è zitolo , lo nnamorato fé-

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dele non se parte de le petrole de la scrofa ; co lo strummolo se pia a lo rotiello, a tozzammuro, a parm'a tuzzo, a bottare, lo nnamorato

se non coglie a lo rotiello de lo core de la nnamorata tozza co

la capa a le mura, e sempre cerca de vottare. Lo strummolo se pi- glia mmano ; lo nnamorato se serve de la mmano per tozzolare ; chi perde a lo strummolo va sotto e abbusca pizzate; lo nnamorato con tutto ca va da coppa se sta da sotto, e quanno se crede co le piz- zate spacca lo strummolo de lo contiento, e cacciarene l' esca , trova chillo de la gnor a de decina accossì tosto che nce lascia la ponta, e pè' chesto cantaje no Pellegrino:

" Fatto strumento son del mio destino (1).

Ecco una Prima Uscita primo Zanni o Coviello napoletano :

" Ch'animale sia st'Ammore, io nzi a mo non aggio ashiato Dot- tore, Felosofo, Poeta o Miedeco che me lo saccia a dicere , perchè disse non saccio chi diaschine fosse:

" Quid sit Amor provole oglie, Cecala poeta.

" Uno, che benneva franfellicche, decette ch'era n'Apa, che quanno te cride, che te dia mele, te schiaffa tanto no spungolo ncuorpo ; se pogne le femmene, le fa abbottare la panza, e dice ca ce lo mmez- zaje no speziale, che deceva:

" Picciola è l'Ape, e come l'Ape Amore,

" No chianchiero deceva ch'era na mosca ntista, che se la caccie, torna ; se la fa a tuorno a le carogne, addo ve lassa le vierme, che rosecano li core de li povere nnamorate, e me lo decette no nchiajato :

" Quanto più lo discaccia, tanto piìi torna. (1) Op. cit., p. 295.

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" No varviero decette, ch'è sangozuca, che s'attacca a lo pretereto, ne te lassa se non t'abbia bevuto na botta de sangc; accossì Am- more ne sorchia lo denaro, che è secunno sango de 1' hommo, e lo 'mparai da no sangonacciaro, che deceva :

" Succia Lesbia la borsa e succia il core ; Stolto è chi compra col suo sangue Amore.

" Na vecchia deceva, ch'era na polece, pratteca a ncapparle sotta le pettole, perchè porta le arscelle, mozzeca e fuje, te rompe lo suonno, e te trase nto l'orecchio e si schiaffa sotta li panne de le femmine e li cazzune dell'hommene, e lo ghieva cantanno Porziello vennenno pi- gnate :

" Sempre intorno di voi, Donne m' aggiro.

" Nsomma, chi dice ch'è na zecca che non te lassa , no chiattillo che t' acciarra , no peducchio che te sbreogna , na pimmece che te nfetta, no lavano che te stordesce e pogne ; ora quale sia quest' ane- male, signure mieje, no lo saccio, essendocene confuso, perzò lo gran Dottor Chiajese decette (1) :

" Or chi sa questo matto interpretare ?

" Ma s'haggio da decere la intenzione mia, diciarria che sia lo verme peluso che stace ucuorpo a nuje, e non se vede, se non quanno co la sementella de la grazia ammorosa non lo racove , e si no, t'arriva a fa dolere lo stommaco , e te roseca lo core , e che perzò decette non saccio se cerurgeco o sagliemmanco :

" E un verme Amor, che rode a poco a poco. " Che pozza schiaffa de sbianco ",

(1) Il Dottor Chiajese, scrive il Croce (Op. cit., p. 38) fu a Na- poli una celebrità popolare , una specie di buffone , che fioriva alla corte del Viceré duca d'Ossuna. Fu cantato burlescamente dal Cor- lese, poeta napoletano del Seicento, del quale, in alcuni esemplari della

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Oltre le T^rime Uscite e erano preparati per gli Zanni anche i Saluti alle serve. " I saluti alle serve sogliono farsi in versi come se il servo per allettare o lodare la sua donna volesse imitare i poeti; ben è vero che alle volte sogliono terminare in equivoci di- sonesti e questo si deve evitare, o pure farsi che non resti scandalizzato Y innocente ed il casto , di modo che i due sensi sieno così equivoci che non s'intende chiaramente lascivo, ma espresso con onestà (1) ".

Diamo, al solito, qualche esempio di codesti Saluti.

a) Saluto napoletano.

{Ss' Ammore è fuoco p' ahhroscià lo core).

" Tu puro cana (e chesta ne abbroscia)

Tutto de fuoco pell'arma mia:

T'haje la neve a la faccia, e ncuorpo arzura.

No Tusco diciarria: Quel volto bello

È di fiamme e di nevi un mongibello.

Doje vrasere de fuoco

So' ss' uocchie che m'abbrosciano con sfarzo:

Vieneme addorà si non feto d'arzo.

Chisse lavra ncarnate

So tezzune allumate,

Che no me fanno no luce la notte,

Ma a dareme tracuollo

Me fanno luce e rompere lo cuoUo.

So belle sse mascè se mascelle

Che fanno lommenaria,

prima edizione del Cunto de li Cunti (1636), si legge una canzone che ha per titolo : Conziglio dato da lo Chiaiese ad una persona che l'addemanaje qual fosse meglio nzor arese o stare senza mogliera. (1) Ferrucci, op. cit. p. 286.

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E me ne fanno ghl nfonno e pell'aria,

Nzomma, n'artefizio natorale,

Addò fuoco Ammore, e l'arme smacche

Co' truone, cazzetiglie, e tricche-tracche.

M'è benuto golìo

Trasire a ssa caverna,

Gomme no tiempo Prinio, nzomma.

jettasse fuoco cchiù che Somma.

Ed io so' tanto frieddo

Che si me scarfo no poco,

No me ne curo niente, o gioia cara,

Si me schiaffe nto a la Zolfatara(l) ".

Ed ora un Saluto in bergamasco , ma in verità , un bergamasco parecchio lisciato :

" Front più bianca, che l' èl cavial, Occi bughi, ove stanz' amor crudel. Vis che set del formai più dolze e bel, Boca, ti de le Grazie, e' t l'urinai.

Per ti post al me ved' int'un stivai, Per ti, cara, ho perdù tutt'ol zervel. Ed entrandom' amor intre '1 furél Se ajudo me ne dat, al me va mal.

Per ti son post de le bestie al rol, E pormi al ziogo non haurò per vii. Purché al segno d'ù Tor diventi un Sol.

Groso Amor faza el so cor del sotil , E me faza con ti rompere el col. Mia bela Vaca, Idolo mio zentil (2). "

Gli Zanni con tutta la loro famiglia avevano dei modi particolari per destare nel pubblico il riso , il

(1) Perrucci, op. cit., p. 289.

(2) Perrucci, op. cit., p. 301.

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riso allegro, pieno, ridanciano, da far sussultare , nei suoi scoppi fragorosi, tutta la persona : e questi modi si chiamavano lazzi. Anche questa parola {lazzi) si volle sottoporre al crogiuolo dell'etimologia. Ottorino Pianigiani, nel suo Dizionario etimologico, presentò un. saggio dei risultati di siffatte pazienti ricerche : dal latino lax , fiode ; dallo svedese lat , gesto , mossa ; dall'ebraico latzon , burla , baia ; dall' italiano lazzo , aggettivo, di sapore aspro.

Ma noi crediamo che la parola derivi dal latino ae- do che passando attraverso le sue derivazioni {adi, gVacti, V atti, V azzi) sia divenuta l' italiano lazzo o lazzi. Difatti , nei manoscritti più antichi delle com- medie dell'arte {Scenari della Casanatense) la parola adoperata dal commediografo è adi o atti. Questo per r origine della parola ; quanto all' origine di ciò che sulla scena s' intende per lazzo , si disse cosa tutta napoletana ; il che trovò poi eco e diffusione in in tutto il teatro a soggetto : e fu questo ritenuto forse perchè si trovò una relazione fra lazzo, lazzi con laz- zaro, lazzari, ingiurioso appellattivo col quale si volle designare la plebe napoletana (1). Se non che, il

. . 1

(1) Avendo richiesto qualche chiarimento a Salvatore di Giacomo,'" questi ci ha confermato nella nostra opinione, cioè, che lazzo derivi da actio. H

" L'origine di lazzo non può venire da lazzaro certo ; io credo che la parola rampolli da actio : difatti il lazzo è un'azione comica, grottesca ; talvolta è una frase a doppio senso. Ma per lo più, un atto ".

La medesima conferma avemmo dal chiar.mo prof. N. Zingarelli dell' Università di Palermo.

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lazzo sulla scena comica è molto più vecchio della commedia dell' arte. Ma , anzi tutto , che cosa è il lazzo ? Sebbene le definizioni sieno sempre da sfug- gire , perchè mai o quasi mai rendono integralmente il significato della cosa che definiscono, pure il lazzo può definirsi in un atto o in parecchi atti scherzosi, tale da far muovere il riso degli spettatori , con ac- compagnamento di parole, e, talvolta, anche senza ac- compagnamento di parola alcuna, perchè il lazzo, quasi sempre, sta più nell'atto comico, burlesco che fa l'ar- tista, anziché nelle parole di lui. Questi lazzi , nove volte su dieci, accompagnati dalla scurrilità della peg- giore specie, sono spesso piccoli capolavori di mimica ; qualche volta si riducono ad una frase, a uno spunto di dialogo basato sull'equivoco ; tal'altra sono dei veri giuochi di parole, doppi sensi, o parole o frasi inter- pretate a sproposito. " Nous appelons lazzi scrive il Riccoboni (1) ce que 1' Arlequin ou les autres acteurs masqués font au milieu d'une scène qu'ils in- terrompent par des épouventes, ou par des badine- ries étrangères au sujet de la matière que l'on traite, et à laquelle on est pourtant obligé de revenir. Or ce sont ces inutilités qui ne consistent que dans le jeu que 1' acteur invente suivant son genie, que les comédiens italiens nomment lazzi ". Lo stesso Ricco- boni ci un esempio di codesti lazzi. " Dans la piece Jìrlequin dévaliseur de maisons , Arlequin et Scapin sont valets de Flaminia qui est une pauvre

(1) Op. cit., voi. I, p. 65.

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lille éloignée de ses parents, et qui est réduite à la dernière misere. Ailequin se plaint a son camarade de la facheuse situation et de la dite qu* il fait de- puis long-tems. Scapin le console et lui dit qu'il va pourvoir à tout; il lui ordonne de faire du bruit de- vant la maison : Flaminia attirée par les cris d'Arle- quin lui en demande la cause ; Scapin lui explique le sujet de leur querelle ; Arlequin crie toujours et dit qu'il veut Tabandonner ; Flaminia le prie de ne point la quitter et se recommande à Scapin, qui lui fait une proposition pour la tirer honnétement de la misere, qui Faccable; pendant que Scapin explique son projet à Flaminia, Arlequin par différents lazzi in- terrompt la scène; tantot ils'imàgine d'avoir dans son chapeau des cerises, qu' il fait semblant de manger et d'en jeter les noyaux au visage de Scapin ; tantot de vouloir attraper une monche qui vole, de lui couper comiquement les ailes et de la manger , et choses pareilles ".

Ma come già dicemmo , il lazzo e più vecchio della commedia a soggetto. Il teatro d'Aristofane ne contiene parecchi. Nei Cavalieri , Plafagone offre a Popolo, a cui fa la corte, due lepri ; ma Salsicciaio, suo rivale, che nulla ha da offrirgli , non vuol rima- nere da meno, e fissando gli occhi in un punto die- tro a Plafagone, all' improvviso, esclama :

Non mi fa,

Non mi ficca ! Arrivano ! PLAF. Chi arriva ?

SAL. Gli ambasciatori coi quattrini a sacca.

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PAL. Dov'è ? Dov'è ?

{si volta per guardare) SAL. Che t' importa ? Lasciali.

{gli ghermisce le lepri e le offre a Popolo) Oh popoluccio, Che belle lepri t'ho portato, vedi(l).

Nelle Rane, Dioniso spaventato dal rumore della porta dell'inferno che gli sbatte in faccia il portinaio di Pluto, si accoccola e segni evidenti di incoer- cibile paura :

ROSSO Coso, che fai ?

DIONISO L' ho fatta I Invoco il Nume !

ROSSO Oh coso buffo I Su, rizzati prima

Che qualcuno ti veda ! DIONISO— Adesso svengo!

Dammi una spugna, che sul cuor la ponga. ROSSO To', mettila. DIONISO— Ov'è?

(la piglia e ci si netta) ROSSO— Dei d'oro! Il cuore

Ce r hai costì ? DIONISO Lo vedi ? Per paura

Mi è scivolato in fondo alle budella (2).

Negli Uccelli , dello stesso Aristofane , Cinesia, poeta, arriva nella città degli Uccelli, dove incontra Gabbacompagno, e canta :

Tra i soffi dei venti vagare Vorrei sopra i flutti del mar...

(1) Trad. di E. Romagnoli.

(2) Trad. cit.

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GABBAC. Adesso te li smorzo io questi soffi.

{prende due ali, e nascondendo sotto esse il bastone, s 'avvicina) CINES. Ed ora per l'umide strade io veleggio. {Gabbacompagno gli e vicino e finge di assicurargli le ali; Cinesia guarda con soddisfazione).

Grazioso e fine è il tuo trovato, o vecchio ! (Gabbacompagno dandogli una bastonata)

Questi fremiti d'ala ti soddisfano? (1)

La commedia greca, che passò quasi tutta in quella latina, v' introdusse pure il lazzo. E un lazzo cer- tamente quello che contiene, neW Asinaria, di Plauto, la scena in cui Libano al vecchio Demenete intima di ripetere quello che aveva detto :

LIB. E ti scongiuro

Che sputi quel ch'hai detto. DEM. Sarà fatto :

Farò a tuo modo. LIB. Su, su via, finché |

Abbi la gola asciutta. DEM. Ancora ?

LIB.— Sì,

Per Ercole, fin dalle più profonde fauci. I

DEM. Ma ancora ?

LIB. Più. j

DEM, Non basta ancora ?

LIB. Voglio fino alla morte (2).

Passando alla commedia dell* arte , ecco un lazzo che togliamo dal Pedante (3) di Flaminio Scala. Lai scena passa fra Arlecchino, Pedrolino e Burattino.

CI) Trad. cit.

(2) Trad. di G. Finali.

(3) Giornata XXXI, p. 93.

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" A r lece, con un piatto di maccheroni da presen- tare a Ped. da parte del Capitano , glielo ; Ped. piangendo lo riceve dicendo piangere per un acci- dente venuto a sua moglie, e così dicendo comincia a mangiare, jìrleee. piange anch' egli e si mette a mangiare piangendo piangendo ; in quello Burat. vede quelli che mangiano i maccheroni piangendo; si mette a piangere e piangendo mangia ancora egli ; finito che hanno di mangiare, T^ed. piangendo dice ad Arleec. Baciate da parte nostra le mani al Capitano , e via ; Burat. dice il simile , e via ; jìrleee. piangendo e leccando il piatto, via ".

Per i lazzi non accadeva generalmente quello che accadeva per le Prime Uscite, i Saluti, le Chiuset- te ecc. ecc., cioè, essi non trovavano d'ordinario il loro posto in quei tali Zibaldoni parte indispensabile del bagaglio d'ogni comico all' improvviso. Quasi sempre non si tramandavano da una generazione d'artisti ad un'altra che a memoria. Difatti, i Zibaldoni non con- tengono in generale nessuna spiegazione di lazzi, meno quello della Comunale di Perugia, dove il p. Adriani curò di spiegarne quaranta riunendoli in una raccolta a parte. Gli Scenari non hanno che un'indicazione nerica : jìrlec. fa lazzi ; T^ulcinella fa lazzi ; sol- tanto r indicazione è omessa negli Scenari dello Scala, il quale , all' incontro , descrive V azione del comico, senza mai scrivere la parola lazzo. Di rado è spie- gato il lazzo negli altii. Nel Finto Principe degli Sce- nari pubblicati da A. Bartoli abbiamo il lazzo della circoncisione, il lazzo che Cola udienza , quello

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della donna pregna, dell'asino, del creditore e della piazza morta ; nello scenario dei Tappeti c'è il lazzo della valigia; in altri quello del nuovo mondo, della

farina ecc., ecc.

Molti ne sono indicati negli Scenari del Luccatello, della ^Njizionale di Napoli, della Comunale di Pe- rugia. Ma tutti , o quasi , non ne portano la spiega- zione, e quindi per noi restano perfettamente sibillini. Il Ferrucci però ne spiega qualcuno , per esempio, quello di " torna a bussare ". Nella commedia o sce- nario la ^rappolaria, il Capitano vedendo Pulcinella che gli viene ad aprire , sordido e straccione , non crede che sia il mercante che egli cerca e non vuol parlare con lui. Pulcinella per fargli capire che è pro- prio il padrone, il mercante che egli cerca, gli dice: " Torna a bussare " , e glielo ripete a sazietà ; allora il Capitano comprende e riconosce in Pulcinella la persona che cercava (1). Ma, ripetiamo, di molti lazziy meno di quelli spiegati dall'Adriani e dei quali diamo un saggio in una delle appendici di questo lavoro, s' ignora il significato. Che vuol dire, difatti, il lazzo del Pellegrino o quello deW Aquila a due teste, o di (Sgli lo sa, o V altro d' Hermano, yo no te co- nosco ? Spesso anche gli artisti medesimi non li cono- scevano, ed allora, come scriveva il Ferrucci , il co- rago o capo-comico li decifrava e spiegava (2). Però

(1) Op. cit. pag. 363.

(2) Op. cit., p. 354. Parecchi lazzi della commedia dell'arte, morta questa, passarono nel teatro dialettale. Per esempio, la lettera del pa-

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qualche volta, nello stesso scenario, il lazzo era con abbastanza particolari spiegato. Nella 'trappolarla, che Il Ferrucci pubblica in fine deWArte ecc. il lazzo de\~ V Acqua e indicato così» " Coviello vede la schiava sve- nuta, ricorre per acqua col lazzo dell' acqua schietta o di fiori ? Di cisterna o di fonte ? Calda o fredda ? Alla fine cade colla pignatta e finge servirsi dell'uri- na. Turchetta scopre esser stata venduta ; Fedelindo tramortisce, grida : acqua ; Coviello coli' orina ritorna ed alza il vaso dell' orina, e poi ascoltando i discorsi dei due amanti, finge tramortire ; quegli gridano acqua,

drone che il servo ha aperto e letto e poi chiude con pane masticato. Questo lazzo una piccola azione comica noi l'abbiamo visto eseguire con una vis comica indiavolata da Salvatore Tomasino, l'ultima delle ma- schere (Pasquino) del vecchio teatro siciliano. Pasquino riceve una let- tera ; è pel suo padrone : la curiosità lo spinge a conoscerne il con- tenuto ; volge, rivolge la lettera fra le mani. L'aprirà o non l'aprirà? I suoi dubbi cessano ; apre la lettera : qui una lettura spropositata. Poi richiude la lettera ; ma come sigillarla ? Non ha ostie, ce- ralacca... Alla sua mente balena un'idea che gli sembra meravigliosa ; e' é del pane nella credenza ; tira fuori un grosso pane e ne intacca un pezzo coi denti. Senonché, il pane va giù ; ne stacca un altro pezzo, ma questo va a raggiungere l'altro. Ecco subito un'altra idea : egli legherà con una cordicella il pane, così questo, quando l'avrà masticato, non andrà giù per la gola. Lega il pane, ne incomincia la masticazione fa- cendo sforzi inauditi, mercè la cordicella, perché non prenda la via dello stomaco. Infine, riesce a cavarne un grosso pezzo ridotto a poltiglia e con esso chiude la lettera. Ma occorre un suggello, che cerca invano di qua e di ; gli viene una terza idea : mette la lettera sul tavolino e sul pane che ha posto per chiuderla batte la fronte. Egli alza il capo ma la lettera non é più sul tavolino : spaventato, corre a cercarla dappertutto ; infine, scopre che gli é rimasta incollata sulla fronte.

•5Ve/ Regno delle JSCaschere. IO

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egli vino". E un lazzo, come tanti altri, tri valissimo. Ma spesso non erano soltanto triviali , erano addirit- tura osceni. Il p. Ottonelli , uno scrittore seicentista, osservava : " I Zanni, Covielli, Pantaloni, Gratiani (I)

et simili vogliono cavare il ridicolo dall'oscenità

L'anno 1635, io stavo nella clarissima Catania.... Un giorno da un comico fu fatto, per far ridere notabil- mente gli spettatori, un gesto di tanta indignità... cui tutti , e tutti anche i più licenziosi , di modo si ver- gognarono, che calarono unitamente gli occhi alla ter- ra (2) ". E poiché abbiamo fatto il nome dell' Otto- nelli, lo scrittore seicentista ci richiama alla mente una grossa questione che fu vivamente dibattuta ai suoi tempi ed anche dopo, non esclusi i nostri : quella, cioè, della moralità negli spettacoli pubblici. Sebbene il Concilio di Trento si fosse proposto di riformare non solo la Chiesa Cattolica, ma anche i costumi, pure le persone pie s'accorgevano con profondo dolore come il demonio possedesse ancora la società : questa più che aspirare al cielo, correva a precipizio verso l' in- ferno. Lamentavano , sopra tutto , codeste anime pie, r immoralità signoreggiante sulle scene con sconcie pro- duzioni. Già, gli istrioni, come con parola di disprezzo erano chiamati i comici dalle persone che camminavano o credevano di camminare nelle vie del Signore (3),

( I ) Facevano lazzi come allora si diceva anche i Vecchi (Pan tcJone, il Dottore, ecc.).

(2) Della Christiana moderatione del Theatro ; Fiorenza, 1646,1 voi, I, p. 29.

(3) La plebe, che sentiva chiamare istrioni i comici, riteneva che

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erano stati, sotto le leggi di Roma pagana, bollati per persone infami, e quindi messi al pari delle me- retrici e dei lenoni ; ne , innalzato il Cristianesimo a dignità di religione ufficiale, erano stati trattati me- glio : le ingiurie più atroci erano state proferite contro di loro dai Padri e dai Dottori della Chiesa, i quali in ogni comico non vedevano che un predestinato a fornir materia da cuocere alle caldaie di pece o d'olio bollente. Ma il diavolo allora molte cose si spie- gavano col diavolo, specie quelle che si presentavano di difficile soluzione ci ficcava dentro non si sa bene se la punta d' uno dei suoi corni o della sua coda, e gli aborriti e maledetti istrioni , a malgrado delle scomuniche, delle ingiurie e delia quotidiana prospet- tiva di andare a finire arrostiti sulle graticole infernali, continuavano sempre ad essere persone gradite non solo al pubblico grosso, ma anche a quello fine, ari- stocratico, e, quel che è peggio, ai principi , i quali ultimi, certamente , prendendo a proteggere individui così discreditati, venivano meno alla loro missione di conduttori non solo di corpi, ma anche d'anime. Di qui, quindi, il bisogno negli intransigenti , nei fanatici, di promuovere, come essi la chiamavano, un Istanza per- chè il pontefice, supremo ed indiscusso moderatore dei costumi, regolasse la materia con una serie di precetti ai quali i principi, come buoni e ferventi cattolici, fos-

<)uesti fossero stregoni: il che non accresceva, certamente, la stima che il pubblico professava pei commedianti. V. Barbieri, La Supplica, cli- icoTso familiare intorno alle commedie mercenarie.

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sero tenuti d'ottemperare. S'intende che codesti ener- gumeni, per difendere la morale, che essi ritenevano in pericolo, proponevano quasi l'aboHzione degH spettacoli teatrah, specie della commedia dell'arte, la quale, in verità, di tutte le rappresentazioni sceniche del tempo era la più sfacciata, la più sboccata. Ascolti il signor lettore ; il padre Adamo Contzen , della Compagnia di Gesù, il più arrabbiato di tutti i nemici del teatro, fra l'altro, proponeva non solo che il sentimento amo- roso, sotto qualsiasi forma, anche la più casta , fosse bandito dalla scena, ma con esso ne fossero bandite le donne. Il pio gesuita un vero giannizzero della morale voleva inoltre che sulla scena nemmeno si vedessero giovinetti vestiti da donna (1). Si vede che il p. Contzen , nella sua qualità di predicatore , non amava la concorrenza che faceva al pulpito il teatro. Altri reazionari, però meno intransigenti di lui, propone-' vano e l'Ottonelli era fra costoro che soltanto alle'' donne e ai giovinetti vestiti da donna, fosse proibito, di salire sulla scena : le parti femminili, anche amo-f rose, dicevano, s'affidassero ad uomini, s'intende, dalla barba diligentemente rasa ; tutti , poi , concordavano!! che non si rappresentassero fatti turpi , ne si usassel linguaggio licenzioso. E il padre Ottonelli, salendo ì\\ pulpito dell' indignazione parlandosi d'un seicentista'j l'ardita metafora non è fuor di luogo esclamava : " Ma in quale di esse (delle commedie di flauto e'I

(1) Ottonelli, op. cit„ pp. 1 99-200. Negli Stati papali era proibii* alle donne di mostrarsi sulla scena.

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di Terenzio) si vide mai che sopra un palco si con- ducessero un huomo e una donna involti in un len- zuolo? Chi ardì mai fra gli antichi far comparire in iscena un' Europa scoperta ? Quando si sopportò mai anticamente che una femmina uscisse sul palco e sotto le vesti sue tenesse nascosto un huomo ? (1) "• Qui il p. Ottonelli aveva torto marcio, perchè il teatro co- mico latino tanto da lui esaltato in ordine a castiga- tezza di azione e di linguaggio , era forse più licen- zioso di quello ch'egli criticava. Difatti, se il diavolo avesse saputo il latino, egli avrebbe potuto dire a quel buon'uomo di gesuita : " Piano , piano , p. Ottonelli; si vede che lei, sebbene sapientissimo, non ha letto Plauto e Terenzio che nelle edizioni espurgate che lei in mano ai suoi allievi. Ma nel testo integro , in quello che non si fa studiare ai giovinetti, quanta li- cenziosità di azione e di linguaggio ! Senta qua e non arrossisca : nella Casina, di Plauto, per esempio , un vecchio crede di giacere in letto con una giovane bel- loccia e appetittosa, e si trova con un villanzone fir- mato... lei mi comprende ?... Nella Donna d'Andria, di Terenzio (atto 2°) , il pubblico ode i lamenti di elicerò assalita dalle doglie del parto , e nel éM!iles Qloriosus del primo le donne vogliono , nientemeno, tagliare i testicoli proprio i testicoli al soldato- bravaccio !... "

Ma torniamo alle lamentazioni del p. Ottonelli ; il quale narrava che avendo esaminato gli avvisi teatrali

I) Op. cit., p. 331.

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d'una compagnia comica, che aveva recitato nel 1660 in una delle principali città d' Italia, fra l'altro, aveva letto i seguenti :

a) " Signori, si recita V Amoroso sfortunato e Bertolino forrxaro geloso e becco sventurato.

b) " Signori, si recita li Amanti favorevoli con la consolazione del ruffianesimo.

e) " Signori, si recita Ogni aiuto in Amore è buono con Bertolino cortigiana partoriente ( 1 ) ".

Naturalmente, non tutti la pensavano come il padre Contzer o il padre Ottonelli : e' erano gli spiriti illu- minati, e' erano i mondani , i comici , sopratutto, che non solo non dividevano i sentimenti reazionari dei nemici più o meno aperti del teatro comico, e segna- tamente della commedia dell' arte , ma dei comici e della produzione teatrale del tempo assumevano a viso aperto la difesa. A costoro, in verità, il demonio non incuteva soverchia paura. Ritenevano che si potesse andare in paradiso anche se in terra si avesse avuto un po' di dimestichezza con Satanasso. I comici, come abbiamo detto , furono coloro che misero più calore nella difesa; si trattava del loro pane quotidiano e di quello delle loro famigliuole , e quindi impresero a combattere i fanatici, gli ultra-moralisti, ma con garbo ed accorgimento , con la mano guantata , perchè , al- lora, a parlare un po' bene del diavolo, si correva il rischio di cadere nelle mani del Santo Uffizio. Fra^' cotesti comici apologisti, ma prudenti, del teatro co-

(I) Op. cit., p. 284.

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mico, vanno in modo particolare ricordati Pier Maria Cecchini e Niccolò Barbieri , quest' ultimo più cono- sciuto sotto il nome di Beltrame, una maschera da lui creata, come l'altro era conosciuto sotto il nome di Frittellino. Il Barbieri, fra l'altro, scriveva: " La comme- dia è lecitissima... I peccati che possono commettere i comici recitando sono questi : lodare il vizio ; dir pa - role fuor di modo oscene ; far gesti tanto lascivi che possano muovere a libidine le persone; portar ragioni hlosofìche contro la fede; deridere le cose sacre; rap- presentare religiosi e religiose nella favola ; recitare nella quaresima, fuor che per accidente; pronunziare bestemmie; introdurre casi noti che possono disonorare le famiglie ; far comparire donne con parte della vita denudata, et altri simili... Levato questo, è levato il peccato e lo scrupolo ai comici di peccare... ".

No, rispondeva il p. Ottonelli (1), perchè a mal- grado dell' onesto linguaggio del Beltrame (2) , nelle commedie d'oggi si pecca, " poiché in essa alle volte si lodano le fornicazioni, i rubamenti, le vendette e tanti peccati; si dicono spesso oscenità mortali; si fanno gesti provocativi efficacemente alla libidine; si fanno com- parir donne tal' bora troppo immodeste, e quasi sempre s introducono innamoramenti scandalosi e con parti di femminelle impudiche e parlanti lascivamente con gli amici loro ". Tanto il Barbieri quanto il Cecchini mo- stravano di aver pratica coi padri della Chiesa, di cui

(1) Op. cit., p. 41.

(2) Alludeva alla scrittura del Barbieri; La Supplica.

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ripetevano sentenze, opinioni a favore dei comici, giac- che alla letteratura patristica , tutti attingevano , e se i reazionciri vi trovavano armi per combattere gli spet- tacoli, i comici ve ne trovavano anche per difenderli. Questi ultimi però la vinsero. Essi avevano dalla loro non solo Sant'Agostino e San Tommaso, che citavano a tutto spiano nelle loro dissertazioni come se fossero tanti teologi, ma anche i principi e il pubblico : e a loro, per far tacere gì' intransigenti, bastava.

Ma ritorniamo ai personaggi della commedia del- l' arte , la cui licenziosità di parlale aveva posto per un momento a repentaglio la vita della commedia stessa.

Accanto ai personaggi dei due Vecchi, del Capi- tano e dei due Zanni, ch'erano maschere , s' aggira- vano altri ed altri personaggi , molti dei quali come i precedenti, erano maschere. Fra queste ce n' erano molte che non erano che doppioni, derivazioni delle prime con mutazioni o correzioni non sempre profonde o notevoli ; qualche volta non era mutato che il nome e tal' altra il linguaggio o il dialetto che la maschera parlava. Spesso un nome che aveva servito ad indi- 1 care un vecchio, o il capitano, passava ad indicare lo Zanni. Giangurgolo, per esempio, fu Capitano Cala- | brese, poi passò a rappresentare le parti di padre, di oste o di Zanni: capricci di comici.

Del resto, parecchi di codesti nomi non fecero che passare sulla scena ; alcuni , però , ebbero rinomanza più duratura. I Pandolfì, gli Ubaldi, i Cola, i Burat- tini e i Mezzettini, per esempio, ebbero giorni di gloria .

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nel Seicento ; poi, dove più dove meno, scomparvero ; ma non scampariva che il nome ; il tipo o carattere restava. Fra codesti nomi , che rappresentavano tipi derivati da altri, acquistò celebrità Scaramuccia, una maschera creata o meglio rimaneggiata da Tiberio Fio- rillo, comico napoletano, forse parente dell'altro Fio- rillo, Silvio, creatore della maschera di Pulcinella (1). Altre maschere, come quelle di Frittellino o Fritellino e di Beltrame ebbero pure una certa celebrità dovuta più all'arte dell' interprete che alla novità della ma- schera stessa. L'una era stata creata dal Cecchini, co- mico e commediografo, 1' altra da Niccolò Barbieri, anche lui comico e commediografo, e, per giunta, co- me teste abbiamo visto, difensore dei comici e del- l'arte loro avanti al tribunale degli intransigenti in ma- teria di moralità. Se non che, non si trattava , come sopra abbiamo detto, di maschere o tipi assolutamente nuovi, ma di rimaneggiamenti, quando non si trattava che di un semplice cambiamento di nomi. Esagerava,

( 1 ) Parecchi hanno ritenuto che Tiberio Fiorillo , nato nel 1 608 e morto più che ottantenne, fosse il creatore della maschera dello Sca- ramuccia : ma la maschera era più vecchia di lui. Difatti, in un qua-

; dro del pittore francese Porbus, dipinto nel 1572, e in cui l'artista volle ritrarre i principali personaggi della Corte di Francia, compreso il re Carlo IX, nei costumi della commedia italiana, il duca di Guisa, lo Sfregiato, è rappresentato in quello di Scaramuccia, (Rasi, / Comici Italiani; Torino, 1901, voi. I, pp. 888 e segg.). Del resto, lo Sca- ramuccia del Fiorillo era una continuazione con ritocchi e modificazioni del Capitano. Col Fiorillo non portò più la maschera; aveva il viso

1 infarinato. Continuò ad essere fanfarone, adoratore delle donne, pol- trone. (Sand, op. cit. voi. Il, pp. 258-59).

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quindi, il Camerini quando scriveva : " La creazione dei tipi nella commedia a soggetto era continua (1) ". Ed in appoggio al suo dire citava Iacopo Callot , il quale nei suoi ^allì di Sfessania (2) ne riportava quarantanove, non avvertendo, per esempio, che pa- recchi di quei tipi non erano che delle sotto varietà e forse qualche cosa di meno. Difatti , che diversità di tipo poteva esistere fra Capitan Bellavita e Ca- pitan Coccodrillo , fra Brighella e Mezzettino ? Era- no variazioni sullo stesso tema. Di altri personaggi, ricordiamo Tartaglia, il quale vive ancora, ma oscu- ramente, sulle scene delle marionette di città e borghi dell' Italia meridionale insieme a Pulcinella e Colom- bina di cui quasi sempre è il padre. Fu maschera na- poletana, o almeno ebbe la sua origine a Napoli. La sua caratteristica era di essere balbuziente. D*ordina-

(1) / Precursori del Qoldoni , Milano, Sonzogno, 1872, p. 77.

(2) / ^alli di Sfessania del Callot contengono ventiquattro piccoli quadri con 49 figurine di ballerini ; il primo ramo , che fa da fron- tespizio, ne presenta tre; gli altri due. (Croce, op. cit. p. 210). La Sfessania era un ballo popolare napoletano.

Esagerava, e molto, il Camerini anche quando a proposito della commedia all' improvviso scriveva : " La commedia dell'arte non poteva essere che italiama. Essa fioriva come le rose e gli aranci del nostro molle e dilettoso suolo. Ma la sua stessa agevolezza non lasciava pensare ai soccorsi dell' arte poetica come una semplice giovanetta, che sente fiorire la sua bellezza, non va ad acconciarsi allo specchio.... L'artifizio non si trovò sino al Goldoni ". (Profili Letterari; Firenze, Barbera, p. 303). Nello stesso Ottocento lo Stendhal aveva scritto : " On joucit au palais une comèdie deWarte, c'est-à-dire, quelque personnage in- vente le dialogue à misure qu'il se dit. Le pian de la comèdie est af- fiché dans la coulisse ". La Chartreuse de Parme, Ch. XXV.

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rio , rappresentava le parti di padre , ma faceva un po' di tutto l'usciere, il capo-birro, il farmacista, il giudice, il notaio ; non potendo parlare che a stento, egli andava in collera contro se stesso, o meglio con- tro la sua lingua, la quale, con quegli scatti di rab- bia, anziché sciogliersi, s' ingrovigliava di più e ren- deva Tartaglia un parlatore disgraziato. Generalmente quel suo muscolo s' impuntiva a ripetere all'infinito le sillabe delle parole che offrivano materia ad interpre- tazioni scurrili od oscene , per esempio, cu-cu-cu , o cor-cor-cor, oppure fic-fic-fic. Il suo successo però era sicuro, e quasi trionfale; quando rappresentava la parte di giudice , r interrogatorio dell'imputato diventava un capolavoro d' amenità. Da una scena riportata dal Sand (1), togliamo uno spunto di dialogo tra lui e Arlecchino. Il primo è notaio, l'altro gli detta il suo testamento.

ArlEQ. Je laisse mon cabinet à mon cousin.

TaRT. ecrivant. Mon ca, ca, ca...

ArlEQ. Faites vite retirer ce notaire ; il va salir tous les meubles.

Una maschera o carattere che ebbe nel Cinque- cento molta voga non solo nel teatro comico erudito, ma anche in quello a soggetto, fu il Pedante (2). Essa restò a lungo nel primo, sicché noi possiamo riscon- trare codesto personaggio nelle commedie del Fagiuo-

(l)Op. cit.. voi. II. pp. 326-27.

(2) Arturo Graf ; Attraverso il Cinquecento, Torino, 1 888, e Cd.- merini, I Precursori di Goldoni, Milano, Sonzogno, 1872.

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li : nella commedia dell'arte scomparve, dopo i primi suoi successi, gradatamente sino a che non se ne trova più traccia negli scenari della fine del Seicento e del principio del Settecento. Forse perchè divenuta noiosa a furia di ripetersi, o forse perchè non trovava più ri- scontro nella vita ? Certamente , alla sua origine , fu una satira, o meglio una caricatura dell'umanesimo, del- l'erudito, dello studioso dei classici greci e latini. Essa faceva mostra della sua erudizione, un'erudizione af- fastellata all'impazzata, pappagallesca; più tardi, quando gli umanisti vennero giù di moda e s'impancarono a maestri i linguisti cruscanti, il pedante non sputò più sentenze latine , ma toscaneggiò. Infine , il teatro a braccia gli chiuse Tuscio sul viso e il pedante scom- parve dal suo repertorio. La sua erudizione grottesca restò al suo amico il Dottore.

Dopo le Maschere , venivano gli Innamorati e le Innamorate, che recitavano sempre in " toscano " , poi- ché allora la lingua comune letteraria d' Italia portava quel nome, forse per provare che gl'italiani, anche non toscani , avevano qualche abitudine col buratto della famosa accademia della Crusca. Le Amorose porta- vano, d'ordinario, il nome di Flaminia, d'Isabella, di Lucinda, di Lavinia. Molte Amorose perdevano spesso il nome della propria famiglia per assumere quello del personaggio che rappresentavano, come oggi parecchi attori, specie in Francia, entrando in arte , prendono uno pseudonimo. Gli ^morosi si chiamavano Lelio, od Orazio, o Flavio. Le Rosaure e i Florindi non ar- rivarono che assai tardi sulla scena comica italiana.

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Parti non meno importanti delle precedenti , seb- bene ritenute secondarie, erano quelle delle servette^ che nel Cinquecento e in parte del Seicento si chia- mavano fantesche. Erano fior di ragazze o di don- nine che avevano tutta la spigliatezza e la furberia di Coviello e di Brighella. Non erano mai sciocche come Pulcinella o Arlecchino ; erano mezzane abilissime, ombra dell'ombra delle loro padrone, delle quali se- guivano sempre le sorti, come ne dividevano le sim- patie e le antipatie : fatte per amare per tutti i tre atti della commedia, amano disperatamente, s'intende. Bri- ghella o Arlecchino, Coviello o Pulcinella, che alla fine dell'azione scenica sposano come le loro padrone sposano i Leli e gli Orazi. Sono bugiarde, e in que- st'arte sono incomparabili, ma non adoperano la bugia che a fin di bene , o , meglio , per coprire gli amori delle loro padroncine sempre avversate da un padre burbero o avaro. Maestre nel nascondere un biglietto amoroso nel petto o sotto il grembiule, non sono meno maestre nell' arte di farlo scivolare nelle mani della padrona senza che se ne accorga un amante non gra- dito o un genitore sospettoso. Precorrendo il telegrafo elettrico e il telegrafo senza fili, si servono delle loro mani come dei loro occhi per parlare un linguaggio muto, cbe se non diceva nulla ad un marito ingan- nato o ad un padre tagliato alla grossa, aveva il suo eloquente significato per un innamorato : così esse sa- pevano scongiurare a tempo un pericolo, far cambiare opportunamente discorso, prevenire l'arrivo di una per- sona molesta, far pigliare la via dell'uscio ad un a-

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mante per non essere sorpreso in un colloquio intimo. Ma delle mani non si servivano solo per parlare co- desto loro muto linguaggio ; se ne servivano anche per picchiare i loro amanti, se infedeli o ritenuti infedeli, come anche le loro rivali con le quali spesso si az- zuffavano come galletti. Si chiamavano Pasquette, Fran- ceschine, Turchette, Diamantine, Riccioline, Coralli- ne, Colombine. Sotto qualcuno di codesti nomi , più d'una attrice divenne famosa. Tutta una generazione di Colombine fornì la famiglia Biancolelli che recitava a Parigi : Caterina e Teresa Biancolelli. La più ce- lebre fu la seconda , figlia di Domenico , detto Do- minique, famoso Arlecchino. Era piccola, bruna, di a- spetto piacente; ma possedeva qualche cosa di più della bellezza : aveva la iìsonomia intelligente, l'aria distinta, i il gesto facile , svelto , la voce dolce , graziosa. Era nata nel 1665, e si ritirò dalle scene nel 1697 (1). -

(I) Sand, op. cit. voi. I, pp. 213 e segg.

CAPITOLO QUINTO

Il Costume dei Personaggi della Commedia dell'Arte

Il costume dei personaggi della commedia del- l'arte è troppo intimamente legato alle vicende della stessa commedia perchè non se ne discorra, anche bre- vemente, in questo nostro lavoro. Non diremo però cose nuove, e, in generale, seguiremo quanto ne scrisse Maurizio Sand nella sua opera : Masques et Buffons.

Il costume ha la sua importanza, sopratutto, perchè con esso si volle, in un certo modo, ritrarre il carat- tere del personaggio che lo indossava. Ne riassumeva quasi le linee principali.

Fra tutti i costumi , quello di Pulcinella ha solle- vato maggiori questioni che si riattaccano all' origine o provenienza della maschera stessa. Parecchi scrit- tori , difatti , vogliono far discendere Pulcinella dal Maccus delle Atellane, il mimus albus, non solo per certe rassomiglianze fra l'uno e l'altro personaggio, per esempio, la maschera col naso ad uncino, ma anche pel colore (bianco) dell'abito.

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Ma Benedetto Croce, che non crede a siffatta discen- denza per difetto di documentazione, pur riconoscendo come più d'un tratto del personaggio sia comune alle due maschere, dubita che Pulcinella abbia sempre in- dossato Io stesso costume, dopo che Silvio Fiorillo gli | diede celebrità sulle scene. S* ignora , per esempio, quale fosse il costume preciso della stessa maschera fìorilliana. Nei Balli di Sfessania, del Callot, al Pul- cinella mancano alcuni tratti caratteristici: il coppolonty cioè, il cappello di feltro a forma conica e senza tese manca assolutamente ; non porta il suo bastone ridi- colo, ma la daga, ed ha i baffi. Il camicione e i cal- zoni sono presso a poco i medesimi che in seguito sempre indossò, e la maschera , o , meglio, la mezza maschera, è quella da tutti conosciuta, sebbene nulla si possa dire sul suo colore. Sulla fine del Seicento, il Perrucci ne fece la seguente descrizione : " Tutto un pezzo , sgarbato di persona , con naso adunco e lungo , sordido e melenso.... con un sacco a guisa di villano (1) ". Il suo costume comincia a diventare non dissimile da quello moderno nei primi anni del Settecento, come si può vedere in una incisione del- VHistoire du Thèàtre Italien, di Luigi Riccoboni.

Scrive il Sand che il comico Argieri, romano, nel f Seicento , e dopo il Fiorillo , rappresentava a Parigi la parte del Pulcinella col seguente costume : cami- ciotto bianco assai largo ; calzoni larghi a grandi pie- ghe ; scarpe di cuoio ; maschera nera con barba e

(l)Op. cit. p. 200.

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lunghi baffi ; in testa, una berretta bianca e sopra un enorme cappello largo con le tese rialzate quasi iden- tico ai cappelli che si portarono sotto Luigi XI. Ma, in Francia, Pulcinella cambiò quasi subito costume : col Barban^ois (1645), comico della compagnia al ser- vizio del cardinale Mazzarino, Pulcinella indossa giub- ba e calzoni di due colori , giallo e rosso , orlati di un gallone verde ; berretto e mantello corto all' ita- liana ; ha sempre la maschera nera col naso ad un- cino e porta i baffi. Sempre lo stesso Sand afferma che allora in Italia il costume di Pulcinella si piegò verso il modello francese ; il brioso personaggio par- tenopeo fu rappresentato panciuto, serrato nel suo ca- micione tutto abbottonato sul davanti , calzoni larghi alquanto corti, la maschera nera, il naso protuberante con in cima un grosso porro, un largo colletto bianco, cappello grigio, alto e con le tese larghe, e bastone. 11 vestito è tutto in tela bianca. Infine, Carlo Magnin citato dal Sand, verso la metà dell'Ottocento descri- veva il Pulcinella del San Carlino di Napoli nel modo seguente : " Le Pulcinella de Naples , grand gargon aussi droit qu* un autre, bruyant, alert, au long nez crochu, au demi-masque noir, au bonnet gris et pira- ' midal, à la camisole bianche, sans fraise, au large pan- talon blanc plissé et serre à la cinture par une cor- delière à la quelle pend une clochette... ". E il co- stume che da quasi due secoli Pulcinella ha indos- sato. Il Magnin dimenticò d'aggiungervi il bastone.

Arlecchino , diciamo così , il Pulcinella dell' Italia superiore, come quest'ultimo è l'Arlecchino dell'Italia

0\Cel Regno delle JliCaschere 1 1

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inferiore, ha un costume che per alcuni risale al teatro comico latino. Secondo costoro esso prenderebbe ori- gine da quello che indossava il mimus centunculus, il mimo dall'abito rattoppato a vari colori. In una inci- sione riportata dal Riccoboni nella sua opera, egli porta una giubba aperta sul davanti ed allacciata con vec- chi nastri ; i suoi calzoni sono stretti , tutti rattoppati con stoffe di colori diversi, come ugualmente rattop- pata con stoffe multicolori è la giubba. Ha la barba corta, ispida, la mezza maschera nera e un berretto alla foggia di quelli in uso sotto Francesco 1. Non ha camicia sotto la giubba, porta alla cintura una spada di legno e una borsa. Correva voce che la maschera de- gli Arlecchini italiani che recitavano a Parigi, fosse stata disegnata dal divino Michelangelo, il quale ne avrebbe preso 1* idea dalla testa di un vecchio sa- tiro. Nel Seicento, e propriamente dopo il celebre Do- menico Biancolelli detto Dominique, il costume d'Ar- lecchino, in Francia, subì alcune modificazioni: la giub- ba, raccorciandosi, diventò giubbetto, i calzoni si fe- cero più stretti , le toppe di vari colori diventarono losanghe, e molto grandi; non mutò la maschera, ne il cappello, il quale conservò sempre come segno carat- teristico la coda di conigHo, ne la spada, ne il cin- turino.

Il costume di Brighella, nel Cinquecento e nel Sei-v cento, si componeva d'un giubbetto e di larghi cal- zoni di tela bianca, d'un berretto con gallone verdi e d'un mantello : i calzoni e il giubbetto erano filet- tati d'un galloncino verde. Portava come Pulcinelh

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ed Arlecchino la mezza maschera, ma non nera ; era d'un color olivastro con barba. Più tardi il costume subì parecchie modificazioni.

Il costume del Capitano mutò secondo i tempi, con- servando però nel suo insieme una certa aria milita- resca e da don Giovanni con una grossa punta di ca- ricatura. Il vecchio capitano portò casco o morione, s' intende, esuberantemente piumato, pettorale di pelle di bufalo e spadone come quello dei guerrieri me- dievali. Venuto poscia di moda il Capitano spa- gnuolo , il suo costume fu la caricatura di quello degli ufficiali dell' esercito di S. M. Cattolica. Un Capitano Tagliacantoni, italiano , e rappresentato dal Callot in abito stretto alla vita, con cappello piumato e nastri annodati con galante pretenzione alle gambe, pronto a sfoderare il suo terribile spadone per sbu- dellare Arlecchino o Burattino. Sempre nelle inci- sioni del Callot ; ecco il Capitano Bombardone : ha gli abiti larghi, stivali dai gambali rovesciati , spada al fianco, cappello piumato ; ecco Capitan Zerbino : è enormemente impennacchiato , porta sul viso una maschera con occhiali, mentre con la punta della sua terribile durlindana minaccia il cielo alzando così in- sieme al suo braccio destro una parte del mantello. Ecco ancora due altri Capitani ; sono il Capitano Bel- lavita e il Capitano Malagamba : portano al collo im- mense gorgiere spagnuole fortemente insaldate e giar- rettiere sgargianti, pompose.

Il Capitano Spavento (il celebre Francesco An- dreini, l'autore delle Bravure), verso il 1 577, indos-

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dossava : giustacuore e brache a strisce gialle e rosse, | bottoni e laccetti dorati , mantello rosso scarlatto fo- derato di stoffa gialla e filettato d'oro, giarrettiere gialle con frangia d' oro , scarpe di cuoio giallo con rosette gialle, calze rosse, cappello di feltro rosso orlato d'un cordoncino d'oro con piume rosse e nastri gialli, giubba color fragola e polsini a piccoli cannelli, duri.

11 pittore Bernardino Poccetti lo introdusse in una lunetta (la ventesimaseconda) del Chiostro della SS. Annunziata di Firenze : l' Andreini (una figura alta, un po' stecchita, col capo un po' inclinato sulla spalla destra) veste il costume spagnuolo e tiene ferme le* mani sull'elsa del lungo spadone (1). Ha piuttosto l'aria d'un nobile e malinconico gentiluomo che d'un istrione.

Il Capitano Spezzaferro (Giuseppe Bianchi, morto a Parigi nel 1680) portava il costume della Corte di Enrico IV : cappello rotondo piumato, baffi e barba, grande gorgiera , sottoveste e brache larghe. In se- guito modificò il suo costume : portò legata la sua spada ad un grosso cinturone di cuoio e la foggia degli abiti fu quella dei gentiluomini dei tempi di Luigi XII con un cappello di feltro grigio dalle lar- ghe tese rialzate ed una piuma. Più tardi, in Fran- cia, il costume del Capitano si foggiò su quello dei soldati del tempo : tricorno in testa , capelli lunghi trattenuti in una reticella da un nastro, abito a falde rialzate.

(1) Rasi, / Comici Italiani, voi. I, p. 87.

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Giangurgolo , che fu anche Capitano (il Capitano Calabrese), portò un cappello di feltro a cono, presso a poco come più tardi furono rappresentati i banditi delle Calabrie, spadone, giustacuore, brache e calze a liste gialle e rosse.

L.' Innamorato della commedia dell' arte corrispon- deva all'amoroso e al primo attor giovane della com- media moderna, come l' innamorata corrispondeva alle nostre prime attrici giovani e alle nostre amorose. L' In- namorato , che doveva essere sempre giovane e di beli' aspetto , era 1' elegante , anzi l' elegantone della compagnia e indossava abiti del miglior taglio possi- bile e alla moda del giorno , salvo nei travestimenti allora numerosi sulla scena della commedia a soggetto. " Les portraits scrive il Sand qui nous sont par- venus nous montrent des beaux hommes , habilés à la dernière mode de leur temps " (1).

Essendovi sempre nella compagnia oltre Vlnnamo- rato comico, quello serio, il costume del secondo era più ricco, più decoroso , con una punta di dignitosa I serietà, che non faceva venir meno la sua eleganza. Uno dei più antichi Innamorati della commedia del- l'arte fu certamente Flavio , nome teatrale di Flami- nio Scala. Codesto nome d' amoroso non era nuovo sulla scena italiana , poiché un giovane Flavio rap- presenta la parte d'amoroso nella %Jaccaria, comme- dia del Ruzzante (1533) ; ma questi non scrisse com- medie a soggetto. Se non che , nessun ritratto dello

(I) Op. cit., p. 301.

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Scala in costume di Lelio è pervenuto a noi ; d'un altro Lelio, però dei primi anni del Settecento, il ritratto Maurizio Sand : cappello di feltro nero filet- tato d*un cordoncino d'oro con penne bianche, capelli senza cipria trattenuti da un nastro nero , abito di satin nero con rovesci ugualmente di satiny ma color rosso ciliegia , sottoveste di satin bianco ricamato in oro e con pagliuzze parimenti d'oro, colletto e polsini bianchi a piccoli cannelli, brache nere, calze bianche, scarpette nere con fibbie d'oro. Un costume d' Ora- zio del 1645 : questi che è Marco Romagnesi , in- dossa il costume dei tempi del Cardinale Mazzarino ; ha maniere d'un perfetto gentiluomo : ha baffi e bcirba à la rodale, taglio di barba inventato da Luigi XIII, il quale impose ai gentiluomini della sua corte che tutti portassero la barba tagliata a quel modo , cioè, riducendola ai soli baffi e ad un moschettone sul mento; per la qualcosa un poeta anonimo cantò :

" Hélas ! ma pauvre barbe, Qu'est-ce qui t'a faite ainsi ? C'est le grand roi Louis, Treizième de ce nom , Qui toute a ébarbé sa maison ".

Per completare il predetto costume aggiungiamo i seguenti particolari : giustacuore color celeste tenero, con rovesci di satin bianco , gallonato e ricamato in oro ; nastri di seta azzurro-cielo ; colletto e polsini di trina ; porta spada azzurro-cielo ed argento ; brache di satin bianco gallonate in argento , calze bianche in

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seta ; scarpe di pelle bianca ; cappello di feltro con galloni d'argento e piume bianche ; spada con fodero bianco ; bastone dal pomo d'argento ; guanti bianchi.

Il costume di Pantalone, sebbene in qualche parti- colare abbia subito , attraverso i tempi , delle varia- zioni, pure per parecchie generazioni d'artisti fu quello dei vecchi mercanti veneziani : calzoni e calze tutti d'un pezzo, stretti ed aderenti al corpo, di color rosso ; giubbetto egualmente rosso serrato alla vita ; grande zimarra che fu rossa sino alla perdita dell' isola di Negroponte conquistata su Venezia dai Turchi , poi in segno di lutto nazionale, nera; scarpette gialle, di pelle, con la punta lunga e rialzata ; in testa un ber- retto rosso a punta ricurva^ arieggiante un po' il corno ducale. Maschera, o mezza maschera: nera, con naso lungo, adunco : baffi e pappafico lunghi, bianchi ; ca- pelli bianchi, spioventi sulle spalle.

Il costume del Dottore fu quasi sempre quello d'un giureconsulto o d'un medico, o d' un professore uni- versitario dei tempi in cui fiorì la commedia a sog- getto : zimarra nera, brache nere, calze nere, cintura di cuoio con borsa , cappello nero o berretta dello stesso colore. In un disegno degli Scenari della Cor- siniana di Roma, il Dottore porta nella destra un paio di guanti neri, grandi; ma nel 1753, a Parigi, Ago- stino Lelli lasciò il vecchio costume , prese i calzoni corti, la sottoveste alla Luigi XIV, un cappello con le tese più o meno stravagantemente appuntate , la- sciando l'antica berretta dottorale.

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Il costume delle Innamorate e delle servette era quello dei tempi.

Infine , ecco come il Goldoni , nel cap. XXIV, parte seconda, delle sue Memorie, descrive il costu- me che portavano ai suoi tempi le quattro principali maschere della commedia : Pantalone, il Dottore, Bri- ghella ed Arlecchino. S' intende ch'egli parlava della scena comica dell'Italia superiore.

Pantalone ; antico costume veneziano , cioè , veste nera, berretto di lana , camiciola rossa e calzoni ta- gliati a mutande con calze ugualmente di color rosso, pianelle , barba tagliata con caricatura e quindi ri- dicola.

Dottore ; abito a foggia di quello dell'antica curia bolognese, maschera che copre la fronte e il naso con macchia rossastra su d'una guancia, ricordo del viso d'un vecchio giureconsulto bolognese che aveva pre- | cisamente sulla guancia una voglia di vino.

Brighella ; livrea e maschera nerastra.

Arlecchino ; abito da straccione con toppe di di- versi colori, cappello vecchio, gualcito con una coda di lepre, alla foggia dei contadini del Bergamasco.

CAPITOLO SESTO

L'Arte nella Conimedia dell' Arte

Per " figli dell'arte " nel linguaggio del palcosce- nico s'intendeva e s'intende : comici nati da comici, nati quasi sulle scene e in queste educati nell' arte dei loro genitori. La scena è così per loro scuola, palestra d' educaziene artistica. L' arte , la respirano quasi nascendo.

Tali erano i comici della commedia a soggetto ; e forse quasi tutti, poiché, allora, per quella nota di indegnità che colpiva il mondo comico , questo non facilmente riceveva dal di fuori nuovi elementi : esso era diviso dal resto della società da una specie di muraglia ; viveva da se, per se. Le nuove forze non le attingeva che dal basso, da una società non dissi- mile dalla sua e non meno della sua disprezzata, il piccolo ed oscuro mondo dei saltatori di corda, de- gli istrioni da piazza, degli acrobati, ecc. ecc., i quali, se forniti di buone attitudini, attingevano spesso, nel- l'arte, la celebrità. Ciò nonostante non mancavano co-

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loro e chi ci legge deve essersene accorto che dettavano o raccoglievano precetti sul modo migliore di recitare.

Uno di codesti precettisti fu Andrea Ferrucci , il cui nome, in questo nostro lavoro, è stato spesso ci- tato. Nato a Palermo nella prima metà del sec. XVII, visse quasi sempre a Napoli e scrisse pel teatro. Scrisse versi, commedie , pastorali ed anche drammi sacri, uno dei quali, la Nascita del X)erho UmanatOy entrò nel repertorio popolare e fu rappresentato a Na- poli sino a pochi anni addietro, la notte di Natale ; un dramma arieggiante i vecchi Misteri e dove, co- me ricorda il Croce, la parte del napoletano era rap- presentata da Razzullo, scrivano del tribunale. Oltre deWylrte Rappresentativa premeditata ed improvvisa, che mandò alle stampe , scrisse molto per quei tali Zibaldoni di cui abbiamo spesso parlato, rendendosi così utile a tanti comici, i quali, fìngendo d'improv- visare, non facevano che ripetere la prosa del nostro scrittore ; sembra, anzi, che il Ferrucci, come mani- polatore e fornitore di ^rime Uscite , Saluti ecc., abbia goduto d'una certa celebrità, se egli , nel suo libro, scrisse di se e dei suoi lovori come appresso : " Tratto ancor io dalla corrente, avendo ritrovato in uso i versi che allettano l'orecchio , mi sono indotto a far tutte le sudette composizioni alle volte in versi, ritrovandosi una gran quantità di mie prime uscite, disperazioni, dialoghi di tal maniera , e con le rime spesseggiate , e ne danno intorno tante , che hanno infettato non solo le Accademie , ma anche i pub-

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blici teatri , avendo alle volte dovuto con pazienza ascoltare in bocca di stolti e d' ignoranti i parti del mio povero ingegno, di maniera troppo stroppii... Oggi mi par che non solo per Napoli e Sicilia, ma forse per tutta la Lombardia , altro non si ascolta che la T^rima Uscita del Pensiero che comincia : Lasciate- mi , o pensieri ; della Speranza : CK io mi pasca di speme; della Gelosia: Ardo, misero, e gelo; della Bellezza della sua donna ; Oro che tratto dall'indica miniera, amo... Che dissi? Adoro; deW Amante ta- cito : Ove t'inoltri, o Luzio ; con le Disperazioni : A che badi , a che pensi ? Occhio mio che vedesti ? ed infinite altre composizioni , che per compiacere così al proprio genio , come ad istanza d' altri mi sono uscite o scappate dalla penna. Così i Dialoghi : Che pensi ? Che risolvi ? Che vedo ? Che miro ? del Ri- tratto, quello del Pastor Fido che comincia : Dimmi mia vaga Dea (1). "

Di codesto scrittore, dunque, vogliamo qui presen- tare una breve raccolta di precetti, i quali ci daranno un' idea, molto approssimativa, s' intende, di ciò che fosse un artista comico del secolo XVII , o meglio, come si disegnasse la figura del perfetto artista co- mico nella mente d* uno scrittore di regole sull' arte di recitare nel secolo XVII.

Tralasciando tutta quella parte che nell'opera del Ferrucci si riferisce ai diversi generi teatrali e alla forma dei teatri, saltiamo subito alla regola sesta della

(1) Op. cit., pp. 237-38.

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^arte prima del suo trattatello. Essa s' intitola : T)ello scieglimento dei personaggi atti a rappresentare. Il Ferrucci scrive : " Letta l'opera è di mestieri per la scelta dei personaggi atti a rappresentarla, ed in ciò è necessario che si sottomettano al parere di chi più ne sa... il quale conosca in che riesca buono uno e in che 1' altro... ]-! Antagonista o Protagonista... sarà quella persona che avrà più parte nella faccenda, o sopra cui cade tutta la catastrofe del negozio... giac- che non sarà la parte principale il primo innamorato o la prima dama ma quello che avrà più da fare e che ha più luogo nell'intreccio, benché fosse vecchio o buffone o ruffiano ; chi dunque avrà la voce altera sarà buono per un Tiranno , purché 1' accompagni il personaggio ; chi con voce flebile accompagnerà un volto femminile, sarà atto per un amante appassio- nato ; chi avrà la voce tenue e il personaggio gracile può togliersi la parte d'un vecchio o d'una vecchia; chi sarà bel giovane , grazioso ed intendente di ciò che dice, si può prendere la prima parte degli Eroi più graditi... A tutti però v'è d'uopo accompagnarsi il sapere, altrimenti saranno tanti pappagalli o scimie... Le parti graziose e ridicole non devono darsi ad altri se non a coloro ai quali concesse il Cielo per spe- ciale benefìcio la grazia ossia le pose ; perchè un gesto fatto a tempo, un motto, un'atto accompagnato dal garbo moverà infallibilmente al riso ; chi però non è condito di questo sale, dica pure i motti più arguti, le vivacità più belle , i refrassi (per servirmi d* un

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termine spagnuolo) più reconditi, gli equivoci più mi- rabili, sarà il gettarsi in un pozzo. "

Nella Regola Settima il Ferrucci si occupa " della pronunzia più atta a rappresentare e quali difetti si deggiano avvertire nei diversi idiomi ". Crede che " nella nostra Italia non vi sia chi perfettamente parli... 1 fiorentini son tanto difettosi che nulla più , poiché oltre che proferiscono nella gola dicendo invece di cavallo xhavallo, per duca duxha... hanno ancora tanti vocaboli astrusi e contesti che fanno un sentire molto barbaro all'orecchio... Dunque , in loro non è buona la lingua naturale se dallo studio non viene coltivata. I Senesi , i Lucchesi e altri toscani , anche peccano nella gola , benché i Senesi qualche poco meno dei Fiorentini. I Lombardi come sono i Milanesi, i Vi- centini , Modenesi , Mantovani , Cremonesi , Farmeg- giani , Bergamaschi , Veneziani ed altri hanno i loro difetti, non proferendo le lettere doppie... Al contrario in alcuna parte , che richiede la lettera semplice , la raddoppiano... I Napoletani non sono senza la loro taccia, poiché oltre che proferiscono con gola aperta facendo che molte lettere che vanno chiuse aperte, e molte aperte chiuse con e largo, quando ha da essere stretto... oltre che non proferiscono le parole con nd, dicendo monno, profonno per... mondo, pro- fondo... I Siciliani hanno più difficoltà degli altri a proferire nette le psu^ole toscane... Hanno il medesimo difetto dei Napoletani del nJ, i due nn, d' allungar tutte le e in altero, guerriero, impero e Vo in mondo, gonna... anzi con un'estimazione così grande che di-

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cono proferirle bene, non accorgendosi dell'enfasi na- tiva... I Bolognesi e Genovesi gli rilascio alla fatiga del benigno lettore , che fatiga ci voglia a far che sieno sane quelle lingue che sono mezze per natura ? 1 Romani... non v' ha dubbio che favellano bene, non già la plebe... Quelli della Corte, studiano una lin- gua pulita , colta e svelta , ma , per dirla, alle volte affettata... La lingua dunque più tersa e buona per rappresentare in buon linguaggio italiano sarà la Se- nese per li vocaboli affinato nella Corte di Roma per toglierli il difetto della gola "...

La Regola Ottava s' intitola T)ella S^emoria ed uso di essa in apprender le parti. Ìl Ferrucci ci fa conoscere come ai suoi tempi Fazione del suggeritore non fosse continua anche nella recita della commedia da lui chiamata " premeditata ". "E ben vero che per esser la memoria abile vi è necessario chi sug- gerisca o soffii, chiamati anche dagli antichi monito- res ; però questi hanno da servire in caso di bisogno, quando il rappresentante intoppasse o sbagliasse nel rispondere o proponere. Per mandcire a memoria la parte il miglior tempo sarà quello della sera e la mat- tina sull'aurora ripeterla, perchè le fantasime s' impri- mono con 1' ombre della sera e poi si ravvivano, ri- trovandosi lo stomaco scarico di umori e la testa sgombra , che esalando dai cibi ingombrano il cer- vello... Deve chi manda a memoria ricordarsi con discorso, e pensare contemplando la cosa ripassandola con intelletto e considerazione, acciocché poi fìsso gli resti ciò che bave appreso per poterlo ridire, onde

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siamo consigliati a notare i luoghi e le imagini con segno... V. gr. se si tratta di cose d'agricoltura, guerra o navigazione, l'imagine loro saranno la zappa, la spada, l'aurora... Se il discorso sarà lungo, il ri- medio sarà dividerlo in particelle, perchè così non si confonde nell' immensità la memoria... Il maggior ri- medio però per far la memoria più facile, e pronta, è r esercizio e la fatiga, perchè lasciandola stare oziosa, appunto come il ferro s' arruginisce "...

La Regola Nona e dedicata a\V Azione, la quale scrive il Ferrucci , seguendo Demostene citato da Cicerone, è la voce, il giuoco degli occhi, quello del viso e il gesto. Nella pegola Decima s'occupa della Voce. " La buona voce è quella eh' è dolce, libera e sonora, uguale al tintinno dell'argento o dell'acciaio, ma che non faccia uno strepitoso suono, non sia vi- trea a guisa di campane rotte e stuonate , che non può in alcun modo accomodarsi all' orecchio anzi lo offende. I suoi vizii sono l' esclamare urlando, innal- zarsi senza tempo, oscurarsi all' improvviso, divenir rauca... Non deve la voce sempre esser la stessa, ma bisogna mutarla secondo i moti , le passioni dell'ani- mo, sarà lucida quando si proferisce con tutte le pa- role intiere, e deve stare attento il rappresentante a precipitarle , ne troncarle , confonderle con le seguenti , darci molto spazio nel distinguerle ; far che degli ultimi accenti se ne oda chiaro il suono, ne che s' inghiottino, o si tronchino per mancanza di fiato ; ed allora che il periodo sarà lungo, può ritro- vare nel mezzo la pausa e riposarsi... La voce grande

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è tacciata, e deve misurarsi con l'udienza e col luogo per non esser troppo stridente, che stordisca, ne troppo piana, che non s'intenda... Al contrario, la voce troppo fragile rende inutile il rappresentante... Deve la voce mutarsi secondo la opportunità del tempo, e l'occasione variandosi la forma del parlare... Dovendo essere spiacevole, ora alta, ora umile, or gioconda, or dura; e per darne qualche distinzione o si parla con amore, o per ira, o per commiserazione, o con riverenza, o con contrasto, o con disperazione, ed essendo la voce r interprete della mente, quanto saranno i moti di questa tanto saranno le mutazioni ; così nell' amoroso la voce deve portarsi dolce ed alquanto fievole ; nell' ira , a- ti'oce , aspra ed interrotta da sospiri ; nella commise- razione, patetica e grave ; nella paura, vergognosa e tremula ; nella forza, veemente ; nel diletto, allegra ; nell'arroganza, alta ; nel disprezzo, più distesa ; nella riverenza, umile e piana ; nel contrasto, con tutta la forza elevata, e nella disperazione confusa... Avanti ai re si parli con rispetto, ne s' innalzi la voce ; e con rispetto ancora si parli a dame, ai maggiori, ai padri, ai vecchi, ai nobili , ai padroni ; con familiarità con le donne amate, e con gli amici, con gli uguali; con gravità con i servi e buffoni, cogli schiavi e sudditi, e di questa maniera osservando il costume si trasformi in quel personaggio che rappresenta... Nei dissensi sul principio la voce sia tenue , nella narrativa più pronta e nelle prove più agitata, nelle digressioni rimesse, nella persuasione tenera, nel commuovere a pietà flebile... Si fugga come la peste la cantilena

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perchè offende V ascoltante, perchè ha dell' impro- prio, dovendosi rappresentare appunto come si favella... Si avverta ancora di cambiar sempre tuono... e se la commedia non è altro che il decantato specchio della vita, si rappresenti come la cosa succedesse e si parli come comunemente si suole per la città ".

La Regola Decima è consacrata al gesto. " 11 ge- stire accompagnando la voce... ed essendo un muto parlare alle volte più esprime un atto muto ed un gesto che la parola istessa... Deve alla voce susse- guire il gesto, ma devono uscire ed essere così riuniti a tempo, ed ubbidire alla voce il gesto, che niente di superfluo vi sia... E poiché ogni parte del corpo ha di mestieri di regola sarà necessario che di cia- scuna di esse, si faccia menzione particolare... Si co- minci dalla testa. Il levarsi del cappello deve f£U"si con grazia e con nobiltà accompagnata con la rive- renza all'uso però del personaggio che si rappresenta di qual paese si sia, cioè lo spagnuolo col portare il cappello al petto, con la concavità al di dentro, ac- ciocché non paia che chieda 1' elemosina e facendo riverenza coi piedi incrocicchiando le gambe, movendo il piede destro in circolo al tallone sinistro , quando si fa riverenza al cielo , e quando agli uomini dal sinistro al destro, inchinandosi con star diritto il petto e la testa. Alla Francese, stando fermo coi piedi, op- pure, ritirandoli l'uno dopo l'altro un poco a dietro, si cava il cappello portandosi al petto, ed incurvan- dosi con la testa e vita verso a chi si fa riverenza. All'Italiana si fa un misto dei due costumi... All' A-

S^el Regno delle S'iiCaschere. 12

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siana senza togliersi il turbante si porta la mano al petto inchinandosi con la testa "...

" volto si muta cogli affetti , a cui obbediscono gli occhi, le palpebre, le guancie, le ciglia, la bocca; la maggiore espressione però la faranno gli occhi. Le ciglia sono viziose allora che stanno sempre immobili, M e viziose quando troppo si muovono... incurvarle ed incresparle si fa negli atti di meraviglia, ma con modo, che non ecceda i limiti... Gli occhi sono le finestre del cuore, gli specchi dell' anima, gli indici dei co- stumi... Ci son prova gli occhi di ciò che è dentro nascosto col mostrarsi o lieti o mesti o benigni o se- veri o stupidi o lascivi... Sieno per tanto gli occhi gravi, modesti nelle donne, brillanti negli innamorati, arguti nei servi astuti , dimessi nei servi sciocchi ; esprimano con vezzi gli amori , domandino colle la- grime pietà "...

" Il naso e le labbra non si devono toccare, mun- gere, ne mordere, ma tenerli sodi, e muoverli a tempo e modo ; non si deve forbire il naso, od in caso di necessità lo faccia con gentilezza nel fazzoletto, senza strepito... Così non si permette lo sputo se non nel moccichino; non si rutti, non si sbadigli... e se fosse astretto a farlo. Io faccia, coprendosi la bocca con la mano in modo che non si veda... e così dico delle altre azioni immodeste e illecite , lasciando qualche licenza ai buffoni... Stia la cervice retta, ne il collo si distenda... Gli omeri non si innalzino e si abbas- sino perchè è un'azione servile, ed un gesto da Zan- ni. Il petto stia anche diritto e non incurvato, se non

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quando rappresentasse un vecchio... Ma perchè l'arte del gestire consiste sopratutto nei gesti delle mani e delle dita, di questi alquanto più diffusamente bi- sogna discorrere. Del muovere le braccia si abbia ri- guardo a farlo con moto più violento nelle contese , con rimesso nel familiare... Non devono le mani in- nalzarsi più degli occhi, ne scendendo passare il petto; per traverso che la destra non trapassi V omero sini- stro, la mano sinistra non gestisca mai senza la destra, ma le sia come compagna e serva... Nel maneggiare un bastone, dardo o altre armi, si faccia con leggia- dria , appoggiandovisi , passandoli dall' una all' altra mano, e vi si possono fare bellissime azioni... I gesti con tutte due le mani si fanno quando s' innalzano al cielo per adorarlo o quando s'abbassano per sup- plicare... Batter le mani e ferir il petto è proprio delle donne, e non degli uomini particolarmente saggi ; mandar fuori il petto o la pancia è proprio dei stolti come del JTO/es Qloriosus di Plauto buffone e pa- rassito; quando il personaggio parla solo seco stesso o esortandosi o commiserandosi , si faccia colla mano curva toccandosi leggermente con le dita il petto... Il mover le dita deve esser di questo modo, il medio deve inchinarsi verso il pollice disteso, e gli altri tre allora che si comincia a ragionare con un moto leg- giero da una parte e dall'altra ; guardisi di contrarre le dita di mezzo sopra il pollice facendo le corna , essendo un gran difetto. Le tre dita contratte verso il pollice disteso, disteso l' indice, vogliono a ripren- dere e giudicare ; l' indice riguardando la mano, l' o-

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mero un pò* inclinato afferma , volto verso la terra costringe. Nasconder la faccia con le dita leggermente approssimandole alla bocca , o al petto , è gesto da vergognoso, indi portandola prona, o non poco distesa

si rilascia "

" S'accompagni il gestire col verosimile, e nelle di- mostrazioni volendo dire : quest' occhi ecc. s' accenni e non l'affetti toccandoli, ma con un semplice moto di dita... 1 piedi si muoveranno secondo 1' occasione con chi si parla, non sempre come statue star collo- cati nel medesimo posto. Si dispensano altresì molte cose ai buffoni, come sarà torcere il naso o il collo, digrignar i denti, contorcer le dita... Non debbono però costoro allontanarsi di modo che annichilino le regole, non dovendo appartarsi dal verosimile , ne far mal- creanze al popolo, voltando sporcamente il tergo, far certe azioni stomacose , come ammazzare gli animali schifosi, e mangiarli, far atto di far le ventosità e sopra tutto atti osceni ed impuri... Insomma, bisogna in tutto esser modesto, e non far come coloro che recitando di- menano il capo, gestiscono con tutto il corpo e paiono morsicati dalla tarantola... Si deve stare in scena sodo, e non muover le natiche, andar saltando pel palco e far azioni da matto, ne i gesti esser superflui, ne man- canti. Il portar le mani indietro è azione viziosa... Si esprima ogni cosa con tanta espressione come se fosse veramente successa... Nelle confabulazioni, chi ascolta deve star immobile ed attento, ne divertirsi, quasi co- lui che seco parla, seco non parlasse, ma all'udienza... ne si devono mai volgere le spalle agli spettatori, ma

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stando tutto al cospetto dell* udienza , declinare sola- mente la testa al compagno favellando , volgendo un poco il petto... Nell'entrare si procuri ancora entrar di fianco... nel camminare non si affretti il corso , ne si renda con tanta flemma misurando i passi... Neil' in- ginocchiarsi, nello star da man destra, s'inginocchi col ginocchio destro ed a sinistra col sinistro acciò che si venga a star sempre col petto al popolo. La donna nell'uscire in piazza non s'allontani dalla casa che un passo parlando con altri , per osservar il decoro : re- stando ella sola, è padrona del palco. Rappresentando in camera trascorra a sua voglia ; ma si ricordi d'es- sere donna ".

Nella Regola Decimaseconda, il Ferrucci parla di Alcune azioni apparenti nel recitare, il qual titolo egli spiega così : " Avviene bene spesso che alcune azioni si fanno in scena che se non sono bene rappresentate invece di muovere V udienza ad ammirazione , la so- gliono muovere al riso... Occorre, quindi, che l'artista conosca l'arte della scherma, perocché, occorrendo, se ne mostri edotto, e in un duello sulla scena si com- porti in modo da non far ridere gì' intendenti di cose cavalleresche... Il cavar mano alla spada in ogni altra occasione , o contro il servo , o per dividere , o per altro, si faccia anche con garbo, avvertendo che una azione di queste riuscendo sbagliata, o ridicola, fa per- dere di corretto il rappresentante... Accade anche di avere a cadere, e questo anche si faccia in modo che non volga le spalle, il tergo o altro, cagione di riso; in questo anche vi bisogna arte per far cadute con

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tutta la vita, da fianco, indietro o sul volto e si è in- ventato ai nostri tempi di chi fa la parte di Furia, cioè. Amore, il cadere nella buca col capo basso , avanti o indietro, cosa bellissima a vedersi, ma pericolosis- sima... Così anche pericolose sono le cadute da un monte, da un balcone, da scale, dal trono, cose che piacciono molto quanto più e* è di pericolo...

" Gli svenimenti si facciano in modo che sembri il rappresentante a poco a poco perdente i sensi e che vi sia luogo di appoggiarsi se sarà in camera sedia, e se in istrada qualche poggiuolo , ove con pie tre- mante, con ambascia di fiato, con agitazione di petto, pian piano, come per appoggiarsi, gli venga il deli- quio, o pure che ci sia persona che lo sostenga...

" Deve il morire in iscena , quando s' ha da fare, farsi nobilmente , ne mi dispiaceria V ultimo atto del morire andarlo a terminar dentro ; quando però si fa- cesse fuori, sia la morte dei tiranni accompagnata da atti disperati e violenti, e negli ultimi palpiti stentata e con dibattimenti , travolger di luci ed impazienza ; e nella morte degli innocenti moderata... Nella morte degli amanti, o persone indifferenti, s'accompagni con li gesti , coi quali suole arretrar la morte un animo commosso , o dalla sua volontà o dalla sua dispera- zione o dalla forza dell'inimico ferro... ".

Rammenta il Ferrucci che gli antichi, nei pubblici spettacoli, non conobbero " le metamorfosi di trasfor- marsi in aquila, leone, serpente , ed altro... Oggi che l'arte è giunta a tanta eccellenza che ci fa vedere ciò che r occhio appena può vedere... queste belle stra-

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vaganze non escluderei dai teatri, essendo atti usuali e tanto comuni che fanno stupire lo stesso stupore... e se si è conosciuto che dilettano , piacciono e rie- scono, si accettino... ".

" Il pianto e il riso che devono farsi in iscena, hanno da mostrarsi con arte. Negli eroi si deve sfug- gire il pianto ; alle volte però è loro concesso... Ma questo pianto... deve essere castigato dalla modestia...". E quanto alle donne " non gli si deve vietare , ma concedere il pianto , conforme la condizione della donna, che non sia tumultuoso e stridulo nelle dame, e concesso più alle donne vane e scaltrite , perchè queste : Ut flerent oculos erudere suos (Ovidio). Si deve, ne può, sfuggirsi il piangere, se l'amante, il padre, pa- rente o amico è morto. Ma agli uomini specialmente virtuosi il gridar come f emine si vieta... Il rider fuor tempo in scena è difettoso, onde si dee star sodo in tutte le parti, poiché se rappresenta persona grave è disdicevole... Così anche nelle pau^ti ridicole lo star sodo muove a riso l'udienza, e se pure qualche ghi- gnetto si scappa, si sappia raffrenare.

" L' irrisione, o scherzo è diviso dai latini in irri- sione e subsannazione ; la prima delle quali si fa con l'arrugare il naso, storcere la bocca, dimostrare i denti... e s* irride ancora distendendo il dito medio; tenendo compressi gli altri è di molto improperio, come testi- fica Suida, così oggi presso i Germani è fare un fico e presso gì' Italiani far le corna con l'indice e l'anu- lare eretti. Quando ciò avvenisse di farsi nel rappre- sentare, si guardi a chi e da chi si faccia, perchè ai

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buffoni sarà qualche volta lecito, ed illecito alle per- sone gravi... Quando si sta parlando con un perso- naggio avviene che uno deggia parlare a parte, e ben- ché ciò non abbia del verosimile , ad ogni modo è necessario, per chi non avendo altro modo d'intendere gì* interni affetti e pensieri per palesar agli astanti, è forza in scena di farlo a questo modo, servendosi co- me di figura apostrofe, come se a caso e non ad arte succedesse con voce ne tanto alta che paja che s'ascolti il confabulare, ne tanto bassa che non l'ascoltino gli spettatori, dovendo il compagno far mostra di star al- lora divertito, ne ascoltar ciò che a parte dice il com- pagno come se quello affatto non vi fasse nel discorso. L'accennare , v. gr. : Ecco il tale , non si faccia di- stendendo il dito , perchè è fanciullesco ; basta farlo con un cenno di testa, o semplicemente di mano...

" Occorrendo di doversi mangiare in scena da per- sone gravi... colui che ha da mangiare, abbia a me- moria monsignor Galateo {sic) e non faccia da pcira- sito e da Epulone, ma da persona grave; mostrando di far queir azione per necessità di recita non per fame che lo divora; permettendosi solo ai buffoni qualche licenza, purché... non passi i limiti , poiché , benché il fine della parte ridicola sia il far ridere , dice il Minturno: benché al comico di cianciare liberamente e di sfrenatamente motteggiare si conceda, non perciò tanto che non abbia modo e natura...

" L'uscita in scena dee farsi col pie diritto avanti e dalla scena o quinta un poco rimoto affinché par- lando si venga a portarsi vicino al cospetto dell' u-

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dienza , purché qualche necessità non richieda che s' esca con violenza fuggendo , combattendo , pre- cipitandosi... L' entrata sia nella quinta o scena più prossima al prospetto, e di maniera che le ultime pa- role non si dicano in mezzo alla scena , ma presso all'entrare, perchè altrimenti si venirà a fare una scena muta finche il personaggio non entri. Neil' entrare la persona grave venga con gravità; chi entra disperato, con furia; cosi chi esce con fretta; insomma, bisogna ricordar sempre che si consideri l' imitazione del vero, trasformandosi in tutto e per tutto al personaggio che si rappresenta ".

" Nel far violenza come da un tiranno ad una donna, sia con espressione decente, e non impudica. Nel far dispetto, con ironia che dimostri l' interno dell' animo alterato; nei dialoghi, con modo familiare e composto; nel fuggire con un moto regolato e violento , essen- doli lecito batter col piede la terra, rivolger gli occhi al cielo, mordere il guanto con rabbia, batter legger- mente una mano con l'altra ".

Nella pegola Decimaterza il Ferrucci nota i di- fetti eh' egli rilevava nella recitazione; difetti eh' egli distingue in naturali o derivanti da incuria. " Difetto naturale è 1' esser bleso, insulso, che abbia cantilena precipiti il parlare, sia sinistro nelle azioni, o contraf- fatto di persona ; or se a costoro non si possono dal- l'arte togliere i difetti con far che proferiscano bene... quando i difetti non possono esser vinti dall'artifizio, sarà meglio escluderli dal recitare. Essi sono quelli che non arrivano a pronunziare come Demostene gio-

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vinetto la R, il far C del P ecc. Gli insulsi sono certi uomini che hanno una voce grossolana, un proferir sciocco... La cantilena si può superare da chi ha giu- dizio... Altri invece di parlare latrano... Vi sono di quelli che affrettano la pronunzia... e questi devono correggersi, perchè nel rappresentcìre si parla appunto come si fa coi principi, con gli amici , coi familiari, insegnando Andronico che la commedia sia Speculum quotidianae vitae. Difetto è ancora il precipitare e con- fondere i sensi... Difetti dell' incuria negh attori sa- ranno o r ignoranza o la negligenza : l'ignoranza è il non saper come si dicano le parole se brevi o lunghe, negligenza intralascicue molte cose che richiedono le regole sceniche... Le negligenze sono il far scena vuota, restarvi muto , incontrarsi con personaggio che esce,: far confusione nel parlar molti a un tempo, uscir dalla parte, iai qualche solecismo con le mani, o qualche mala creanza. Il far scena vuota e un grave difetto, di modo che riduce l'udienza a gridare: fuora, fuora..<| Il restar mutolo in scena è anche difetto grande, o sia per mancanza di memoria, o per non rispondere a tempo , ne altro rimedio si potrà ritrovcu^e se non accompagnarlo con qualche azione di meraviglia o di attenuarsi subito all'improvviso... L' incontro col per- sonaggio che deve uscire è anche difettoso , perchè alle volte s'incontra con taluno che si deve sfuggire..^] e si viene a fare una terribile improprietà ; di più volendo questi uscire e quegli entrare , si lascia la scena vuota... La confusione nel parlare succede alle volte nell'attaccarsi uno alla parte dell'altro, di modo

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:he favellino a due, a tre, che fanno una Babilonia... Jscir dalla parte è quando vi si aggiungono parole )Itre quelle che ha fatto l'autore... Far solecismo con e mani è mostrar cielo per terra... e contradirsi il ^esto con la parola... Far mala creanza al pubblico ara volgerli il tergo, sputar sconciamente, far azioni 'ili, dovendo tutte esser decorose... "

Nella pegola Decimaquarta, il nostro scrittore s'oc- upa dei personaggi dei diversi generi teatrali. La- ciando in disparte ciò che scrive intorno ai perso- laggi della tragedia , riportiamo con tagli opportuni |uanto soltanto dice a proposito dei personaggi della ommedia. " 1 personaggi in essa introdotti e che ono oggi in pratica saranno : giovani innamorati dis- ioluti, prodighi, rissosi, viziosi, o virtuosi; i vecchi la- civi, avari o testardi, o accurati, o economi ; le madri li famiglia virtuose, e alle volte lascive, ma occulte ^ icendo mostra d'onestà; donzelle vergini ed amanti, lesiderose di marito, oneste , prudenti , alle volte ri- essate ; meretrici lusinghiere , bugiarde , ingannatrici, vide , volubili , perfide , ingorde e sentine di vizi... )ervi astuti, mordaci e solleciti; oppure sciocchi, sem- plici, ignoranti, codardi, timidi e poltroni; parasiti in- ordi, voraci, seccanti, spie o traditori per un bicchier i vino, o per una mangiata; pedanti affettati e sucidi, inamorati, correttori dei vizi altrui, e non dei propri

gentaglia presuntuosa; bravi d'orrido volto, di gesti orribili, tutti parole, di grandi promesse, millantatori, la in verità timidi, pusillanimi, conigli ; ruffiani, ac- orti, insidiatori, adulatori , rapaci ; serve , scherzanti,

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innamoraticcie, maliziose e vili. Costoro hanno da es- sere o della sfera media, come sono semplici genti- luomini, dei quali erano le commedie togate o prete- state e tanto bene oggi praticano gli Spagnuoli chia- mandole di cappa e spada... Così sono i Dottori ci- caloni , i Magnifici o Pantaloni , mercadanti , artisti, tavernarì ed altre persone plebee... o introducendovi persone di contado... Nel rappresentarsi si osservi an- che di costoro il costume, e non faccia il Vecchio il Giovane, l'Innamorato il Dottore... I servi astuti non diano nella sciocchezza, e i servi sciocchi nella sa- gacità ed arguzie; i Parassiti non sieno tanto affettati, ma naturali; i Pedanti non attillati e galanti nel ve- stire... I Bravi sieno di persona confacente al vanto ma poi neir azione pronti alla fuga... i Ruffiani nor sieno melensi, ma dimostrino l'audacia... Le Serve nor sieno sfacciate , senza vergogna e scandalose , ma h loro vivacità sia accompagnata da una grazietta inci- tativa, ma coverta. "

Nella seconda parte dell'opera, il Perrucci s'intrattiem in modo diffuso della rappresentazione all' improvvise o a soggetto. Già in un precedente capitolo, noi ab biamo riportato più d'un precetto del Perrucci intorm alla maniera di comporre e recitare una commedia im provvisa ; in ogni modo , eccone ancora alcuni altri

" Studino (/ comici) di sapere la lingua perfetta ita liana coi vocaboli toscani se non perfettamente, almen( i ricevuti... Si sappiano ancora le figure e i tropi tutt della Rettorica, perchè con questi si potran fare grand» onore... Le metafore sieno temperate e non stralunate..

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I concetti che si deve apparecchiare per servirsene air occasione, devono essere raccolti in un libro con titolo di Cihaldone Repertorio , o a suo beneplacito ;coi titoli d' Amor corrisposto , di Sprezzo , Priego, Scaccia, Sdegno, Gelosia, Pene, Amicizia, Merito, Partenza ecc. " Ha cura, però, il Ferrucci di ricor- dare al comico che le composizioni meditate eh' egli vorrà introdurre nel suo dire improvviso, non stonino, molto con questo. " Non presentino esse tanto l'aria d'intarsiature ; ma le une e l'altro abbiano una cert'aria di famiglia. Diversamente, la disparità di stile offen- derebbe l'orecchio delicato dello spettatore " (1).

E poiché nell'arte di ben roppresentare la comme- dia a soggetto lo Zibaldone o Cihaldone di cui parla il nostro Ferrucci, è una specie di forziere dal quale r artista comico può a suo talento tirar fuori gemme per incastonarle nel suo dire all' improvviso, come bril- lanti o smeraldi in un anello o in una collana, affinchè il suo porgere non riesca troppo povero o sciatto, noi CI permettiamo d' aprire , piano pianino , codesto for- ziere per mettere sotto gli occhi dei nostri lettori qual- cuno dei tesori che racchiude.

Cominciamo dai Concetti che il Ferrucci definisce con una sentenza di Torquato Tasso: " Le immagini delle cose le quali non hanno soda e reale consistenza in se stesse, come le cose, ma nell'animo nostro hanno un certo loro essere imperfetto , e quasi dall' imma- ginazione sono formate e figurate... "

(I) Op. cit. pp. 96-97.

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CONCETTI

(Di Amore corrisposto)

" Corri tutto negli occhi miei, o cuore, per beati- ficarti nella vista della tua cara, e s' egli è vero che più vivi nell'oggetto amato che in te, anima mia gioi- sci, rallegrati, brilla, scorgendo chi ti moto e vita".

(Di Priego)

" E da chi avesti il latte, già che sei così barba- ra ? Forse come Paride che t'allattò un'orsa, mentre crudele ti esperimento, o come Ciro ti die le poppe una cagna, mentre sempre arrabbiata meco ti mostri; o qual Clorinda suggesti le mamme di tigre ircana , se non posso colle lusinghe domesticarti ?

("Di Gelosia)

" Io son gelato, perchè sono amante ; o strana an- tiperistasi ! Il foco d'amore è così al gelo della gelo- sia congiunto, che fanno un misto a tormi la vita, e la mia passione per questi due barbari e un'infermità che fa che io geli nell'esterno, quando una violentis- sima ed ardente febbre mi consuma le viscere ".

fT>i "Pace) " E chi potrà risanare il mio cuore morsicato dalla

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icrpe velenosa della gelosia altro che il balsamo del- 'amorosa corrispondenza ? E quanto fu più pericoloso 1 morbo tanta più cara mi è la restituita salute; onde .ospenderò il core in voto al tempio della tua fede, :he mi ha tolto alle fauci della morte ".

fT)i Partenza)

" Parto, o bella ; ma con qual core lo sa solo il )io Cupido ; poiché se si svelle la pianta dal natio erreno, cadono i fiori, illanguidiscono le frondi ed a- ido rimane ; così il mio cuore svelto da quel seno da ui esso riceve l'amoroso alimento e la vita, perde i ori delle gioie, le frondi della speranza ed arido di- iene ".

L'ottimo Ferrucci, l'abbiamo già ricordato, insegnava i comici dei suoi tempi che incastrando qualcuno di odesti preziosi Concetti nel suo dire , curasse bene he la prosa meditata non riuscisse molto diversa da uella improvvisa, quasi fosse opera possibile dare u- ica veste al linguaggio da manicomio, ch'era quello ei componimenti dello stesso Ferrucci, e a quello delle ersone sane : e Io stesso nostro scrittore quasi ne con- sniva ; poiché insegnava anche che ad un concetto rampalato bisognava rispondere con un concetto non eno strampalato. Insomma, codesti Concetti erano co- e le ciliegie , 1' uno tirava l' altro. Se non che , le Lione regole volevano che fra V una strampaleria e iltra corresse un legame. " Ai Concetti scriveva

Ferrucci si deve rispondere a proposito ed aver

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giudizio d'attaccarvi il suo per risposta, e non far come certi tali che facendo il confabulatore il concetto, v. gr. di paragonare l'amicizia al sole, gli risponda col paragonarla ad una calamita e così vengono a fcu^e una sconnessione così grande che stonata, navigando uno per levante e 1' altro per ponente ; se uno , dunque, così proponesse : " L'amicizia è un albero che produce 1 frutti d'un'amabile gratitudine " , si risponda : " E se è albero, sarà d' alloro, che vanta per pregio essere simbolo d'immortalità : giacche per fredda stagione fo- glia non perde ; così l' amicizia per variar di fortuna il suo vigore non lascia. Così avranno connessione i due diversivi (1) ".

Tiriamo ancora fuori del forziere qualche altro gioiello.

(T^rima uscita d'amante corrisposto)

" E da che nascono le passioni amorose in due cor amanti e corrisposti ? Se giunge l'amante al suo fine quiete non ritrova ? Se termina al suo centro, perchì non sa della sua quiete godere ? Ah, , l' intendo possono le anime amanti unirsi, perchè sono spirituali i corpi desiderano anche come le anime medesimars e perchè ciò dall' impossibile gli viene interdetto, ben che corrisposti, si cruciano, si tormentano, si martiriz zano. Felice, o Salmace, che potesti medesimarti co

(1) Op. cit. p. 201.

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tuo caro Ermafrodito ; ed , o me felice , se di due individui

Potesse fare Amore in una salma

Di due anime, e due cori, un corpo e un'alma I

(Prima uscita d' amante tacito)

" Pensiero, ove ne vai ? Cuore, dove voli ? Anima, dove fuggi? Sì, pensiero, tu non conoscendo ad es- sere abile a star più celato, vuoi palesar gli arcani più occulti al tuo bene ; , cuore , tu non potendo più soffrire la ferita che ti fece il pungentissimo strale di un guardo, vuoi chiedere il rimedio ; sì, anima, tu di- sperata vivendo in una schiavitudine sconosciuta, vuoi ch'almeno sappia le tue catene chi ti carica di esse, acciocché le compatisca. Fermati , o pensiero ; trat- tienti, o core ; trattienti, anima mia. Che farai se essa sdegneratti, o pensiero ? Che risolverai se maggiormente inasprisce con disprezzcirti, la piaga, o core ? A che t'appiglierai se riderà sulle tue catene, o anima sven- turata ? Eh , no ; volate pure a quel bello che v' in- namora ; scoprite gli arcani, palesate le ferite , dimo- strate le catene, forse ritroverete pietà, balsami e cor- tesia. Così mi dice Amore :

Che in quel bel seno in amorosa calma Godranno il pensiero, il core e l'alma ".

(Soliloquio con tropi) " O Amore, fuoco che l'anima divori, che il petto

t^Cel Regno delle C^aschere \ 3

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mi consumi, tu con un crine mi legasti la mia libertà; ma che stupore se domasti il domatore dei mostri ? Sono brievi le mie forze per resistere alle tue vio- lenze. Più volte ho veduto i prati fiorire, ne pur vedo con essi fiorire le mie speranze. Ma se tu sei la ro- vina del mondo, che potrò io spercire da un Dio bam- bino } Sì, sì, non altro che una innocente ferita. Ah, sia, tiranno,

Invecchiato è il tuo male, eterno è il danno ".

(Soliloquio con figure di parole)

" Non isperar pace, cuor mio ; sendo soggetto alla tirannide del bello , t' abbarbagliò la luce d' un sole, ne puoi temperare le tue pene. E chi giammai udìo pene alle mie simili ? Alzai templi all' Idolo della fede per trovcU*e un parallelo alla mia costanza ; ma vedo che tu, allettando, mi tradisti; e quale speme avrò mai io , se con V idolatria d' un bel sembiante non spero mercede essendo ributtate le umili mie pre- ghiere ? Più d*una fiata t' ho raccontato i miei dolori, ne viene una volta la pietà a comparirti su gli occhi, onde, giacche indarno a te, mi diedi in preda a di- sperato Averno ".

(Rimprovero con figure ritrovate per aggiunger vaghezza)

" E questa è la fede, ingrata? Questa è la co- stanza promessa ? Questa la perseveranza che osservi ? Come dunque da te la fede è oltraggiata, la costanza

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oltraggiata e la perseveranza anche miseramente oltrag- giata ? Per ritrovare in te fede, io ti consacrai l'ani- ma ; perchè fusse stata in te costanza, sì, 1' anima ti offrii ; perchè perseverante ti ritrovassi , in olocausto l'anima ti offrii , e tu dispietata , tu dispietata , mi tradisti. Lascia, lascia d'esser bella, giacché sei infe- dele, e se vuoi (mentre la mia morte brami), se vuoi eh' io ti soddisfaccia, vieni a togliermi, per contentarti, la vita. La vita, sì, che a te odiosa si rende. Sì, sì, petto senza cuore, cuore senza anima e anima senza fede... Se fiera è la tua bellezza, fiere le tue azioni e il tuo procedere è fiero, ed io ti aborrirò e ti sdegnerò per sempre : e tu tiranno, che m'invitasti a godimento, a delizie, a gioie, a contenti, o nume lusinghiero, o bambino dispietato, o inesorabile arciero ! Nume solo di nome per cui più non spero... Forse il chiudere gli occhi alla luce, perdere il fiato, restar senza moto ed esalar l'anima dissolvendo del corpo gli elementi

Sarà un termine dare ai miei tormenti (1) ".

Dallo Zibaldone per le parti ridicole togliamo il seguente sonetto :

" Recipe di malanni due trappesi, Un oncia di catarro o tosse asmatica ; D'ernia ventosa, sanguigna ed acquatica Di cancari e di gotte ana due pesi.

(1) Op. cit. pag. 211.

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" Misce con acqua di gomme francesi Fior di descenzo e polvere lunatica. Con scrupoli di colica e sciatica Poni di male Pasque un par di mesi.

" Vi sien gocce sei di rabbia canina Con lebbra buona e rogna che ti gratti Con l'anticore e peste che sia fina.

" Sieno in rompiti il collo indi disfatti : Credi, se piglierai tal medicina, O che sani, o che crepi, o che ne schiatti " (1).

Ecco ora un esempio di parlare a sproposito : " Fermatevi, siete un vulcano che con quella gamba storta volete acchiappare alla rete quella sgualdrina di vostra moglie ; mi date voi nuova se i grilli del Da- nubio hanno mosso guerra ai monti Acrocerauni, per- chè dicono i saggi del Circolo Equinoziale, che chi pone i lumi nel cacio prende un granchio astrologico, facendo che il mese di maggio s'affitti il governo delle zanzare a quattro quattrini la botte e a trecento scru- poli il moggio ? (2) " .

Passando a parlare (P. II, l^eg. terza) delle parti di donne innamorate, il nostro Ferrucci scrive: "Tutte le suddette composizioni (cioè, quelle di cui abbiamo dato un saggio) possono essere comuni alle donne col mutcìrle il genere. Si deve bensì avvertire coloro che rappresenteranno da donne, o siano veramente donne, o giovani che le fingano, d' osservar la modestia nei

(1) Loc. cit.

(2) Loc. cit.

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gesti, quando parlano con altri a non dilungarsi dalla casa, se non allora che sono sole per osservare il de- coro donnesco ". Indi prosegue: " Oltre le sudette comuni con le parti d'uomo, possono averne delle par- ticolari toccanti a donne ". E qui lo scrittore porge qualche esempio di quei certi discorsi preparati che poi sulla scena dovevano aver V aria d' essere detti air improvviso : il che allora era cosa molto comune, come afferma lo stesso Ferrucci. " Ho conosciuto fa- mosi comici aversi fatto fare libri (ed io gliene ho fatto quantità) di cose adatte a tutte le occasioni, an- che quali a dire : Oh, di casa ! ed aver tanta accu- curatezza in accomodarle , che sembrava che uscisse air improvviso ciò che s'avevano da molto tempo pre- meditato. Qui sta tutta rcu*te, il nasconderla , perchè ciò è quello che genera vaghezza e stupore , come cantò il poeta Tasso :

E quel che il bello e il raro aggiunge all'opre, L'arte che tutto fa, nulla si scopre.

D'ordinario, le Prime Uscite o Soliloqui di parti d' innamorati finivano con una chiusetta composta di due o tre versi rimati. " 11 portare qualche chiusetta, scrive il Ferrucci, non lo stimo disdicevole ; servendo queste come se f ussero sentenze... poiché s' è vero che musicam docet Amor, ad ogni amante che piaccia la poesia, portando le espressioni dei poeti nel dire, sentesi sempre in bocca quell'appassionato distico del Tasso :

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O meraviglia I Amor, ch'appena nato, Già grande vola, e già trionfa armato ( 1 ).

Esempi di chiusette offerte dal Ferrucci : (Di Speranza)

Dolcissima Speranza, Nelle guerre del cor tu sei mia Pace ; Nelle tenebre mie tu sei mia face.

(Contro Fortuna)

Oh Dio, che l'alma al precipizio arreca Una donna, eh' è pazza e sorda e cieca.

(Salutando la Donna)

In vedere, o mia cara, il Dio d'Amore, Ti condurrà, in un guardo, e l'alma e il core.

(T)i Scaccia)

Gradir l'affetto tuo, E non posso, e non voglio ; E all' onda dei tuoi pianti, l' alma ho di scogHo.

(D'Amante felice)

Tariti fiumi di grazia Amor mi versa, Che in un mar di gioir l'alma è sommersa.

(T)i Partenza)

Lasciando l'alma, il duol m'agita e ingombra. porto di me stesso altro che un'ombra.

(1) Op. cit. p. 239.

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("Di Sdegno)

Lungi il foco d'Amor, ch'io sol ricetto

Rabbia al cor, sdegno agli occhi e fìamma in petto.

(T>i Gelosia)

Per far letal la piaga, eh' ho nel seno, Gelosia mi menava il suo veleno.

fDi Costanza)

Ai venti di sospir fermo e costante Colonna io son di solido diamante (I).

Ma nei Repertori i comici all' improvviso non tro- vavano soltanto degli a solo, ma anche dei dialoghi. Evidentemente i repertori o zibaldoni del genere di quello del Ferrucci dovevano essere affatto sconosciuti a Maurizio Sand, che scrivendo VAvant^T^ropos che si legge in fronte all'opera Masques et ^uffons (2) riteneva che la commedia dell'arte fosse in tutte le sue parti (meno lo scenario) improvvisata sulla scena, senza concorso di parti scritte e di prove. E narrava, quasi a provare che la cosa fosse facile, o, per lo meno, non difficile , che in un inverno , una famiglia (probabil- mente la propria) insieme ad alcuni amici immaginò di rappresentare alcune scene a soggetto : e vi riuscì non avendo per guida che il semplice scenario. Nes-

(1) Op. cit. p. 242.

(2) Paris, M. Levy, 1862, in due volumi.

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suna preparazione accompagnava la recita; si stendeva lo scenario e poi subito si passava alla rappresenta- zione, " Per istinto, fra i personaggi, si sviluppava un genere di dialogo, che sembrava una esumazione dei primi saggi teatrali delFantichità... era il dialogo senza regole delle Atellane... Erano scene briose che s'in- catenavano le une alle altre senza premeditazione, ciascun carattere sentendosi spinto ad agire secondo la propria natura.., ". Questo primo saggio essendo riuscito , si pensò di recitare , con lo stesso sistema, delle vere commediole col semplice aiuto d'uno sce- nario immaginato e scritto qualche ora prima della rappresentazione. Più d'una volta si metteva anche da parte il soggetto ; ed allora c'era del nuovo. " Gli in- cidenti s'accumulavano, le scene si succedevano con molto nesso fra loro... ". Se non che, Maurizio Sand, col suo racconto, non è riuscito a provare che una sola cosa , cioè , che al castello di Nohant (perchè, certamente , quelle geniali riunioni di improvvisatori dovettero aver luogo in quel castello e sotto la pro- tezione del genio loci, Giorgio Sand) si riuniva una società colta, piena di spirito e capace d' improvvi- sare una commediola sulla semplice falsariga d'un sog- getto. Ma, come abbiamo dimostrato, sui palcoscenici della commedia dell'arte avveniva diversamente. Non tutti i comici possedevano l'estro della improvvisazio- ne, né la coltura necessaria. Anche la recita a sog- getto era disciplinata e l' improvvisazione era preme- ditata.

201

Ecco, intanto, un saggio di T)ialoghi, sempre tratti dall'opera del Ferrucci:

(T)ialogo di Sdegno fra Huomo e Donna)

H.

Partiti.

D.

D.

Involati.

H.

Dadi occhi miei.

H.

D.

Dal mio cospetto.

D.

H.

Furia con volto di cielo.

H.

D.

Demone con maschera d'amore.

D.

H.

Ch'io maledico.

H.

D.

Ch'io detesto.

D.

H.

Il giorno che ti mirai.

H.

D.

Il punto che ti adorai.

D.

H.

Hai luci.

H.

D.

Hai fronte.

D.

H.

Da mirarmi ?

H.

D.

Da starmi presente ?

D.

H.

Non ti ricordi.

H.

D.

Non pensi.

D.

H.

I tuoi mancamenti ?

H.

D.

Le tue scelleraggini ?

D.

H.

Che ti credi.

H.

D.

Che pensi.

D.

H.

Ch'io mi fermi per rimirarti ?

H.

D.

Ch'io mi fermi per vagheggiarti?

D.

H.

Non posso negare che sei bella.

H.

D.

Troppo confesso che sei vago.

D.

H.

Ma a che vale la bellezza.

H.

D.

A che giova la leggiadria.

D.

H.

Se è deturpata dall'errore ?

D.

Se è accompagnata dall' in-

H.

ganno ?

D.

H.

Non me lo imaginava.

H.

Puoi morire, ma non l'aiscol-

terai.

T'amerei.

T'adorerei.

Se fussi fedele.

Se fussi costante.

Così fussi tu sincera.

Fussi così tu pure.

Com' è la mia fede.

Com'è l'amor mio.

M'inganni.

Mi tradisci.

Dunque parti.

Dunque vanne.

E che parto.

E che me ne rientro.

Quale incanto mi trattiene ?

Che ignota forza m' inceppa ?

Sei troppo ingannatrice.

Hai troppo potere negli occhi.

La speranza mi lusinga.

La bellezza m' incoraggia.

Che ti scopra fedele.

Che non ti trovi mancatore.

Menti, che tal non fui.

T' inganni, che sempre tal mi

vanto.

E l'amore d'altri ?

Non gradivi altra donna ?

T' ingannavi.

202

D.

Non me Io persuadeva.

D.

Fosti tradito.

H.

Che un cielo fosse un inferno.

H.

Te amo.

D.

Che un Cupido fosse menzo-

D.

Te gradisco.

gnero.

H.

Te adoro.

H.

Eppur l'esperimento.

D.

Te idolatro.

D.

Eppur r ho ritrovato.

H.

Mia spemo.

H.

Orsii, dileguati.

D.

Amor mio. j^

D.

Or via, disgombra.

H.

Mia vita.

H.

Io non voglio.

D.

Mio bene.

D.

Non posso.

H.

Mia luce.

H.

Non so chi mi trattiene!

D.

Mio respiro.

D.

Ignota forza mi trattiene!

H.

Mia dea!

H.

Ma non è amore, vedi.

D-

Idolo mio!

D.

Accertali che non è affetto.

H.

Ogni altro pensiero.

H.

E che ti arresta ?

D.

Ogni altro affetto.

D.

E che ti ferma ?

H.

Renunzio,

H.

Non voglio darti questo petto.

D.

Discaccio.

D.

Non avrai questo piacere.

H.

Detesto.

H.

Ch'io ti dica.

D.

Aborrisco.

D.

Ch' io ti palesi.

H.

Pace, o pupille care!

H.

Che ancora t'amo.

D.

Pace, bocca amorosa !

D.

Ch 'io di te non posbo dimen-

H.

Non più guerra, o cara destra !

ticarmi.

D.

Non più sdegni, o cari sguar-

H.

Oibò, non Io dirò mai.

di! (1).

Si direbbe il dialogo di due innamorati asmatici ;,i ma dialoghi simili erano allora di moda sulla scena,i perchè nelle diverse sfumature dei sentimenti (d*odio, di gelosia, di dispetto, d'amore, ecc.) che presenta- vano, porgevano occasione ai comici di far sfoggio di tutta la virtuosità della loro arte.

(1) Op. cit. p. 233.

- 203 -

Ancora un Dialogo e non più :

(D'Amore corrisposto concettoso d* invenzione di parole) La Donna sopra la fame ; T Homo sopra la sete :

H. Gli occhi miei idropici d'amore vengono al fonte della vostra bel- lezza per bere l'acqua di quelle grazie che possono ravvivarmi.

D. II mio cuore digiuno da tanto tempo della vostra leggiadria, come avvoltoio affamato vola alla mensa apprestatagli da Amore per saziar le brame.

H. Ma che acque sono queste che quanto più ne bevono i lumi as- setati, tanto più sento avanzarmi la sete ?

D. Ma che cibo è questo che quanto più Io gusta l'occhio innamo- rato tanto più la fame s'aumenta ?

H. Un uomo assetato mai si scizia con gli sguardi.

D. Un affamato desio non si nutrisce col solo mirare.

H. Aprite dal duro sasso della vostra indeficiente vena di corrispon- denza, perchè l'assetato cervo del mio ferito cuore ritrovi la bra- mata abbondanza.

D. Non fate voi che il Tantalo veda fugar quei frutti che ponno ri- storare il mio famelico affetto.

H. lo vorrei nuovo Prometeo pascere l'acqua del vostro desiderio col i mio cuore.

D. Io vorrei trasformarmi nuova Aretusa in fonte per togliervi affatto l'amorosa sete.

H. E che manca a saziarmi ?

D. Trovare i mezzi opportuni con parlare a mio padre.

H. Precipiterò gì' indugi perchè si consoli il mio febbricitante cuore.

D. Fra tanto pensa, o caro...

H. In questo mentre, vorrei che avessi in pensiero...

D. Che il mio desiderio è camaleonte...

H. Che l'amor mio è un augel di paradiso...

(1) Op. cit. p. 226.

- 204 -

D. Che si pasce d'aria...

H. Che vive della rugiada della speranza.

D. Spero di saziare il mio desio.

H. Voglio in te dissetarmi, o fonte mio.

Fin'ora abbiamo seguito il Ferrucci per penetrsu^e nei misteri del dietro-quinte della scena comica; ma l'arte del ben porgere, o meglio, i precetti che costi- tuivano il modo di recitare e di condursi sulla scena non avevano aspettato, in Italia, il Ferrucci per esse- re disciplinati e riuniti in appositi trattatelli. Quasi un secolo e mezzo prima di lui, un comico ed impresario di spettacoli teatrali, un ebreo mantovano (allora Man- tova dettava leggi in siffatta materia), Leone de Somi, scrisse appunto tre Dialoghi sull'arte di ben recitare in un italiano di gran lunga superiore a quello bar- baro e secentista per giunta del Ferrucci. Qualcuno dei suoi precetti si direbbe quasi copiato da questo ultimo. Eccone un saggio estratto dal terzo Dialogo :

" ... M' ingegno di averli (/ comici) prima di buona pronuntia , et questo più che altro importa, et poi cerco che sieno d'aspetto rap- presentante quello stato che hanno da imitare più perfettamente che sia possibile, come sarebbe, che un innamorato sia bello, un soldato membruto, un parassita grasso, un servo svelto, et così tutti. Pongo poi gran cura alle voci di questi perchè io la trovo una delle grandi e principali importanze, che vi sieno, darei (potendo far di meno) la parte di vecchio ad uno che avesse la voce fanciullesca, una parte da donna (o da donzella maxime) ad uno che avesse la voce grossa. E se io, poniam caso, avessi a far recitare un'ombra in una tragedia, cercherei una voce squillante... De le fatture dei comici non mi cu- rerei poi tanto potendosi agevolmente supplire con l'arte ove manca la natura, col tingere una barba, segnare una cicatrice, far un viso pai-

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lido o giallo, ovvero farlo parer più vigoroso , et rubicondo , o più bianco, o più bruno... Ma non mai però in alcun caso mi servirei di maschere (1), di barbe posticce, perchè impediscono troppo il re- citare, et se la necessità m'astringesse far fare a uno sbarbato la parte d'un vecchio, io li dipingerei il mento che paresse raso, con una ca- pigliatura (parrucca) canuta sotto la berretta, li darei due tocchi di pennello su le guance, et su fa fronte talché non solo lo farei parere attempato, ma decrepito... "

" ... é da avvertirsi a dir forte, senza però alzar la voce in modo da gridare, ma alzarla tanto temperatamente quanto basti a farsi udire comodamente... "

" Come vizio pestilente poi, li proibisco lo affrettarsi, anzi li co- strmgo, potendo, a recitar molto adagio, et dico molto, facendoli espri- mere con tardività solo le ultime sillabe senza lasciarsi mancare la voce come molti fanno, onde spesso lo spettatore perde con gran dispiacere la conclusione de'.la sentenza...

" Circa poi agli altri precetti o modi di recitare... diremo, presup- posto che il recitante abbia bona pronunzia, bona voce ed appropriata persona, naturale od artificiata che sia, bisogna ch'egli s'ingegni di va- llar gli atti secondo le varietà nelle occasioni, et imitare non solamente li personaggio ch'egli rappresenta, ma anche lo stato in che quel tale SI mostra d' essere in quell' ora... Non basta che uno faccia la parte (por.iam caso) d'un avaro, il tener sempre la mano sulla scarsella, in tentar spesso se li é caduta la chiave dello scrigno, ma bisogna anco che sappia, occorrendo, imitar la smania ch'egli avrà, verbigrazia, in- tendendo che il fìgliuol li abbia involato il grano... Et se farà la parte d'un servo, in oceasione d'una subita allegrezza, saper spiccare a tempo un salto garbato , in occasione di dolore, stracciare un fazzoletto coi denti, in caso di disperóizione, tirar via i capelli... Et se farà la parte d uno sciocco, il rispondere mal a proposito... bisogna che certi tempi sappia anche fare di più lo scimunito, pigliar delle mosche, cercar le

(1) Si vede che il De Somi scriveva piuttosto pel teatro erudito, premeditato, come scriveva il Ferrucci, che per la commedia a sog-

setto.

- 206

pulci... Et se farà la parte d'una serva, nell'uscir di casa, saper scuotersi la gonnella lascivamente, se l'occisiorie lo comporta, ovvero mordersi un dito per isdegno... i

" ... il recitante dee portar sempre la persona svelta, le membra sciolte, et non annodate ed intiere. Dee fermare i piedi con appro- priata maniera quando parla, et muoverli con leggiadria quando gli oc- corre J servar col capo un certo moto naturale, che non paja ch'egl l'abbia affissato al collo coi chiodi, et le braccia e le mani (quando non facci bisogno il gestir con essi), si deeno lassar andare ove la na- tura li inchina, e non far come molti, che volendo gestir fuor di pro- posito par che non sappiano che se ne fare. Servando però semprt negli atti maggiore o minor gravità secondo lo stato del personaggic richiede, e così nnche nel suono delle parole ora arrogante, ora pla- cido, or con timidezza ed or con ardire esplicare... ed osservando i naturale di quelle qualità di persone che si rappresentano. Et sopra tutto fuggire come la mala ventura un certo modo di recitare dirò pe- dantesco... simile al ripetere che fanno nella scuola i fanciulli (1) ".

(l) Rasi, I Comici italiani, voi. I, pp. 106 e segg. Il Rasi affcr ma d'aver riprodotto il Dialogo da un manoscritto della R. Universit di Parma. Anche il comico Cecchini scrisse un discorso sull'Ari Comica, rimasto inedito. V. Rasi, op. cit. voi. I. p. 624.

CAPITOLO SETTIMO

Il pubblico della Commedia dell'Arte.

Generalmente gli storici del teatro, ed anche quelli ^", d'un solo genere di spettacolo teatrale , dimenticano il pubblico; essi fanno la storia della scena, ma non quella della platea. O meglio , essi si ricordano an- che di questa, ma solo per prendere nota degli ap- plausi o dei fischi, o, per lo meno, degli sbadigli (il successo di stima dei moderni) coi quali fu accolta dall' " udienza " come direbbe il Ferrucci, la trage- dia o la commedia che dinanzi alla stessa si recitava. Di rado, e fugacemente, quasi non fosse materia de- gna d'attirare l'attenzione d'uno storico, è stata presa ad esame la psiche degli spettatori ; quasi che sif- fatto esame fosse perfettamente inutile a chi volesse entrare davvero nello spirito dello spettatore. All' in- contro , si sa , che questo, quasi sempre, non riflette che i sentimenti del pubblico, il quale, in tal modo, diventa inconsapevolmente un collaboratore del com- mediografo, mentre, alla sua volta, questo oscuro ed ignorato collaboratore, spesso, non foggia l'animo suo

208

I

che su sentimenti o idee che emanano dalla scena. Ed in vero , dal giorno in cui il primo comico col volto tinto di nero , da un carro da fiera , recitò al suo pubblico ragunaticcio e cencioso a quello in cui i suoi successori , calzando il coturno o il socco , o semplicemente un par di scarpette di vitello o di co- pale, parlarono ad uno scelto uditorio riunito in una sala più o meno riccamente decorata , si stabilì , fra scena e platea, una doppia corrente di sentimenti ed impressioni, una delle quali partendosi da questa in- vesti e pervase la scena , mentre V altra staccandosi dalla stessa scena avvolse e conquistò la platea. Scena e platea si suggestionarono scambievolmente. Così, per citare qualche esempio antico , se le commedie d'Aristofane ritraggono la vita d'Atene dei tempi del commediografo , non è infondato il credere che le ^Njihi abbiano formato una corrente ostile ai filosofi con a capo Socrate, e i Cavalieri un'altra contro i democratici. E per non fermarci che all' azione che i la platea esercita sullo spettacolo, possiamo affermare ch'essa è di sua natura talmente irresistibile, che av- | volge ed anche trascina gli scrittori più resti a subir- la , compresi coloro i quali si rifugiano con la loro opera fra tempi ed uomini scomparsi. In questo caso, codesti scrittori, col sussidio della storia e dell'archeo- logia, credono in buona fede d'aver dato forma sulla scena ad una vita diversa da quella da essi stessi ei dal loro pubblico vissuta; ma non è che una illusione : raschiate la vernice storica ed archeologica che copre) la loro opera , e sotto troverete , più o meno vital-

209

mente riprodotti, gli uomini fra i quali vive l'autore, con tutte le loro idee, con tutte le loro passioni.

Plauto , sebbene molte sue commedie non fossero che riduzioni dal greco, e in parecchie espressamente indicasse come luogo dell' azione città greche, è nel- l'opera sua sempre romano : egli scriveva per la plebe di Roma e 1' anima di questa trasfondeva nelle sue commedie.

Il Racine, sebbene cavasse gli argomenti delle sue tragedie dalla storia di Grecia e di Roma o dal Vec- chio Testamento, è, nel suo teatro, prettamente fran- cese ; così gli eroi e le eroine delle sue tragedie, a malgrado dei loro nomi classici o biblici , hanno i sentimenti delle gentildonne e dei gentiluomini della corte di Luigi XIV. Anche 1' Alfieri, che volle coi personaggi delle sue tragedie respirare V aria dei li- beri fóri della vecchia Roma e delle libere agore della vecchia Grecia, quando fa parlare i suoi odia- tori di tiranni , non mette loro sulle labbra che pa- role o frasi che gli spettatori già conoscevano per averle lette nei libri del Voltaire, del Rousseau, del D'Alembert e del Diderot. Più recentemente il tea- tro storico di Vittor Hugo , a malgrado della esat- tezza dei particolari della scena e degli abiti , non rispecchia Tanima delle generazioni che videro Car- lo V, Francesco I, Luigi XII, il cardinale Richelieu, Cromwell, Maria Tudor, ma sibbene I' anima roman- tica francese dei tempi di Ccirlo X e di Luigi Fi- lippo. Ruy Blas, Hernani, Angelo, donna Sol, Ma- rion de Lorme, non sono che romantici.

C^Cel Regno delle ^aichere 14

210

Air incontro , se noi analizzassimo certi atteggia- menti d'animo, certe idee prevalenti in un dato tempo presso una società, troveremmo la loro origine negli spettacoli pubblici , in certe correnti spirituali ema- nanti dalla scena. A rendere m.eno ostili le anime nostre alla cortigiana e a credere alla sua redenzione mediante l' amore , è valso più il dramma di Ales- sandro Dumas figlio, la Signora dalle Camelie , che il perdono di Gesù a Maddalena.

Laonde lo studio del pubblico, per valutare il va- lore d'un teatro, per spiegarne il trionfo o la deca- denza, s'impone: in questi casi, anzi, il suo studio è una necessità.

Uno dei nostri pregiudizi meglio radicati è quello di credere che la società italiana della metà del se- colo XVI (fu allora che cominciò a fiorire la com- media dell'arte) fosse una società completamente evo- luta, una società in cui il sentimento dell' arte cam- minasse di pari passo con quello morale, la genialità spesso creatrice dei poeti, dei pittori e degli scultori con la raffinatezza dei costumi e la mitezza delle passioni. Abituati a studiare il Cinquecento attraverso gli splendori della Corte di Leone X, di quelle mi- nori dei duchi di Urbino , di Mantova , di Ferrara, attraverso i poemi di Ludovico Ariosto e di Tor- quato Tasso , le tele di Raffaello e di Tiziano , le statue di Michelangelo , le oreficerie di Benvenuto Cellini, la prosa del Machiavelli, del Castiglione, del Guicciardini, del Bembo, del Caro, noi non ci siamo fatta che un'idea assai incompleta di quei tempi. Ora

211 -

noi pensiamo che giammai società presentò, nella sua vita, tanto contrasto di bene e di male, di luce e di ombra , quanto quella del Cinquecento. Il grandioso quadro in cui quest'ultimo ha scritto la sua storia, si direbbe quasi dipinto da due pittori di stile affatto diverso ; da un lato Paolo Veronese con tutta la ma- gnificenza del suo colorito, dall'altro il Rembrandt con tutto il contrasto dei suoi chiaroscuri. C'è luce e te- nebre insieme ; Cesare Borgia sta a fianco di Raf- faello , che ne fa il ritratto ; Michelangelo , austero, accanto a Pietro Aretino , scrittore turpe ; si creano nuovi santi, ma si onorano anche cortigiane.

Difatti, Vittoria Colonna, donna d'altissimo ingegno, ma pia , non ebbe meno onoranze d' Imperia e di Tullia d'Aragona, prostitute , che per via d' infamia, acquistarono celebrità.

Di codesto quadro, noi non vediamo che il primo lato, quello pieno di luce ; Y altro , lo trascuriamo completamente. E appunto in quest' ultimo lato che noi possiamo trovare la ragione d' essere , la ragione dei subiti trionfi d'uno spettacolo teatrale qual'era la commedia dell'arte, che se muoveva 1* ilarità del pub- blico, era spesso, se non quasi sempre, triviale, gros- solano.

In verità, il Cinquecento conservava in se parec- chi di quei germi di grossolanità , di rozzezza , che aveva ereditato dal Medio Evo. Sotto una brillante superfìcie conservava ancora gusti ignobili , una mo- ralità molto rilassata , passioni terribili. C'era ancora della barbarie in quella società. Accanto ai grandi

212

artisti , ai grandi poeti , ai filosofi imbevuti di filoso- fia greca , e' erano dei grandi malfattori, non coperti di cenci, sperduti fra la plebe delle grandi città o randagi per le campagne, ma indossanti abiti di seta e di velluto, tutta gente temuta ed anche rispettata ed adulata da poeti, da artisti, da una folla, che, alla sua volta, vestiva anche di seta e di velluto. S'ingan- nerebbe, per esempio, chi ritenesse 1' alta società di quei tempi tutta modellata sul Cortegiano di Baldas- sarre Castiglione. Questo libro che pur acquistò tanta fama non appena vide la luce (nel 1528, a Vene- zia) , più che a rappresentare il gentiluomo italiano dei tempi dell'autore, si direbbe che fosse scritto piut- tosto per farne la satira. Il " cortegiano " italiano di quei tempi era assai diverso da quello che il Casti- glione volle dipingere nel suo libro. Per altro, l'au- tore stesso comprendeva che più che un gentiluomo reale, vivente, non creava che un gentiluomo ideale. Egli voleva che questo suo perfetto " cortegiano " fosse nato nobile e di generosa famiglia "perchè molta men si disdice ad un ignobile mancar di far opera- zioni virtuose, che ad un nobile , il quale se desvia dal cammino dei suoi antecessori, macula il nome della famiglia"; voleva che da natura avesse "non solamente lo ingegno, e bella forma di persona e di volto, ma anche una certa grazia, e, come si dice , un sangue f che lo faccia a primo aspetto a chiunque lo vede grato ed amabile ", ma " non così molle e f eminile come si sforzano d'aver molti che non solamente si crespano ! i capelli e spelano le ciglia, ma si strisciano con tuttii

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•quei modi che si faccian le più lascive e disoneste femine del mondo "; che conoscesse tutti gli esercizi elei corpo, compresa la lotta, " perchè questa accom- pagna molto tutte l'arme da piedi... " Ed aggiungeva: ^ Conveniente è ancor saper nuotare, saltare, correre, gittar pietre... perchè... s' acquista bona estimazione, massimamente nella moltitudine... " Doveva il perfetto cortegiano ", inoltre, possedere in tutti i suoi atti, come in tutta la persona, la " grazia ", la quale non deve essere affettata, ma naturale, e pensando alle doti della mente , voleva il Castiglione che il suo gentiluomo parlasse bene, in buono italiano, che conoscesse il la- tino e il greco, la musica e il disegno, senza che per questo cessasse la sua principale occupazione, quella, cioè, delle armi. Infine occorreva che questo suo ca- valiere ideale fosse " come si dice, omo da bene in- tiero che in questo si comprende la prudenzia, bontà, fortezza e temperanzia d'animo, e tutte le altre con- dizioni che a così onorato nome si convengono ( 1 ) " . Ma codesto ritratto d'un cavaliere perfetto non era, co- me abbiamo detto, che quello d'un cavaliere ideale. La realtà era diversa, anche perchè delle doti richieste dal Castiglione per formare un perfetto cavaliere, talune s'a- dottavano a meraviglia anche ad un cattivo cavaliere, anzi a tutti quei capitani di ventura che infestavano 1 Italia, e parecchie altre erano così vaghe , come r " omo da bene ed intiero " , che con un di li- bertà di fantasia, si sarebbero potute applicare anche

(I) // Cortegiano; Lib. I.

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a Cesare Borgia. Un altro libro, all'incontro, il Pr/n- cipe , il cui autore , Niccolò Machiavelli , morì un anno prima (1527) che il Cortegiano vedesse la luce, sebbene non sia che il manuale d'un uomo di Stato, e quindi essenzialmente politico, pure occupandosi del modo di acquistare e mantenere gli Stati , ci rivela la vera indole di quella società , anzi di quella so- cietà in cui il perfetto gentiluomo ideato dal Casti- glione avrebbe dovuto fare sfoggio dalle sue belle qualità: e codesta società ci si mostra inquinata di tutte le più ributtanti passioni erompenti in inaudite scelleratezze, che la politica battezzava come neces- sità o ragione di Stato. Non bisogna dimenticare che erano i tempi di Alessandro VI , di Cesare Borgia, di Ludovico il Moro ed anche di qualcuno di quei duchi d'Urbino nel cui castello ricco di meraviglie artistiche, ospitale ricovero di filosofi , di eruditi , di poeti e d' artisti, il Castiglione immaginò che si riu- nissero insieme alla duchessa Eleonora Gonzaga, Ga- spar Pallavicino, Cesare Gonzaga, fra' Serafino Aide- rigo, Ottaviano Fregoso, Giuliano de' Medici, Pietro Bembo, Lodovico da Canossa, Lodovico Pio, l'Unico Aretino ed altri cavalieri ed uomini di lettere per ra- gionare intorno alle qualità necessarie per formare un perfetto cortegiano. Sebbene nella seconda metà del Cinquecento, e più propriamente verso la fine, l'anima italiana avesse subito una grave crisi spogliandosi, in seguito alla reazione cattolica o contro-riforma avve- nuta per opera del Concilio di Trento, di molte sco- rie, e r arte (e questa intesa nel senso più largo) si

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fosse informata al nuovo indirizzo , pure la società , nelle sue linee generali, rimase la stessa con molta bacchettoneria di più per giunta.

La gentilezza dei modi, la mitezza d'animo, lo spi- rito di tolleranza, l'odio della violenza e della prepo- tenza, l'orrore pel sangue, tutte queste virtù delle so- cietà veramente civili, non formavano allora che il pa- trimonio di pochi solitari. I delitti, anche i più atroci, non si consumavano dalle plebi delle città e delle cam- pagne; n'era inquinata l'alta società. Nell'anima italiana ribollivano ancora i germi della vita, tutta prepotenza, tutta barbarie , del Medio Evo. Certamente non è questo il luogo di scrivere la storia della vita italia- na di quei tempi ; ma un breve saggio d'analisi della stessa vita , o meglio , della psiche collettiva italiana di quei tempi, ch'erano ancora quelli dei grandi poeti, dei grandi prosatori, dei grandi artisti , e pur neces- sario per conoscere, e non superficialmente, il pubblico che assisteva alle rappresentazioni della commedia a soggetto.

Diremo dunque che codesta psiche , compresa quella delle classi più elevate , delle classi che oggi si chiamerebbero dirigenti , presentava delle sorpren- denti deficienze , delle profonde lacune. Mentre si compiaceva della correttezza del disegno d'una tela o del felice sviluppo delle linee d'un edificio, o della freschezza d'immagini d'un sonetto o d'una canzone, o andava in estasi alla recita d' un' azione modellata sullo stile di monsignor Giovanni della Casa o di Pietro Bembo , conservava tutta la violenza propria

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della barbarie dalla quale era di recente uscita. Senza parlare del divino , del maraviglioso Pietro Aretino, il più laido di tutti i più laidi scrittori del cinque- cento, che ride a sentir raccontare certe oscene avven- ture delle proprie sorelle, già, uno degli artisti più geniali, Benvenuto Cellini, che aveva dato splendida prova della vigoria del suo ingegno nel Perseo e della fine squisita raffinatezza del suo gusto in minuscoli capo-lavori d'oreficeria, è un delinquente. Egli non ha senso morale; tira colpi di spada o di pistola, è ac- cusato di pederastia. Monsignor della Casa , autore d'un famoso trattato di buone usanze, è anche un laido narratore di cose oscene, ne men disonesto narratore d'avventure non caste è un altro vescovo, Matteo Ban- dello. Anche il Castiglione, che sognava un cavalier perfetto, nelle prime redazioni del suo Cortegiano introdusse cose che avrebbero fatto arrossire non il suo immaginario cavaliere, ma il suo valletto. L' im- moralità , anzi , non faceva allora arrossire ne genti- luomini, ne dame. Anche coloro che non commette- vano azioni turpi, se ne sentivano parlare, rimanevano indifferenti , quando loro non era motivo di riso : il narrare cose disoneste , brutte e sconcie avventure d'alcova, anche per le persone più gravi , era argo- mento di conversazione lecita, quando non serviva di riposo ad una seria occupazione. Il Machiavelli, che scrisse i T)iscorsi , le Storie , e il Principe , scrisse pure la non casta Mandragora. Le dame più colte, le principesse più illustri, leggevano, e non di nascosto, novelle e poemi licenziosi; nessuno riteneva che simili

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letture offendessero la moralità o il decoro d'una dama o, peggio, che fossero segno di propria scostumatezza. E la licenziosità non era velata, sottintesa ; lo scrittore le cose sue, anche le più triviali, le spiattellava come gli venivan giù dalla penna, coi loro nomi, sicuro che non avrebbero fatto arrossire ne cavalieri , ne dame. 11 Bandello , in una sua novella , narra d' un curioso appuntamento intimo che una donna maritata aveva dato al suo amante: il luogo dello stesso, oggi, dalle classi elavate, si chiamerebbe con una doppia parola inglese, ma allora si chiamava con un nome che com- prendeva anche la plebe, perchè, anche essa, non ne adoperava uno diverso. All'ora convenuta, la donna, che già si trovava a letto col marito , chiede a co- stui il permesso di recarsi in quel certo posto per soddisfare una sua necessità corporale ; e il marito, che nulla sa degli intrighi della moglie, l' accorda. Tosto egli udì dei rumori, che certamente non ave- vano nulla di comune con la necessità corporale ac- cusata dalla moglie ; ma il buon' uomo riteneva che fossero una conseguenza di quella tale necessità. Tutto ciò è narrato senza circonlocuzioni ; una vera trivia- lità, non è vero ? Ma nessuno ne restava stomacato. Vittoria Colonna, marchesana di Pescara, poetessa il- lustre, donna di costumi esemplari, lesse , prima che fosse dato alle stampe, il Cortegiano del Castiglione, e, certamente, in una versione non ancora dal suo autore espurgata di parecchie laidezze: ebbene, l'il- lustre e pia dama trovò l'opera perfetta e non ebbe nessuna parola per protestare contro la licenziosità

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del linguaggio. Così portavano i tempi: non solo fra i gentiluomini non erano rari coloro che sapevano il latino e il greco, ma anche parecchie donne posse- devano in sommo grado la coltura classica; se non che, questa non era arrivata a far detestare tanto dagli uni quanto dalle altre la trivialità e V immoralità.

Come dicemmo, a metà inoltrata del Cinquecento la reazione cattolica frenò molti abusi , smussò molti caratteri angolosi; certa licenziosità di linguaggio scom- parve o scemò dai libri già sottoposti a censura. Il nuovo ordine religioso , la compagnia di Gesù, s'era costituita in gendarme dello spirito pubblico e privato. Quella specie di quiete in cui s'adagiò l'Italia dopo la prevalenza assoluta della Spagna nelle terre e nelle faccende d'Italia, imbavagliò molte audacie, rese im- possibili certe ribellioni, educò al giogo , tanto stra- niero quanto interno, le plebi e con queste anche le classi superiori. Ma la vecchia anima italiana, attra- verso quella quiete che qualcuno chiamò da cimitero, continuò a pulsare, sebbene in un ritmo meno sensi- bile. La delinquenza, a base barbarica, di violenza, continuò ad infestare in modo spaventevole la intiera penisola. Al Nord non si stava, sotto questo aspetto, meglio che al Centro; ne al Sud peggio del Nord e del Centro. Erompeva il delitto anche spaventevol- mente dalle classi superiori, dirigenti. Quella società, che le vecchie violenze ora copriva con un velo d'ipo- crisia, assai di frequente era funestata da delitti ter- ribili. Tra la fine del Cinquecento e il principio del Seicento, due nobili famiglie romane, quella dei Cenci

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e l'altra dei Santa Croce, vedono parecchi dei loro com- ponenti salire il patibolo per parricidio; sempre a Roma, sede del papato, e quasi nello stesso tempo, un Troilo Savelli , nobile , sale il patibolo per assassinio ; due fratelli Massimi (ed anche questi nobili) uccidono la matrigna, e uno di loro, il minore , avvelena il pri- mogenito capo di casa; nel 1 383, perchè i birri ave- vano arrestato presso gli Orsini, in luogo d'asilo, un bandito, i vassalli della potente famiglia patrizia s'ar- mano, danno la caccia ai birri, e ne ammazzano pa- recchi , anche dentro il palazzo del papa. Codesti Orsini, che ebbero tanta parte coi Colonna nella storia di Roma medievale, anche cessata la barbarie, con- tinuarono ad essere qualche cosa fra il masnadiero e l'assassino: nel 1336, Vulpio Orsini, signore di Li- cenza, strozza la propria moglie Porzia; Paolo Orsini, scoperta rea la moglie Isabella, figlia di Cosimo dei Medici, tra gli abbracci coniugali , la strangola ; lo stesso Paolo innamoratosi di Vittoria Accoramboni moglie d'un Peretti nipote di Sisto V, fa assassinare il marito per sposarla; e difatti la sposò , ma morto lui, la vedova, a Padova, per cupidigia, è strangolata da un altro Orsini. Ne minori esempi di delinquenza offre la famiglia rivale, quella dei Colonna : Pompeo Colonna uccide una propria parente, Livia Colonna; un altro, Sciarra Colonna, nel 1 339, strangolò Isabella duchessa di Paliano ; sempre nelle famiglie patrizie di Roma, Giovanni Savelli, nel 1362, uccide la pro- pria moglie ; nel 1 390 una Massimo è uccisa dal proprio figlio. Altrove, discendenti d' illustri famiglie

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si sporcano le mani di sangue o si buttano alla cam- pagna facendo i masnadieri all'ingrande non potendo fare, perchè cambiati i tempi , i capitani di ventura. A Firenze, Iacopo Salviati ha per ganza una popo- lana, una Canacci; la moglie. Veronica Cybo, guada- gna col denaro un cOstei fìghastro, il quale uccide la matrigna e ne porta la testa alla moglie gelosa ; a Ravenna, una fanciulla della nobile famiglia dei Ra- sponi è violata da un tale, che poi sposò; ma il fra- tello di lei, per vendicare il nome della famiglia, rac- coglie cento banditi una merce che nel mercato della delinquenza d'allora non faceva difetto assalta e scala le mura della città, aggredisce la casa degli sposi che trucida, e con loro un fratello, una sorella, il padre e i servi dello sposo: poi , esula. Alfonso Piccolomini, duca di Montemarciano, assolda banditi e diventa il terrore dell* Umbria; assalito , ripiega in Toscana, e per mezzo del granduca , come se fosse una potenza, patteggia la pace col papa, Gregorio XIII: venuto a Roma per V assoluzione, presenta tal lista d'assassini, di stupri, di rubamenti, d'incendi, che il pontefice ne inorridisce. Di codesti nobili, fattisi ma-i, snadieri, qui potremmo fare molti e molti nomi, non escluso quello di quel signorotto lombardo che al Manzoni servì per creare il personaggio dell' Innomi- nato; ma tale esposizione ci trarrebbe assai lungi dal nostro argomento. Solo diremo che in Lombardia le famose grida contro i banditi riboccavano di nomi appartenenti a illustri famighe : i Martinenghi di Val- sesia, i Visconti di Bregnano, i Benzoni di Crema, i

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Vimercati, i Balbiano di Belgiojoso, un marchese Ma- laspina, i conti di Paico, i Torelli, i Thiene, i Lam- pugnani ed altri : tutto o quasi tutto il patriziato aveva sulla strada maestra i suoi rappresentanti. Altri nobili, senza darsi alla campagna, commettevano gravi delitti in città, quasi sempre rimanendo impuniti. Spesso co- desti reati assumevano forma singolare per non dire addirittura pazzesca. A Roma, un giorno, un Caffa- relli con altri gentiluomini , si pone a rotolare dalla lunga scalinata d'Ara Coeli, una botte piena di sassi, la quale, scendendo giù a precipizio, ammazza pa- recchi popolani, che ivi stavano a dormire. S'ammaz- zava o si concorreva negli ammazzamenti per ispirito di solidarietà di classe: un Vitelli, sempre a Roma, mentre rincasa, è assalito da sette persone ed ucciso; nello stesso tempo, circa altri trenta individui , tutti armati, quasi si trattasse d'uno spettacolo, presenziano la strage. Il brigantaggio, intanto, assumeva propor- zioni epiche. Vi furono briganti che la leggenda in- nalzò a dignità d'eroi, eroi da strada maestra, s'intende, ma eroi. Marco Sciarra, a capo di seicento masnadieri, regnò indisturbato , per sette anni , fra la campagna romana e gli Abruzzi: un giorno gli capitò fra i piedi un viaggiatore, che rilasciò subito, e con molte scuse pel caso toccatogli e molte frasi landative pel suo in- gegno divino, quando seppe che quel viaggiatore era, nientemeno, Torquato Tasso, 1' autore della Gerusa- lemme Liberata, eh' egli, l' intellettuale bandito , leg- geva nei suoi momenti d' ozio. Alla morte di Gre- gorio XIII, i banditi s'impossessarono quasi di Roma;

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svaligiarono la chiesa di Santa Maria del Popolo e quella della Minerva ; furono ugualmente svaligiate cinque case di cardinali; alcuni nobili con bande di malfattori correvano per la città rubando, stuprando, assassinando. Alla loro volta, i governatori, i vice-de- legati ne approfittarono per scarcerare i delinquenti, vendere la giustizia, e spogliare i cittadini. Sotto il se- vero governo di Sisto V, un prete Quercia si alla campagna e diventa padrone della Comarca; fra l'altro deve render conto di quattordici omicidi, si pente ed è assolto del terribile pontefice. Ma subito uccide due suoi amici, fugge, ma Sisto gli mette una grossa taglia, è ucciso, se ne porta la testa al papa, il quale la fa esporre a Ponte Sant'Angelo (1). A Napoli, verso il 1 660, un abate , Cesare Rinaldi , uccide il duca di San Paolo, scappa, si mette alla testa d'una banda di malfattori, svaligia procacci ed impedisce il trasporto della neve in città non che quello del grano per ottenere il perdono. I banditi, per altro, non de- stavano quell'orrore che poi destarono e che tuttavia destano : in caso di bisogno ne assoldavano il papa, il granduca di Toscana, i viceré spagnuoli per farsi danno fra loro. Il Cantù (2) trovò un bando che in una sola volta ne poneva fuori legge milletrecento. Un curioso gruppo di delitti commessi in occasione di rappre-

(') Per la delinquenza italiana dei secoli XVI e XVIII, si veda C. Cantù nella Storia degli italiani e nel suo commento ai Promessi Sposi.

(2) Nel commento ai Promessi Sposi, Gap, 1.

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sentazioni teatrali presenta Corrado Ricci nel suo li- bro: Storia dei teatri di Bologna nei secoli XVII e XVIII (1): per aver ricevuto un urto in teatro, Aurelio Ercolani sfida il méirchese Angelelli e lo uc- cide (p. 37); un comico litiga con uno spettatore che vuol godersi di frodo lo spettacolo, ma , nella notte, il povero commediante e aggredito ed ha tagliato la faccia (p. 25); nel 1604 una certa Vittoria è ammaz- zata dal fratello perchè, di nascosto, andava a teatro con due gentiluomini (p. 21); nel 1667, nel palco d'un certo Pellegrini, la corte sequestrò dieci libbre di polvere da schioppo con canne cariche a palla oltre una scritta con minaccie e si ritenne che tutta quella roba fosse stata posta per far saltare in ciria il bargello, che aveva il palco sotto quello del Pel- legrini (p. 37). Altri delitti narra il Ricci , il quale esclama : " Si potrebbe chiedere se questa è una storia del vecchio teatro o non piuttosto una storia di delitti e di sciagure. Le cronache bolognesi del sei- cento non presentano in proposito che tali aneddoti" (pp. 22-23).

Anche la vita dei dotti, dei letterati e degli artisti fu contaminata da delitti : il poeta Chiabrera uccise un gentiluomo ; lo storico Davila un altro ; come a tutti è noto, Torquato Tasso con la stessa facilità con che scriveva versi tirava colpi di spada; un altro poeta, il Murtola, s'accapiglia col Marini e corre fra loro qualche colpo di fucile; un poeta siciliano, Giuseppe

(I) Bologna, Successori Monti editori. 1888.

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Artale, per la sua vita delittuosa, è detto il cavalier sanguignario ; un Panigarola, divenuto in seguito pre- dicatore famoso, trovandosi a studiare all'università di Pavia , volle scrivere la sua vita, e di se , studente, narrò cose da malfattore provetto; un Domenico Moni, che fu certosino, filosofo, giureconsulto ed infine pit- tore d'una certa rinomanza a Ferrara, uccise un abate perchè inavvertitamente, in istrada, l'aveva urtato. Ma anche ingegni insigni furono vittime dell'altrui malva- gità. Paolo Sarpi teologo e storico, e preso a colpi di stile, e si disse, per mandato della Curia Romana; Tra] ano Boccalini è battuto a morte con sacchetti di sabbia perchè l'azione delittuosa non lasci segni die- tro di sé; Alessandro Stradella , insigne compositore di musica, napoletano, fu pugnalato a Torino, e poi ucciso a Genova ; Elisabetta Sirani , pittrice, allieva di Guido, fu avvelenata.

Con tale spirito sovversivo e violento, con tali cor- renti di delinquenza in alto ed in basso , i costumi anche senza essere qualche volta in aperto contrasto col codice penale, non potevano esser che grossolani, sebbene pochi solitari con le loro concezioni filosofiche, letterarie ed artistiche la grossolanità stessa caprissero con la luce che si sprigionava dalle loro opere. Si ri- deva allora, e molto; ma quel riso era volgare, come volgari, triviali, se non scurrili, erano le facezie o le burle che lo stesso Castiglione riteneva che potessero prender posto in un cenacolo principesco o intellet- tuale. La frase fine, leggermente mordente, l'allusione sapiente, riguardosa, il fatterello di cronaca scandalosa

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prudentemente velato , erano cose allora sconosciute. Misser Giovanni Boccaccio con tutta la sua salacità di novellatore del Trecento continuava a regnare e ad imporsi.

Ne in Francia, dove la commedia delF arte, tutta cosa italiana, mise subito radici profonde , la società era più evoluta della italiana. Questa a paragone di quella era più raffinata ; essa era tutta pervesa dai nuovi sentimenti che la Rinascenza, assai prima che in Francia, aveva fatto germogliare negli animi. 1 fran- cesi erano più soldati di noi nell'animo e nei modi; il che significava che le forme grossolane come i sen- timenti triviali, il linguaggio scurrile dovevano abbon- dare più da loro che da noi. E tali appunto erano apparsi i francesi sin dalla loro infausta calata in Italia con Carlo Vili. Uno dei loro più grandi scrit- tori, sagace ed intelligente osservatore, il Montaigne, Io riconosceva, sebbene indirettamente , quando scri- veva: " Quand notre Roy Chcirles Vili, quasi sans tirer l'épée du fourreau se vit maìstre du royaume de Naples , et d' une bonne partie de la Toscane , les seigneurs de la suite attribuérent cette inespérée fa- cilité de conqueste à ce que les prences et la no- blesse d'Italie s'amusaient plus à se rendre ingénieux et s^avant que vigoreux et guerriers (I) ". E il Ca- stiglione, per quanto riguardava gli italiani, ribadiva:

0) Essais; liv. I, eh. 24. Si consulti pure Burckhandt. {La Ci- viltà nel T^inascimento ; Firenze, Sansoni, 1 899) per ciò che riguarda la morale e i costumi del secolo XV e di parte del secolo XVI.

5V"e/ Regno delle ^^aschere. 15

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" Non vorrei già che qualche avversario mi adducesse gH effetti contrari per rifiutar la mia opinione {cioè, la necessità che un perfetto cavaliere fosse molto versato nelle lettere e nelle arti), allegandomi che gli italiani col lor saper lettere aver mostrato poco valor nel- l'arme da un tempo in qua: il che pur troppo è più che vero ; ma certo ben si porla dir, la colpa d'alcuni pochi aver dato, oltre al grave danno, perpetuo biasmo a tutti gli altri ; e la vera causa delle nostre ruine e della virtù prostrata, se non morta, negli animi nostri, esser da quelli proceduta ; ma assai più a noi saria vergognoso il pubblicarla, che ai Francesi il non saper lettere (1) ".

Con Francesco 1, che amò le arti , e con queste gli artisti italiani, la Francia cominciò a dirozzarsi; ma lenti ne furono i progressi se anche sotto Enrico II i gentiluomini della corte si asciugavano ancora il naso sulla manica dei loro vestiti di seta o di velluto. Fu assai più tardi, e non prima del regno di Luigi XIV, che la rozzezza francese si cambiò in quella genti- lezza d'animo, in quella cortesia di modi di cui la stessa Francia fu maestra e modello a tutta l'Europa. Ma durante quel travagliato periodo della storia dei nostri vicini d'oltre Varo, che va dalla strage di san Bartolommeo ai torbidi della Lega e da questa al- l'uccisione di Enrico IV e alla Fronda (1 572-1648), la società francese in genere e la Corte in particolare erano ancora grossolane. In quest'ultima, soprattutto, dove

(1) // CorUgiano, !ib. I.

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gli avventurieri italiani della peggior specie rappre- sentavano le parti più losche e criminose , dove le principesse fiorentine con l'amore per la poesia , per le belle tele, per le belle statue, per l'antichità clas- sica avevano anche portato l'arte sapiente degli in- trighi, la politica del Principe del Machiavelli e la mi- steriosa preparazione di veleni sottili , la commedia dell'arte con le sue grosse facezie, col suo osceno linguaggio, coi suoi lazzi spesso d' una trivialità sto- machevole (ricordiamo quello che consisteva nell' ac- chiappare, a volo, una mosca, e trangugiarla come se fosse un confetto), non poteva avere che accoglienza amica e festosa. I sovrani della Francia di quel tempo non solo applaudivano gli artisti venuti dall'Italia, ma non sdegnavano d'entrare con loro in una certa intima familiarità. Ne questi, nella libertà del loro costume, si preoccupavano di trattarli in modo più riguardoso che non facessero coi re e con le regine del palco- scenico. Tristano Martinelli , il famoso Arlecchino, scrivendo alla regina Maria de' Medici (moglie di Enrico IV) la chiamava buffonescamente : Mia Co- mare ; ne alla regina sembrava irrispettoso quello scherzo, giacche rispondeva al comico suo compatriotta chiamandolo, alla sua volta: Jlrlecchino mio compare(\). Tallemant des Réaux descrive la visita che lo stesso Martinelli fece ad Enrico IV: " Harlequin et sa troupe vinrent à Paris en ce tems et quand il alla saluer le Roy , il prit si bien son tems , car il estait fort

(1) Baschet, op. cit. p. 194.

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dispos, que sa Majestè s'estant leve de son siége, il s' en empara, et comme si le Roy eust été Harlequin: Eh bien, Harlequin, luy dit-il, vous éstes venu icy avec votre troupe pour me divertir , j' en suis bien aise, je vous promets de vous protéger, de vous don- ner tant de pension etc. etc. Le Roy ne Tosa desdire de rien, mais luy dist: Holà, il y assés longstems que vous faictes mon personage; lassez le moy faire à ceste heure (1). " Ne le burle, Arlecchino, le faceva sol- tanto, in iscena, ai suoi compagni ; le faceva anche al re. Un giorno egli fece ad Enrico IV omaggio d*una sua opera intitolata: Compositions de Rhétorique scritte da Monsieur Harlequin, comicorum de Civitatis NovalensiSy corregidor de la bona langua francese et latina condufier ae comédiens, connestahle de messieurs les badauxs de Paris, capital ennemi de tous les la- quais... " II volume era di settanta pagine, di formato elegante, in quarto, delle quali cinquantanove bianche inquadrate in doppi filetti neri. La parte stampata consisteva nel titolo dell'opera e nella seguente de- dica : " Au magnanime Mgr. Mr Henry de Bourbon, premier bourgeois de Paris, chef de tous les Messieurs de Lyon, amirai de la mer de Marseilles, maistre de la moitié du pont d'Avignon et bon ami du maistre de Tautre moitié, depensier liberal de cournades, ter- reur du Savoyard, épavent des Espagnols, secrétaire secret du plus secret gabinet de madame Maria de* Medici, grand Tresorier des comédiens italiens et

(1) Baschet, op. cit. p. 199.

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prince plus que tout autre digne d* estre engravé en medaille. " Spirito, come si vede, abbastanza grosso- lano, ed anche licenzioso, uguale a quello dei lazzi spacciati sulla scena. Eppure, quel secrétaire secret du plus secret gahinet de M. Maria de' Medici, se non deve aver fatto ridere quest' ultima , deve aver divertito abbastanza il marito ! Ma nella stessa Francia qualche spirito eletto già trovava abbastanza scurrile codesto spirito. 11 Malherbe, uno dei poeti della Pleiade francese, non divideva l'entusiasmo dei suoi compa- triotti pei comici italiani. Già i comici spagnuoli non lo divertivano; quanto agli italiani, ritornava a casa, dopo una recita, col dolor di capo. Togliamo dal suo diario i seguenti appunti :

" 6 sept. 1613. Les coméndiens italiens sont arrivés; nardi ils joue- ront au Louvre; l'on n* en dit rien à personne, à fin que ce il soit en petite compagnie à cause du lieu, qui est petit et que la saison estant chaude Leurs Majestéz pourroient estre incomodez... ".

" Arlequin est certaiment bien different de ce qu' il a été, et aussi Petrolino: il premier a cinquante six ans et ledernier quatre-cinq et sept; ce ne sont plus àgés propries du théàtre... Ils jouent la comédie qu' ils appellont Dui Simili qu' est les Menecmi de Plaute. le ne sais se les sauces ètaient mauvaises en mon goùt corrompu, mais j' en sortis sans autre contentement que l'honneur que la Reine me fit de vouloir que j' y futz (1) ".

Ma non tutto il pubblico francese , che assisteva alle rappresentazioni dei comici italiani , era del pa- rere del Malherbe. Gli uomini di spada , gli stessi

(I) Baschet, op. cit. pp. 242-44.

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gentiluomini della Corte , non esclusi i prelati , non avevano che un gusto grossolano , come grossolane erano le loro maniere. Parecchi di loro erano anche violenti , conservavano sotto una certa vernice , che pretendeva d'essere pura Rinascenza, tutte le asperità, tutti i cattivi gusti di personaggi medievali. Ad ogni momento codesta rozzezza si rivelava in incidenti di- sgustosi, talvolta anche di sangue. Trajano Guiscardi, ministro del duca di Mantova presso la corte di Fran- cia, in un dispaccio al suo signore, narrava che una sera, alla porta del teatro (teatro di Corte !), si pre- sentò un gentiluomo, s'intende, francese: uno dei co- mici italiani, Battistino, l'invitò a presentare il biglietto d'ingresso, ma l'altro come un teppista o un mafioso dei nostri giorni, volendosi godere lo spettacolo senza metter fuori il becco d'un quattrino, gli rispose con uno schiaffo. Il comico, di buona razza, afferrò però collo il gentiluomo; quindi tutti e due si picchiarono ben bene rotolandosi sulla terra; infine, furono divisi. Battistino tornò a chiedere il biglietto d'ingresso, ma l'altro, testardo come un gentiluomo d'allora, rispose: " Te l'ho dato insieme allo schiaffo ! " Ma Battistino (il suo casato era Austoni) non sapeva soltanto far ridere dal palcoscenico le Loro Maestà il re e la regina di Francia e di Navarra, sapeva anche menar dei buoni pugni, e ne appioppò uno, e poderoso, sul naso del gentiluomo. Questi, per un momento, restò disorientato, il sangue gli veniva giù dalle narici spor- candogli i merletti e il velluto del giustamore , ma tosto si rimise e cavò fuori la spada: altri gentiluo-

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mini, presenti, la cavarono pure. Battistino non ne ebbe sgomento ; aiutato da Pedrolino , da Frittellino , da Arlecchino, da Mezzettino, tutto il sesso forte della compagnia , tenne per un pezzo fronte a tutti quei gentiluomini; poi, sopraffatto da questi, scappò. Al- cuni giorni dopo, i gentiluomini andarono, di sera, ad aggredirlo in casa; ma Battistino si asserragliò nella sua stanza, indi, dalla finestra, si mise a tirare schiop- pettate sugli aggressori. Fortunatamente non ci furono ne morti ne feriti, e il re accomodò ogni cosa (I). Soltanto in siffatta società di gentiluomini maneschi e soverchiatori , di gusti e maniere che rasentavavano la piazza e la stalla, poteva, per esempio, accadere il fatto seguente. Correva il 1610, ed era ambasciatore di Venezia in Francia Antonio Foscarini , il quale avendo assistito a San Dionigi insieme al nunzio pon- tifìcio airincoronazione di Maria de' Medici, presentò i suoi ossequi a don Pietro di Toledo ambasciatore di Spagna. Se non che, a quei tempi , sembra che gli ambasciatori di potenze straniere accreditati presso la stessa Corte potessero esercitare il loro ufficio senza conoscersi l'un V altro. 11 Toledo , che appunto non conosceva il Foscarini , gli domandò dell' esser suo, ed avendo appreso eh' era l'ambasciatore di Venezia gli rise sul muso esclamando con tono sprezzante: Ah l'ambasciatore di Pantalone! 11 rappresentante della terra del Cid non poteva essere più villano ; non è vero } Ma la risposta del compatriotta di Pantalone,

(I) Baschet, op. cit. p. 170.

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se fu anch'essa villana, fu però calzante. 11 Fosccirini alzò il piede ed assestò una formidabile pedata a don Pietro di Toledo e precisamente in un posto che il galateo vieta di nominare. Il Nunzio s'adoperò per mettere fine a quel disgraziato incidente (Ì).

Senza pretendere di voler far la storia, anche in succinto, della grossolanità del caratteae francese di quei tempi, e segnatamente del linguaggio abbastanza sboccato e plebeo che si adoperava non solo dalle classi medie, ma anche nei circoli di Corte, riportia- mo qui alcuni aneddoti, che uno scrittore francese re- cente ricavò da diari e cronache dei tempi di Luigi XIII e della giovinezza di Luigi XIV.

Ecco un dialogo fra un gentiluomo e Luigi XIII, quasi fanciullo, ma già fidanzato ad una infante di Spagna.

" Monsieur, aimez-vous V Infante} lui demande un jour M.r de Vendelot. Non. Monsieur, pourquoi ? Parcequ' elle est espagnolle Monsieur, elle vous fera roi d' Espagne et vous la farez reine de France. Il répond en sourient, comme de chose oìi il eùt plaisir : Elle couchera donc avec moi et je le lui farai un petit enfant. Monsieur, comment le ferez- vous ?

Avec mon guillery, dit-il bas et avec honte. Mon- sieur, la baiserez vous bien ? Ouì, comme cela dit-il en se jetant à corps perdu la face contre le traver- ei) Molmenti, Studi e Ricerche di Storia e d'Arte; Torino Roma, Roux, 1892; p. 183.

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sin (1). " S'ignora se codesto M.r de Vendelot fosse il precettore o governatore o sotto governatore del re minorenne.

Ancora Luigi XIII. " Le jour 20 janvier 1619, eut lieu la cerimonie du mariage du due d'Elboeuf avec m.Ile de Vendome. La nuit arrivée le roi si fit introduire dans la chambre nutiale. Bien mieux, il vou- lutétre prèsent sur le propre lit des deux époux , à fin de voir se consommer le mariage, acte qui fut reiteré plus d' une fois au grand applaudissement et au goùt de Sa Majestè... On afferme que m.lle de Vendome... aurait méme dit à cette occasion : Sire, faitez vous aussi la méme chose avec la Reine (// re per ritrosia non aveva ancora potuto consumare il matrimonio) et bien vous ferez (2) " . Evidentemente codesti personaggi dovevano essere sforniti di senso morale. Più che un fatto di cronaca, si direbbe una lubrica concezione di Pietro Aretino.

Passiamo alla giovinezza di Luigi XIV. " Chate- rine, veuve de sieur de Brevais, première femme de chambre de la mere reine, était fort lubrique, et payoit grassement ses amants. Car, com' elle étoit vieille, laide, borgneuse, ses charmes ne les attiroient pas, il est certain qu' elle avoit en néammoins le ipoucellage du roi Louis XIV, affreuse qu'elle ètoit, car le prime était fort jeune elle lui mit un jour la

( I ) Cabanès , Cabinet secret de la Histore ; Prem. serie ; Paris, Albin Michel. 1905. p. 97. (2) Id. id. p. 125.

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main dans les chausses l'avant trouvé seul à 1* ecart dans le Louvre, oìi, pour ensi dire elle le viola (1) ". Se non che, verso la seconda metà del secolo XVII, prima sotto l'energico ed intelligente governo del car- dinale di Richelieu , poi sotto lo stesso Luigi XIV, la Francia cominciò a subire una rapida trasforma- zione. 11 suo linguaggio cominciò a dirozzarsi, forse troppo a dirozzarsi tanto che si cadde nel " prezio- sismo ", un linguaggio affettato, leccato, pieno di ve- recondie anche per cose che non ne avevano bisogno, e flagellato dai poeti satirici e dai commediografi con a capo il Molière. Fu nei salotti parigini del tempo del Richelieu , e più propriamente nelle conversa- zioni del palazzo Rambouillet che la lingua francese cominciò a perdere ogni sua grossolanità diventando così uno dei più fini e stupendi strumenti per esprimere le proprie idee. La Francia, intanto, con le sue vit- torie stabiliva il suo primato su tutta 1' Europa cen- trale e meridionale. Incominciava il secolo che fu detto, e si dirà sempre , di Luigi XIV. La luce veniva dalle sponde della Senna. Parigi era la città- /um/ère anche prima che fosse designata con tal nome. L'e- loquenza toccava la perfezione col Bossuet, col MaS- sillon, col Bourdaloue, col Fléchier; la lingua, già così limpida, così lucida, nella prosa di cotesti scrittori, di- ventava la lingua diplomatica prendendo il posto della latina, che l' aveva occupato sin' allora. Il Corneille,

il Racine creavano il teatro tragico, come il Molière I

1 i

(I) Id. id. p. 129.

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creava quello comico ; la filosofìa usciva dalla pastoie scolastiche col Cartesio ; il Rameux riformava la mu- sica ; il Poussin e Claudio di Lorena illustravano la pittura, il Puget e il Legros la scultura, il Mansard e il Perrault 1' architettura. Molti romanzieri , alcuni dei quali godettero allora d' una grande celebrità, in- dirizzavano le anime verso amori ideali , più che amori, veri idilli : si riabilitava la natura poetizzando- la , si creavano pastorelli sentimentali e pastorelle non meno sentimentali mettendo nel loro cuore affetti d* una estrema delicatezza , sulle loro labbra un lin- guaggio molto elevato. Aprì il fuoco il D' Urfè con YAstrée, un romanzo ch'ebbe uno strepitoso successo, che la posterità non confermò , come non confermò quello ottenuto dai romanzi che seguirono l' Jlstrée. Fra tutti , quelli di madamigella Scudery si sparsero per ogni angolo della Francia ; essi furono i libri di lettura preferiti dalle dame e dai cavalieri, dalle mo- deste borghesi come dai commessi di negozio, dagli scrivani degli studi degli avvocati, dei procuratori e dei notai. Per più d'una generazione gli innamorati e le innamorate di Francia non parlarono che col linguaggio dolciastro dei romanzi della Scudery. Non si diceva: quei due giovani s'amano, ma sibbene : navigano sul fiume Tenero. Oggi quel linguaggio farebbe ridere o ci addormenterebbe ; ma allora era un fattore di raffinamento , di civiltà. A codesta raffinatezza di linguaggio aveva, soprattutto, contribuito il vocabo- lario dell' Accademia istituita dal Richelieu. Come scrive il Taine , il vocabolario si alleggerì di parole

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ed espressioni crude e grasse non che d'una infinità di frasi familiari brusche , di tutta la metafore arri- schiate e pungenti, in omaggio, certamente, a quanto diceva il Vaugelas , cioè, che basta una sola parola per far disprezzare una persona in una compagnia (1). In una conversazione di dame distinte e di cavalieri nessuno avrebbe più ardito infiorare il proprio discorso con una delle cento esclamazioni pittoresche, ma anche crude, che il buon re Enrico IV, a malgrado della sua galanteria, amava tanto. Per fermo, cotesta evo- luzione della psiche francese, tanto individuale quanto collettiva, non si compiva tutta d'un tratto, dalla sera alla [ mattina, ma a grado a grado, quasi insensibilmente. Qua e là, soprattutto nel teatro comico, compreso quello del Molière, si sente ancora lo spirito della vecchia Gal- lia, che non era quello di Atene. Le grossolanità, che tanto piacevano sotto i regni di Carlo IX e di * Luigi XII , di Luigi XIII e di Enrico IV, fanno i ancora capolino e fan ridere anche duchesse e cava- ' lieri. Era del vecchio spirito paesano , e un po' di buona accoglienza gli si doveva pur fare.

Dinanzi a codesto quadro delle due società (ita- liana e francese) in cui la commedia dell' arte rac- colse i suoi maggiori applausi , si comprende come essa, durante la sua lunga vita, potesse ottenere tanti trionfi : essa non faceva che rispecchiare quelle due società; era la riproduzione spirituale dello stato d'a- nimo dei suoi spettatori. La scena non era che una

(1) Taine, Aden 7^eg/me, liv, III eh. II.

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succursale della platea , se non n' era addirittura la continuazione. La stessa ingenuità d' intreccio predi- letta dagli autori dei " soggetti ", non poteva riuscire fastidiosa o deficiente ad un uditorio che del teatro comico, in Italia, non conosceva che la commedia letteraria abbastanza noiosa e calcata sulla falsariga del teatro classico e, in Francia, le povere e magre farse dell' antica letteratura paesana. Quegli inganni spesso sciocchi , infantili , quei travestimenti inverosi- mili, quegli incontri non meno inverosimili, quelle finte pazzie, quelle continue agnizioni che risolvevano le situazioni critiche più disperate , quel linguaggio che sentiva il fango della strada, l'odore dell' osteria e il lezzo del lupanare, quella risata grassa, larga, briosa, che mostrava tutti i denti della bocca o congestio- nava il viso dello spettatore, quei lazzi che correvano pazzamente dall' oscenità alla scurrilità , da questa a quella , insomma, tutto ciò che costituiva il bagaglio del teatro comico dell'arte, o improvviso, era ritenuto verosimile, pien d' interesse, faceto, ed anche corretto, perchè in esso si rispecchiava l' anima del pubblico. Comici e spettatori , durante la rappresentazione, an- davano a braccetto. Nulla veniva dalla scena che non fosse accolto come cosa propria, naturale dalla platea, come nulla si diceva da questa che non fosse ritenuta una legittima espressione dei sentimenti del- l'altra.

La commedia dell'arte non cominciò, dunque, a de- cadere che quando si manifestò un dissidio fra la scena e la platea, e precisamente quando per le cambiate con-

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dizioni sociali, l'anima dello spettacolo non battè più all' unisono con quella del pubblico. In Francia, co- desto dissidio, fu composto dal Molière. Il suo teatro, sebbene in parecchie parti risentisse 1' influenza di quello dell'arte, seppe rispecchiare la nuova società; ^ in Italia, dove la commedia dell'arte nacque, quando la società cominciò a svecchiarsi, a raffinarsi, e l'anima ; del pubblico ad assumere nuovi atteggiamenti sotto r influenza francese, eh' era pur quella del secolo di ; Luigi XIV, il dissidio perdurò più a lungo. Essa non ebbe che più tardi il suo Molière nella persona di Carlo Goldoni. Con costui, l'accordo fra scena e pub- blico, già rotto, si ristabilì. La commedia dell'arte, come un detrito del passato, scomparve. Essa aveva fatto il suo tempo.

Parecchi scrittori hanno voluto indagare le ragioni : del tramonto e della morte della commedia dell'arte; ' e ne son venuti fuori pareri diversi. Qualcuno ha rite- nuto che lo spettacolo all' improvviso fosse morto di morte violenta, e 1' omicida sarebbe stato il Goldoni, il quale l'avrebbe meditato per li, tra le qumte del palcoscenico del teatro Sant'Angelo, a Venezia, dopo , la caduta d' una sua commedia; e a questo concetto 1 evidentemente s'ispirò Paolo Ferrari scrivendo la sua bella commedia, anzi il suo capolavoro, Carlo Goldoni e le sue sedici commedie nuove; altri scrittori hanno ritenuto che si fosse spenta per mancanze di forze, per esaurimento senile, quasi che un teatro a cui con- corrono sempre nuove forze col succedersi delle gene- razioni possa paragonarsi ad un organismo umano; e

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in questo caso, il Goldoni non avrebbe occupato (ed anche senza fatica) che un posto lasciato vuoto. Er- nesto Masi, dopo d' aver detto che i comici furono sempre veduti dalla Chiesa per gente immorale e degna dei suoi fulmini spirituali e quindi, per un pregiudizio religioso, tenuti dalla società lungi dal suo seno quasi che codesto stato d'abbiezione in cui i comici erano tenuti avesse impedito che la commedia dell'arte per tanto tempo non avesse avuto i suoi trionfi aggiunge : " È per questa via d' umiliazione e di anatema che la commedia dell'arte ridiscende a poco a poco dalla luce nelle tenebre... Fondata sul burlesco, non vinco- lata da nessun antecedente letterario, obbligata ad ac- , Gettare il favore d' un pubblico vario di gusto e di j condizioni, non tenuto in freno dalla presenza delle donne (?), che cosa può impedire la sua decadenza ? Nulla, ed essa torna via via ai suoi cenci " (1). L* inglese Addington Symonds (2) scrive : " Affidata tutta al genio degli attori, la commedia dell'cu-te morì di languore, quando questo genio fu incaminato per altre vie". Il Baschet (1), all'incontro, quasi non può credere alla scomparsa della commedia dell'arte e nel ricordare i comici all' improvviso s'abbandona ad un lirismo perfettamente inopportuno :

(1) Studi sul Teatro Italiano nel sec. XVIII; Firenze, Sansoni, 1891, p. 232.

(2) Citato dal Masi nell'op. cit. p, 230. Il Symonds è autoie di : The Memoirs of count Carlo Gozzi translaied info english, Sendon, 1 890.

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" N'avaient-ils pas, en effet, les qualités premiéres qui faisaient un acteur excellent dans les comédies jouées à l'improntu ? L'esprit le plus enjouè, le tour le plus piquant, le nature! admirable, la précision par- faite, pour les réparties et répliques, la gràce et le nerf dans la satire, et tous les motifs de rire le plus entrainant, trouvés à la fois dans les propos courants du gros bon sens et dans les inventions buffonnes de la fantaisie plus libre ? (I) ".

No ; la commedia dall'arte moriva perchè intorno a se s'era fatto il vuoto ; essa non trovava più la sua ripercussione nell'anima del pubblico. Nata nel Cin- quecento innamorato di tutte le belle cose ma anche innamorato di tutte le grossolanità d'una vita troppo legata alla materia , paganeggiante sotto torme cri- stiane, epicureo, evidentemente portato alla grossa ri- sata, alla risata schietta, piena, rumerosa; cresciuta in mezzo ad una società che stentatamente si svolgeva per vie che dovevano condurla ad un modo di vivere più raffinato, più nobile, ad una concezione della stessa vita assai diversa da quella che negli splendori della Rinascenza ne eveva avuto colui che al secolo aveva dato il suo nome (2), essa non trovò più abbastanza os- sigeno per respirare nella nuova società. Verso la metà del secolo XVIII, e precisamente quando Carlo Goldoni aveva già cominciato a fare i suoi primi passi nella car- riera teatrale, il distacco fra lo spettacolo comico ed il pubblico era divenuto sensibilissimo. L' Italia, che du- ci) Op. cit. p. 336.

(2) Corse fama che il cardinale Giovanni de' Medici (Leone X), innalzato alla dignità suprema della Chiesa avesse detto: " Godiamoci il Papato ; Iddio ce 1' ha mandato ".

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rante il Seicento s'era posta a camminare sulle orme della Spagna, ora camminava su quelle della Francia. In quel cambio essa, senza dubbio, vi guadagnava, so- prattutto dal lato del teatro. Il Molière non solo aveva creato un teatro comico ma aveva anche avuto dei felici e geniali continuatori, il Regnard e il Marivaux soprattutto; il primo dei quali su un vecchio tema, / Menecmi , seppe infondere uno spirito comico tutto nuovo, che non aveva nulla da fare con quello gros- solano e spesso scurrile della vecchia commedia a soggetto. In codesti scrittori il linguaggio dei personaggi è già quello della " commedia moderna ", esso è an- che depurato di quelle salacità improntata al vecchio sale galois dal quale lo stesso Molière non era andato del tutto esente. Ecco uno spunto di dialogo tolto dal Bai del Regnard, dove lo spirito più arguto, più cau- stico sa mantenersi nei limiti della più stretta decenza :

LlSETTE J' ai fait voeu d' étre vevue ; et je veut tenir.

Merlin

Ouì-dà ; l'état de veuve est une douce chose : On a plessieurs maris sans que personne en giose ; Et Fon fait justement, du soir jusq* au matin, Gomme ces fins gurmets qui vont goùter le vin. Sans acheter d'aucun, à chaque piece on tate : On laisse celui-ci, de peur qu' il ne se gate : On ne veut pas de l'un, parce qu' il est trop couvert ; D'un tal vin le couloir est malade e bizarre ; Cet autre, dans le chaud, pieut tourner à la barre ;

^"e/ Regno delle ^^aszhere 16

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L'un est trop plat au goùt, l'autre trop petilant; Et cet dernier enfin a trop peu de montant; Ainsi, sans rien choisir, de tout en fait éprouve : Et voilà justement comme fait une veuve,

Un altro spunto di dialogo , sempre del Regnard {Les Folies Amoureuses) :

CRISPIN

Il faut savoir d'abord si dans la forteresse Nou s nous introduirons force ou par adresse ; S' il est plus à propos, pour nos desseins con^us, De faire un siège ouvert, ou former un blocus.

. En tenter les affaires, La téle doit toujours agir avant le bras. Quand on veut, voyez-vous, qu' un siège réusisse, 11 faut, primièrement, s'empaver des approches, Connoltre les entroits, les faibles et les forts. On ouvre la trancheé, on canonne la place, On renverse un rempart, on fait bréche: aussitot On avance en bon ordre. et s'ordonne Tassaut. C'est le méme à peu prés quand on prend une fìlle.

(Atto I, se. 8.)

Crispino non è che un servo ; ma qual differenza fra il suo linguaggio e quello dei servi-mezzani della commedia dell' arte ! Tutto nei suoi consigli è fine- mente espresso. Quel Crispino si direbbe un servi- tore d'una casa aristocratica moderna, in abito nero e cravatta bianca.

Dal Regnard passiamo al Marivaux. In qualcuna delle commedie di costui abbiamo ancora Arlecchi-

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no; ma quale Arlecchino ! Egli non è il servo sciocco, che tutti prendono a colpi di bastone o di piede, coi suoi lazzi volgari e il suo linguaggio non meno vol- gare dei suoi lazzi ; ma, col Marivaux, Arlecchino e divenuto un innamorato sentimentale, che sa esprimere i suoi sentimenti in una forma appassionata ed anche elegante. Nella T)ouble Incostance, una commedia la- vorata su un canovaccio che risente ancora la sem- plicità dei soggetti del teatro a braccia, il principe ha posto gli occhi su Silvia amante di Arlecchino e vuol farla sua. Un cortigiano cerca di persuadere quest'ul- timo di non opporsi alla volontà del principe, il quale lo avrebbe generosamente ricompensato non solo con denaro, ma anche con una casa in città e una villa in campagna.

ARLEQUIN

Ah, que cela est beau ! il n' y a qu' une chose, qui m'embarasse; <ju'est-ce qui habitera ma maison de ville, quand je serai à ma mai- son de campagne ?

TRIVELIN (/•/ Cortigiano) Parbleu ! Tes valets !

ARLEQUIN

Mes valets ? Qu' ai-je besoin de faire fortune par ces cainalles ?... Dites-moi, fait-on autre chose dans sa maison que 'asseoir, prendre ses rcpas, se coucher ? En bien I Mon bon lit, ma bonne table, ma dou- zaine de chaises de paille, ne suis-je pas bien meublé ?... Oh, moi n' ai point de carrosse ! (en montrant ses jamhes). Ne voilà-t-il pas un équi- page que ma mère m'a donne ? Alerte, alerte, paresseux, laissez vos che-

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veaux à tant de honnèts laboureurs qui n'en point ; ce vous fera fair e du pain ",

(Atto I, Se. IV)

La letteratura francese, non esclusa la teatrale, con- tava già in Italia ammiratori e seguaci. Si traduceva dal teatro francese. Il Gigli, come vedremo nella se- conda pcirte di questo nostro lavoro, scriveva il sua Don Pilone, che non è che il tartufo del Molière» meno poche scene. Morta d'assideramento la comme- dia erudita, o letteraria, classica, non rispecchiando più quella dell'cirte la società del tempo, l'avvento della nuova commedia non poteva essere che vicino. E il suo creatore non tardò a fcU'e la sua compcu^sa sulla scena comica.

Era Carlo Goldoni.

FINE DELLA PARTE PRIMA

CAPITOLO PRIMO

I tempi di Carlo Goldoni.

Quando il 25 febbraio 1 707, in Venezia, " in una grande e bella abitazione situata fra il ponte di Nomboli e quello di Donna -Onesta, al canto di via di Cen- t'anni, nella parrocchia di San Tommaso " (1), nacque Carlo Goldoni, la grande repubblica veneta, la " Sere- nissima " come comunemente era chiamata, era in piena decadenza. La sua agonia, che doveva trascinarsi per quasi tutto quel secolo, era già incominciata. Se non che, la gloriosa vincitrice di Lepanto rassomigliava al- quanto a quelle belle donne, le quali, sebbene stieno per varcare la quarantina, pure un po' per l'incipiente pin- guedine che stirando la pelle a loro una specie di seconda giovinezza, un po' per i cosmetici sapiente- mente adoperati, si conservano fresche ad anche ap- petitose: così Venezia, la quale, sebbene dell'antica gloria, e, soprattutto, dell' antica potenza non conser- vasse che i rimasugli, pure nella sua vita esteriore,

(1) C. Goldoni, t5^emor/e, Par. 1, Cap. I.

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nei suoi rapporti con gli altri Stati, nelle sue feste, nei suoi tripudi, nei suoi costumi, conservava un sa- pore di giovinezza, che la collocava fra le città più caratteristiche dell'Europa del secolo XVIII. Giammai un organismo politico, come quello veneto, seppe meglio nascondere sotto le apparenze della più rigogliosa, più j esuberante vita i germi della sua dissoluzione. Gli am- basciatori della " Serenissima " prendevano ancora pos- sesso con pompa del loro ufficio presso i sovrani dei grandi Stati d'Europa : erano i nomi gloriosi dei Mo- cenigo, dei Correr, dei Guerini, dei Zeno, dei Conta- rini che risuonavano, pronunziati dai maestri di ceri- monie, nelle corti di Sua Maestà Cattolica, di Sua Maestà Cristianissima o di Sua Maestà Imperiale Reale Apostolica, o in quelle d' Inghilterra o di Costanti- '[ nopoli. Le flotte, sebbene scarse ed invecchiate, pure veleggiavano nell'Adriatico, mare tutto veneto, esclusi- vamente veneto, e nei mari di Levante, dove il leone di San Marco, nell'orifìamma di seta, sventolava dalle mure delle città e dagli spalti dei forti. Nelle sue co- lonie lungo le coste della Dalmazia e nelle isole del mare Jonio, Venezia sentiva ancora fremere la sua vita : dappertutto si sentiva risuonare il suo dolce e molle dialetto ; sui frontoni dei palazzi, sugli archi, sui torrioni, dal fondo bianco del marmo, occhieggiava l'alato leone col vangelo di San Marco spiegato da- vanti, grave, sereno, non sospettando la non lontana ruina. Le cerimonie pubbliche, le feste religiose con- [ servavano ancora la loro antica pompa, l' antico loro fasto; quelle popolari continuavano ad essere impron-

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tate all'antica gaiezza. Ogni anno, il Bucintoro, ricco di dorature, di stendardi, di velluti, trasportava il Doge sulla laguna per sposare, col simbolico anello, il mare ; codesto doge, nello stesso suo splendido paludamento, che ricordava l'an.xo Oriente, teatro di glorie per la repubblica, continuava ad essere il prigioniero volon- tà! io d' una oligarchia, che adorava il passato come un selvaggio del Centro d'Affrica un feticcio; imembii del Senato, i componenti del terribile tribunale dei Dieci, i pregadi, il procuratore di San Marco, conti- nuavano a salire e scendere gravemente, con solen- nità ieratica, la scala dei Giganti, tutta marmo ed oro, a radunarsi in consiglio, a discutere di pace e di guerra, ad ascoltare la lettura delle relazioni che gli oratori della repubblica mandavano da Roma, da Pa- rigi, da Madrid, da Londra, da Vienna, da Costan- tinopoli. Il potere, sebbene in poche mani, pure era esercitato paternamente; i misteri dei Pozzi, le ter- ribili segrete di Stato, non trovavano più posto che nella fantasia dei denigratori della repubblica : mas- sima precipua di governo era di occuparsi poco di Dio e nulla del principe ; e le popolazioni, alle quali, per altro, si lasciava ampia libertà di divertirsi, non s occupavano affatto di quest'ultimo, ed assai poco del- 1 altro. Così esse, da un lato, scansavano la forca, e dall'altro, se non il rogo, che a Venezia non si innal- zava, le carceri degli Inquisitori di Stato. La loro fede religiosa era abbastanza tiepida e l'aver visto, ai tempi di fra Paolo Sarpi, le classi dirigenti del loro paese sollevarsi contro il pontefice e sfidare serenamente i

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sul berretto e il bastoncino in mano per contenere una folla che oggi un nugolo di carabinieri difficil- suoi fulmini, aveva infuso nelle loro coscienze una punta d'amabile scetticismo, che senza rasentare la ir- religiosità, rendeva i veneziani assai tolleranti delle altrui opinioni : il che rendeva ai forestieri più gradita la vita di Venezia. Non è quindi da meravigliarsi del loro frequente accorrere sulle lagune.

Quella specie di serenità che regnava nella vita pubblica, aveva la sua eco in quella privata. Nelle famiglie, la podestà paterna era rispettata, ma si eser- citava blandemente, con quella bonomia, che formò sempre la caratteristica principale del padre di famiglia veneziano. Non monacazioni forzate, non fughe di fan- ciulle per sottrarsi ai rigori paterni : la storia delle famiglie veneziane non presenta ne monache di Monza, ne Beatrici Cenci. Le fanciulle crescevano nel rispetto dei genitori ; amoreggiavano, di sicuro, ma con la dolce timidezza delle giovinette : non scale di seta per ratti romantici, non disperazioni profonde da finire col sui- cidio. Una certa indolenza, una certa fiacchezza, aveva tutto smussato, tutto appiattito. Si camminava sui tap- peti ed anche coi piedi infilati nelle babbucce. Il ca- rattere, tanto in alto quanto in basso, aveva perduto parecchie angolosità: s'intende, non grandi passioni, non grandi ribellioni. Tutti navigavano in un mare di giu- lebbe. La stessa plebe nascondeva la sua rozzezza sotto una vernice di bontà che in altre città si sarebbe cercata invano. Nelle grandi feste, in piazza San Marco, bastavano quattro donzelli coi colori della repubblic

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mente saprebbe tenere a freno. Venezia, allora, non pensava che a divertirsi; e si divertiva. Era la città più ricca di divertimenti di quei tempi. Le villeggiature erano lunghe ; le sue ville signorili, splendide, ricche di pitture, di stucchi, di specchi, di dorature, sorge- vano sulle sponde della Brenta, a Mestre, sui colli trevigiani. La sua vita era un lungo tripudio. Le feste mondane prendevano il passo alle religiose ; il che non accadeva ne a Roma, ne a Napoli, ne a Milano. Già quasi sei mesi su dodici , si poteva andare, in bautta per la città, nei caffè, nei ridotti, nei teatii. La bautta (1), si prestava a meraviglia agli intrighi, alle scappatelle, alle sorprese ; agevolava la maldi- cenza, acuiva lo spirito rendendolo ingegnoso, giacche di sotto alla bautta non era vietato l'ammonire garba- tamente anche persone di classe elevata o ricoprenti alti uffici, e il serbare l'anonimo era quindi divenuto, con la necessità, arte raffinata non solo d'attacco, ma anche di difesa. Le feste, per altro, costituivano un'arte di Stato; d'inverno i teatri, le maschere, i ridotti, dove si giuocava a tutto spiano; d'estate, le feste religiose, quella del Redentore, soprattutto, era una meraviglia, di giorno, di luce, di colori, di gondole imbandierate, strascicanti sulle acque tappeti di seta e di velluto, di notte, una visione fantastica di lumi d' ogni forma e colore riflettenti la loro luce sulle acque oscure, oulle linee architettoniche dei palazzi, sugli archi dei ponti,

( 1 1 Era la maschera ordinaria veneziana e si componeva à' un mantello, d' un cappello e di mezza maschera nera sul volto.

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sui marmi delle chiese. Nelle grendi feste, la repub- blica (allora si diceva il " Principe ") invitava il po- polo a banchetti pubblici : erano pasti singolarissimi in cui il popolano, arsenalotto od operaio, era servito in piatti d'argento con lo stemma della " Serenissima " e da camerieri i quali non erano che scudieri e ca- valieri della repubblica. Una affettuosa domestichezza regnava fra popolo e governanti. Nella festa delle Marie qualsiasi popolano poteva baciare sulla guancia il doge. Venezia, poi, era la città d' Italia meglio dotata di teatri; ai tempi della prima giovinezza del Goldoni, essa ne teneva aperti, per una buona parte dell' anno, sino a sette. Il teatro principale (oggi si direbbe il " Massimo ") era quello di San Giovanni Grisostomo, poiché allora i teatri, come le navi da battaglia, le corsie degli ospedali , quasi tutte le vie delle città, gli alberghi, prendevano nome dai santi, j e vi si dava opera seria. Più tardi prese il primo posto quello di San Benedetto; venivano dopo il teatro di San Samuele, quello di San Luca, infine, quello di San Cassiano e 1' altro di San Moisè. Di codesti cinque teatri, due si aprivano all'opera buffa, tre alla , commedia. I patrizi non sdegnavano di farsene gl'im- I presari quando non si costituivano protettori delle com- pagnie che vi recitavano. A Roma, quasi nello stesso tempo, non c'erano che tre teatri, quello di Tor di Nona, il Capranica e il d' Alibert ; più a Milano e a NapoH, ma meno di Venezia. Apostolo Zeno, un veneziano, aveva fatto assurgere a dignità d'opera d'cirte il me- lodramma spogliandolo di tutte le sconcezze e le bar-

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barie di cui V aveva rivestito il Seicento. Lo stesso Zeno, col fratello Caterino, pubblicava il miglior gior- nale letterario che allora vedesse la luce in Italia. Le tipografie veneziane, sebbene in quei tempi fossero già superate dalle francesi per la bellezza e nitidezza dei caratteri, pure erano ritenute le migliori della pe- nisola e da esse uscivano opere d'erudizione diligen- temente curate ed illustrate da patrizi dotti o amanti degli studi, come il Foscari e i due Foscarini. Ricche biblioteche possedevano famiglie private ; la pittura, la gloriosa pittura veneta dal maraviglioso colorito, get- tava il suo ultimo lampo con Giambattista Tiepolo, l'ultimo dei grandi artisti veneziani, mentre col Longhi riproduceva interni di case e costumi e col Canaletto vedute di palazzi, di ponti, di viuzze, di lagune, insomma tutta la città di San Marco sfilante sulla tela ora nelle sue albe vaporose, ora nei suoi pomeriggi d'oro, tal'altra nella chiara luminosità dei suoi giorni estivi. La mu- sica era rappresentata da Benedetto Marcello, allora detto " il principe della musica " ; e tale e rimasto. Se l'architettura sbadigliava nelle accademie, l'ingegneria iniziava un' opera meravigliosa, diretta a sottrarre la città alla furia delle onde iniziando, nel 1 744 per compierla nel 1781, 1' opera dei Murazzi (ausu ro- mano, aere veneto). L'industria dei vetri non che quella dei merletti, vivevano ancora, sebbene meno celebrate di prima. Ma la letteratura, se ne togli Apostolo Zeno, il Conti, che aveva cercato di dare all' Italia la sua tragedia, come il Corneille e il Racine l'avevano dato alla Francia, Scipione Maffei a Verona, autore della

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Merope, saggio di buona tragedia, e qualchedun'altro, non dava che poveri fiori : discorsi d'occasione, sonetti, odi, canzoni per monacazioni, per elezioni a dignità pubbliche, per lauree, infine, per cantare, sulla cetra d'Arcadia, amori senza passione, pastorellerie senza ingenuità. Era ancora il Seicento, ma senza le sue gonfiezze, le sue ampollosità, le sue stravaganze.

Sebbene Venezia fosse la città più teatrale d'Italia, pure nella letteratura comica non contava, prima del Goldoni , uno solo scrittore di qualche riputazione; lo stesso Goldoni narra come, nella sua infanzia, il commediografo più conosciuto ed apprezzato fosse il Cicognini : non dice chi fosse codesto Cicognini, se ii padre, Jacopo o il figlio Giacinto Andrea, entrambi toscani ed autori di drammi e commedie. Probabil- mente sarà stato il secondo, perchè Jacopo, nel primo ventennio del Settecento, per le sue stravaganze spa- gnolesche, dopo d'essere stato tanto in auge, ed aver ricevuto le lodi di Lope de Vega, coi quale carteg- giava, era caduto in un completo oblio ; all' incontro, l'altro. Giacinto Andrea, senza raggiungere la celebrità che aveva circondato una volta il nome dei padre, s' era fatto un po' di strada nel mondo comico con lavori la cui caratteristica era di mantenere l'attenzione del pubblico sempre sospesa sino allo scioglimento. Difatti, ecco come scriveva il Goldoni. " Questo autore fiorentino, pochissimo conosciuto nella repubblica delle lettere, aveva fatto parecchie commedie d' intreccio, sparsi di sentimenti noiosi, patetici e di facezie tri- viali: vi si trovava nulladimeno molto diletto ed aveva

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l'arte di mantenere la sospensione e di piacere con lo scioglimento " (1). Aggiungiamo che quasi tutta la sua produzione drammatica è un rifacimento o una imitazione di drammi e commedie spagnuoli (2). Un altro commediografo toscano, di cui il Goldoni ebbe conoscenza nella sua giovinezza fu Girolamo Gigli. Di costui, in verità, non trovansi a stampa che due sole commedie. Don Pilone, ovvero, il Falso Bacchet- tone e La Sorellina di Don Pilone. Il Giudice Impaz- zito, imitazione d'una commedia del Racine, e qualche altra sua commediola giacciono, nei loro originali, negli archivi toscani. Il Don Pilone, ai suoi tempi, ebbe molta voga in Italia ; ma errano coloro (e sono molti) i quali credono che sia una commedia originale. Don Pilone non e che una traduzione del Tartufo del MoHère; il Gigli soltanto condensò i cinque atti del commediografo francese in tre ed aggiunse di suo una lunga scena al secondo atto (1' ottava fra Valerio e Sapino) e sette (la nona, decima, undecima, dodice- sima, decimaterza, decimoquarta e decimoquinta) al terzo atto: scene che nulla hanno aggiunto alla india- volata vis comica di messer Poquelin. Il Gigli cambiò non solo il titolo, ma anche i nomi di alcuni perso- naggi; Tartufo divenne Don Pilone; Orgone, Buona- fede ; Damide, Sapino ; Leale, il servo di Tartufo, cambiò anche sesso e divenne Dorina. La chiusa della

{]) Mem. Par. I, Cap. I.

(2) Ved. su G. A. Cicognini un recente lavoro di R. Vere: G. A. Cicognini; Catania, Giemnotta, 1912.

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commedia, alquanto modificata, rivela che il Gigli scri- veva sotto un governo che in materia di bacchetto- neria era un po' parente di Tartufo, poiché, a dissi- pare gli scrupoli delle coscienze timorate, forse troppo scandolezzate di veder bistrattato sulla scena un servi- tor di Dio, sebbene falso, ci fa sapere che Don Pi- lone non è che un ebreo passato fintamente alla reli- [ gione cattolica. Poveri ebrei ! Uno di loro soltanto poteva essere un finto bacchettone ! La Sorellina di Don Pilone, all' incontro, e quasi tutta farina del Gi- gli, ma è anche una derivazione del Tartufo. Il Gigli ' inorgoglito del successo riportato dal Don Pilone, volle continuarlo in una seconda edizione parecchio ritoc- cata e modificata. C' è un bacchettone, ma non si t chiama ne Tartufo, ne Don Pilone ; si chiama Don Pilorgio, il quale, come gli altri due falsi devoti, alla fine della commedia, resta scorbacchiato insieme alla moglie di Geronio, anch' essa fior di bacchettona e nella quale il pubblico volle vedere riprodotta (e forse a ragione) la moglie dello stesso Gigli. Se non che, sebbene quest'ultima commedia dello scrittore toscano ricordi quella del Molière, pure non manca d' una certa vis comica, che non s' incontra mai, o quasi mai, nelle commedie letterarie del tempo, e contiene una macchietta, quella della vecchia serva Credenza, che a ogni costo vuol trovare marito, eh' è veramente deliziosa. Nella sua prima giovinezza, a Perugia, il Goldoni recitò appunto in Sorellina (1).

(1) Mem. Par. I, Gap. VII.

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Fama di valente commediogrr^o ebbe l a la fine del seicento e i primi anni del settecento , un altro toscano, Giambattista Fagiuoli, che la leggenda poi trasformò anche iu buffone di Corte. I suoi contem- poranei, soprattutto in Toscana, lo chiamarono 'Terenzio redivivo, o Terenzio toscano. La posterità non con- fermò tale titolo. Il Goldoni, nelle sue Memorie, non lo ricorda; ma ciò non vuol dire che non l' abbia co- nosciuto, anche perchè, in quei tempi, la fama del commediografo toscano era molto diffusa nella peni- sola e più d' una sua commedia scritta era servita di canovaccio per soggetto della commedia dell' arte. Di- fatti, il soggetto della raccolta del p. Adriani : ^on essere, ovvero. La Donna può ciò che vuole, non è, meno poche soppressioni e qualche piccolo cambia- mento, che una commedia del Fagiuoli : Aver cura di donne è pazzia , ossia , il cavaliere Parigino ( 1 ). Un merito però ebbe il Fagiuoli, quello, cioè, d'aver caputo ritrarre con certa arguzia qualche vizio della società che fu sua: prima ancora del Goldoni e del arini, egli seppe mettere in caricatura il cicisbeismo. Fra i precursori del Goldoni, costoro furono cer- amente i principali, ma non crearono nulla. Il crea- ore della commedia italiana doveva venire da Ve- ìezia.

D

(1) V. in: Rivista d'Italia, agosto 191 1, un nostro studio: Un ^ommediografo dimenticato.

CAPITOLO SECONDO

Carlo Goldoni e la Commedia dell' arte.

Secondo una leggenda, Carlo Goldoni, il domani dell' insuccesso d' una sua commedia (/' Erede Fortu- nata), avrebbe di punto in bianco, colle sue sedici commedie nuove scritte e recitate in un anno, rifor- mato il teatro comico italiano, creando la nuova com- media. Codesta leggenda è stata accreditata anche da buoni scrittori; ma non è così. Leggenda, e nient'al- rro. E vero che dopo la caduta della commedia VE- rede Fortunata con la quale si chiudeva la stagione teatrale, il Goldoni per impedire cha il pubbblico ab- bandonasse col nuovo anno il teatro , anche perchè uno dei migliori artisti della compagnia, anzi il suo principale sostegno , il celebre Darbes , insuperabile nelle parti di Pantalone, aveva lasciato Venezia per entrare ai servizi del re di Polonia, promise che per la nuova stagione comica avrebbe fatto recitare se- dici sue nuove commedie (I); è vero, che egli con

M) Mem. Par. II; Gap. VII. "^ S

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uno sforzo prodigioso d' ingegno e con un non mi- nore sforzo prodigioso di volontà mantenne la donchi- sciottesca promessa, ma è anche vero, ch'egU aveva, as- sai prima della caduta dell' Erede Fortunata, mrnato con r opera sua le fondamenta del vecchio edifìcio della commedia dell' arte. De! resto, le grandi rifor- me non si fanno che per gradi ; nulla procede per salti o per momentanea ispirazione. Una riforma com- prende sempre un lavoro di preparazione.

Il genio del Goldoni fu per eccellenza riformato- re; esso non s' adagiava che a stento e di malavoglia nelle forme teatrali preparategli e trasmessegli dai suoi predecessori. Anche dando i suoi primi passi nella via teatrale, egli mostrò di stare a disagio nell' orga- nismo già fossilizzato della commedia dell' arte. La riforma del teatro comico, gli balenò alla mente an- che prima che con pensiero maturo ritenesse che fosse possibile. Come tutti i geni , egli era nato a creare, e non peteva creare che riformando , o me- glio, distruggendo ciò che allora costituiva la forma e il contenuto dello spettacolo comico italiano. Nel Belisario, che fu il suo primo lavoro dopo Y Ama- lasunta consegnata alle fiamme e che precedette di quindici anni la caduta dell' Erede Fortunata , trat- tando un argomento già sfruttato dalla commedia a soggetto, ebbe cura di tenersi lontano dalle scurrilità dei commediografi del suo tempo. Finalmente il pub- blico poteva vedere venir innanzi sulla scena Belisario senza la compagnia d' Arlecchino che, fra un lazzo e r altro, lo bastonava. " Gli intendenti non poterono

y^Jel Regno delle r^aschere 1 7

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astenersi dall' applaudire quest'opera, benché ne rile- vassero le imperfezioni. Vedendo essi la superiorità della mia composizione sulle farse, sulle solite pue- rilità dei comici, presagivano da questo primo passo un seguito capace di svegliare l'emulazione, spianare la via alla riforma del teatro italiano (1)". Nel Don Gio- vanni Tenorio o il T)issoluto, egli che già conosceva nel Molière uno dei più grandi scrittori comici mo- derni, cercò di rendersi il meno possibile pedissequo di quest' ultimo, che aveva scritto sullo stesso argo- mento una commedia , come ugualmente cercò d' e- vitare tutte le buffonate della commedia dell' arte. Questa, manco a dirlo, s' era già impadronita da un pezzo dell' argomento, il quale, come narra lo stesso Goldoni, faceva le delizie del pubblico chiamandolo in folla al teatro. " N' erano meravigliati i comici stessi, e, o per burla, o per ignoranza, alcuni di loro dicevano che 1' autore del Convitato di Pietra aveva fatto il patto tacito col diavolo perchè lo sostenes- se (2). " Nella commedia a braccio la statua del commendatore parla, cammina ; Arlecchino si salva dal naufragio mediante due vesciche gonfie , e il protagonista , don Giovanni , esce fuori dalle acque senza che i suoi abiti e i suoi capelli sieno bagnati. Neil' atto quarto, al momento del convito al quale era stato invitato il commendatore (di pietra), i lazzi ^ d'Arlecchino si moltiplicano all'infinito; un vero fuoco

(l)Mem. Part. I; Gap. XXXVL (2) Moland, op. cit. Gap. XI,

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d' artificio. Mentre stanno per mettersi a tavola, Ar- lecchino grida al fuoco ; tutti s' alzano, si precipitano fuori della sala; Arlecchino ne approfitta, rimasto solo, per vuotare affrettatamente i piatti e le bottiglie. Ri- torna Don Giovanni, ma il suo servitore non si per vinto; sotto pretesto di cacciar via dal naso del padrone una mosca, gli ruba un pollo; prende a schiaffi i camerieri, i quali non trovano conette le sue beffe. Don Giovanni, infine, lo fa sedere a tavola con lui. Arlecchino prende posto accanto al padrone e grida ai camerieri : " Serviteci. " Il suo cappello V imba- razza e lo mette in testa a don Giovanni, che lo getta; quindi condisce a modo suo V insalata versandovi so- pra una bottiglia d' aceto e tutto il sale e il pepe che che può trovare sulla tavola non che V olio delle lam- pade, rimescolando il tutto col suo bastone. Ma l'ora tragica s' avvicina; s' ode bussare alla porta; un val- letto corre ad aprire, ma subito rincula sbigottito : anche Arlecchino corre alla porta, ma preso dalla paura indietreggia buttando a terra, V uno dopo l'altro, quattro camerieri. Se non che , a malgrado del suo sbigottimento, balbettando, può dire a don Giovanni che la persona (la statua del commendatore) che a- aveva accettato l' invito a pranzo, è fuori e va a na- scondersi. Don Giovanni, senza punto commuoversi, introduce la statua e la invita a sedere a tavola, poi prende per un orecchio Arlecchino e lo fa pure se- dere. La statua, con immenso stupore d'Arlecchino, imangia e beve: la maschera fa un mondo di lazzi, compreso quello del bicchiere del vino consistente

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in uno sveltissimo salto all' indietro senza che si versi una sola goccia del vino contenuto nel bicchiere che si tiene in mano. Neil' ultima scena dell' atto quinto, mentre il pavimento della stanza sprofonda e don Gio- vanni precipita giù, tra le fiamme dell' inferno, Arlec- chino gli corre dietro e gli grida : " Per carità , e i miei salari ? Vorreste eh' io vi seguissi all' inferno per farmi pagare ? (1). "

Ma il Goldoni, se sentiva la necessità della riforma del teatro comico, sentiva pure che i tempi non e- rano ancora maturi e ritornò alla vecchia commedia col cM^omolo Cortesan; ma non vi tornò che in parte, poiché se le parti secondarie di questa sua commedia sono , come in quelle del teatro a soggetto , appena indicate , è scritta invece , quella del protagonista. Anche a questo conservò la mezza maschera ; ma quanta differenza fra il Pantalone , che recitava la parte del Cortesan, e il Pantalone dei vecchi scenari della commedia dell' arte !

In questi Pantalone è sempre un vecchio, ora pa- dre, ora marito ingannato, tal' altra consigliere ridicolo o innamorato non meno ridicolo, un impasto di buf- fonate e di trivialità, gareggiante, nei lazzi, con Ar- lecchino o con Pulcinella ; nel Cortesan e un carat- tere, un carattere umano, non un tipo irrigidito nelle forme consacrate dalla tradizione teatrale. Il Goldoni nel suo personaggio volle dipmgere un uomo di mondo, tipo di probità, capace di rendere servizi e cortese;

(1) Moland, op. cit. Gap. XI.

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è un uomo generoso senza essere prodigo , allegro senza esser leggiero, corteggia le donne ma modera- tamente, senza che il suo decoro ne resti offuscato; prende parte a tutti gli affari, non per malsana infram- mettenza, ma pel bene altrui: ama la tranquillità, de- testa la sopraffazione. Qui non e' è più il personaggio stereotipato della vecchia commedia; è la persona viva.

Il Goldoni sin dai primi passi della sua carriera teatrale, non solo sentiva il bisogno d* una riforma, ma aveva già fissato il suo sguardo sull' uomo le cui orme, più tardi, avrebbe calcato per lasciare alla po- sterità un monumento letterario non meno glorioso di quello di quest' ultimo. Noi abbiamo pronunziato il nome del Molière.

Il nostro lettore non creda che noi si voglia man- care di rispetto all' illustre memoria del riformatore della commedia italiana, se diamo a costui il Molière come guida e il suo teatro come punto di partenza della riforma stessa. Le grandi riforme, come abbiamo già detto , non si compiono tutte in una volta e senza che attraverso le stesse riforme non si ritrovi, qua e là, il vecchio. Non e' è opera letteraria e artistica, anche la più originale, che non abbia il suo addentellato in un' opera o in altre opere precedenti. Nulla in arte è slegato, indipendente. Lo stesso Molière, a malgrado della sua grande originalità, in parecchie parti dell'opera sua, non è che un continuatore del teatro spagnuolo o italiano; senza venir meno all' originalità, egli saccheg- giava allegramente questi due ultimi teatri e non lo nascondeva, anzi ne menava vanto e diceva che il

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bello non ha padrone, ed è preda di chiunque ; pro- prio, res mullius. Se non che, il fatto bottino egli sa- peva trasformare in cosa tutta sua, portante l'impronta della propria individualità : il che non avviene ai vol- gari saccheggiatori.

Ma per ritornare al Goldoni, l'opera da lui ini- ziata e compiuta in Italia fu presso a poco simile a quella iniziata e compiuta dal Molière in Francia ; però l'italiano, scrivendo quasi tre quarti di secolo dopo il francese, potè trarre profitto non solo dell'o- pera di questo, ma anche di quella dei suoi fortunati successori, come il Regnard, il Le Sage, il Panard, il Marivaux ed altri, sbarazzandosi con maggior facilità di molti detriti del passato, che il Molière non seppe o non volle respingere. Questi, ai suoi tempi, aveva trovato che la commedia dell'arte regnante in Francia non rispondeva più ai gusti raffinati dell' alta società; le dame e i gentiluomini che si commovevano alle tra- gedie del Corneille e del Racine, andando al teatro della commedia con I' orecchio ancora risonante de- gli alessandrini del Cid o di Fedra, non potevano accettare come spirito di buona lega le trivialità d'Ar- lecchino o di Brighella o le pagliacciate delle farces paesane. Se, sotto il regno di Luigi XIII, i Malherbe che ritornavano a casa dal teatro italiano stomacati dalle grossolanità dei comici della Corte di Mantova o di Firenze, si contavano sulla punta delle dita, sotto Luigi XIV, in mezzo a tanta fioritura di galanteria, di raffinatezza, di buon gusto, erano diventati legione. Il Molière comprese che il gusto del pubblico non era

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più quello di prima e che da Plauto bisognava saltare a Terenzio, dalla commedia sboccata alla commedia corretta, fine. Lo spettacolo comico più che un in- trigo rallegrato da lazzi, da buffonate, intramezzato da situazioni strane, inverosimili, doveva essere sincera rappresentazione della vita; i personaggi dovevano es- sere non maschere, non tipi fossilizzati tramandati nella loro rigida immobilità da una generazione all' altra di comici, ma veri esseri umani , non dissimili per nulla da quelli che vivono e si muovono nelle piazze, nelle vie, nelle case del popolo come nei palazzi dei signori. La commedia di costume o d' ambiente o di carattere doveva definitivamente sostituire quella del- l'arte. In quest' ultima, la vita artificiale era oramai tutto; essa doveva rientrare ad ogni costo in quella reale. Di qui , Tartufo , Arpagone , Giorgio Dandin , Ar- nolfo e Crisaldo della Scuola dei mariti, Alceste del S^isantropo, Argante dell* Jlmmalato immaginar io. Lena e Caterina delle T^reziose Ridicole. In tutti co- desti personaggi, si sente il calore della vita; non e' è più il tipo fissato dalla tradizione. Il Goldoni sapeva tutto ciò, e nelle sue Memorie, a più riprese, mani- festa la sua grande ammirazione pel genio del com- mediografo francese. Quando compose il Momolo Cortesan pel comico Golinelli , egli già fantasticava sulla riforma del teatro comico italiano: "Eccomi... nella migliore condizione ; abbastanza ho lavorato su temi rancidi, ora bisogna creare, bisogna inventare. Ho tra mani attori che promettono molto ; ma per impie- garli utilmente, è necessario rifarsi dallo studiarli; eia-

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scuno ha il suo carattere naturale e se 1' autore ne assegna al comico uno che sia appunto analogo al suo proprio, la riuscita è sicura. Su via (continuavo nelle mie tante riflessioni) ecco forse il momento di tentare quella riforma avuta in mira da luogo tempo. Sì, bisogna trattare soggetti di caratteri; sono essi la sor- gente della buona commedia; da questo appunto in- cominciò la sua professione il gran Molière e felice- mente giunse a quel grado di perfezione dagli antichi solamente indicatoci e non eguagliato ancor dai mo- derni: facevo io male ad incoraggiarmi così? (1) ".

" Riprodurre caratteri, " oppure " riprodurre la na- tura ", cioè, la vita quale essa realmente si svolge intorno al commediografo ; ecco il segreto del teatro comico, ecco la meta a cui mira sempre il Goldoni, saltuariamente per un pezzo, nella prima parte della sua carriera teatrale, quasi costantemente nella secon- da, dopo la caduta dell'-EreJe.

La commedia a cui egli voleva dar vita, era, dun- que, diversa, radicalmente diversa da quella che al- lora dominava sulle scene italiane, la commedia del- l'arte.

Già, non occorre più osservare dopo quanto scri- vemmo nella prima parte di questo lavoro , come il carattere essenziale della commedia a soggetto più che nella improvvisazione del dialogo stèsse nel contenuto. D* ordinario, quest' ultimo s' imperniava nelle masche- re, le quali, ai tempi del Goldoni , almeno nell'Alta

(1) Mem. Part. I, Gap. XL.

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Italia, erano quattro: Pantalone, il Dottore, Arlecchino e Brighella ; altrove, qualche nome cambiava, ma, in sostanza , erano due vecchi e due servi , ed anche questi due ultimi pur quando perdevano momenta- neamente la loro qualità di servitori, le linee princi- pali del loro carattere rimanevano le stesse. Ma non erano persone, erano tipi, come abbiamo detto, tipi convenzionali, consacrati dalla tradizione, la quale, im- mobilizzandoli, aveva loro tolto financo la parvenza della vita. Gli scrittori di commedie a soggetto e i loro interpreti, i comici, per quanto V ingegno dei primi fosse fertile e l'arte dei secondi versatile, non uscivano quasi mai dai confini loro segnati dalla tradizione.

Pantalone non poteva essere che Pantalone, cioè, un vecchio più o meno sciocco, più o meno corbel- lato dalle donne, più o meno ingannato dai servi, più o meno disobbedito dai figli ; il Dottore non poteva essere che il Dottore, cioè, un giureconsulto o un me- dico ignorante, parolaio, sputa-sentenze, espettoratore di sproloqui recitati con la velocità del lampo ; così si dica delle altre maschere. Rappresentavano nell'arte comica ciò che in quella della pittura bizantina fu- rono i tipi jeratici. Quei certi Cristi , quelle certe Madonne, quei certi Santi che popolavano le pareti I delle chiese bizantine, erano figure allampanate, orri- bilmente irrigidite nelle loro linee , che ricordavano piuttosto lo scheletro anziché una persona di carne ed ossa; esse erano passate attraverso le generazioni senza che nessuno artista avesse potuto svegliarle dal loro sonno più volte secolare. Così la commedia dell'arte :

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qualche scrittore poteva creare una "invenzione" felice, una maschera poteva creare un nuovo lazzo , ma in fondo lo spettacolo rimaneva lo stesso. Pel pubblico erano sempre le stesse commedie d' intreccio amoroso, le stesse maschere. Erano sempre le vecchie cono- scenze d' ieri, d' ieri l'altro, della precedente genera- zione. Rendiamo la vita a codesti tipi invecchiati, fos- sili , pensò il Goldoni : alla vecchia ed eterna com- media d' intreccio facciamo seguire quella di carattere o d'ambiente ; sia sempre la natura la nostra guida, il nostro modello.

Per " natura " il Goldoni intendeva " vita " . Cer- tamente tutti coloro che creano un'opera d'arte hanno o hanno avuto di mira il vero. Nessuno di proposito deliberato si fa riproduttore del falso, di qualche cosa che non creda che sia il vero. Anche i più strampa- i lati scrittori seicentisti , a malgrado della loro grotte- sca gonfiezza, delle loro stravaganti metafore, ritene- vano di riprodurre il vero, d' imitare la natura. Ma non era che un' illusione. Anziché imitare la natura, essi non riproducevano che certi atteggiamenti del loro spirito smanioso di novità, certi stati della loro anima guidati da una fantasia che si spingeva fino allo stra- vagante, nemica d'ogni freno. Fra loro e la natura si interponevano codesti atteggiamenti di spirito, codesti stati d'animo che impedivano loro di vederla nel suo aspetto genuino.

11 genio del Goldoni era eminentemente equilibrato; le esuberanze di fantasia, la ricerca rabbiosa del nuo- vo, del complicato, dell' involuto, del diffìcile ch'era

- Idi

stata la caratteristica dell* età che precedette quella che fu la sua, aveva fatto, per altro , il suo tempo ; il pubblico n' era stufo. Al suo spirito, quindi, man- cavano le spinte o le occasioni per uscire dalle vie diritte , regolari e prendere quelle di traverso. Era, inoltre, dotato d'uno spirito d'osservazione straordina- rio; nelle cose vedeva di dal loro esteriore, nelle per- sone vedeva di dalla loro forma. Sapeva acutamente penetrare nel fondo delle anime ed analizzarne i senti- menti. 11 suo sguardo si spingeva dove altri non sa- peva spingere il proprio : il che, anziché tarpargli la fantasia, che aveva abbondante, rendeva questa pru- dente, calcolatrice. Insomma, egli aveva tutte le qua- lità per studiare la natura e d'esserne l'interprete fe- dele, sincero. " La commedia egli scriveva altro non è che una imitazione della natura ( I ) " . E seri veva pure : " Cercavo di tenere dietro alla natura per tutto, trovandola sempre bella... quando in ispecial modo mi somministrava modelli virtuosi e sentimenti della più sana morale (2) ". Imperocché, il Goldoni, sempre ispirandosi al vero, nella natura non amava, come si diceva allora, che il bello : il triviale, l'osce- no. Io metteva volentieri da parte o presentava con velo pudico, quale eccezione alla regola, anche perchè un certo indirizzo moralizzatore cominciava a prevalere nella letteratura : ma il primo ne esagerava, ne altri- menti falsificava. Lo rendeva nel suo vero aspetto.

(1) JUCem., Par. II. Gap. III.

(2) A/em.. Par. II. Gap. IV.

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Non diciamo ch'egli sempre cogliesse codesto vero; no : ma quasi sempre imberciava nel segno come lo mostra chiaramente tanta parte dell'opera sua, la quale, se si ragge ancora sulle scene, è appunto perchè con- tiene ciò che il suo autore cercava con tanto studio : la vita. Laonde, non poteva egli unirsi al gregge dei laudatori dei tempi antichi per ritenere che le " ma- schere u esprimessero ancora la vita contemporanea italiana. Egli, del resto, giudicava severamente lo spet- tacolo comico dei suoi tempi , che si componeva " di farse triviali e abbiette e di produzioni gigan- tesche " (1). Egli, come già abbiamo notato, aveva voluto porvi riparo sin dal suo esordire sulla scena. '^■

Abbiamo accennato al Momolo Cortesan, dove la maschera del Pantalone è trasformata in un carattere ; \ ecco il Prodigo in cui la stessa maschera, che sino I allora era stata fonte d' infrenabile riso, ha accenti umani e nulla ha più di comune col vecchio Panta- lone della commedia a soggetto. Il Goldoni ricavò codesto nuovo carattere come poi scrisse egli stesso (2) non dalla classe dei viziosi, ma da quella dei ridicoli. " Il mio Prodigo non compariva gioca- tore, dissoluto, splendido. La sua prodigalità altro non era che debolezza ; dava pel solo piacere di dare, ed aveva un fondo di cuore eccellente. La sua dabbe- naggine unitamente alla sua credulità lo esponevano al disordine e alla derisione. Questo carattere era af-

(i) Mem. Par. II. Gap. IH. (2j Mem. Par. I. Gap. XLI.

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[atto nuovo, ma ne conoscevo gli originali, e li avevo veduti e studiati in riva alia Brenta, fra gli abitanti di quelle deliziose e magnifiche ville, ove spicca l'opu- lenza e si rovina la mediocrità „. Lo stesso Panta- lone umanizzato, tolto al gelido amplesso della tradi- zione teatrale, egli ci mostra nell' Uomo Prudente, commedia in prosa, scritta pel Darbes , che, avendo fatto fiasco nel Tonin Bella-grazia dove aveva voluto recitare senza maschera, questa volle riprendere nella nuova commedia ; nella quale sebbene Pantalone si mostri col viso coperto, pure è un carattere per ec- cellenza umano ed affatto diverso da quello conven- zionale degli Scenari. Come in questi ultimi, egli è un negoziante veneziano, rimaritato con Beatrice e della prima moglie ha due figli, Ottavio e Rosaura. Bea- trice è civetta, il figlio è libertino, la figlia sebbene sciocca, pure coltiva un intrigo amoroso. Pantalone con la sua bontà e la sua prudenza cerca di metterli sulla via del bene ; ma è tempo perso. Prova con la severità, ma non fa che inasprirli. La moglie pensa di disfarsi del marito col veleno e trova un complice nel figliastro ; !a giustizia interviene ed arresta Bea- trice ed Ottavio ; ma Pantalone nasconde il corpo del reato (la zuppa cosparsa d'arsenico a lui destinata) e ■>! la energico difensore dei due colpevoli; questi sono osoluti : ravveduti, piangenti, si gettano nelle braccia del loro salvatore. Dov'è più il Pantalone della com- media dell'arte ?

Uomo d'animo nobile e prudente è ancora Panta- lone nella Putta Onorata., commedia in prosa ; ne di-

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verso è Pantalone dell'altra commedia, ugualmente in prosa, la Buona Moglie, seguito della prima. Panta- lone, il quale ha ritrovato un suo figlio smarrito in Pa- squalino, che ha sposato Bettina, una bella ed onesta popolana, resta profondamente addolorato quando ap- prende che il suo figliuolo forma l' infelicità della moglie: è dissoluto, giuocatore, ha dato fondo a tutto il suo. Pantalone, invece di sgridarlo, ricorre alle buone maniere ; gli dipinge al vivo il carattere dei cattivi amici che lo circondano, il torto che fa al suo nome, a quello del padre, all'affetto della moglie virtuosa e prudente; Pasqualino dapprima fa il sordo, poi la dolce , eloquenza del padre comincia a penetrargli nell'animo, P ne e pienamente investito, si getta ai piedi di Panta- lone e chiede perdono, che, s' intende, ottiene tanto dal padre quanto dalla moglie. Non è più un Panta- lone ritoccato, rimaneggiato ; è un nuovo personaggio : col vecchio non ha comune che il solo nome.

Laonde, non è esatto il dire che il Goldoni riformò tutto in una volta il teatro comico italiano, iniziando la riforma arditamente con le sue sedici commedie nuove annunziate nella stessa sera in cui al teatro di Sant'An- gelo cadeva la sua Erede Fortunata. A tale riforma egli s' era già preparato gradatamente in precedenza, con parecchie commedie tutte scritte o in parte scritte. Con le sue sedici commedie nuove egli proseguì con più ardore, con più sicurezza, con più unità di con- cetto la sua riforma percorrendo la sua via senza soste, senza ritorni, senza pentimenti. Certamente egli con- servò, in questo suo secondo periodo d'attività comica,

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se non sempre ma quasi sempre i nomi delle vecchie maschere, ma soltanto i nomi. Sotto, non c'erano più i vecchi personaggi.

Abbiamo già parlato della maschera del Pantalone di alcune commedie goldoniane che precedettero la così detta " riforma ". Con questa, Pantalone assume un carattere sempre più umano, più vero.

Nel Teatro Comico, la prima delle sedici commedie nuove. Pantalone recita nella commediola : // padre rivale di suo figlio, che si in prova ; sebbene anche qui Pantalone porti la maschera, pure non è più il personaggio ridicolo degli Scenari dello Scala e d'altri scrittori di soggetti ; egli fa ancora ridere, ma quando s'accorge che il proprio figliuolo ama la donna da lui adorata, sagrifica senza lazzi, senza boccacce, ma no- bilmente, l'amor suo a quello del giovane. Il pubblico non ride più ; egli resta commosso dinanzi a quel sa- grificio. -''

In molte delle sue successive commedie, il Goldoni soppresse anche il nome del Senex dei vecchi Sce- nari; per esempio, se nel Padre di Famiglia, rappre- sentato a Venezia nel 1751, si chiama Pancrazio, nel Burbero Bene^co, rappresentato a Parigi nel 1771, si chiama Geronte. Fra queste due date, quante volte Pantalone, nell' opera del Goldoni, non portò più il suo vecchio nome ! Ma ripetiamolo : poco importa il nome; il " Vecchio " di Plauto e di Terenzio, quello della commedia dell' arte, col Goldoni si trasforma completamente e diventa multiforme. Esso rappresenta r uomo maturo in tutte le posizioni sociali, con tutte

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le sue passioni, i suoi vizi, e spesso anche con tutte le sue virtù ; non è più una figura rigidamente disegnata sulla carta e poi accuratamente ritigliata con le forbici,! ma è persona viva. Ride, piange, si commuove, ha debolezze, ha vizi, ma sa correggersi, è capace di com- piere sagrifici , atti virtuosi. A.nche nel riso è cor- retto. L'artista che in lui s'impersona ne risente l'in- flusso benefico ; sotto il suo abito, si comprende che non c'è più l'antico istrione, l'antico saltatore di corda, l'antico suonatore di tromba o di tamburo delle piazze e delle fiere. E come è vario questo nuovo Panta- Ione goldoniano ! E avaro nel Vero Amico, nell'Alvaro e neW Avaro Fastoso; e pieno di giusto rigore nel Padre di Famiglia ; è cattivo, sebbene in fine si rav- veda, e burbero, nel Fodero Brontolon ; è burbero, ma dal cuore d' oro, nel Burbero Benefico ; è padre debole nella Serva Amorosa; è credulo nella Finta Ammalata; è zimbello dei capricci della moglie nella Sposa Sagace ; e cerimonioso sino al ridicolo negli Innamorati ; e credulo e buono nel Bugiardo , dove conserva insieme alla maschera e al vecchio vestito il suo nome tradizionale ; nel Poeta Fanatico e ta- gliato all'antica, non ama le raffinatezze moderne , tra- scura gli affari di casa per le Muse, che ama alla follia, sebbene egli stesso non sia poeta ; nella Casa Nova, è custode geloso del principio dell'obbedienza passiva dei figli verso i genitori ; nella Figlia Ubbi- diente e credulo, fatuo ; nel Curioso Accidente, e vit- tima d'un inganno ordito da lui stesso.

Soprattutto egli è il rappresentante del buon senso,

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anzi, questo è incarnato in lui. Gli altri personaggi della commedia possono, chi più, chi meno, fare uno strappo a quest' ultimo, ma lui s'aggrappa ad esso e non falla, o quasi mai. Ne la parola " aggrappare " sarebbe veramente propria nei suoi riguardi, perchè parrebbe, con l'idea di sforzo che esprime la parola medesima, eh' egli temesse di perdere il buon senso ; ma Pantalone questo timore non 1' ha mai. Il buon senso e lui sembrano nati ad un parto. E il vero tipo del veneziano, o almeno, del vecchio veneziano per- vaso di buon senso dalla testa ai piedi. Ecco un saggio del buon senso del Pantalone goldoniano. ^

(Panialqne a Florindo).

" Amar !a muger cossa bona, ma non bisogna amarla a costo della propria rovina. Un marìo, che ama troppo la muger, e che per Ito troppo amor se lassa tor la man, se lassa orbar ; el a pezo condi- zion d' un omo perso per una morosa. Perchè dalla morosa, illumina eh' el sia, el se ne poi liberar, ma la muger bisogna co el 1' ha segondada a principio, eh* el la sopporta per necessità, e se la morosa per conservar la grazia dell' amigo, qualche volta la cede, la muger cognossendo aver dominio sul cuor d'^1 marìo, la comanda, la voi, la pretende, e el po- ver'omo obligà accnodarghe per forza quello che troppo facilmente el gh'à accorda per amor " (I).

Dell'altro Senex dell'antica commedia, del dottor Graziano Ballazon, nel teatro goldoniano non è rimasta traccia alcuna. C'è ancora un secondo vecchio, d'or- dinario, padre di Lelio o di Florindo, oppure di Ro-

0) La Donna Prudente, Atto li, Se. 1. !ACel Regno delle SìiCaachere. 18

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saura; ma non assorda o addormenta il pubblico coi suoi sproloqui infarciti di pseudo-sentenze, di citazioni latine, di ricordi classici e mitologici. Era quest'ultimo personaggio una maschera perfettamente sconclusionata, che se nella sua prima giovinezza poteva essere una geniale caricatura del giureconsulto o del medico di quei tempi, nella sua tarda vecchiezza era divenuta triviale e noiosa. Nel teatro del Goldoni, il Dottore è un personaggio secondario, è un Pantalone (nuova edizione) assai ridotto, una parte che non decide mai del successo o della caduta d'una commedia del grande veneziano. Questi, come aveva fatto per Panta- lone, dal campo delle maschere, dei tipi consacrati dalla tradizione, la fece rientrare nel campo delle per- sone viventi. Se spesso è giureconsulto o medico, non è più consigliere di re o imperatori immaginari di non meno immaginari regni o imperi ; non e più battuto da Arlecchino o da Brighella, e se qualche volta spro- posita, lo fa con garbo ed anche con spirito. S'intende, non fa più lazzi ne da solo, ne con Pantalone, ne tanto meno coi servi.

Le maschere dei servi (Arlecchino e Brighella, ge- neralmente) subiscono nelle commedie del Goldoni le medesime sorti delle altre due maschere. Esse, dalla riforma goldoniana, vengono fuori completamente trasformate, anche perchè cessano di essere entrambe parti principali della commedia.

Coi servitori del Goldoni s'inizia la serie dei servi- tori moderni; non sono più tipi convenzionali, e con-' servando qualche volta la maschera, non conservano

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affatto il grossolano e rumoroso spirito d' una volta. Non bastonano più i padroni, e nemmeno essi sono bastonati. Non sono più l'uno (Arlecchino) eternamente sciocco, e l'altro (Brighella) eternamente furbo. Il primo, è vero, conserva ancora un po' dell'antica sua inge- nuità, ma è ingenuità umana, non inverosimile ; il se- condo conserva sempre la sua vecchia furberia, ma questa è anche umana, cioè, non la fa a calci, non diremo col buon senso, ma col senso comune, soprat- tutto che sparendo dalla scena i personaggi perfetta- mente stupidi, certe " invenzioni " che potevano met- tere in imbarazzo soltanto gli sciocchi, sono anche scomparse. I servi goldoniani quasi sempre non sono che macchiette ; sono i servi quali ognuno li può ve- dere nelle anticamere, nei servigi che rendono ai loro padroni, nei loro convegni, nei loro intrighi di cucina o di portineria. C'è ancora il servo che fa da mez- zano al padroncino o che si fa gabbare dal suo com- pagno meno sciocco o più furbo di lui; ma è il servo che s'incontra dappertutto. Se non che, non s'addor- menta più sulla strada mentre il padrone parla con l'amante, né, svegliatosi, torna a riaddormentarsi, anche se preso a pedate o per un orecchio; non gli si più a credere che le viti si legano con le salsiccie, che i fiumi portano al mare non acqua, ma vino; del resto, se è chiamato a portar dell'acqua per ispruz- zarla sul viso della padrona svenuta, egli non porta più dell'orina ; se ne guarderebbe bene. Con ciò non vogliamo dire che di tanto in tanto il vecchio servo coi suoi lazzi non faccia capolino ; no ; ma è una

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breve e timida apparizione. Ma, quasi sempre, in lui si disegna perfettamente il nuovo servitore.

Uno di codesti servi è certamente Trastullo , nel Padre di Famiglia. Ecco una scena fra servo e pa- drone (Pancrazio) che non rassomiglia affatto a nes- suna delle scene fra servi e padroni della vecchia commedia a braccia :

TRAST. Illustrissimo...

PANC. Zitto con questo illustrissimo ; non mi stare a lustrare, che non voglio.

TRAST. La mi perdoni ; sono avvezzo di parlar così e mi pare di mancar al mio debito, se non Io fo.

PANC. Avete servito dei conti e dei marchesi , ma io sono mer- cante e non voglio titoli.

TRAST. Ho servito delle persone titolate, ma ho servito anche gente che sta a bottega, fra i quali un pizzicagnolo, un macellaio...

PANC. E a questi davate dell' illustrissimo ?

TRAST. Sicuro , particolarmente la festa ; sempre illustrissimo.

PANC. Oh questa è graziosa ! Ed essi se lo bevevano il titolo senza difficoltà, eh ?

TRAST. E come ! Il pizzicagnolo particolarmente dopo d'aver fatto addottorare un suo figlio , gli pareva li' esser diventato un gran signore.

PANC. Se tanto rigonfiava il padre, figuratevi il figlio 1

TRA.ST. L' illustrissimo signor Dottore ? Consideri ! In casa si faceva il pane ordinario, ma per lui bianco e fresco ogni mattina. Per la famiglia si cucinava carne di manzo e qualche volta un capponcello; per lui c'era sempre un piccion grosso, una beccaccia, o una quaglia. Quando egli parlava, il padre, la madre, i fratelli tutti stavano ad ascoltarlo a bocca aperta. Quando volevano autenticare qualche cosa dicevano : 1' ha detto il Dottore ; il Dottore 1' ha detto , e tanto basta. Io sentivo dire dalla gente che il Dottore ne sapeva pochino ;

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ma però hanno speso bene i loro denari, perchè con l'ac- casione della laura dottorale sono diventati illustrissimi anche il padre e la madre, e se io stavo con loro un poco più, diventavo illustrissimo anch' io.

(Atto I, Scena VI)

Trastullo è proprio il servo moderno, che, lasciato il servizio, dice male del padrone.

Il servo del teatro goldoniano non conduce più l'a- zione, non è più il Deus ex machina dell' intreccio, non mette tutto capo a lui, ne lo svolgimento della commedia sta nelle mani di lui. E' sempre un per- sonaggio secondario, a meno che non si tratti di serve, poiché in questi casi il Goldoni non ritenne che la sua riforma si dovesse spinger sin là: e ci diede la Serva ylmorosa, per non citare che il suo capolavoro nel genere predetto. Del resto, le serve, nel teatro del grande veneziano, hanno conservato, anche senza es- sere il pernio dell' azione comica , tutta l' importanza che avevano nel teatro dell'arte ; soltanto , non sono sempre civette, sempre mezzane, sempre volgari come in quest' ultimo. Egli ha saputo creare il tipo della serva am.orosa, della serva di spirito, della serva one- sta. Abbiamo già citato la Serva Amorosa ed ora ad essa possiamo aggiungere la Cameriera grillante e la Castalda. Nella prima è una serva che col suo af- fetto, la sua devozione e la sua prudenza rimette la tranquillità nella famiglia del suo antico padrone; nella seconda. Argentina, cameriera di Pantalone, col suo spinto inesauribile costiinge costui a dare alle due

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figlie per mariti due giovanotti che le amavano ar- dentemente ; nella terza, infine, una serva con le sue buone maniere e la sua buona condotta arriva a farsi §posare dal padrone.

La maschera che il Goldoni abolì completamente nel suo teatro fu quella del Capitano. Questi che col suo cappello piumato e il suo spadone aveva glorio- samente calcato le scene per parecchie generazioni, riempiendo l'orecchio degli spettatori con l'eco dei suoi bellicosi sproloqui, fu sostituito dal Goldoni con l'uf- fiziale leggermente scapato com' è Don Garzia nello Amante (Militare, o tenero ed innamorato come è don Alonzo nella stessa commedia, o il signor De La Cot- terie nel Curioso Accidente. Capitan Coccodrillo e Capitan Spavento di Valle d' Inferno si umanizzavano, dal campo della caricatura e del grottesco passavano in quello della realtà, della vita.

Come già notammo nella prima parte di questo stu- dio, la commedia dell'arte fu sempre una commedia d' intreccio, sempre o quasi sempre amoroso. Il Gol- doni riformatore accordò tutte le sue preferenze alle commedie di carattere , e quando la sua commedia seguì altra via, fu d'ambiente, di costumi.

Abbiamo già visto che cosa fosse un " intreccio " nella commedia dell'arte ; un'avventura quasi sempre d'una semplicità infantile , ma spesso sovraccarica di incidenti 1' uno più strano o inverosimile dell' altro ; un'azione che mai si distingueva per la sua origina- lità, ma ritardata o sospesa, nel suo svolgimento , da " invenzioni ", cioè, da intrighi che ne ingarbugliava-

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no le file, il tutto con copioso condimento di buffo- nate, di trivialità, di lazzi. Il Goldoni passò un frego su tutto ciò, e non volle riprodurre che caratteri , o dipingere la vita reale nel modo come a lui si pre- sentava. La commedia di carattere tanto da lui curata e accarezzata, era da lui ritenuta come il non plus ultra dell'arte comica, forse spinto a questa sua con- cezione dell'arte dall'esempio del Molière ; il quale, nelle sue migliori commedie, non fu che il riprodut- tore di caratteri. Anche quando il disegno d'una ri- forma del teatro comico italiano non si presentava alla sua mente che come una visione confusa ed indeter- minanta, egli amava la commedia di carattere. Ab- biamo già tenuto parola di ^M^omolo Cortesan^ del Prodigo, dell' Uomo Prudente ; ecco ancora altre com- medie di carattere : la T)onna di Qarbo, Tonin Bella Qrazia , la Vedova Scaltra , la Putta Onorata , la ^uona moglie, il Cavaliere e la T)ama, tutte scritte, come le tre precedenti, prima che il nostro autore si mettesse risolutamente sulla via della riforma. Nel- l'ultima, il Goldoni mette in iscena e punzecchia il cicisbeismo con più arguzia, con più vis comica del fiacco e slavato Fagiuoli. Proclamata arditamente la riforma, egli alternò le commedie di carattere con quelle di costumi o d'ambiente.

Ciò che la commedia dell' arte ignorò completa- mente fu la vita reale. Lo spettacolo comico , che aveva per base le maschere ; coi suoi tipi dove l' in- verosimile prevaleva sul vero, il grottesco sul comico, la caricatura sulla satira , non poteva avere il senso

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della vita qual' è ; la vita non era da esso compresa che attraverso le maschere stesse, cioè, attraverso un prisma fatto di tradizioni, di pregiudizi teatrali, di ca- pricci o fantasie di comici , di rimaneggiamenti fatti alla luce falsa della ribalta. Sfuggiva così ad esso il senso di ciò che di palpitante , di vivo si svolgeva intorno al pubblico e agli attori stessi ; all' incontro, il Goldoni portò il suo osservatorio in mezzo al pub- blico medesimo, nella strada, nella casa come nel pa- lazzo. Volle vedere con gli occhi propri e non con quelli degli altri, studiare da se sul corpo vivo e non sul corpo morto, o peggio, sui libri. Nelle sue com- medie di costumi e d' ambiente, cioè, di vita reale, quasi sempre popolare o borghese, come nei Quattro Rusteghi , nelle baruffe Chiozzotte , nel Campielo , nella Casa Nova, nella trilogia le Smanie della X)il' leggiatura, le avventure della Villeggiatura e Ritorrìo dalla Villeggiatura, nella Bottega del Caffè, nel Veti- taglio, nel Burbero benefico ed in tant'altre gli uomini e le donne sono persone viventi, non trapiantate sulla scena da vecchi soggetti o peggio dal campo della fantasia ; egli, tutte codeste persone , non solo le ha veduto , ma le ha udito discorrere , ha assistito allo svolgersi delle loro passioni, ne ha studiato l' animo. Sono persone che l'autore, il giorno prima di mettersi a tavolino per scrivere la sua commedia, ha avvicinato al caffè, all'albergo, in piazza, in villa, in una botte- ga, nello studio d'un avvocato, al ridotto, in una con- versazione tenuta da una dama, o al canto d' una via dove alcune popolane parlavano delle loro piccole fac-

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cende di famiglia o tagliavano i panni addosso alle vicine. Delle classi popolari egli ha studiato insieme ai costumi il linguaggio. Nelle sue commedie ve neziane o nelle "parti" veneziane delle sue commedie italiane, la Venezia del popolo vi si specchia con tutto il brio, con tutta l'arguzia del suo dolce ed un po' effeminato dialetto. Il Goldoni completa il Canaletto e il Longhi; la commedia iategra la pittura, quando non ne e il migliore commento. Date un'occhiata alle tele di codesti due pittori, leggete il teatro " veneziano " dell' altro e voi vedrete sorgere dinanzi alla vostra mente Ve- nezia del Settecento.

Si scostò il Goldoni dalla commedia dell'arte an- che pel luogo dell'azione. Già sappiamo quale fosse, generalmente, quest'ultimo (1). Il Ferrucci, che s'i- spirava alla regola ordinaria, eh' era la classica, de- rivata dai precetti aristotelici ed oraziani, insegnava : " Che nella commedia deggia la scena regolarsi a modo di strada di città con case particolari... concor- do col Minturno... Che vi debba essere la piazza per passeggiarvi i recitanti è necessario e larga quanto si possa per avervi spazio di camminarvi, e vi aggiungo le diverse uscite, come strade, acciocché non si fac- ciano incontrature di scena tanto aborrite e contrarie

( 1 ) La commedia dell' arte, oltre la commedia propriamente detta, abbracciò anche altre forme di composizioni sceniche sia comiche sia tragico-comiche, o di natura pastorale, o mitologica, o spettacolosa. Vi entrò anche la drammatica spagnuola o spagnoleggiante con le sue com- medie di cappa e spada ecc. In tutte codeste composizioni la stabilità della scena scomparve.

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al verosimile... Nelle case della commedia sono ne- cessarie le finestre e le porte per diversi accidenti che sogliono nascere nella tessitura della favola " (1). Eb-| bene, a malgrado dell'amore del " verosimile " tanto da riuscire abborrite le " incontrature di scena " , pure ai commediografi del teatro dell'arte, mai, o quasi mai, era apparsa come cosa inverosimile per luogo d'azione d'una commedia una pubblica piazza con case e stra- de. Ne diversamente pensavano i letterati scrittori di commedie sostenute. Essi si erano tenacemente attac- cati alla tradizione classica, ne vollero mai abbando- I narla, anche quando altri scrittori spagnoleggianti, non avversati dal pubblico, avevano messo a dormire i vec- | chi precetti. Di codesta disposizione classica della scena (piazza con case particolari e strade) già no-; tammo i difetti, ch'erano soprattutto d'inverosimiglianza e ai quali il commediografo cercava di sfuggire con ripieghi diremmo quasi fanciulleschi ; il che non sol- levava ne critiche , ne proteste , poiché il pubblico, che s'era abituato a quella disposizione di scena, non sapeva più distinguere il verosimile dall' inverosimile. Il Goldoni , all' incontro , rimettendo la commedia nella realtà, volle che il luogo dell'azione non fosse più stabile, o meglio, volle che la disposizione della scena non fosse sempre quella che insegnava il Fer- rucci ai commediografi del suo tempo. Al suo buon senso ripugnava che le azioni più intime della vita, le scene di famiglia, avessero luogo sulla piazza, sulla

(I) Op. cit., p. 28.

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strada, davanti alla porta d'una casa. Che valeva ci- tare Plauto che nella (^Costellarla (Atto II, Scena 1) presenta una cortigiana che fa la sua " toilette " di- nanzi l'uscio della propria casa, quasi che quel tratto di marciapiede fosse il suo " boudoir " ? La " dispo- sizione di scena " perrucciana si prestava a troppi in- convenienti perchè potesse ancora resistere alla critica. Già, in Francia, prima col Molière, poi coi continua- tori dell* opera sua , la scena stabile , la scena con piazze, case e strade, aveva perduto, in parte, la sua riputazione d'una volta ; vi si contravveniva facilmente. Anche in Italia, col Gigli, col Fagiuoli, con altri, essa aveva perduto il suo prestigio di dogma. Il Goldoni diede ad essa l'ultimo colpo. L'azione della comme- dia goldoniana si svolge, quindi, quasi sempre in casa, in famiglia. Le signore dell'aristocrazia non tengono conversazione, non ricevono i loro cicisbei che nei sa- lotti ; le fanciulle, se hanno da parlare coi loro inna- morati, non vengono alla finestra o non escono fuori dell'uscio, senza troppo discostarsi da questo, come prescriveva il Ferrucci, per non farsi pigliare per donne da trivio. Anche nelle commedie popolari non sempre l'azione si svolge sulla strada. Vero è che qualche volta la scena si svolge nella piazza, e più di una volta Rosaura o Beatrice, oppure semplicemente la serva. Corallina, fanno conversazione coi loro in- namorati dalla finestra ; ma è già in linea d'eccezione e quando accade il commediografo ne ha le sue buone ragioni ; il che rende verosimile la scena. Citiamo a caso: la bottega del Caffè, dove l'azione

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si svolge con la massima naturalezza sulla piazza tra la bottega del cafiettiere, la casa del biscazziere e r albergo dove va ad alloggiare Placida , la mo- glie di Flaminio, e la casa della ballerina Lisausa ; le baruffe Chiozzotte, dove V azione, in gran parte, ha luogo sulla strada fra barcaiuoli , mogli e figlie di barcaiuoli ed altra simile gente , che , meno la notte, vive quasi sempre all'aria aperta; il Ventaglio, in cui l'azione si svolge sulla piazza, fra le case e le botteghe dei principali personaggi della commedia; il Campkloy dove la piazzetta col suo vario movimento, con le sue ciarle, coi piccoli intrighi della gente umile, è la vera protagonista della favola. La vita popolare italiana, che nella bella stagione pulsa all' aperto, in piena aria, su codeste scene non vi si sente a di-i sagio ; vi scorre naturalmente, come nel proprio am-' biente, senza che il commediografo, per rendere ve- rosimile l'entrata o l'uscita dei personaggi, il loro in- contro o i loro discorsi, abbia bisogno di ricorrere a mezzucci, a spedienti, a spiegazioni qualche volta di una ingenuità fenomenale , come , pur troppo , prima del Goldoni, facevano i compilatori di Scenari e prima di costoro i cinquecentisti eruditi con le loro comme- die calcate con cura religiosa su quelle del teatro co- mico latino.

Ebbene, come già notammo, col dilagare in Italia del teatro spagnuolo o spagnoleggiante i nostri pub- blici sebbene fossero già abituati a vedere trasportare il luogo dell'azione da una città all'altra, dalla città alla campagna, o svolgersi quest'ultima in un tempo mag-

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giore di ventiquatt'ore, pure i rigidi custodi dei pre- cetti classici non mancarono di criticare severamente il Goldoni pel poco conto in cui teneva le classiche re- gole dell' arte. Nelle (Memorie il nostro scrittore ne parla così : " Riguardo ali' unità dell' azione e a quella del tempo, nulla avevano da rimproverarmi... preten- devano bensì che avessi mancato solamente all'unità del luogo. L' azione delle mie commedie però suc- cedeva sempre nella città medesima, o i personaggi non uscivano mai da essa ; scorrevano, è vero, diversi luoghi, ma costantemente dentro la cerchia delle stesse mura; credetti per ciò, come tutt'ora credo, che così l'unità del luogo fosse mantenuta bastantemente (1) ". Ma le differenze fra la commedia dell' arte e quella del Goldoni non si fermavano qui. Abbiamo già detto come la prima non solo fosse triviale, grossolana, ma anche immorale. Sebbene la gente di chiesa e le anime timorate invocassero i fulmini del cielo ed una più accurata e severa censura da parte dei governi sugli spettacoli comici, questi continuavano , quando più quando meno, ad essere in generale in guerra se non con la morale, certamente con la decenza. Gli Zanni, soprattutto, usavano un linguaggio che oggi fa- rebbe arrossire uno stallino. Il Goldoni tagliò corto, e air immoralità dell'argomento e alla trivialità e scon- cezza del dialogo sostituì la moralità e la decenza. Volle assolutamente che il teatro fosse scuola edu- catrice, o per lo meno, non fosse complice compia- ci) Par. II; Gap. Ili,

u

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cente d'immoralità o di rilassatezza di costumi. Nel dipingere il vizio o il ridicolo, egli sempre si pro- pose il precetto d' Orazio, di castigare ridendo, ne perchè la sua sferza cadesse meglio sulle spalle dei dei colpiti e ne arrossasse la pelle volle che la lubri- cità d'argomento o di dire gli venisse in aiuto. Egli en- trava così arditamente in quella corrente settecentesca, educatrice di tutta una generazione, che verso la metà del secolo XVIII intraprese la rigenerazione dell* a- nima italiana, precedendo o aiutando con l'opera sua quella del Parini, dell'Alfieri e di tanti altri scrit- tori di quel tempo. Nessuna delle sue commedie può dirsi che sia estranea ad un insegnamento morale, e tutto il suo teatro può recitarsi senza che una sola signora sia costretta ad abbasscire gli occhi o a farsi schermo al viso col ventaglio. Gli stessi sensi doppi che formavano la delizia delle vecchie platee, non vi trovano che scarso, anzi scarsissimo seguito; quelli ar- ditissimi, sconcissimi degli Scenari di Flaminio Scala non sono per lui che cose sepolte da un pezzo ; egli voleva che il pubbHco ridesse, ma senza che lo scherzo fosse cosparso di sale grossolano. La salacità di Giovanni Boccaccio, dell'Aretino, o quella del suo contemporaneo e conterraneo Baffo (un poeta dialet- tale veneto di fama più che lubrica) non aveva per lui nessuno allettamento.

La moralità del suo teatro fu ampiamente ricono- sciuta dai suoi stessi comtemporanei. Clemente Van- netti scrisse che il Goldoni, inferiore a Terenzio per l'intreccio (?) e a Plauto pel brio comico, vinceva

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Tuno e l'altro per la moralità (I). Pietro Verri tro- vava nelle commedie del veneziano un fondo di vir- tù vera, di umanità, di benevolenza, d'amor del do- vere che riscalda gli animi di quella pura fiamma che si comunica per tutto ove trova esca (2); infine, il Roberti, gesuita, che non nutriva pel teatro l'odio del p. Contzen, ne quello meno feroce del p. Otto- nelli, in un poemetto : La Commedia, indirizzato allo stesso Goldoni, cantava non senza eleganza :

" So che la tua mercè, oggi non debbe Santa onestà lanciare il suo turbato Candido vai sopra del volto tinto Di vermiglia vergogna : e so, che giusto, Quasi a donzella di pregiata fama Ornò con bende la modesta fronte Alla Commedia tua, quel grave e illustre Per saper vero, per canuto senno E per religione intatta e pura Maffei (3) ".

Qualche volta, è vero, i suoi personaggi commet- tevano cose disoneste; ma egli subito ne para i tristi effetti con apportune spiegazioni. E vero anche che qualcuno, in questo caso, potrebbe dire : la buona in- tenzione, nell'autore, di non deviare dal retto, e' è, e bisogna tenergliene conto. Così nella Sposa Sagace

(1) Operette It. e Lat. Venezia, 1831; voi. Vili; p. 191.

(2) Nel Caffk; Venezia, 1760; I. p. 53.

(3) Opere; Bassano, 1797; voi. IX, p. 210. Vedi pure Guido Mazzoni in: Prefazione all'opera di E. Caprin, Goldoni ecc.

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(atto 111, scena ultima), Barbara, che malvista dalla matrigna, ne abbastanza protetta dal padre debole e zimbello della moglie, s' è segretamente fidanzata al giovane che ama , chiede perdono del suo malfatto :

" La mia sagacitade so che non merla lode. L' onestà, la prudenza è nemica della frode. Delle mie debolezze, degli error miei mi pento. Domando al padre mio, novel compatimento; E lo domando a tutti, e con umil rispetto Del pubblico perdono un contrassegno aspetto. "

' Nella Bottega del Caffè, don Marzio, il maldi- cente riuscito a tutti inviso e da tutti cacciato via, esclama: " Sono avvilito... tutti m' insultano, tutti mi vilipendono, ninno mi consola, ognuno mi scaccia e mi ammonisce ; ah, sì, hanno ragione, la mia lingua o presto o tardi mi doveva condurre a qualche pre- cipio ". Nel Curioso Accidente, Giannina che ottiene di sposare il giovane da lei amato mediante una frode, a cui, per altro, il padre, inconsapevolmente, concorse, ne domanda perdono al pubblico : così tutti i tipi viziosi, tutti i frodatori della morale sui quali, al ter- z* atto, cade il sipario. Oggi riuscirebbe noioso e sa- prebbe parecchio di sagrestia; ma ai tempi del Gol- doni non era così. Si usciva dalle sconcezze e dal cinismo della commedia dell' arte , e quella ventata di moralità che veniva dalla scena, faceva bene al pubblico. Questo la respirava a pieni polmoni.

Fin qui abbiamo considerato la riforma introdotta dal Goldoni nella commedia nella parte in cui lo

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scrittore veneziano con 1* opera sua batteva una via diversa da quella seguita dalla commedia dell* arte; ci si permetta ora di considerare V opera stessa in quei punti e, fortunatamente, sono pochi in cui, quasi sopravvivenza del vecchio, essa rispecchia tut- tavia, in certo modo, gli scenéiri dello Scala, del Loc- catelli, del Riccoboni e d' altri.

Si badi ; noi , qui, intendiamo parlare di quella péute dell' opera goldoniana che lo stesso suo au- tore ritenne informata alle idee di riforma da lui professate; poiché, come si sa, il Goldoni, nei primi tempi della sua Ccu-riera teatrale, pur aspirando a nuove forme e in qualche parte attuandole, seguì le traccie dei suoi predecessori.

Di codeste sopravvivenze della vecchia commedia a soggetto anche nella parte più corretta ed evoluta dall'opera goldoniana , parecchie riguardano i carat- teri, altre l'argomento, altre, infine, il dialogo. Ec- cone un saggio.

Nella commedia : Gli Innamorati, Succianespole, servo di Fabrizio, è ancora un po' il servo della commedia antica ; e un po' Arlecchino, un po' Bri- ghella, cioè, ora sciocco, tal' altra astuto. Lo stesso suo padrone, Fabrizio, uno spiantato che vuol fare la figura del gran signore, rassomiglia troppo al vecchio tipo di Pantalone corto a quattrini ma dalle idee grandiose, perchè non se ne scorga subito la deriva- zione. Ecco un dialogo tra padrone e servo che sembra scritto sotto la dettatura d' un comico del- l'arte del secolo XVII.

3\rel Regno delle Maschere 19

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Per r intelligenza delio stesso dialogo è da pre- mettere che Fabrizio, il quale non ha denari ma vuole mostrarsi e farsi credere un signorone, ha invitato a pranzo un forestiere, un gentiluomo, che nella sua smania di tutto ingrandire, uomini e cose, proclama d'essere il primo gentiluomo d' Europa. Chiama il servo per ordinare il pranzo.

FAB. Succianespole !

SUCC. Signore,

FAB. Come stiamo in cucina?

SUCC. Bene.

FAB. E' acceso?

SUCC. Gnor no,

FAB. Perchè non è acceso ?

SUCC. Perchè non e' è legna.

FAB. Non mi stare a far lo scimiotto, che oggi devo dare un pranzo

ad un' Eccellenza. SUCC. Ci ho gusto.

FAB. Succianespole, che cosa daremo da pranzo a Sua Eccellenza ? SUCC. (ridendo con confidenza) Tutto quello che comanda Vostra

Eccellenza. FAB. Qualche volta mi faresti arrabbiare con questa tua flemmaccia

maledetta. SUCC. Io son lesto.

FAB. Lo sai fare il pasticcio di maccheroni ? SUCC. Gnorsì.

FAB. Una zuppa con V erbuccie ? SUCC. Gnorsì. FAB. Con le polpettine ? SUCC. Gnorsì, FAB. E coi fegatelli? SUCC. Gnorsì.

FAB. Hai danaro per spenderlo ? SUCC. Gnornò.

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FAB. T* ho pur dato un zecchino.

SUCC. Quanti giorni sono ?

FAB. L' hai speso ? SUGC. Gnorsì,

FAB. E non hai più un quattrino ?

SUCC. Gnornò.

FAB. Maledetto sia il gnorsì e il gnornò I Non si sente altro da te,

SUCC. Insegnatemi che cosa ho da dire.

FAB. Bisogna pensare a trovar danari.

SUCC. Gnorsì.

FAB. Quante posate ci sono ?

SUCC. Sei, mi pare.

FAB, Si, erano dodici; sei l'hai impegnato; restano sei. Siamo in quat- tro; impegnane due.

SUCC. Gnorsì.

FAB. Va al Monte, spicciati.

SUCG. Gnorsì.

FAB. Non mi fare aspettare due ore.

SUCC' Gnornò,

FAB. C è vino ?

SUCC. Gnomo.

FAB. C* è pane ?

SUCC. Gnornò.

FAB. Che sii maledetto! "

(Atto I; Scena VII).

Nella Figlia ubbidiente, il conte Ottavio, carattere di gentiluomo stravagante, s' abbandona ad atti d' una eccentricità singolare. Egli fa la corte ad Olivetta, ballerina, figlia di Brighella, già suo servitore, ora pa- dre fortunato e troppo compiacente d'una discepola di Tersicore, la quale non ha che un difetto , quello, cioè di farsi profumatamente pagare i suoi vezzi. Il conte che si è installato nelle stesse stanze mobigliate

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dove alloggia Olivetta col padre, volendo fare un atto di generosità verso il suo antico servitore, si cava r abito e lo butta addosso a Brighella ; questi fa le sue meraviglie, perchè non crede eh* egli possa ser- vire da attaccapanni al suo antico padrone. Il conte lo fa subito ricredere.

"CON. Ve lo dono.

BRIG. (riflettendo) Non so cossa dir. L'è un affronto, ma el se sopportar sto abito ; ma cussi ricco, lo possio portar ? Sior sì, sono padre d'una vertuosa. " (Atto I; Scena XVIII)

Nella stessa commedia, il conte si fa portare dal cameriere la pipa, e fuma; poi chiama il suo servi- tore, Arlecchino, il quale avendo visto che il pa- drone aveva dato un zecchino al cameriere che gli aveva portato l'occorrente per fumare, spera di ca- vargli qualche cosa per se.

^ CON. Arlecchino?

ARL. Signor.

CON. Senti.

ARL. La comandi. {S' arresta)

CON' Qli getta una boccata di fumo sul viso.

ARL. Ai altri la ghe dei danari e a mi la me fa sti affronti ?

Cossa songio mi ? CON. (gti tira forte la barba) ARL. {da se) El vien. CON. Va in collera. ARL. Corponon, sanguessonl CON. Va in collera. ARL. Son in furia, sono in bestia I CON. Non sai andare in collera (vuol riporre la borsa).

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ARL. La aspetta... A mi sti affronti ? Razza maledetta ! Fiol d' un

becco cornù I CON. {ride e gli una moneta) ARL. Porco, aseno, carogna! CON. {gli un' altra moneta) ARL. Ladro, spion ! CON. {gli rompe la pipa sulla faccia) ARL, Eh, non voglio altro... Basta cussi. CON. Cameriere! CAM. Comandi. CON. Un'altra pipa. CAM. Subito {via) ARL. Comanda altro ? CON. Vien qua. ARL. {con paura) Signor... CON. {con collera) Accostati. ARL. Son qua.

CON. {gli un calcio e lo fa saltare) ARL. Grazie.

CON. {gli una moneta) Un'altra volta. ARL. Un'altra volta. CON. {gli ancora un calcio) ARL. {dopo d' aver sostato) Ghè niente? CON. Un'altra volta {senza tirare la borsa) ARL. Basta cussi. "

In un altra scena, Arlecchino ritenta il giuoco, ma questa volta i! conte lo sputa in viso senza met- ter mano alla borsa, ed egli, asciugandosi la faccia, riflette : " Se non ho avuto sta volta el zecchin, l'ho incaparrà per un'altra (atto I ; scena X).

Codeste scene dove lo spirito non aveva per base che la più sconcia trivialità, erano per se stesse trop- po plebee perchè il Goldoni non se ne accorgesse e

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non le mettesse a dormire insieme a tutto i! bacato bagaglio della commedia a soggetto.

Nelle Donne Puntigliose, Arlecchino è ancora la maschera della vecchia commedia. Egli è sempre ser- vitore, ma moro. Ecco uno spunto di dialogo:

" ROS. Chi è di ?

SCENA VII. Arlecchino e detti.

ARL. Comandar.

ROS. Porta la cioccolata.

BEAT. Che grazioso moretto !

ARL. Mi star grazioso moretto, e ti star graziosa bianchetta.

BEAT. Come ti chiami ?

ARL. Mi chiamar con bocca.

ROS. Via di qua, impertinente.

LEL. Lasciatelo dire... E' il più caro moro del mondo.

ARL. (a Lelio) Per ti star caro.

LEL. Per me sei caro ? Perchè ?

ARL. Perchè non aver quattrini per mi comprar.

BEAT. Bravo moretto, bravo !

ARL. (a beatrice) O quanto ti star bella! Mi volerti bene. Mi ti

voler far razza mezza bianca e mezza mora. ROS. Va via, briccone !

(Atto I; Scene VI e VII)

Qui (chi non lo vede ?) il vecchio Arlecchino^ sciocco e spiritoso, insolente e salace, è tuttavia vivo. Soltanto non fa uno o due salti all' indietro, o non acchiappa una mosca per distaccarle delicatamente le ali....

CAPITOLO TERZO

La Nuova Commedia

La " nuova commedia " quella, cioè, che prese il posto della " commedia dell' arte " o " a soggetto " , si sa , è la commedia di Carlo Goldoni , la quale, dopo una lotta che soltanto l' intervento d*un ingegno più che poderoso , bizzarro abbiamo già fatto il nome di Carlo Gozzi potè per poco far sembrare piena di vitalità, finì con 1* adagiarsi tranquillamente sulle rovine dell'altra, senza che questa potesse mai più rialzarsi dalla sua caduta.

In che consisteva questa " nuova commedia '? " Quale n'era lo spirito, quale era l'anima che l'informava'/ Quali erano i suoi caratteri sostanziali, quelli che dif- ferenziandola da ogni altro precedente spettacolo co- mico, le davano una fisionomia propria?

Esiste nel nostro linguaggio teatrale o letterario più d' una parola o frase, che pur volendo indicare i ca- ratteri o qualcuno dei caratteri della riforma goldo- niana, attesta la profondità del solco che lasciò il pas-

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saggio del grande veneziano attraverso il campo del- l'arte comica italiana. Si dice ancora " commedia goldoniana ", oppure " personaggi o caratteri goldo- niani ", o anche " scene goldoniane. " Ma per fer- marci alla " commedia goldoniana " in che essa con- siste ?

Il Guerzoni, nel Teatro Italiano nel secolo XVIII (\) si propose la stessa domanda e ritenne di aver dato una risposta esauriente con la seguente definizione :

" Essa non è la commedia greco-latina, ne la imi- tata del Cinquecento, ne tompoco, sebbene più ras- somigliante, quella di Molière, ne quella dell'arte, seb- bene sua nepote; molto mene quella di Scribe o di Dumas figlio. Il primo giudizio che si della com- media goldoniana è che essa non imita nessuna altra e che è per se stessa un tipo originale. E il primo e più visibile segno di questa sua originalità è la sua indipendenza assoluta da tutte le forme più accettate della commedia antecedente italiana ed anco princi- palmente della così detta commedia erudita del Cin- quecento... ".

In sostanza, il Guerzoni nulla definì, e la sua do- manda resta ancora senza risposta; dappoiché , come di leggieri può ognuno accorgersene, la definizione guer- zoniana è semplicemente negativa: da essa, in vero, s'apprende più d'una cosa; ma che s'apprende? Ecco, che la commedia goldoniana non è quella d'Atene e di Roma antiche, ne la la cortigiana ed erudita del se-

(1) Pag. 209; ediz. di Milano; Fr. Treves.

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colo di Leone X, ne quella del Molière, ne quella dell'arte, ne quella di Guglielmo Shakspeare, ne, in- fine, quella, che ai tempi del Goldoni era nella mente di Dio, dello Scribe, o di Alessandro Dumas figlio. S'apprende, inoltre, eh' essa non è derivata , ne imi- tata, ma costituisce un tipo a se, originale : ma quando si è saputo tutto questo , non e sempre il caso di domandare : che cosa è la " commedia goldoniana " ?

Noi, certamente, non siamo tanto presuntuosi da ri- tenerci in grado di dare l'esatta definizione; ma poiché l'argomento da noi trattato e' impone l'obbligo di darne una, noi la compendiamo nei termini seguenti, salvo a svilupparla in seguito.

La " commedia goldoniana " è la rappresentazione scenica del lato comico della vita italiana, e in modo particolare veneziana, del secolo XVIII. Codesta rap- presentazione essendo poggiata sull'osservazione viva, diretta è questo il carattere principale del teatro goldoniano e non di seconda mano , in base alla tradizione teatrale o al documento letterario, s'esplica mediante tipi perfettamente umani, presentati in tutte le loro sfaccettature, in tutte le loro gradazioni o sfu- mature, oppure, mediante quadri di vita vissuta tra- piantati dalla piazza, dalla strada, dalla casa del po- polano come da quella della borghesia e del patriziato sulla scena.

La " commedia goldoniana " fu ai suoi tempi un vero specchio riflettente la vita d'allora, soprattutto ve- neziana, e trattandosi di commedia, s'intende che co- desta vita non poteva rispecchiarsi che dal lato co-

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mico , intimo , famigliare. Su questo carattere della commedia del Goldoni bisogna insistere , sempre in- 1 sistere, in quanto che esso costituiscala sua fisionomia, I e con questa la sua originalità. Quando si dice che la commedia del Goldoni non rassomiglia a quella di Pluto, o dell'Ariosto, o del Molière , o agli scenari della commedia dell'arte, si è detto nulla, poiché la sua originalità sta in quello eh' essa realmente è, in | quello che essa rappresenta. Dunque, rappresenta- zione della vita italiana, ed in ispecie veneziana, del secolo XVIII. Oggi parrebbe cosa quasi da nulla lo studio dal vero, che dal vero procede o si crede prò- \ cedere ogni nostro studio. Chi dei nostri commedio- grafi, dei nostri novellieri , dei nostri romanzieri non crede di riprodurre uomini e cose dal vero? Eppure», ai tempi del Goldoni, era la cosa più difficile , di-^ remmo quasi impossibile. Sebbene tutti i compilatori di rettoriche, copiandosi l'un 1' altro, dicessero, ripe-, tendo a sazietà un precetto d'Aristotile, l'arte non. essere che una imitazione della natura , pure il pre-, cetto del filosofo greco per tutti gli scrittori rimaneva lettera morta, anche perchè i signori retori, dopo d'aver spiegato il precetto, chiudevano il loro commento con invitare gli scrittori tanto di prosa quanto di poesia, a seguire, a imitare i maestri, i classici. Di qui , la venerazione spinta sino al feticismo verso gli antichi; di qui, la fossilizzazione delle foime letterarie; di qui, quella certa " imitazione della natura " che non era che riproduzione di forme vecchie, cristallizzate, dietro le quali, da un pezzo, forse da secoli , non pulsava

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più la vita. Se non fosse stato questo esagerato ri- spetto verso gli antichi, l' Italia avrebbe avuto la sua commedia, originale, nazionale, sin dal Cinquecento, con la riproduzione di quella sua vita così varia, così esuberante, di cui diedero un saggio i suoi novellieri, il Bandello soprattutto ; ma no, Plauto e Terenzio , quest'ultimo segnatamente imperavano nelle scuole, e la commedia non fu che una povera riproduzione di persone e di cose scomparse. Il pubblico, come si sa, l'abbandonò ed andò a ridere alle facezie della com- media dell' arte. Il Grazzini , detto il Lasca , vissuto nella seconda metà del secolo XVI, nel Prologo della commedia: La Gelosia , scriveva: " E' gran cosa.... che in quante commedie nuove dell' assedio (di Fi- renze) in qua... si sono recitate... in tutte quante in- tervengano ritrovi , tutte finiscano in ritrovamenti : la qual cosa è tanto venuta a noia e in fastidio ai po- poli che come sentano nell' argomento dire che nella presa di alcuna città o nel sacco d'un castello ven- nero smarrite o perdute bambine o fanciulle , fanno conto d'averle udite , e volentieri , se potessero con loro onore, se ne partirebbero. E di qui si può co- noscere quanto questi cotali manchino di concetti e d'invenzione... e peggio ancora che essi accozzano il vecchio col nuovo, e l'antico col moderno... e fa- cendo la scena città moderne, e rappresentando i tempi d'oggi, v'introducono usanze passate e vecchie... e si scusano col dire : così fece Plauto ( 1 ) " Ma il Graz-

(1) Teatro Comico Fiorentino, voi. Ili, Firenze, 1750.

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zini se predicava bene, razzolava male, precisamente come il padre Zappata; e le sue commedie non sono meno prive di vita e di vis comica di quelle dei suoi ' contemporanei eruditi ed ammiratori di Plauto.

Il Goldoni, intelletto superiore, dotato d'uno spirito osservatore d'una finezza straordinaria , opinò saggia- mente che la nuova commedia perchè cacciasse dalla scena la vecchia, quella a soggetto , dovesse soprat- ' tutto fare assegnamento sull' osservazione diretta. La commedia dell'arte cascava nello stesso difetto della commedia erudita, letteraria: s'era fossilizzata ; l' intrec- ; ciò dell'una, su per giù, era l' intreccio dell'altra, i per- ' sonaggi non potevano comparire in iscena senza che il pubblico non ne indovinasse immediatamente i di-' scorsi, i lazzi. La natura è per eccellenza varia; qua- ' sto pensò il Goldoni e volle ad essa, e ad essa sol- tanto, ispirarsi. Il suo occhio non doveva fissare per-/' sone e cose che spoglio d* ogni ricordo classico, o tradizionale, denudato d' ogni pregiudizio di scuola o di scena. Che cosa erano le maschere? Finzioni, tipi di persone forse vive in origine, ma sopra i quali l'arte, la tradizione o il capriccio e l'ignoranza degli autori e dei comici, caricando esageratamente le linee, avevano sparso una specie d' intonaco che finì col ren- derli immobili, irrigiditi. Via, dunque, le maschere dal teatro, esclamò il Goldoni; spalanchiamo le porte della scena all'aria pura, fresca, alla vita; salgano la scena non più personaggi convenzionali, ma vivi; non è vero che la società non offra più nulla di nuovo da ripro- durre sulla scena: l'uomo, sebbene vecchio, e così

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vario che non occorre sempre un grande intelletto, un genio, per afferrarlo in qualche suo aspetto , se non perfettamente nuovo, non frusto, non comune. Come non c'è fisionomia d* uomo che trovi il suo riscontro perfetto in quella d' un altro , così non e' è carattere :he si riscontri in modo perfetto con un altro. Basta saper cogliere questo carattere in un dato momento, sotto un certo punto di luce, perchè ci appaia disc- ente da uno simile , ma studiato in circostanze di- verse. Gli stessi vizi si prestano a codesto studio vario; dappoiché, sebbene a farne il catalogo non occorra Tiolto (Dante allogò tutti i viziosi in due cantiche del 5U0 poema), pure lo stesso vizio può prestarsi a pit- ure diverse, senza che chi venga dopo sia costretto i calcare le orme del suo predecessore^^ 11 vizio del- 'avarizia, per esempio, fu riprodotto da Plauto nel :arattere di Euclione , neW A ulularla ; i comici del Cinquecento, come quelli del Seicento , riprodussero juel carattere battendo chi più chi meno la via aperta lai commediografo latino. Era necessario? Era forse saurito quel tipo dell'avaro con la riproduzione plau- ina? Ma no, no; bastava dimenticare Plauto e stu- iare dal vero perchè ne saltasse fuori una figura d'a- aro non imitata, derivata. Ce ne porge uno spìen- ido esempio lo stesso Goldoni, il quale trattando per en tre volte lo stesso tema, non seguì le orme i Plauto, del Molière, che, con iscarsa origina- ta, aveva dato alle scene l'avaro. E' noto l'argomento e\Y A ulular ia\ Euclione non rappresenta l'avarizia che elle sue linee comuni, volgari e precisamente come

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poteva intenderla un poeta in uno stato d' arte poco evoluto. C è la cassetta col tesoro posta dal suo pos- sessore in un nascondiglio ; ma 1* avaro teme sempre per essa; teme di tutti, anche di quelli della sua fa- miglia. In certi momenti le sue smanie toccano il cul- mine; ha una figlia da maritare, ma non le vuol dar la dote per paura che mettendo fuori il danaro, non lo cre- dano ricco; e i ladri non frugano che nei fortieri dei ricchi. Il MoHère riprodusse la figura di Euclione nel suo Arpagone; ma il Goldoni se ne scostò in modo as- soluto. La prima volta che egli trattò quell'argomento fu nel 1733 con V Avaro Geloso. Come quasi sempre, egli ritrasse dal vero il protagonista della sua com-,1 media. " Mi riuscì egh scrisse (1) di dipingerei il protagonista nella vera sua natura. Fu appunto in Firenze ove a scorno dell'umanità viveva quest'uomo, 1 e me ne fu fatta la genuina storia e il ritratto. Costui era dominato da due vizi ugualmente odiosi, e per il contrasto delle sue passioni si trovava spesso in con- dizioni veramente comiche. E* una cosa ben bizzarra il vedere un marito eccessivamente geloso ricevere egli medesimo un vassoio d' argento con cioccolata, una boccetta d'oro piena d'acqua odorosa, e poi tor- mentar la moglie dicendole, aver essa dato motivo ai suoi adoratori di farle simili donativi. " La seconda volta fu con V Avaro, commedia in un atto, che faceva parte d'un teatro di conversazione, e precisamente per quello del marchese Albergati Capacelli, di Bologna. Il Gol-

(1) Mem. Part. II. Gap. XVII.

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doni ne narra Targomento così: " Apre la scena don Ambrogio, facendo da solo a solo alcune considera- zioni sul proprio stato. Ha di recente perduto il pro- prio figlio ucciso; sente al cuore la voce della natura, ma siccome il mantenimento di questo figlio gli co- stava caro , gli riesce meno difficile il consolarsene. Si trova nell'impaccio di dover pensare alla nuora, ch'è tuttavia in casa di lui, e riguarda questa spesa come insopportabile; vorrebbe disfarsene; ma siccome bisogna restituire la dote , non può determinarvisi. Questa vedova è giovane, ne le mancano partiti. L'a- varo li accetta tutti, ma venuto al proposito della dote, non ne manda avanti alcuno. Sostiene inoltre d'aver più speso per la nuora di quello che abbia ricevuto dal contratto matrimoniale di lei ; mostra a tutti la nota delle spese fatte per lei ; la porta sempre ad- dosso; la legge tre o quattro volte al giorno, la tiene sotto il capezzale... Un amante però più accorto de- gli altri, offre a don Ambrogio di sposare sua nuora senza sborso di dote , purché il suocero si obblighi di dargliela dopo la sua morte. L'avaro vi acconsente, Tia a condizione che il marito pensi ad alimentarla. L amante trova la proposta ridicola , ma siccome è innamorato teme di perdere l'occasione di sposare la iua bella. Ha anche timore dell'uomo sordido perchè o minaccia di una lite , onde accorda tutto , e così segue il matrimonio (1)." Trattò il Goldoni per la terza 'cita lo stesso argomento durante il suo soggiorno di

(1) Mem. Part. Il, Gap. XLV.

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Parigi, dopo V esito felice del Burbero Benefico, ed intitolò la sua commedia Y^varo Fastoso. " Un ca- rattere simile egli scrisse (1) è tanto in natura^ che non mi dava fastidio se non per la quantità troppo grande di originali, onde credetti bene di ri- cavare il mio protagonista dalla classe delle persone divenute facoltose per guadagni a fine d'evitare cosi il rischio d'offendere i grandi ". Il signor di Castel- doro, difatti, e un parvenu, è ricco, ma le ricchezze non gli hanno fatto perdere il brutto vizio che lo tra- vaglia sin dalla giovinezza , 1' avarizia. Se non che, quest'ultimo sentimento è nell' animo suo insieme al desiderio di grandezza; vuol mostrarsi fastoso , come un ricco autentico , ma ha paura di metter fuori il denaro. Vuol prender moglie , ma la spesa lo spa- i venta; e' è però un partito che potrebbe convenirgli: è la figlia della signora Araminta che ha una dote di centomila scudi. Il signor di Casteldoro fa il sa- grifìcio di dare un pranzo sontuoso alla sposa a patto che Frontino, suo cameriere, suo agente, suo factotum, faccia economia: ordina, quindi, degli abiti sfarzosi, ma a condizione che i ricami d'oro si possano stac- care e vendere, che gli abiti sieno restituiti al sarto pagandone il nolo. Compra , ma realmente prende a prestito, una ricchissima fornitura di brillanti per la sposa, ed acquista subito fama di fastoso, di prodigo; ma le sue arti sono scoperte, la sua avarizia lo rende indegno della stima della buona società, che lo cir-i

(I) Mem.; Part. Ili, Gap. XX.

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conda, compresa la sposa, la quale finisce per pian- tarlo.

Certamente, nessun delle tre predette commedie goldoniane va annoverata tra i capo-lavori dello scrit- tore veneziano, e se ci siamo alquanto indugiati sulle stesse, è stato per dimostrare come il Goldoni anche trattando un argomento vieto, frusto, sapesse far da se. Come già dicemmo, il Molière che trattò lo stesso tema, non seppe che assai leggermente discostarsi dal suo originale : Arpagone è una evidente derivazione di Euclione , V avaro plautino ; qualche scena della commedia molièriana più che una derivazione, è una pura imitazione. Per esempio; alla scena terza dell'atto quinto dell' J^varo del Molière, Arpagone , il quale crede che Valerio , amante segreto della figlia , gli abbia rubato il tesoro, lo rimprovera del suo delitto. Valerio, che nulla sa del tesoro, crede che il vecchio lo rimproveri per l'amore, che porta alla fanciulla. E' una scena così detta d'equivoco, molto comune nella commedia dell'arte, e che come tanti altri elementi che formavano il contenuto di quest' ultima, risale al teatro comico latino. Difatti, Plauto , nell' Aulularia (Atto IV, Se. Vili), ha una scena perfettamente si- mile : Licoride, che ha sedotto la figlia di Euclione r avaro, confessa a quest' ultimo che ha commesso un fallo; Euclione il quale crede che l'altro gli parli del furto del suo tesoro, l' investe, l' ingiuria; Licoride ri- sponde che è pronto a riparare il fallo commesso e chiede il consenso di lui per farla sua. Il vecchio crede che si tratti dell'olla, dove stava racchiuso il

^tl Regno delle Maschere 20

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tesoro, e non della figlia, e l'equivoco continua per un pezzo.

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L'esempio da noi citato del carattere dell'avaro, che sebbene trattato dal Goldoni per ben tre volte, pure fu sempre da lui presentato in modo diverso, ci mostra anche come il commediografo veneziano s'allontanasse già di molto da quella rappresentazione generica di caratteri viziosi o ridicoli che costituiva il fulcro del teatro latino e di quello italiano venuto su con la Rinascenza e continuato con quello improvviso o a soggetto sino ai tempi del Goldoni stesso. L'avarizia per spiegarci con un esempio non era rappre- sentata che nei suoi caratteri principali ed anche più grossolani, in modo che l'avrebbe pure potuto rilevare la persona meno fornita di spirito di osservazione. Euclione o dopo di lui Arpagone non è che l'avaro quale può essere rappresentato in una società grossolana, primitiva, poiché l'avarizia del personaggio plautino non si mostra che sotto l'aspetto più comune: Euclione ha un tesoro, lo tiene nascosto ed ha sem- pre paura che glielo rubino ; esso lo preoccupa da mane a sera, di notte lo sogna, negli amici non vede che degli insidiatori del suo tesoro. E spilorcio, veste male, si lascia morire di fame pur di non metter fuori il becco d' un quattrino. 11 Goldoni, pur venuto dopo Plauto e Molière, ha saputo trovare altri tipi d'avaro: l'avaro geloso, V avaro ^fastoso, infine, l'avaro sempli- cemente avaro, senza l'indispensabile olla d'Euclione, di Plauto, o la non meno indispensabile cassetta d'Ar-

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pagone del Molière. E questo accadeva perchè il Goldoni, come già dicemmo, era uno studioso della natura. I caratteri egli non li cercava nei libri, ma intorno a sé, sapendone rilevare non solo le linee prin- cipali, visibili ad occhio nudo, ma anche le non ap- pariscenti. In tutta la sua vita egli non fece che creare. Le sue Memorie ce lo mostrano sempre alla ricerca di Ccu^atteri vissuti, di personaggi, non di tipi dive- nuti convenzionali, o manechini. Già abbiamo parlato di Momolo Cortesan e del Prodigo, ì cui caratteri furono riprodotti dal vero ; in ^onin ^ellagrazia è riprodotto il paroncino veneziano (petit maitre fran- cese) del secolo XVIII ; nella Donna di Garbo è il carattere d' una donna che con le sue arti sa raggiun- gere un fine onesto ; nell' Uomo Prudente è quello di un padre il quale attraverso varie peripezie, che ad altri avrebbero fatto perdere la testa, sa conservare la ragione e mercè la sua prudenza salva 1' onore della famiglia; nella %)edova Scaltra è una donna che prima di riprender marito mette alla prova i suoi preten- denti per assicurarsi della sincerità dei loro sentimenti; nella 'Putta Onorata, il carattere di Bettina, la pro- tagonista, è quello di una fanciulla, che a malgrado delle traversie della vita, sa mantenersi virtuosa, ri- cevendone un giusto premio ; nella Buona Moglie, continvazione della commedia precedente, il Goldoni ci conduce presso una di quelle vecchie famiglie dove tutte le virtù adornano la padrona di casa; nel Ca- valiere e la T)ama, e imbattiamo in quelle macchiette così caratteristiche del secolo XVIII che rispondono

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al nome di cicisbei ; nelle Donne 'T^untigliose, la se- conda delle sedici commedie nuove, ci troviamo di- nanzi a due Cciratteri di donne, Rosaura, moglie d*un ricco negoziante, e l' altra, contessa, di vecchia no- biltà, ma povera, che portano nell'azione l'una insieme ali* inesperienza della gioventù e della vita della pro- vincia l'aspirazione ad uno stato sociale più elevato, r altra i suoi intrighi, i suoi ripieghi ed anche le sue arti losche per cavar danaro dalla vanità altrui; nella bottega del Caffé, il caratterere di Don Marzio, il maldicente, è divenuto leggendario come il Miles Qloriosus di Plauto, o ^artuffo del Molière; nel (Bu- giardo, Lelio, il protagonista, con le sue spiritose in- venzioni, è un carattere divenuto non meno leggen- dario del precedente; un altro carattere che non ha nulla di comune col vecchio e classico tipo del pa- rassita, è quello del protagonista àeX\' Adulatore ; nel Vero Amico è il carattere d'un giovane virtuoso che sagrifìca all' amicizia un dolce e tenero affetto. Nella Finta Jlmmalata la protagonista è la stessa prima at- trice della compagnia comica con la quale erasi scrittu- rato il Goldoni, la signora Medebac "attrice eccellen- te... ma sottoposta a fisime; era spesso ammalata o cre- deva d'esser tale, qualche volta non avendo altro in sostanza che alcune volontarie ipocondrie : in questo ultimo caso, l'unico rimedio era quello di dare a recitare una bella parte ad una attrice subalterna; allora l'am- malata guariva all'istante. (1)" Nella Donna Prudente

(1) Mem., Parte II; Gap. X.

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donna Eularia è un tipo di moglie saggia e giudi- ziosa, e come scrisse lo stesso Goldoni " il soggetto gli fu somministrato da quelle medesime società dalle quali prese quello del Cavaliere e la 'Dama , cioè, dalla classe dei cicisbei ( 1 ). " Neil' jìvventuriere O- norato l'autore dipinge, in gran parte, se stesso ; un'al- tra attiice della compagnia Medebac ritrae nella pro- tagonista della Donna Volubile, intorno alla quale egli scrisse: " Avevamo appunto nella nostra compagnia un' attrice, che era la donna più capricciosa del mondo, non feci altro che farne la copia... Un carattere di tal sorta per se stesso è molto comico, ma potrebbe bensì facilmente divenire noioso , quando non fosse sostenuto da scene e tratti piacevoli. La continua mu- tazione delle mode, dalle voglie, dei divertimenti può, e vero, fornir materie di ridicolezze, ma per rendere la donna volubile un soggetto veramente da comme- dia, bisogna che ne somministrino il ridicolo i ca- pricci dell'animo. Una donna poco fa amante , che un' ora dopo non vuol più amore , e che nel tempo stesso in cui spaccia massime rigide, si accende d'una passione del tutto contraria alla sua maniera di pen- sare, ecco il personaggio comico (2) ". E questo stu- dio di caratteri umani , viventi , che nulla avessero della rigididità, dell' immobilità e del convenzionali- smo delle maschere o tipi della commedia dell' arte, nel Goldoni è assiduo, pertinace e lo accompagna per

(1) Mem , Parte II; Cap. X.

(2) Idem; Parte II; Cap. XI.

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tutta la sua non breve vita. Commedie dirette a met- tere in evidenza un carattere sono altresì : la Madre Amorosa, la Donna Forte, la Buona Figlia, il Me- dico Olandese, il T^icco Insidiato, Toderv Brontolon , /' Uomo di Spirito, V Jlpatista, la T)onna di Spirito, infine, // Burbero benefico. Ma di caratteri o di mac- chiette sono piene tutte le commedie dello scrittore veneziano. Chi non ricorda il Florindo e la Rosaura degli Innamorati, due amanti ai quali per ogni più indif- ferente pcuola offre occasione di bisticciarsi per poscia subito rappattumarsi ? E il Brighella della Figlia Ub- bidiente , padre d' una ballerina , che esalta i pregi della figlia, anche quelli che meno dovrebbero esal- tarsi? E i tre gentiluomini che spasimano per Miran- dolina , la furba locandiera, che li tiene tutti e tre a bada? E i vecchi dei Quattro ^usteghi? E le donne delle baruffe Chiozzotte ? E Ottavio, il vec- chio avaro del Vero Amico, che accetta soltanto dal suo vecchio servo Trappola le uova che non passano da un certo anello e rifiuta le altre ? E l'altro Otta- vio, non avaro, ma ridicolo fondatore dell'accademia dei Novelli nel Poeta Fanatico ? Ma chi potrebbe ricordare tutte le macchiette gustose che popolano le commedie del nostro grande veneziano ?

11 Goldoni non è soltanto un creatore di caratteri, di macchiette ; e anche un riproduttore d' ambienti : nelle sue commedie V Italia , e soprattutto Venezia, della metà del secolo XVIII vi si riflette come in uno specchio. S'ingannerebbe a partito chi, senza

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tener presente il profondo mutamento politico e so- ciale che si è verificato da quel tempo in qua , ritenesse di maniera la vita italiana riprodotta nel suo teatro comico dal Goldoni. Per comprendere la vita italiana di quei tempi, sia nelle sue grandi linee, sia nelle sue più leggiere sfumature, occorre che i lettori si trasportino con 1' aiuto delle memorie, dei diari , dei ricordi dei contemporanei , tanto italiani che stranieri, sino a quell' età. L' Italia della metà del secolo XVIII aveva una fisionomia tutta pro- pria e con questa un' anima speciale , assai diversa non solo da quella del principio del secolo stesso, ma anche da quella che assunse col chiudersi di que- st'ultimo. Spesso codesta distinzione, sebbene tanto importante, si dimentica ed è causa di errati giudizi. Molti credono che tutto il nostro Settecento sia tutto d' un p ezzo, d' un sol colore, senza variazioni e sfu- mature, quasi sinonimo di rococò, di merletti, di nei, di falbalà, di belletto, di cicisbei e di arcadi. Ma non è così; esso è vario. Se il teatro è più di qualsiasi altro ramo della letteratura quello che meglio rispec- chia la società, possiamo dire che i nostri tre grandi maggiori scrittori teatrali di quel tempo fanno fede di quanto affermiamo. Il Metastasio, il Goldoni e l'Al- fieri, tutti e tre figli e rappresentanti del Settecento italiano, sono indici di tre società diverse. Ciascnno di loro non riproduce che l' età propria, l' ambiente in cui visse, senza che nessuno di loro abbia punti importanti di contatto con gli altri. Basta per com- prenderlo che si ponga mente al tempo in cui ciascuno

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di loro cominciò a scrivere ed attinse la maturità del proprio ingegno; poiché soltanto in questo momento può dirsi eh' essi sieno i rappresentanti della soci età in mezzo alla quale vissero e pensarono. Si consi- deri un pò* : il Metastasio fece rappresentare la sua Didone jlbhandonata nel 1 723 e quando fu chia- mato a Vienna, nel 1 730, a sostituire nel posto di poeta dei reali ed imperiali teatri Apostolo Zeno, r ingegno di lui era nel suo pieno sviluppo. 11 Gol- doni scrisse le sue famose sedici commedie per la compagnia del Medebac nell'anno comico 1 730-5 1 , mentre l'Alfieri mandò alle stampe il primo volume delle sue tragedie nel 1 783. Ebbene, non s' inganne- rebbe chi non volesse vedere nessuna diversità fra l'a- nima italiana del terzo decennio del Settecento con quella della metà del secolo e, peggio, con quella della fine del secolo stesso ? Una grande evoluzione nello spirito pubblico italiano s' era fatta dall' anno in cui fu rappresentata la Didone Abbandonata del Meta- stasio a quello in cui l'Alfieri stampava la Virginia; evoluzione che soltanto in parte s' era compiuta quando il Goldoni con propositi fermi ed idee precise s' ac- cinse alla riforma del teatro comico nostrano. Come si sa, il principale fattore di codesta evoluzione fu la filosofia francese , eh' ebbe per principali interpreti il Voltaire, il Rousseau, il d'Alembert, il Diderot, l'Hol- bach, il Volney ed altri. Fu codesta una vera corrente d' idee nuove che passando attraverso le Alpi sull'ani- ma italiana, la modificò e con essa gli usi, i costumi, le credenze, le opinioni. Laonde possiamo affermare che

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alla metà del secolo XVIII , al momento della ri- forma goldoniana , 1' ambiente italiano non era più quello della giovinezza del Metastasio , sebbene an- cora non fosse quello dell' Alfieri. Le nuove idee non avevano fatto breccia che in pochi intelletti, in pochi studiosi, i quali se formavano V élite , non potevano certamente costituire non diremo la maggioranza, ma nemmeno un gruppo importante della società italiana di quel tempo. Erano codesti apostoli di riforme, di rinnovamenti, scarsi ma coraggiosi bersaglieri lanciati air assalto del vecchio edificio italiano uscito dal Con- cilio di Trento e consolidato dalla lunga pace go- duta dalla penisola: con gli anni , certamente , quei pochi bersaglieri si sarebbero fatti battaglioni, legione; ma allora non formavano che un'avanguardia; o se il paragone militare non piace, diciamo eh' erano dei seminatori d' idee : altri, più tardi, avrebbero raccolto. L'alito delle riforme scaldava, dunque, parecchi petti; ma, sostanzialmente, nulla s' era cambiato. L'interno della famiglia presentava ancora tutta l' aria patriarcale d' una volta, specie nella borghesia. Il padre n' era sempre il capo non solo secondo la parola della legge, ma anche secondo lo spirito : era rispettato , venerato ; i suoi ordini non erano discussi e i casi di ribellione erano rarissimi. I matrimoni si com- binavano in famiglia, e quasi sempre la sposa o lo sposo era designato dal genitore. Questi non discu- teva dell' importante argomento che dal lato della con- venienza economica, del decoro della famiglia, dei co- stumi della sposa e dello sposo. Anche nei casi di

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ribellione, il padre sapeva mantenere fermi i suoi di- ritti. Eccone uno veramente tipico, che togliamo dal Bugiardo (Atto li, Scena XII). Sono in iscena Pan- talone (padre) e Lelio (figlio).

PANT. Fio mio, sappi che za t'ho maridà, e giusto stamattina ho stabilito el contratto delle to nozze.

LELIO Come! Senza di me!

PANT. L'occasion non poteva esser maggio. Una buona putta da casa, e da qualcossa, con una bona dote, fia d' un uomo civil bolognese... Te dirò anca a to consolazion, bella e spiritosa.. Cossa vostù de più ?

LELIO Signor padre, perdonatemi, è vero che i padri pensano bene per i figliuoli, ma i figliuoli devono star essi colla moglie, ed è giusto ohe si soddisfacciano.

PANT. Sior fio, questi no xe quei sentimenti de rassegnazion coi quali me ave fin adesso parla. Finalmeute son pare, e se per esser sta arlevà lontan da mi, no ave impara a rispet- tarmi, sono ancora a tempo per insegnarve.

Le giovinette, se di nascosto potevano disporre del loro cuore , non potevano mai liberamente disporre della loro mano: quando non trovavano marito, o era difficile trovarne per mancanza di dote, entravano in convento. Giammai , come in quel tempo , caddero tante lucide chiome di fanciulle sotto le forbici clau- strali ; ma giammai come in quel tempo si credette , o si finse di creder volontario quel sagrificio di gio- vani vite, quello spegnersi, dentro melanconiche celle, di tante speranze, di tanti ardori. II sagrificio di quasi tutte quelle giovinette, era evidente, ma nessuno pen- sava a protestare , nemmeno le vittime. Era un por- tato del tempo , e si taceva. Ne i giovani avevano

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maggior scelta d' elezione : il loro avvenire era pre- disposto dai genitori ; nelle classi borghesi e popo- lane, la professione , 1' arte o il mestiere esercitato dal padre era quello del figlio ; nelle classi dirigenti, la scelta era bella e fatta ; il primogenito continuava il nome della famiglia con un matrimonio di conve- nienza, pei cadetti e' era 1* esercito , le cariche dello Stato , il convento o V ordine di Malta o quello di Santo Stefano o altro simile , quando non si restava a casa col modesto assegnamento fissato dal fratello maggiore. Le opinioni, poi, erano infrenate dalla reli- gione e dalla consuetudine. Già di politica non si discuteva affatto: a Venezia, Stato repubblicano, co- me a Roma, Stato teocratico, come a Napoli, Stato monarchico, era assolutamente proibito ai cittadini di occup2a"si delle faccende pubbliche , a meno che la legge oppure il principe non chiamasse il cittadino ad occuparsene. Del resto , il divieto era inutile ; i cittadini avevano tutt' altra voglia che di mettere il naso nei negozi di Stato ; se ne era perduta 1' abi- tudine e s' amava meglio d' occuparsi d' una pau^tita a tarocchi, dell' ultimo matrimonio aristocratico , del- l' ultima monacazione , dell' ultima pubblicazione di versi che di questioni riflettenti la cosa pubblica. 11 cittadino, la mattina, svegliandosi, non sentiva affatto il bisogno di leggere 1* articolo di fondo d' una gaz- zetta per farsi un' opinione più o meno chiara sulla questione del giorno ; ma se era un signore, ed an- che galante , pensava alla dama che nel corso della giornata avrebbe visitato , o servito nella sua qualità

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di bracciere o cavalier servente alla passeggiata, alla chiesa, al teatro; se scapestrato e giuocatore, pensava alle donnine allegre insieme alle quali avrebbe fatto una partita alle carte e poi cenato ; se popolano , si risparmiava la fatica d'occuparsi di quello che avrebbe fatto lungo la giornata : sapeva già d' avanzo , che avrebbe lavorato come una bestia. Certa libertà di costumi, che a noi ora fa arricciare il naso, quasi che la nostra morale sia superiore a quella degli italiani del secolo XVIII, per esempio, il cicisbeismo^ in fondo non era la più brutta casa di questa terra : non sem- pre sotto il cicisbeo si nascondeva 1' amante ; era un uso, che spesso serviva di paracadute, o di paraven- to. L* amore in tre, come e' è adesso , e' era anche allora ; ma sotto questo aspetto oggi non si sta me- glio di quei tempi, che noi chiamiamo immorali.

Il c/c/sèeo-amante si chiama oggi amico di casa , amico di famiglia , o diversamente ; non porta anche nome, poiché non si fa vedere nemmeno in famiglia, e il marito spesso non lo conosce. La libertà cui oggi godono le signore è certamente superiore a quella che godevano ai tempi del Goldoni ; i gabinetti partico- lari, i quartierini mobigliati, oggi così frequenti nelle grandi città , ed anche nelle piccole , sono testimoni di drammi che se potessero essere interrogati da un Pantalone dei Bisognosi o da un dottor Graziano Ba- lanzon del 1 750, farebbero gridare allo scandalo quelle due povere maschere. Le mogli d' allora , per altro , erano , nella grande maggioranza , meno capricciose , meno fantastiche e meno libertine d'ora : sicuro meno

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libertine, poiché se l'adulterio si coltivava nelle classi superiori, le madame Bovary erano scarse, anzi, scar- sissime nella borghesia. Così se e vero che il teatro riproduce la vita di un popolo, egli è anche vero che parecchie scene goldoniane, dove la moglie spinge la sua obbedienza verso il marito sino al sagrifìcio, con- tengono la prova del nostro dire, mentre esse non sa- rebbero state ne apprezzate, ne applaudite se non aves- sero trovato il loro riscontro nella realtà, o, per lo meno, nelle idee e negli animi degli spettatori. Certe rassegna- zioni di mogli dinanzi all'abbandono del marito, oggi forse parrebbero troppo ingenue , improntate ad una I visione della vita troppo ottimista ; ma allora passa- mano lisce. Gli spettatori nulla vi riscontravano di falso o di convenzionale. Nella bottega del Caffè (Atto I, Se. XX), Eugenio non si è ritirato a casa, idove la sua buona moglie. Vittoria, l'aspetta invano : jegli passa la notte in una casa da giuoco dove perde jcento zecchini, che teneva addosso, e trenta sulla pa- frola ; la moglie lo raggiunge ; egli la sgrida ; quella l;erca di rabbonirlo, ma l'altro la scaccia via. Ecco Ila risposta della moglie :

i " Vado, vi obbedisco , perchè una moglie onesta |jeve obbedire anche un marito indiscreto. Ma forse I orse sospirerete d avermi quando non mi potrete ve- pere. Chiamerete forse per nome la vostra cara con- jiorte quando ella non sarà in grado di rispondervi e t il* aiutarvi. Non vi potete dolere dell' amor mio. Ho [atto quanto far poteva una moglie innamorata di suo I ^narito. Mi avete con ingratitudine corrisposto ; pa-

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zienza. Piangerò da voi lontano ; ma non saprò così

spesso i torti che mi fate. V amerò sempre, ma non 1 % ti ^

mi vedrete mai più " . -

Del resto , la generazione per la quale scrisse il Goldoni si apparecchiava alla così detta " sensible- rie ", uno stato d'animo, che potrebbe anche appel- larsi il precursore del futuro romanticismo della prima metà del secolo XIX; quella " sensiblerie " come la indica la stessa parola , era un' importazione francese portante la marca di Gian Giacomo Rousseau. Questi aveva scoperto che 1' uomo , sebbene con la civiltà avesse dato un addio a quello stato idillico di natu- ra, che egli aveva scoperto, e quindi fosse divenuto meno buono e sincero, anzi, fosse divenuto addirit- tura cattivo , pure del suo vecchio stato aveva con- servato il " sentimento ", una specie di tenerezza più o meno profonda per le cose belle ed oneste, soprat- tutto pei casi pietosi, compassionevoli. Siffatto " sen- timento " si coltivò a tutto spiano; si volle essere od apparire " sensible " a ogni costo ; " sensible " al- l' arte , alla letteratura , alla natura ; " sensible " in società, specie verso il prossimo se giovane , bello e di sesso diverso dal proprio. Paolo e Virginia, creati da Bernardin de Saint- Pierre , diremmo quasi un vice-pontefice della religione della natura (il ponte- fice , l'abbiamo detto , era il Rousseau) diventarono persone vere, viventi, mentre la No avelie Eloise di- venne il codice di tutte le anime " sensibles " ed innamorate. In verità , 1' Inghilterra aveva preceduto la Francia in codesta via mercè i romanzi di Richar-

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donson e di qualchedun' altro , come V aveva prece- duto col Lok^, con V Hume ed altri, nel rinnovamento filosofico ; ma in Italia le novità non arrivavano che dalla Francia e soltanto con V impronta o il suggello di questa. Era, per altro, codesta " sensiblerie " una mania garbata , onesta ed anche innocente , poiché spingendo gli animi ad amare , ad impietosirsi facil- mente, ad aver lagrime per tutto e per tutti, rendeva gli uomini migliori. Trasportato questo " stato d'ani- mo " in Germania , si arrivò col Goethe al suicidio del povero \\ erther, e in Italia, col Foscolo, al sui- cidio di Jacopo Ortis ; ma nella sua forma genuina o francese, la " sensiblerie " non andava sino al pu- gnale o alla pistola : gì' innamorati infelici si conso- lavano più o meno presto , mentre i leggitori delle loro avventure si limitavano a spargere sulle pagine del libro lagrime abbondanti. La " sensiblerie " non invase e pervase l' Italia che quando già il Goldoni s' era messo risolutamente per la via della riforma ; pur egli non seppe andarne esente. Per altro, code- sta tendenza al tenero, al sentimentale, alle facili la- grime — in teatro le commedie che s' ispirarono a siffatta tendenza si chiamarono appunto lagrimose imprimeva alla società del tempo un' aria di sempli- cità, un sapore di latte e miele che smussava, levigava : caratteri , levava ogni agrume ai temperamenti. La vita scorreva placidamente fra una tazza di cioccolata ) di caffè e un minuetto, tra un giro in piazza e una visita golante , fra la lettura d' un romanzo e la re- cita d'una commedia, fra una seduta d'Arcadia e la

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rappresentazione a un' opera dell' Hesse o del Por- pora.

Il " pessimismo " dello Schopenhauer e il " do- lore universale " di Giacomo Leopardi non erano stati ancora scoperti ; i ragazzi non si suicidavano per una bocciatura presa agli esami di greco o di mate- matica e due amanti infelici non andavano aa avve- lenarsi in un albergo dopo una copiosa cena inaffiata da una bottiglia di Champagne più o meno autenti- co. 11 sistema nervoso, segnatamente, non si mostrava così malconcio, immiserito, sconquassato come poi si mostrò : gli uomini e le donne se facilmente sorride- vano , anche facilmente si rassegnavano ai dolori. Il cervello, in tutta codesta gente, se non lavorava mol- to, funzionava regolarmente , a velocità normale ; ma che importava ? Lavorava il cuore ; questo si nutriva di " sensiblerie ".

Il Goldoni tutta codesta vita ritrasse nelle sue com- medie, anche in quelle che oggi hanno perduto ogni valore artistico, per esempio, nella Trilogia Persiana, per usare l'espressione del Caprin (1). Che cosa sono tutti quei personaggi persiani (il Montesquieu con le Lettres Persannes aveva reso popolare la Persia) se non un' eco della vita d'allora a base di " sensible- rie " ? Parecchi hanno detto che in quelle tre com- medie d'argomento persiano, che pur tanto entusiasmo suscitarono quando furono recitate, manca il " color locale " , come vi mancava affatto la Persia. Sicuro ;

1) Op. cit.; pag. 294.

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ma chi degli spettatori del tempo vi cercava 1* uno o r altra ? C era la " sensiblerie " e bastava. Ma ripetiamo ; il Goldoni, il Goldoni tuttavia vivente nelle sue opere, è il Goldoni delle commedie di carattere e d' ambiente.

Abbiamo già studiato di fretta , s' intende le commedie di carattere ; quelle d' ambiente avevano bisogno delle considerazioni che sin* ora abbiamo e- sposto perchè sieno comprese. Chi può negare che sif- fatto ambiente , che noi ci siamo indugiati a descri- vere, non si rispecchi in decine e decine di comme- die del grande scrittore comico veneziano ?

E per non stare sulle generali, esaminiamone bre- vemente qualcuna.

Diversi ambienti rispecchia la commedia goldonia- na, l'aristocratico, il borghese, ed infine un terzo pret- tamente popolare. A quest' ultimo appartengono la Trutta Onorata, le Donne Gelose, le Baruffe Chioz- zolle, i Qualtro Rusleghi , la Massere , la Donna di casa soa, i T^ellegolezzi, il Campielo, per non citare che le più note, alle quali si potrebbe aggiungere il Venlaglìo, se l'elemento borghese ed aristocratico che ne fa parte , non togliesse alla commedia la fisiono- mia schiettamente popolare. Più numerose sono quelle che rispecchiano l' ambiente aristocratico o borghese, o tutti e due insieme riuniti ; citiamo , per esempio , come riproduzione di vita aristocratica : il Cavaliere e la T)ama, il Cavalier Giocondo, il Cavaliere di Spi- rilo , e come riproduzione d' ambiente borghese , il bugiardo, la Collega del Caffè , la Casa Nova , la

!^Cel Regno delle Maschere. 21

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Cameriera Amorosa, VUomo Prudente, il Vero Ami- co, V Avventuriere Onorato, X Jlwocato Veneziano, la trilogia della X)illeggiatura, e d'ambiente misto, le T)onne Puntigliose , la Sposa Sagace , la Cameriera Brillante, Y Avaro, la Moglie Saggia.

In verità, codeste divisioni non sono perfettamente esatte; poiché spesso le commedie del Goldoni sono insieme di carattere e d'ambiente. La favola è spesso sottile, sottile ; ma il tocco con che è riprodotta la vita che s'aggira intorno a quel debol filo è così ma- gico da far stare inchiodati gli spettatori sulla sedia, o il lettore al tavolino per tutti e tre gli atti. Ecco le Baruffe Chiozzotte; è la vita semplice , senza in- cidenti d' importanza della popolazione marinara di Chioggia; i personaggi sono dei pescatori con le loro mogli, le loro figliuole ; due soli, cioè, il Canocchia, eh' è un venditore ambulante di zucca arrostita , ed Isidoro, che è il coadiutore del cancelliere criminale, fra tutti quei personaggi non appartengono alla gente di mcire. Delle famiglinole di marinai , aspettando il ritorno dei padri e dei figli dalla pesca , attendono alle loro ordinarie occupazioni dinanzi alle loro ca- sette : il Canocchia , il venditore di zucca , coi suoi modi familiari, getta la fiaccola della gelosia in quel cantuccio tranquillo ; con la gelosia viene innanzi la maldicenza ; le donne s* ingiuriano , si picchiano ; si va in criminale. Ecco una querela da una parte, alla quale se ne oppone un' altra ; Isidoro , il coadiutore, che si sente rinascere fra le donne, s'intromette, cerca di calmare tanto le vecchie quanto le giovani ; s' in-

1

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tromettono anche gli uomini , e quando la matassa , fra le ire, i ripicchi, i malintesi femminili, è bene ar- ruffata , ecco che essa comincia a dipanarsi e tutte quelle baruffe terminano con le nozze. Nel Ventaglio la trama della favola non è meno sottile ; ma V at- tenzione dello spettatore per tutti e tre gli atti è sem- pre desta. 11 sig, Evaristo ama Candida , la nipote della signora Geltrude ; in un colloquio eh' egli ha con la giovine, a questa, che sta sulla terrazza, cade il ventaglio, che si rompe; il sig. Evaristo lo racco- glie e vuol farne avere alla giovane uno nuovo senza che ne sappia nulla la zia. Ne compra uno, difatti, ne inccirica Giannina , le cui grazie sono disputate dall'oste Coronato e dal calzolaio Crespino, per con- segnarlo a Candida. Di qui, come un filo sottile, sot- tile, si svolge tutta la trama della commedia; ma in- torno a quel filo , che serve all' autore per spingersi sino alla fine, sorgono i più imprevisti , i più curiosi incidenti ; la trama per quanto trasparente , pure in- teressa, e il successo e ottenuto.

Ma non sempre la trama della commedia goldo- niana e sottile; il nostro commediografo sa addensare gli avvenimenti senza rendere pesante la favola. Ecco l'argomento della elogile Saggia, che Paolo Ferrari con senso di modernità rifece sotto il titolo di Amore senza stima. La contessa Rosaura, una giovane dama d' una inesprimibile dolcezza d' animo , ha sposato , come ha scritto lo stesso Goldoni nell' analisi della commedia che si legge nelle Memorie (I), un uomo

(1) Parte li; Gap. XIV.

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brutale, disprezzatore della dolcezza di sua moglie , e cicisbeo della marchesa Beatrice, di carattere cat- tivo quanto lui... La contessa Rosaura faceva tutto il possibile per guadagnare il cuore del suo consorte , ma quest' uomo, duro e senza senno , preferiva piut- tosto alle carezze d'una moglie amabile il pazzo or- goglio d' un' amante imperiosa e piena di capricci. Un giorno Rosaura prende il partito d' andeu"e ella stessa a fcu*e una visita alla marchesa, a cui pone sotto gli occhi , con tutta la possibile decenza , i disgusti eh' era forzata a soffrire , pregandola di compiacersi d'adoperare tutto il suo credito presso il conte a fine d'impegnarlo a renderle un poco più di giustizia. Bea- trice , punto balorda , comprende subito la maniera d* agire della contessa , onde se la cava con espres- sioni vaghe e complimentose. Essa però spiega al conte tutto il suo furore e malanimo, e Io istiga a tal segno cbe finalmente lo determina a disfarsi della moglie. Questo mEu^ito crudele concepisce pertanto il barbaro disegno d' avvelenarla : per buona sorte la contessa ne è avvertita e lo inganna, facendogli credere d'aver trangugiato la micidiale bevanda; onde parla al me- desimo come una vittima spirante, che sempre più lo ama e lo perdona. Il conte penetrato e pentito, con- fessa i suoi falli e grida aiuto per richiamare in vita la moglie: comparisce allora la cameriera che si ac- cusa di aver saputo il segreto , di aver barattato la fiala, e d' aver così , a dispetto del padrone , salvato la vita alla contessa. A questo dire egli resta rapito dalla gioia, abbraccia di cuore la moglie, ricompensa

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la cameriera , detesta la marchesa , e da essa imme- diatamente prende congedo ".

Un' altra trama di commedia , quella dei Pettego- lezzi. Cediamo ancora la parola al Goldoni. " Chec- china passa per figlia d'un marinaio veneziano, a cui essa era stata affidata fin dalla sua infanzia. Venuta all' età nubile, le si trova un convenevole partito; ma nascono pettegolezzi, che guastano tutto. Una donna ammessa al segreto, confida ad una delle sue amiche che Checchina non è altrimenti figlia del marinaio ; costei rifa il discorso ad un' altra , e così di bocca in bocca , d' orecchio in orecchio (sempre però col patto della circospezione) si disvela 1' arcano. Ecco pertanto riguardata la giovine promessa in matrimonio come bastarda , ed ecco per tali ragioni interrotte le nozze. Giunge a Venezia il vero padre della fan- ciulla che torna dalla schiavitù e sembra alla maniera un levantino ; trovatosi egli per caso con 1' armeno mercante Ababigi (l), vengono presi in iscambio l'uno per r altro , e per questo solo motivo Checchina si crede figlia del brutto barbone. Ecco nuovi pettego- lezzi. Checchina, dunque, e disprezzata, le si ride in faccia, si chiama signorina Ababigi, ed è ridotta alla disperazione. Finalmente il padre putativo ed il vero un giorno s' incontrano ; si viene in chiaro di tutto ; Checchina ritorna al suo stato, sposa il suo preten-

( I ) Personaggio preso dal vero. Era un vecchio con una grande barba, vestito alla levantina, che girava per Venezia vendendo frutta secca. Era assai noto e volendo burlarsi d' una giovane , che non avesse ancora trovato marito, le si proponeva Ababigi.

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dente , mutan tono i pettegolezzi e così termina la commedia molto allegramente (1)." Si direbbe quasi una commedia d' intreccio del teatro improvviso o a soggetto quanto alla trama ; ma il Goldoni vi seppe ritrarre il cicaleccio maldicente, maligno delle don- nicciuole veneziane, e il suo quadretto, sebbene porti addosso la bellezza d*un secolo e mezzo, pure sembra fatto non più tardi d' ieri o di ieri 1' altro.

Intorno a codeste trame, così semplici, nelle com- medie d'ambiente, si svolge la vita italiana , soprat- tutto veneziana, del tempo. Il " cicisbeismo, che in- sieme alle parrucche, ai ricci, ai guardinfanti, ai nei, al minuetto, agli abiti ricamati e ai tacchetti rossi, co- stituì la nota più caratteristica dell' haute del seco- lo XVIII, trovò nel Goldoni un arguto censore. La sua satira però deriva da Orazio, e non da Giovenale, sia perchè il temperamento di lui non era fatto per r attacco impetuoso, a fondo, per la critica acre, bi- liosa, sia anche perchè, sulla scena d'allora, la libertà di linguaggio, e in modo particolare di critica, era assai limitata. La nobiltà, allora, dopo il trono o il capo dello Stato, era tutto, anche a Venezia, e Piombi nella capitale della Serenissima, e altrove le Vicarie o le Grandi Prigioni, o altre case decorate con nomi più o meno di mal'augurio, avrebbero rinchiuso nelle loro non allegre celle l'impertinente che avesse osato mor- dere con forza una casta o un ordine di cittadini che formava la pietra angolare dell' edificio sociale di quel

(1) Mem. Parte II; Gap. XI.

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tempo. Ma il riso caustico decente del poeta vene- sino, il castigai ridendo mores era ammesso e il Gol- doni ne approfittò ed anche largamente. Se non che il " cicisbeismo " come già accennammo , non era, in fondo in fondo, quella cosa tanto brutta, soprattutto immorale, che certuni hanno creduto che fosse in base alle satire e alle caricature che da esso presero origine. Non sempre il " cavalier servente " era un amante; se fosse stato diversamente, i mariti di que tempi avrebbero dato dei punti anche a re Menelao buon' anima : essi non amavano che la loro proprietà coniugale divenisse collettiva; però non sempre im- berciavano nel segno, e il " cicisbeo " o il " cava- lier servente " o il " bracciere " diventava l'amante della moglie; ma non di rado egli era un personag- gio innocuo, scelto con molta cura dal marito fra i gentiluomini stagionati ; e in questo caso, se la si- gnora voleva distrarsi fuori del campo legittimo, ma- ritale, il " cicisbeo " serviva di scudo all'amante (1). Così, nella Sposa Sagace, del Goldoni, donna Petro nilla, la matrigna di Barbara, non ha ritegno di dire in pubblico al conte d'Altomare, uno dei frequenta- tori della sua " conversazione " e che vorrebbe in- nalzare alla dignità di suo " bracciere " titolare :

" Conte, alfin lo confesso, a sostener m' ingegno.

Che voi siete fra tutti il cavalier più degno.

So che vi feci torto dando la preferenza

A chi non ha guadagnato con l' arte e l' insistenza.

(1) C. Cantò; St. degli Italiani, Lib. XV; Cap. CLXXI, Ved. V. Alfieri; Satire. " 11 Cavalier Servente ".

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Conosco or più che mai le vostre qualità, Venero il vostro sangue, la vostra nobiltà, E se di me vi cale, come vi calse in prima Vi protesto, signore, venerazione e stima. Non offrisco amori; tanto non si concede A femmina onorata che altrui giurò la fede; Ma se dell' amicizia pago di me sarete. Ad esclusion d'ogni altro, mio cavalier sarete.

(Atto II. Se. XII)

Una satira fine, pieno di spirito, del " cicisbeismo " contiene la commedia il Cavalier e la Dama. Per non destare suscettibilità, il Goldoni non l' intitolò i Cicisbei, " quest'esseri strani... martiri della galanteria e schiavi dei capricci del bel sesso (1). " Però; con prudenza tutta veneziana, seppe mettere accanto alle signore servite da " cicisbei ", una donna che i ser- vizi del cavaliere, sebbeno ispirati da un fine one- sto e delicato, respinge. Siffatto contrasto, artistica- mente, dà pregio alla commedia e ne rende le situa- zioni più curiose e divertenti. I " cicisbei " che fanno alle signore da vice-mariti, che sono consultati sulla scelta del colore d'un abito o d'un nastro , che as- sistono alla toletta della donna che servono e danno consigli al parrucchiere sul modo di disporre una treccia o di fare un ricciolo, non comprendono come una signora la protagonista della commedia) possa far senza un " bracciere " e la burlano e le danno della provinciale a tutto spiano. Essi medesimi e le loro dame per paura che un tale esempio non inizi

(I) Mem. Parte II, Gap. IV.

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un'era di decadenza per la buona e legittima galan- teria riuniscono i loro sforzi allo scopo che la signora, quintessenza del puritanismo, prenda anche lei un ca- valier servente ". Il Goldoni, prima della rappresen- tazione della sua commedia, credeva raccoglierne cri- tiche, e forse fischi , ma le signore e i loro " cici- sbei " non si ritennero offesi dalla satira, anzi, risero di cuore e chiamarono " villani e selvaggi " i " ci- cisbei " della commedia, che volevano dare a quella povera signora un " cavalier servente " per forza (1). Il Goldoni trattò più d' una volta il tema del " ci- cisbeismo " ; e come non tornarvi su se quell'usanza costituiva, per cosi dire, lo sfondo dell' alta società italiana del Settecento? Ampiamente trattò tale ar- gomento nella Dama Prudente, sebbene in questa sua commedia non avesse voluto presentare che un " carattere ", quello di don Roberto, un gentiluomo innamorato della propria moglie, e per giunta geloso, il quale per non rendersi ridicolo, tollera, adenti stretti, che i " cicisbei " farfalleggino intorno alla sua signora. Anche nelle Femmine Puntigliose ì " cicisbei " sono posti in ridicolo ; ma in quest' ultima commedia il

( I ) Il Goldoni (scrive Ernesto Masi in Commedie Scelte di Qol- doni; Firenze, Sansoni, 1897; voi. I, p. 3) nel pigliare in giro il " cicisbeismo ", fu un precursore ; la commedia : // Cavaliere e la Dama è del 1 749, mentre il lattino del Parini è del 1 763. In verità, il " cicisbeismo" non fu posto per la prima volta in ridicolo dal Goldoni; questi ebbe, a sua volta, un precursore nel Fagiuoli con la commedia (e noi già lo notammo): Ciò che pare non è. Anche una satira del " cicisbeo " contiene l'altra commedia del Fagiuoli : // cO' Veliere Parigino.

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Goldoni ha avuto uno scopo di gran lunga superiore a quello di sferzare una ridicola usanza. Egli, sebbene con molta cautela, ha voluto mirare ad un fine altis- simo, eminentemente sociale, e se col Cavaliere e la Dama precorse il Parini nel rimettere in ridicolo il Giovine Signore, con le Femmine Puntigliose precorse il Beaumarchais, l'autore del Mariage de Figaro, nel dare battaglia alla casta temuta ed assorbente del tempo, la nobiltà. Ma non tutti, però, hanno saputo scorgere V importanza sociale , ed anche politica , delle Femmine ^Puntigliose, forse perchè lo stesso Goldoni cercò di dissimularla affibbiando alla com- media un tìtolo che non le va che sino ad certo punto. La contessa Beatrice , la contessa Eleonora e la contessa Clarice, le tre donne di nobile lingnaggio che figurano nella commedia, sono certamente punti- gliose ; nessuno può metterlo in dubbio come sia estremamente puntigliosa tutta la società che quelle signore praticano ; ma se il puntiglio è la nota do- minante del carattere di quelle dame, V argomento della commedia è tutt* altro : è la scalata all'Olimpo, è lo sforzo che fa una casta inferione, condannata a rimanere in seconda linea, nell'ombra , per prenetcìre nelle file della classe superiore. Donna Rosaura, mo- glie d* un ricco mercante, aspira a prender posto fra le dame della nobiltà; le usanze e gli ordinamenti del tempo non gliene danno il diritto, ma essa cerca di prenetarvi mercè la compiacenza della contessa Bea- trice a cui sotto forma di perdita d' una scommessa paga cento doppie di Spagna, e del conte Lelio, che

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mette dalla sua mediante il regalo d' un ricco orolo- gio. Le altre dame, donna Eleonora e donna Cla- rice, difendono tenacemente i loro privilegi e respingono indietro donna Rosaura, la quale, finalmente, comprende come la società modesta, lavoratrice, ma sana, dalla quale ella proviene, sia da preferirsi a quella incivile, corrotta, a cui con tanto ardore aspirava. Il Beaumar- chais, più tcu^di, non disse cose peggiori della no- biltà del suo tempo. Il Goldoni con donna Beatrice e il conte Lelio metteva alla gogna tutta Taristocrazia della seconda metà del Settecento (1). Altro che Esaù che vende per un piatto di lenti il suo diritto di primo- genitura ! Per un centinaio di doppie di Spagna ed un orologio, una dama e un gentiluomo facevano mercato insieme alla loro dignità della loro coscienza !

Molto audace quel Goldoni ! dirà qualche nostro lettore. Forse; il certo s'è che la sua audacia il no- stro commediografo sapeva nascondere così bene che

(1) Il Caprin, Op. cit. pag. 289, scrive parlando delle Femmine 'Puntigliose e di qualche altra commedia del Goldoni ; " Nessuna sa- tira dunque contro l' aristocrazia, non ostante qualche apparenza in contrario. " Parole che il Caprin ha scritto perchè il Goldoni, fra r altro, nelle Femmine Puntigliose fa dire al conte Ottavio : " Conser- vare illibato il nostro decoro, questo è il vero puntiglio della nobiltà ". Se non che, non è detto che il Goldoni, mettendo quelle parole in bocca di un nobile, abbia voluto parlare per proprio conto. La sa- tira stava nei due ritratti di donna Beatrice e del conte Lelio, due losche Bgure d'aristocratici, senza tener conto del marito di donna Bea- trice, il conte Onofrio, scroccone I Le parole del conte Ottavio, di sopra riportate, non devono quindi intendersi che come un ripiego a cui il Goldoni era costretto ricorrere per non destar di troppo le suscettibilità dei nobili.

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anche oggi, un secolo e più dopo la sua morte, sten- \ tiamo a rappresentarci un Goldoni ribelle ; gli è ap- 1 pena se lo riteniamo malizioso. Ma la malizia ha le i sue audacie, e queste il Goldoni seppe avere senza che nessuno se ne accorgesse di troppo. Egli sapeva nasconderle, sapeva farle passare senza che gli spet- tatori ne rimanessero offesi. Nelle Femmine Punti- gliose, difatti, qual' è il titolo? E un titolo innocuo; esso deriva da un vizio, da un difetto femminile. E la scena dove ha luogo ? Forse a Venezia, a Padova, a Bergamo, o in qualche altra città del dominio della Serenissima ? Ma no ; egli mette la scena, nientemeno, a Palermo, città mezzo spnaguola e mezzo italiana, e dove egli non è stato, e forse dove non porrà mai il piede. Se non che, fatta una tale concessione, egli senza smettere quella sua aria bonaria, pone in bocca al conte Ottavio le seguenti parole, che più tardi il Beaumarchais avrebbe volentieri fatto sue : " Oimè ! Che orribili cose ci tocca ai giorni nostri a sentire ! Una dama vende la sua protezione, mercanteggia sul- r onore della nobiltà, mette a repentaglio il decoro della città, della nazione, dell' ordine nostro, del no- stro sangue ! Un cavaliere non solo tollera e permette che si profanino i diritti della nostre adunanze, ma si coopera e vi presta mano e ne promuove gli scan- dali ! (1)" Parole nobilissime, piene di sdegno gran- dissimo, pronunzia quel conte Ottavio, specie di pa- ladino della nobiltà e della dignitè del ceto aristo-

(1) Atto III; Se. XIII.

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:ratico ! Ma quanto disprezzo non versa sui membri ji codesto ceto!

Non meno coraggio ebbe certamente il Goldoni lel rompere una lancia contro il duello. Sebbene questo da un pezzo sia entrato nei nostri costumi, Dure è anche da un pezzo che moralisti e filosofi lo :ombattono. Appunto nelle Femmine Puntigliose , Pantalone , il quale apprende che Florindo per ven- dicare un affronro fatto alla propria moglie vuol sfidare il conte Onofrio, dice : " Anca eia è xe de quei crede, che un duello possa resarcir ogni offesa? Che una sfida sia bastante a render la reputation a chi l'ha persa? Pregiudizi, errori, pazzie! (1) ". Ma qual- che tempo prima che facesse rappresentare le Fem- mine Puntigliose, il Goldoni, nel Cavaliere e la Dama, aveva avuto il coraggio e questa volta si trattava di avere un coraggio non ordinairio non di fcu' par- Icire contro il duello un pacifico mercante, qual' è Pantalone, e quindi un plebeo che nulla s' intendeva d'onore e di leggi cavalleresche, ma di far rifiutare da un nobile una sfida senza che questo rifiuto fosse preso per vigliaccheria. Don Flaminio, non riuscendo a farsi amare da Eleonora, la quale nutriva un pro- fondo ciffetto per don Rodrigo, sfida costui; ma don Rodrigo, un gentiluomo serio, onesto, non accetta il cartello, e un altro gentiluomo, don Alonzo, trova co- desto rifiuto onorevolissimo (2). 11 pubblico applaudì;

(1) Alto III; Se. V.

(2) Atto III; Se. III.

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segno, questo, che la commedia dell'arte, nella quale i il così detto punto d'onore era elevato a dignità d'i- stituzione, aveva fatto il suo tempo, e che una con- cezione della vita più sana di quella che aveva im- perato sotto r influenza della letteratura e dei costumi di Spagna s' era fatta strada a poco a poco nella mente e nell' animo del pubblico.

L'educazione delle fanciulle, quasi sempre fatta in un chiostro, con intendimenti angusti , ascetici, piena di pregiudizi e di falsi pudori, sarebbe stato un ottimo bersaglio per un commediografo di quei tempi: ne al Goldoni, fine osservatore , sfuggì ; se non che , com- prendendo bene le difficoltà che presentava la satira d'un sistema educativo che aveva per se quasi i quattro quinti della società d' allora , e quel che è di più, i poteri pubbhci, si limitò ad una semplice ricognizione e questa fece nel Padre di famiglia , dove mise in iscena due sorelle, l' una educata in famiglia , anima retta, virtuosa, l'altra educata i tempi non gli per- mettevano di dire in convento ( 1 ) da una zia bac- chettona fra le pratiche religiose e di pietà. Quest'ul- tima sorella, in apparenza buona, tutta timor di Dio, in fondo è leggiera , civetta , un piccolo Tartuffo in gonnella, e mentre la sorella educata liberamente re- siste alle tentazioni, l'altra s'innamora d'un pilastro di prigione sotto forma di collotorto che le hanno posto attorno come educatore, e col quale scappa di casa.

L' evocazione di quest' ultima macchietta goldo-

(1) Mem. Part. II, Gap. XII.

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niana quella dell' ipocrita ci ricorda quella di Pirlone, altra macchietta goldoniana. Pirlone è uno dei personaggi del Molière che il nostro commedio- grafo scrisse appositamente per un teatro di Torino, dove, le commedie dell'avvocato veneziano, sebbene trovassero buona accoglienza, pure, dopo ciascuna re- cita delle medesime , si diceva : C'est hon , mais ce nest de Molière (1). Nella sua nuova commedia, il Goldoni introdusse un ipocrita , precisamente Pir- lone. Certo la figura di quest'ultimo non oscurò quella di Tartuffo del grande commediografo francese ; però l'aver posto in iscena un ipocrita e di tartassarlo ben bene in un tempo in cui l'ipocrisia, per non offendere la virtù, era tenuta in pregio quasi quanto quest'ul- tima, fu da parte del Goldoni un atto di coraggio, che smentisce quella leggenda di timidità , e di ri- guardi e compiacenze verso le istituzioni esistenti ai suoi tempi e che da un pezzo s' è andata formando intorno al nome dello scrittore veneziano. Questi, al- l'occasione, sapeva porre in luce, e mettere in ridicolo i difetti e i vizi della società, anche se protetti dallo Stato e dalla Chiesa; se non che, in codesti casi, la sua satira era piìi riguardosa , meno aperta , ma non meno pungente. Nessun vizio del suo tempo risparmiò compreso quello dell'ipocrisia ch'era uno dei maggiori e che inquinava la società forse più del " cicisbei- smo " , o dell' ozio in cui beatamente poltrivano le classi dirigenti d'allora. Alla fama della commedia

(1) Mem. Par. II; Cap. XII.

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del Molière giovò in Francia soprattutto la guerra che gli ipocriti in sottana nera o in abito corto le mossero cinche prima che essa fosse posta in iscena; ma non bisogna dimenticare, come anche i più sinceri ammi- ratori dello scrittore francese sono costretti ad ammet- tere, che l'ultimo atto di Tartuffo è assai povera cosa e che il Ccirattere d* Orgone , il marito credenzone, rasenta l'inverosimile. Del resto, si sa, che Molière, pur dando al carattere di Tartuffo una vita da ren- derlo scultorio, adoperò per metter su la sua commedia molto materiale italiano. Il carattere dell'ipocrita non era ciffatto nuovo nel teatro, non in quello francese, dove certi ardimenti per lunga pezza parvero impos- sibiH , ma in quello itaHano. Difatti, il Moland (1) osserva che il Molière pel '^artuffe attinse, e larga- mente, dalla commedia l' Ipocrito di Pietro Aretino : " Les analogies... entre Toeuvre de l'Aretin et 1' oevre de Molière sont trés sensibles. Le personnage prin- cipal de la comédie lo Ipocrito a de comun avec Tartuffe non seulement 1' hypocrisie , mais encore la gourmandise et la sensualité. Il employe les mémes moyens pour conquérir son prestige et son influence: simagrèes pieuses, humilté feinte, jargon de la devotion. Il est place dans un milieu pareil, au sein de la fa- mille , ou il exer-ce une autorité dangereuse. Une égale débilitè d' esprit caractérise les deux chefs de maison et les valets de Liseo (2) n' ont pas 1' oeil

(1) Op. citata; p. 222.

(2) Carattere di vecchio credenzone che si fa infinocchiare dall' ipo- crita e corrispondente a quello d'Orgone nella commedia del Molière.

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moins clairvoyant ni la parole moins impertinente que la servante de Dorine ". Il Moland seguita facendo giu- stamente rilevare l'abisso che dal punto puramente artistico separa la creazione dell'italiano da quella del francese ; ma non possiamo ritenere con lui che lo scioglimento dell' azione immaginato dal commedio- grafo francese sia migliore di quello dell'italiano. L'A- retino con una finezza di spirito degna d'uno scrittore che visse ai tempi della Rinascenza, immagina che il suo protagonista componga tutte le divergenze, allon- tani tutti i sospetti e resti tranquillo e rispettato in seno alla famiglia dove egli ha portata tutta la bava schifosa dei suoi vizi ; il Molière all' incontro, vivendo n pieno gesuitismo, fa scoprire le marachelle di Tar- luffo e lo fa chiudere in prigione.

Uno dei vizi contro il quale maggiormente si eser- :itò la vena comica del Goldoni fu certamente il giuoco. 3i giuocava, allora, nelle classi elevate, arrabbiata- nente, forse perchè non si giuocava alla borsa come )ggi. Giuocavano non meno arrabbiatamente degli lomini , le signore ; il che oggi non è lo stesso. A V^enezia ( 1 ) il giuoco era una frenesia , una febbre

(1) Si giuocava allora sfrenatamente iu tutte le grandi città. La Du- hessa d'Orléans scriveva da Parigi il 14 maggio 1695: " On joue :i des sommes affrayantes, et les joeurs sont comme des insensés; l'un urie, l'autre frappe si fort la table du poing que toute la salle en etentit; le troisiéme blasphème d'une fagon qui fait dreisserles cheveux iir la téte; tous pàrassient hors d'eux mémes et sont effrayssants à oir ". Revue des Deux Mondes, 16 dee. 1907 {Madame, mere du \egent, di Arvcde Barine): Probabilmente, un mezzo secolo dopo, ai empi del Goldoni, i gentiluomini si saranno condotti meno villanamente.

3\Cel 'Regno delle ^^aschere 22

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furiosa, come scrive il Caprin (op. cit. p. 1 0). La " co versazione " che all'uso francese penetrava nelle città d'Italia, non si teneva soltanto di sera; si teneva an- che di giorno, di mattina. Le signore ricevevano fra le dieci e il mezzogiorno, come oggi si fa in qualche minuscola città del mezzogiorno d' Italia, e la " con- versazione " sarebbe riuscita poco interessante, se non fosse stata accompagnata dal giuoco. In ogni salotto erano sempre pronti due tavolini per la bassetta e il faraone. Si giuocava anche più semplicemente , per esempio, a primiera. Quest'ultimo giuoco era preferito dalle signore, le quali, giuocando, non volevano smet- tere dal conversare. Nella Dama Prudente, (Atto II, Se. XIX), donna Redegonda che sta insieme ad altre dame, dice a don Roberto: " Noi vogliamo giuocare ". Don Roberto risponde: " Servitevi, siete padrone: a che giuoco, signora, volete divertirvi ? " Donna Rede- gonda: " A un giuoco facile. Giuochiamo a primiera ".

DONNA EULARIA. Primiera è un giuoco d'invito. Perdonatemi, non mi par giuoco da conversazione.

DONNA REDEG. A me piace giuocare a quei giuochi, che non impegnano l'attenzione. Voglio nello stesso tempo giuocare e discorrere.

DONNA EMILIA Dite bene; è un giuoco facile ".

Era obbligo , per chi volesse aver fama di vita elegante, possedere nelle vicinanze di San Marco un appartamentino, dove accogliere gli amici e le amiche "a conversazione", vale a dire a giuocare: altre volte questi ritrovi assumevano tutte le apparenze di quelli

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che ai nostri giorni sono i clubs; avevano i socii fissi, le cariche e servivano, oltre che al giuoco, a pranzi e cene; altri erano quasi pubblici , accoglievano in- sieme ai nobili tutta la feccia dei trivi... Anche le dame tenevano case da giuoco (1) " II governo, cre- dendo di riparare con la pubblicità, che secondo lui, avrebbe tolto gl'inconvenienti lamentati nelle case pri- vate, acconsentì che si aprisse in calle Vallaressa, il famoso Ridotto dove si continuò a giuocare con la stessa frenesia di prima, sino a che nel 1774 il go- verno stesso non stimò prudente di chiuderlo. Il Goldoni scrisse appositamente contro la passione del giuoco imperante a Venezia il Qiuocatore, una commedia che non ebbe esito felice; ma in altre commedie non tia- scurò di flagellare più o meno aspramente quel vizio. Tutti ricordano, nella bottega del Caffé, il giuoca- tore Eugenio non che Patrizio, il losco tenitore della bisca.

Andremmo per le lunghe se noi qui volessimo pas- sare in rassegna tutti i vizi, tutte le debolezze, tutte le manie più o meno ridicole che il Goldoni prese di mira nel suo teatro comico. Nessun vizio nascose, nessuna classe di cittadini risparmiò. Dei nobili punse e spesso sferzò la crassa ignoranza; nel Raggiratore, il conte Eraclio è un perfetto asino , ed essendogli stati presentati due brutti quadri come spera di Raf- faello, egli lo crede ed aggiunge :

" E vero, sono di Raffaello da Pesaro. (I) Caprln; op. clt. p. 10-11.

340 ^ Il suo interlocutore osserva:

" D'Urbino vuol dire .. "

Ed il conte:

" Da Pesaro ad Urbino non ci sono che poche miglia ""

Un altro nobile ignorante è il conte Ottavio, fon- datore dell'Accademia dei Novelli , nella commedia il Poeta Fanatico, come ugualmente ignorante è, nel Torquato Tasso, il conte del Fiocco, che toscaneggia; ne meno ignorante con l'aggiunta del ridicolo è, nella Fomiglia dell' Antiquario y il conte Anselmo. Sempli- cemente ridicoli sono poi altri nobili, per esempio, il cavaliere di Ripafratta, il marchese di Forlimpopoli e il conte d* Albafiorita nella Locandiera. Anche la mania del viaggiare infecondo , incosciente , come se viag- giassero non persone, ma bauli, occasione al Gol- doni di dare una tiratina d'orecchie ai nobili, i quali in quei tempi, a preferenza dei borghesi , potevano prendersi quel gusto. Il Cavalier Giocondo e la pa- rodia di codesti viaggiatori, compreso il protagonista, il quale, tutto sommato, non ha visitato che qualche città o bicocca della provincia in cui è nato. Nella Pamela Nubile, sebbene i personaggi sieno inglesi, pure attraverso i nomi stranieri , il contenuto è roba ; paesana. Neil' atto I, e' è una scena (la XVI) che anche oggi, mediante qualche piccola modificazione, potrebbe essere d'attualità. Vi è dipinto un giovine

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signore che nei suoi viaggi non ha saputo osservare che il solo lato futile delle cose vedute. Entra in iscena il cavaliere Ernold; già vi sono milord Bonfil e milord Artur:

ERN. Milord Bonfil, milord Artur, cari amici.

BON. Amico, siate il ben venuto. Accomodatevi.

ART. Mi rallegro vedervi ritornato alla patria.

ERN. Mi ci vedrete per poco.

ART. Per qual causa ?

ERN. In Londra non ci posso più stare. Oh, bella cosa il viaggiare!... Oggi qua, domani là. Vedere i magnifici trattamenti, le splen- dide corti, l'abbondanza delle merci, la quantità del popolo, la sontuosità delle fabbriche ! Che volete eh' io faccia a Londra?

ART. Londra non è città che ceda facilmente il posto ad un* altra.

ERN. Eh, perdonatemi, non sapete nulla. Non avete veduto Parigi, Madrid, Lisbona, Vienna, Roma, Firenze, Milano, Venezia. Credetemi, non sapete nulla.

ART. Un viaggiatore prudente non disprezza mai il suo paese. Ca- valiere, volete il thè?

ERN. Vi ringrazio, ho bevuto la cioccolata. In Ispagna si beve della cioccolata preziosa. Anche in Italia comunemente si usa.... A Venezia si beve il caffè squisito. Caffè d' Alessand ria vero e lo fanno a meraviglia; a Napoli, poi convien cedere la mano per i sorbetti. Hanno dei sapori squisiti. Ogni città ha la sua prerogativa. Vienna per i trattamenti, e Parigi, oh il mio caro Parigi poi, per la galanteria, per l'amore. Bel conversar senza sospetti. Che bell'amarsi senza larve di gelosia , sempre feste, sempre giardini, sempre allegrie, passatempi, tripudi. Oh, che bel mondo...

BON. (chiamando) Ehi?

ISAC. Signore (entrando)

BON. Porta un bicchier d'acqua al cavaliere,

ERN. Perchè mi volete far portare dell'acqua ?

BON. Temo che il parlar tanto v'abbia disseccato la gola.

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ERN. No, no, risparmiatevi questa briga. Dacché son partito da Londra

ho imparato a parlare. BON. S'impara più facilmente a parlare che a tacere. ERN. A parlar bene non s'impara così facilmente. BON. Ma chi parla troppo non può parlar sempre bene. ERN. Caro milord, voi non avete viaggiato. BON. E voi mi fate perdere il desio di viaggiare. ERN. Perchè? BON. Perchè temerei anch'io d'acquistare dei pregiudizii.

Se la mania dei viaggi affliggeva i nobili, quella della villeggiatura affliggeva tutti, comprese le modeste famiglie della borghesia, le quali per sfoggiare abiti e darsi aria di ricchi, s* indebitavano maledettamente. Codesta mania che aveva i suoi lati ridicoli, il Gol- doni ritrasse in tre commedie : le Smanie per la Vii- leggiatura, la Villeggiatura e il Ritorno dalla Villeg- giatura, che sono certamente fra le sue migliori pro- duzioni.

11 teatro del Goldoni, dove sfilano , come nota il Caprin (1), quasi duemila personaggi, non è sfuggito alla sorte che tocca pur troppo a tanta parte della produzione letteraria: una parte di esso è morta sen- za speranza di resurrezione. Ma ciò non costituisce un demerito pel fecondo commediografo veneziano. Altri scrittori di commedie , sebbene collocati dalla pubblica opinione in un posto non meno alto di quello assegnato al Goldoni, hanno visto perire, anche prima della loro morte, una parte della loro opera senza

(1) Op. cit. p. 291.

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che per questo la loro fama ne soffrisse ; altri non sono passati alla posterità che con uno o due lavori dei dieci o venti o più da loro messi alla luce. Per cominciare da Plauto o da Terenzio, quando il loro culto fu ripristinato col trionfo dell'umanesimo, appena tie o quattro delle loro commedie ressero in certo modo alla luce della ribalta; di Guglielmo Shakspeare non si recitano, in Inghilterra, più di mezza dozzina di lavori, e assai meno fuori, e del Molière nessuno potrà sostenere che il Mariage Force o V jlmour Me- dicin , o, peggio. Don Garda de Navarre sia cono- sciuto come il Tartuffe o il Mìsantrophe. Non par- Hamo ne di Lope de Vega , ne del Calderon dei quali appena, a titolo di saggio, si recita, qua e là, qualche dramma. Ne le ragioni di queste obblivioni, di questo dissolversi di glorie che sembravano ai con- temporanei eterne, sono da ricercarsi parliamo sem- pre di teatro nella povertà organica dei lavori caduti m dimenticanza; no. Il teatro, che è la rappresenta- zione della vita, non può fare a meno d' ispirarsi a sentimenti, a idee, a usi, o a mettere in ridicolo vizi o debolezze umane, che pel loro carattere di conti- genza non possono in gran parte interessare che una generazione, e qualche volta nemmeno ; passato il mo- mento dell' attualità, il lavoro diventa irriconoscibile, assume T aria d* un fossile ; e se qualche volta per l'eccellenza della forma resiste alla lettura, non resiste mai all'esperimento della scena. Vi manca la vita che prima vi alitava dentro.

Della produzione teatrale del Goldoni, certamente

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una parte è morta: è morta senza speranza d'essere esumata dal sepolcro in cui giace , quella parte che sente troppo da vicino la presenza della commedia dell' arte ; è anche morta quell'altra che chiameremo storica, sebbene molto impropriamente, come il Mo- lière, il Torquato ^asso, il 'Terenzio per difetto asso- luto di senso storico ; è morta ugualmente quella parte che chiameremo esotica, come la Sposa Peruviana, le tre Ir cane, perchè nulla hanno di esotico, meno il titolo; è morta, infine, quella parte che sebbene in- formata ai nuovi criteri di riforma dell' autore , pure, a parte la povertà dell' intreccio, o la fiacchezza dei caratteri o della vis comica, se rappresentata, non de- sterebbe più l'interesse del pubblico. Ma di fronte a siffatte produzioni morte, quante non ne rimangono tuttavia vive! Già, tutte, o quasi tutte le commedie in dialetto veneziano sono piene di vita e bestemmie- rebbe chi dicesse che le Baruffe Chiozzote, i Quattro ^usteghi e il Campielo non sono più rappresentabili. E ugualmente bestemmierebbe chi non ritenesse più degne della ribalta il Bugiardo , la Bottega del Caffè, un Curioso Accidente, la Locandiera, il Ven- taglio, gli Innamorati e il Burbero Benefico. Altre quattro o sei commedie meriterebbero tale onore, e così si vedrebbe come del nostro Goldoni, sommato tutto, sarebbe ancora vivo un numero di commedie rappresentabili assai maggiore di quello che non s'abbia in Francia pel Molière, senza tener conto che a man- tener vivo il culto per quest' ultimo , presso i suoi connazionali, ha potentemente contribuito la istituzione

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d*un teatro stabile (1) con repertorio, in parte, clas- sico ; il che non è avvenuto fra noi pel Goldoni.

A ripristinare , o se questa pcuola non sembrasse esatta, a rinverdire il culto pel sommo veneziano , gioverebbe certamente la istituzione in Italia d' un teatro stabile, di Stato, o sovvenzionato dallo Stato, una Casa di Qoldoni , la quale , a somiglianza della Maison de ^Jì^olière, dovrebbe recitare non solo i ca- polavori del teatro italiano, ma conservarne le tradi- zioni, specie intorno alla interpretazione. Con ciò non intendiamo dire che l'artista odierno interpretando una commedia del Goldoni , dovrebbe recitare al modo d' uno dei comici della compagnia del Medebac ; sarebbe un anacronismo confinante col grottesco : ma se la commedia goldoniana è cosa tutta settecentesca, egli è certo che la sua interpretazione, nello spirito, debba essere anche cosa tutta settecentesca. La sua esecuzione , secondo noi , non dovrebbe essere che una visione dell' Italia dei tempi del Goldoni. Del resto, i " personaggi goldoniani " sono così immede- simati ai tempi e alla società in cui l'ha posto il loro autore, che basterebbe spostarli anche un dal loro ambiente naturale perchè perdano ogni loro sapore ed originalità. Ne queste Cciratteristiche si riscontie- rebbero in loro anche se gli uomini fossero in pcir- Tucca , in abito gallonato e in iscarpette con fìbbie , je le donne in guEu-dinfante ed avessero la cipria sui capelli e i nei sul viso ; poiché tutto ciò non darebbe

(1) La Comedie Frangaise.

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loro che la parvenza e sola la parvenza di perso- naggi settecenteschi, non lo spirito, 1* anima del tem- po. In questo futuro ed ideale nostro teatro goldo- niano, noi vorremmo che i personaggi non solo par- lassero e vestissero come i contemporanei del Gol- doni, ma vorremmo pure che i loro modi , compresi i meno appariscenti, fossero quelli dei tempi rappre- sentati e non quelli del moderno galateo ; che le da- me, per esempio, non ricevessero i cavalieri nel modo stesso come lo farebbe una signora d' oggi di ritorno da una gita a Parigi o a Londra ; vorremmo , par- lando sempre di dame, che al saluto cerimonioso d*un cavaliere rispondessero con quelF arte che le Grade- nigo , le Foscari , le Mocenigo di cento e cinquanta anni fa mettevano in tutta la loro persona. Come tutti sanno, il modo di salutare, di parlare, di passeggiare, di ricevere, d* entrare in un salotto e d' uscirne, era per una dama del Settecento tutto un poema sapien- tissimo di cose , di delicatezze , di riguardi , di ele- ganza. Già la riverenza per se stessa era un poema; c'erano riverenze d'ogni specie, per le dame anziane e per quelle giovani , per un cavaliere , e per una persona di riguardo : l' impararle ed eseguirle a tem- po, secondo le circostanze, richiedeva tempo non breve e quel " savoir faire " che non s' acquista in venti- quattro ne in quarant' otto ore. La Francia non im- poneva allora soltanto il suo figurino di mode (1),

( 1 ) A Venezia si esponeva, nelle botteghe di mode, in piazza San Marco, un fantoccio che indossava V abito di moda, ed era chiamato la piavola.

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ma anche il suo galateo, il suo modo di stare in con- versazione. Le dame italiane della seconda metà del Settecento imitavano insieme alle mode, gli usi e le maniere delle dame della corte di Francia, una corte modello , dove , sovrani , regnavano il buon gusto e r eleganza. Una signora francese dell' haute di quel tempo salutava scriveva un testimonio de visu dieci persone piegandosi una sola volta e dando con la testa e con lo sguardo a ciascuno quello che gli spettava, cioè, la sfumatura di riguardi appropriata ad ogni varietà di stato, di considerazione e di nascita. Essa , aggiungeva quello scrittore , ha sempre a fare con degli amor propri facili a irritcìrsi, di modo che il più leggiero sbaglio di misura sarebbe prontamente afferrato. Ma essa non s' ingannava mai ; essa aveva tatto e destrezza incomparabili, e da buon pilota sa- peva cavarsi con onore da tutti quei bassifondi , da tutti quegli scogli più o meno traditori. Nel ricevere, la sua accoglienza aveva dei gradi infiniti. " Ne ha una per le donne di qualità, una per le donne della Corte , una per le donne titolate , una per le donne che hanno un nome storico , un' altra per le donne d' una grande nascita personale , ma unite ad un marito inferiore a loro , un' altra per le donne che hanno cambiato col matrimonio il loro nome comune in un nome distinto, un'altra ancora per le donne che hanno un buon nome nella magistratura , un' altra fi- nalmente per quelle il cui lustro principale e una casa dispendiosa e di buone cene (1). " Sempre quel te-

(1) Taine, Antico Regime; Voi. I, lib. II, Cap. 2.

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stimonio de visu : " Essa {la dama) sa esprimere tutto con la maniera delle sue riverenze, maniera varia che si estende, per sfumature impercettibili , dall' accom- pagnamento di una sola spalla , che è quasi un' im- pertinenza, fino a quella riverenza nobile e rispettosa che poche dame , anche a corte , sanno fare bene , quella piegatura lenta, cogli occhi chini, il busto di- ritto, ed il modo di rialzarsi guardando allora mode- stamente la persona e gettando con grazia tutto il corpo all' indietro ( 1 ). "La ineleganza delle signore della borghesia, anzi la loro inettitudine a piegarsi alla si- gnorilità dell* haute, ecco come è punzecchiata in un Vaudeville del tempo. E il maestro di ballo che la sua lezione ad una signorina :

" Fi, donc, mademoiselle, vous saluez des genoux comme une bourgeoise. Une femme de condition salue de la banche, de méme que un petit-maitre salue de r epaule, un jeune conseiller de la chevèlure, un fi- nancier de la main et du ventre, un abbé de la téte et des jeux. C'est le salut qui nous distingue (2) ".

Tutto in quella società del secolo XVIII armoniz- zava; non era soltanto rococò il mobilio dei salotti e dei houdoirs ; era anche rococò la gente che frequen- tava quest' ultimi. Ne soltanto la parte eletta della società aveva il suo carattere particolare, e nella in- terpretazione della commedia goldoniana si trascure- rebbe uno dei caratteri di quel tempo , se 1' artista

(1) Taine; loc. clt.

(2) Favart, S*^' ^ourgeois.

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riproducendo un personaggio anche della borghesia non tenesse conto del così detto " ambiente ". Certi tipi, come quelli di Pantalone o del Dottore Balanzon, perderebbero ogni sapore goldoniano se fossero ripro- dotti con la " tecnica " con la quale recita un padre nobile o un generico primario moderno. Così Corallina del Goldoni non sarebbe più 1* erede della " ser- vetta " o " fantesca " della commedia dell* arte se fosse riprodotta con la " tecnica " d* una " femme de chambre " del secolo XX ; Arlecchino, Brighella e qualche altra maschera, che sebbene con profonde modificazioni pur furono conservate dal Goldoni nelle sue commedie appartenenti al ciclo della riforma, per- derebbero ogni loro originalità se si facessero rivivere sotto r abito del servitore moderno. Ed ora si dica : recitandosi in tal modo le commedie del Goldoni , non acquisterebbero esse una vera attrattiva, evocando con la precisa, esatta riproduzione dei costumi, tante deliziose scene d'un mondo, che sebbene scomparso, pur per quello che il genio di Carlo Goldoni seppe trarne, si rannoda in tanta parte al mondo in cui vi- viamo ?

CAPITOLO QUARTO

L' Originalità della Commedia Goldoniana.

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Giuseppe Martucci, in un articolo stampato parec- ! chi anni fa sulla Nuova Jlntologia (1), scriveva che se ad imitazione di quanto aveva fatto in Francia il Moland pel Molière, qualcuno, in Italia, avesse potuto pazientemente mettere in confronto il teatro del Gol- doni col materiale della commedia dell'Arte, che gia- ceva inedito nelle nostre biblioteche, avrebbe trovato parecchie attinenze fra il primo e quest'ultimo. In altri termini, 1' esame avrebbe rivelato più d' un plagio e il Goldoni avrebbe dovuto restituire più d' una sua commedia a qualche suo modesto ed oscuro prede- cessore.

Il Martucci s' ingannava. A sua scusa diremo che ai suoi tempi il materiale della commedia dell' arte era poco noto e soltanto dagli studiosi erano conosciute

(1) Uno Scenario Inedito della Commedia dell' jl rie (N. A. 15 maggio 1885).

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due raccolte di soggetti, quella, cioè, dello Scala, di- venuta, per altro, una rarità bibliografica, e l'altra fiorentina edita da Adolfo Bartoli. Se non che, quasi contemporaneamente alla pubblicazione dell' articolo del Martucci sulla Nuova Jlntologia, Albino Zanatti, sulla l^wista Critica della Letteratura Italiana (II, 1 56, maggio 1 885) annunziava il ritrovamento , nella bi- bliateca Corsiniana di Roma, di cento Scenari del se- colo XVII ; più tardi , il De Simone Brouwer , sul Giornale Storico della Letteratura italiana (1891 , voi. XVIII, p. 277-90) stampava due di codesti sce- narii , Li Due Fratelli Rivali e La Tr appaiar ia; Valeri (Carletta), nella ^Njiova Rassegna di Roma (secondo semestre del 1 894) stampava uno studio su- gli scenari di Basilio Loccatello esistenti nella Biblio- teca Casanatense e dei quali, sino allora, non si co- noscevano che i soli titoli, e non tutti esattamente ri- prodotti, mercè l'opera di Leone Allacci : T)ramma' turgia (1). Inoltre, due grossi volumi di Scenari do- nava Benedetto Croce alla Biblioteca Nazionale di Napoli e lo stesso Croce richiamava l'attenzione de- gli studiosi sopra un'altra raccolta di Soggetti esistente nella Biblioteca Comunale di Perugia. Non riuscirà poi inutile avvertire che gli scenari corsiniani, in gran pcirte , per non dire quasi tutti , non sono che ridu-

(1) A completare quanto abbiamo detto nel testo, aggiungiamo che due Scenari furono pubblicati dallo Stoppato nel suo studio sulla Com- media Popolare in Italia (Padova, 1 887) ; che uno scenario {Fla- minio disperato) si legge nel sopra ricordato articolo del Martucci stampato sulla Nuova jlntologia.

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zioni degli Scenari del Loccatello. Per esempio , le Due '^urchesche della raccolta corsiniana non sono che due scenarii del Loccatello; si dica lo stesso dei T)ue Fratelli Rivali e deW j^cconcia-SerVe. Per quest' ul- timo scenario vedasi lo studio dello stesso Valeri (Carletta).

Ebbene, noi abbiamo potuto esaminare tutto code- sto materiale ( 1 ) e possiamo affermare che dall'esame da noi fatto l' originalità dell' opera goldoniana esce senza macchia.

Pel Molière era tutt' altro; già si sapeva come il guande commediografo francese , in materia di pro- prietà letteraria, non avesse scrupoli. Egli rubava la parola è cruda, ma esatta a man salva, a destra e a sinistra, senza farne mistero , da vero comico o capo-comico, abituato, per ragion di mestiere, a ri- fare i lavori che si recitano , a sopprimere scene o atti, ad adattarli più o meno alle esigenze della scena o del pubblico. Era un commediografo che quasi sem- pre non si decideva mai a scrivere un lavoro senza che ne prendesse l' idea da un altro. Uno studio compeirato era per ciò facile. Il Molière, certamente, fu un genio, le sue creazioni portano tutte V impronta del suo spi-

( 1 ) A Venezia esiste una raccolta di commedie dell' arte, quella Correr, {Qior. St. della Letterat. It. XXIX), ed abbraccia 51 sog- getti. Il Valeri nello studio da noi citato accenna ad altri soggetti del teatro a braccia, nove d' un manoscritto della Vaticano (fondo Bar- berini) che noi non abbiamo potuto esaminare perchè il manoscritto (giu- gno 1913) era in riparazione, ed uno della stessa Vaticano, fondo Otto- boni. Esaminammo quest'ultimo, ma si trattava d'una selva di commedia erudita o sostenuta e non d'un vero scenario.

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rito creatore; ma quasi sempre egli per scrivere una commedia doveva tener presente quella di un altro. " Molière scrive il Moland ( 1 ) dut principalent aux Italiens le mouvement de son théàtre. L'action dra- matique ne pairait pas avoir été très-naturelle à l'esprit fran^ais qui a toujours été fort enclin aux discours... En Italie, au contraire, le mouvement, V action règne sou- verainement sur le théatre... Aussi quelle source abon- dante de jeux de scène, de combinations ingenieuses, de brusques et saissantes expositions ils nous offrenti... Molière n'eut garde de dédaigner les lecons de ces excellents praticiéns." Egli imitò non solo gl'italiani, ma il suo bene come egli stesso confessava lo prendeva un po' dappertutto! Il suo capolavoro, Tartuffe, deriva dall' Ipocrita di Pietro Aretino. E anche una deri- vazione il T)on Juan; il Molière, scrivendo la sua commedia, ebbe dinanzi a il Convitato di Pietra, una commedia italiana dell' arte , derivata alla sua volta dal teatro spagnuolo e recitata per la prima volta a Parigi, nel 1667; V Etour di ou les Contre- temps è una imitazione dell' /naver/r7o del comico Bel- trame, cioè di Niccolò Barbieri, e quella parte che vi aggiunse, e che apparve farina del suo sacco , la prese da altre due commedie italiane, l' Emilia, di Luigi Groto, e V j^ngelica, di Fabrizio de Fornaris. " 11 lui restait en propre l'art avec lequel il avait su fondre ces elements divers, en conservant la verve la plus franche, le trait le plus net et le style le plus

(I) Op. cit. pp. 5-6.

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vif (1) ". Il Dèpit Amoreux e la riduzione d*un'al- tra commedia italiana, V Interesse, di Niccolò Secchi, il Medecin Volani è il Medico Volante, commedia a braccia, e la Jalousie de Barbouìllè non è che una riduzione o un rifacimento d*una farsa italiana, come il Coca Imaginaire trova la sua origine nel Ritratto, ovvero Arlecchino cornuto per opinione, e Don Qar- eie de Navarre è una riduzione un po' libera delle Gelosie Fortunate del principe Rodrigo , di Giacinto | Andrea Cicognini. Fortunatamente, il Molière non sa- peva soltanto appropriarsi la roba altrui, sapeva anche crccire. U Ecole des Maris, le Précièuses T^idicules, il Misanthrope : V Ecole des femmes, le Femmes sa- vantes non hanno precedenti negli altri teatri.

Il nostro Goldoni, all' incontro, non ebbe bisogno deir aiuto degli altri per far la sua strada. 1 suoi plagi , o prestiti sono quasi insensibili; la Sposa Sagace, per esempio, è derivata dal ^hilosophe marie, del De- ^ stouches, il bugiardo trova qualche somiglianza con una commedia del Corneille e dell' Alarcon, il Padre per Amore ricorda Cénie, della signora De Graffìgny, la ^eraviana discende dalle Lettres d' une Perw Vienne della stessa signora De Graffigny, la Dalma' , tino dalle Amazzoni del Du Boccage (2); ma sono j eccezioni rarissime in una produzione varia , nume- , rosa, e non paragonabile a quella del Molière, che fu ristretta.

(1) Moland; op. clt. pag. 226-27.

(2) Caprln; op. cit. 292-93.

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Generalmente il Goldoni, creando, non ricavava la la sua ispirazione che dal vero, dalle cose che lo cir- condavano, dalla società in cui viveva. Il suo studio dal vero era di prima mano, diretto non riflesso, non rispecchio d'altri studi. Del resto, il suo modo di com- porre non gli permetteva le scorrerie nel campo de- gli altri. D' ordinario, era un carattere, al momento che cominciava a scrivere una commedia, che richia- mava la sua attenzione ; si studiava, soprattutto, di e- saminarlo da un nuovo punto di vista , specie se il carattere da lui preso in esame era già stato trattato da altri. Guardi il signor lettore il carattere dell' a- varo. Il Goldoni era stato preceduto nella riprodu- zione di codesto carattere da molti e molti commedio- grafi con Plauto e il Molière alla testa; le commedie dell' arte non avevano, generalmente, che vecchi a- vari; vecchi avari avevano le commedie sostenute o scritte, comprese quelle del Fagiuoli che nella prima giovinezza del Goldoni ebbero in Italia molta noto- rietà; ma era sempre l' a vsu'o comune, volgare, custode sospettoso del tesoro, come in Plauto , della cassetta preziosa come in Molière, spilorcio, sudicio, che vi- veva d' aria e d' acqua fresca, sempre contrario al ma- matrimonio della figlia per non metter fuori i danari della dote : ma ecco il Goldoni ; egli prende l' avaro a protagonista di ben sue tre commedie, e mai ricalca le orme degli altri. Se qualche volta, nella riprodu- zione del carattere dell'avaro, si ricorda di Plauto e del Molière, fu in qualche macchietta, come nell'O/- iavio del Vero Jlmico.

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Con siffatto metodo le imitazioni o i rifacimenti non erano possibili. Il Goldoni cercava del nuovo, sempre del nuovo; ne il ritrovarlo gli era diffìcile : bastava cercarlo intorno a se, poiché soltanto coloro che non si vogliono dare questa briga sono costretti a cercarlo nei libri degli altri e a spacciare per nuovo ciò che è vecchio. S'aggiunga, che il Goldoni, così innamo- rato della commedia di carattere, in quella a soggetto nulla o quasi poteva rinvenire che potesse fare al suo caso: il teatro comico improvviso non aveva caratteri nel vero significato della parola, ma tipi fìssi, cristallizzati nelle maschere, ed egli per popolare la scena cercava persone vive, di sangue e carne, non mummie o ma- nechini.

Si sa che quando il grande commediografo vene- ziano non prendeva un carattere per protagonista del suo lavoro, riproduceva un ambiente. Commedie d'am- biente, prima di lui, non esistevano, o per lo meno il teatro comico a soggetto non ne conosceva. La commedia dell'arte, come in gran parte quella soste- nuta, non riproduceva che una società convenzionale, che un po' alla volta s' era andata formando sulla scena: gli usi, i costumi non erano che usi e costumi f di convenzione, come di convenzione era fin' anco il luogo dell' azione. Erano fiorentini, o romani i perso- naggi che si presentavano sulla scena? Spesse volte^ certamente, lo erano pel linguaggio che adoperavano; ma non lo erano affatto per tutto il resto ; e la prova si ricava da questo ; più d' una volta lo scrittore o il comico cambiava il luo^o dell' azione, si sostituiva^

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per esempio , Milano a Roma o a Firenze , senza che siffatto cambiamento influisse per nulla suH' anda- mento dell'azione. Si potrebbe aggiungere che tutto o quasi tutto il teatro comico improvviso non rappre- sentava che una società perfettamente ideale non ri- levando da quella reale che poche linee schematiche, generali. Tutti quei Lelii , tutti quegli Orazi , tutte quelle Isabelle, tutte quelle Flaminie potevano essere ugualmente cresciute a Milano o a Bologna; di carat- teristico, di particolare, non avevano nulla.

C è una commedia del Goldoni, la Putta Ono- rata, la quale prova come anche scegliendo per punto di partenza una commedia a soggetto, il nostro scrit- tore sapesse dare all' opera sua l'impronta dell'origi- nalità. La Putta Onorata, come egli ricorda nella Memo- rie, gli fu ispirata da una commedia a soggetto molto triviale, e il cui fondo è passato in quella del vene- ziano e si tratta, come in centinaia di commedie del- l' arte, dello scombio di due bambini; ma nella Putta del Goldoni lo scambio del figlio di Pantalone con quello del gondoliere Menego Cainello se serve ad alimentare l'azione, non è la commedia. Questa, seb- bene sia di carattere nei rapporti di Bettina, la pro- tagonista, è d' ambiente : il Goldoni volle ritrarvi la vita dei barcaiuoli veneziani così caretteristica , così vivace, così pittoresca. Non la studiò punto nella com- media degli altri, ma dal vero , e la riprodusse con tale esattezza, con tale brio, che quelle scene pos- sono prender posto accanto a quelle famose delle Ba- ruffe Chiozzotte.

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Nella stessa commedia noi troviamo una di quelle rare sopravvivenze della commedia dell'arte , che il Goldoni, prima di mettersi arditamente sulla via della riforma, sino ad un certo punto rispettò : vogliamo parlare delle chiusette; ma anche qui volle essere lui, Goldoni, e non uno dei soliti autori del teatro a sog- getto. La chiusetta, nella commedia dell' arte, non era che una specie di coda in versi ad un discorso, come le cabalatte nei melodrammi di vecchio stampo ; al- l' incontro, nella Putta Onorata^ essa s' immedesima al discorso. Bettina amoreggia, dalla finestra , con Pa- squalino; questi però si stanca a scambiar parole d'a- more dalla strada e vorrebbe salire in casa della gio- vane; ma Bettina, che è onesta, non acconsente; sarebbe troppo presto ; prima un impegno formale, poi si ve- drebbe.

BETTINA. Vegnirè co sarà so tempo. No vogio far come ha fata tante altre. Le ha tira in casa i morosi, i morosi s'ha de- sgustà e eie le ha perso el credito. Me aricordo, che me diseva mia mare povereta:

Pute da maridar, prudenza e inzegno ; No stè a tirar i moroseti in casa. Perchè i ve impianta al fin con bela rasa, E i ve lassa qualche bruto segno.

Nella stessa commedia, Bettina riceve una proposta disonesta dal marchese Ottavio e risponde :

BETTINA. El ghe ha muggier, e el vien in casa d' una puta da ben, e onorata ? Chi credelo che fia ? Qualchieduna de quel del tempo ? Semo a Venezia, sala. A Venezia gha del

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bagolo {passatempo) per chi Io voi, ma se va sul Liston in Piazza , va dove ghe le zelosie e i cussini sul balcon, o veramente, da quele, che sta su la porte; ma inte le case onorate a Venezia no se va a bater da le pute co sta facilitae... Le pute veneziane le vistose, e matazze , ma in materia d'onor dirò come dise quelo :

Le pute veneziane xe un tesoro, Che no, se acquista cusì facilmente. Perchè le onorate come l' oro ; E chi le voi far zoso non fa gnente, Roma vanta per gloria una Lugrezia. Chi voi prova d'onore venga a Venezia.

In tal modo il Goldoni , anche tenendo gli occhi al passato, sapeva mantenersi originale. Che di più? Anche quando nello stesso soggetto preso da lui a trattare avrebbe potuto trovare una scusa per seguire una via già battuta, si tenne lontano dall* imitazione. Il D. Giovanni Tenario, sebbene scritto quando egli an- cora non era che alle sue prime armi, e la sua mente ondeggiava tra il vecchio repertorio e le idee di ri- forma, ce ne porge un esempio. Come si sa, tutti i commediografi che avevano trattato quel soggetto ave- vano fatto del famoso convito la scena principale dei loro lavori : il Goldoni, pur sapendo che la sua com- media avrebbe perduta una grande attrattiva, rinunziò al banchetto lasciando la statua del Commendatore al suo posto.

Vogliamo ripeterlo anche a costo di riuscir noiosi: il Goldoni, meno pochissime volte, fu originale, sem- pre originale; caratteri, macchiette, intrecci, situazioni,

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tutto nel suo teatro porta Y impronta dell' originalità, dello studio diretto dal vero. Egli, nella riproduzione dei caratteri, non arrivò forse al fare scultorio del Mo- lière; ma nessuno lo potrà mai collocare fra i pla- giari, non importa se anche di genio.

CAPITOLO QUINTO

Un risveglio della Commedia dell'arte

Il Goldoni aveva insediato la " nuova commedia " sulle scene senza combattere grosse battaglie. Le " se- dici commedie nuove " da lui promesse al pubblico veneziano nel febbraio del 1 750 furono quasi tutte accolte trionfalmente. Se non che, quando la riforma così arditamente iniziata sembrava già entrata in porto e la vecchia commedia a soggetto sembrava scesa nel sepolcro, ecco che dalla stessa città in cui la riforma aveva fatto i suoi primi passi, sorgere una voce per protestare contro V affrettata tumulazione della com- media improvvisa. Si diceva che si fosse tumulato non un cadavere, ma una persona viva, poiché la com- media a braccia, o improvvisa, non era mai morta, ne aveva mai avuto voglia di morire. Si mettono forse nel cataletto e s' aspergono d'acqua benedetta le per- sone sane, fiorenti di giovinezza?

Quel grido si sarebbe prestamente disperso fra gli applausi che si prodigavano dai veneziani al loro con-

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cittadino, al quale già si dava il titolo di " Molière redivivo ", se fosse stato emesso dai soliti critici di corto intelletto; esso però era stato emesso da un uomo dotato d*un ingegno poderoso, sebbene strano, biz- zarro. Abbiamo fatto il nome di Carlo Gozzi; e per un istante la riforma goldoniona vacillò. Le maschere ritornarono a godere la simpatia del pubblico.

Di codesto episodio della riforma del teatro comico italiano s* è voluto fare un grosso avvenimento, specie in questi ultimi tempi in cui la storia divenendo sem- [ pre più anedottica, un semplice fatto di cronaca as- sume tutta r importanza d* una pagina d* epopea. Forse nemmeno oggi avrebbe oltrepassato i limiti d'un in- crescioso episodio della vita del Goldoni, se all'alba del romanticismo, che doveva imperare in Italia per oltre mezzo secolo, due tedeschi , i fratelli Federico e Guglielmo Schlegel, che di quel movimento let- terario furono in Germania i pontefici massimi, non avessero rilasciato a Carlo Gozzi le patenti non ri- chieste di genio (I). Certamente il teatro fiabesco del Gozzi racchiude dei pregi, segnatamente in ordine alla fantasia; ma le soverchie lodi prodigategli dai critici

(1) In Germania il Gozzi ebbe fortuna. Laggiù, forse perchè gl'in- gegni cercavano di liberarsi dall'imitazione della letteratura francese, tutta accademica, trovavano originale ciò che era fantastico, ingenuo ciò che era rozzo, primitivo, e quindi il teatro fiabesco del conte veneziano ebbe ammiratori, anche dopo che in Italia non ne aveva più alcuno. [ Le fiabe del Gozzi apparvero tradotte in tedesco dal 1777 al 1 779, ! a Berna. Federico Schlegel, nel 1 797, poneva il Gozzi accanto a Shak- { speare; Lodovico Tieck lo imitava in una sua fiaba; lo Schiller ridu*- j

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tedeschi e la traduzione che lo Schiller fece della Tw randoty sebbene abbiano messo gl'italiani sulla via di rileggerlo e di studiarlo, pure non hanno invogliato quest'ultimi a collocare il Gozzi fra i grandi uomini. Per loro resta sempre uno scrittore pieno di fantasia, bizzarro, battagliero, e nulla più. Quelle sue Fiabe non costituiscono che un genere letterario, che se può sino a un certo punto stuzzicare la curiosità dello studioso, non può giungere all'altezza del capolavoro. Se non che, a noi sembra che discorrendo i critici della guerra fatta dal Gozzi al Goldoni si sieno scambiati i ter- mini della questione : ed invero non si tratta di co- noscere se Carlo Gozzi sia stato uomo d'ingegno straordinario oppure comune, se le sue Fiabe meritino r oblio o r ammirazione degli italiani, ma sibbene se la guerra mossa dal conte veneziano al suo fortunato rivale corrisponda al programma che lo stesso Gozzi tracciò nello scendere nell'cu^ena, cioè, se realmente la commedia dell' arte, di cui il Gozzi sposò la causa, conservasse ancora con la rappresentcìzione delle Fiabe tali elementi di vitalità da farla ritenere, dopo la ri- forma goldoniana, anziché morta, viva.

Posta così la questione, essa si riduce a cosa assai meschina; imperocché, basta mettere le Fiabe del Gozzi a riscontro del vecchio repertorio della commedia del-

ceva Turandot pel teatro di Weimar; infine, F. G. Schlegel nel suo Corso di Letteratura Drammatica, dando 1* imbeccata ai romantici te- deschi ed italiani, collocò il Gozzi in un posto dove tedeschi ed italiani, oggi, difficilmente lo riporrebbero. Ved. per maggiori notizie : Le Fiabe di Carlo Gozzi procedute da uno studio di E. Masi. Bologna, 1885.

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l'arte per persuadersi come si tratti non di un ritorno air antico, come voleva Niccolò Machiavelli si facesse per le vecchie istituzioni deviate dalle loro origini , ma d' un nuovo genere di spettacolo, sebbene a com- porre quest* ultimo concorressero parecchi ingredienti dell' antica commedia , specie le maschere. L' opera del Gozzi, si sa, ebbe dapprima intendimenti più di battaglia e di satira che d' cu-te : il conte veneziano volle provare contro 1' avvocato-commediografo suo avversario che bastava anche la favola più sciocca , più infantile, ma fantasiosamente svolta, perchè il pub- blico corresse a teatro e fosse prodigo di quegli stessi applausi , che sino allora avevano accolto il Goldoni per la sua riforma. Egli seppe abilmente approfittare del malcontento che la stessa riforma aveva gettato , con l'abolizione delle maschere e del dire improv- viso, nelle file dei comici, per far concorrere codesti frondeurs all' opera sua ; ed ottenne realmente un grande successo. Ma 1' Amore delle tre melarance , che fu la prima fiaba fatta recitare dal Gozzi, se nella sua struttura è una commedia deli' arte, poiché l'au- tore non scrisse che il solo Scenario, e qualche cosa di simile ad una narrazione del soggetto, nel suo con- tenuto si discosta in modo assoluto dalla vecchia com- media a braccia quale fu consacrata dalla tradizione italiana. Non si tratta più della nipote o pronipote del teatro di Plauto e di Terenzio che un successo di oltre due secoli aveva reso celebre sui teatri d'Italia e d'oltralpi, ma d' un genere teatrale che quasi nulla aveva di comune col vecchio spettacolo. La fantasia

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più sfrenata, sorella d' quella dell'Ariosto, vi regnava. Altro che vita reale nelle fiabe de! Gozzi ! Sicuro, e' e Pantalone, e' e Brighella, e' è Tartaglia, e' è Truffal- dino, tutte maschere della commedia improvvisa, che parlano veneziano o bergamasco, ma l'argomento è una fiaba, una féerie. La satira personale, come nelle com- medie d' Aristofane , scoppietta qua e investendo in pieno petto, insieme ad altri, il Goldoni, il grande trionfatore di quel tempo ; ma se questo poteva ren- dere più gustosa la commedia e procurare lo straor- dinario concorso del pubblico , che s' appassionava grandemente alla lotta fra i due commediografi , non c'era però ne vis comica, ne creazione di caratteri, ne riproduzione d' ambiente , ne analisi di passioni. La commedia dell' cirte, materialmente , esisteva sempre , perchè nell' Jlmore delle tre melarance lo scrittore non forniva ai comici che il solo canovaccio , ma il contenuto non l'avrebbero riconosciuto per proprio ne i Flamini Scala, ne i Biancolelli, ne gli infiniti au- tori dei Soggetti o Scenari dell' antica commedia. Si viveva, nel teatro fiabesco del Gozzi, non in quella certa vita comica come era stata foggiata dalla tradi- zione, ma come in un sogno, come in un mondo fan- tastico.

Del resto , il Gozzi riteneva che la riproduzione i sulla scena della vita popolare , come aveva fatto il I Goldoni nella 'Putta Onorata, nel Campielo, neWe Ba- ruffe Chiozzotte , nelle Massere , fosse cosa anti-arti- stica, anti-teatrale. Per lui le commedie popolari del Goldoni, veri capolavori, erano cose plebee e lo di-

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chiara espressamente nel breve commento al urologo delle Tre Melarance. Egli era un aristocratico , un conservatore della più beli' acqua, e sebbene fosse non meno spiantato di suo fratello Gaspare, pure te- meva d' insudiciare il suo abito gallonato di conte al contatto della plebe della sua città. La plebe, se la tollerava in piazza, non l'ammetteva sulla scena. In sostanza, il suo teatro , anziché una fedele rappre- sentazione della vita , era un' aberrazione. Ne , sino a certo punto , potrebbe dirsi che fosse nuovo. Le sue origini, senza rimontare a spettacoli di tempi molto remoti, possono trovarsi nel teatro francese dei primi anni del secolo XVIII , dopo 1' espulsione dei comici italiani da Parigi. Vivevano quivi, un nel-- l'ombra, alcuni teatri popolari, i thèàtres de la Foire (1), ai quali , in vista del privilegio goduto dal Théàtre FrancaiSy cioè , la maggior scena della Francia , era interdetto di recitare lavori teatrali, meno il monolo- go. Stretti quei comici in questo letto di Procuste , s'ingegnarono di trarne alla meglio profìtto, e non po- tendo fare agire due personaggi alla volta sulla scena, ne introdussero un secondo muto. Era anche loro in- terdetto, sempre per quel famoso privilegio, di can- tare dei coupletSy ma essi li fecero cantare dagli spet- tari, fra i quali qualcuno , appositamente addestrato , dava la prima nota, mentre l'orchestra accompagnava il canto. Quest' ultima innovazione si eseguiva così ;

(1) Bernardin, La Comedie Italienne et le '^hèàtre de la Foire; , Paris, ed. della T^euue ^leu, 1902.

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scendevano dall'alto, sulla scena, due piccoli amori, i quali spiegavano un cartello dove a grandi lettere stava trascritto il couplet ed indicato il motivo popo- lare sul quale doveva cantarsi lo stesso couplet; indi, tre o quattro suonatori davano principio al motivo e gli spettatori cantavano. Il primo tentativo fu coronato da un lieto successo , e a malgrado delle ordinanze e degli uscieri, ai quali ricorrevano i signori della Maison de Molière per mantenere integro il loro pri- vilegio e delle cause che ne seguivano, crebbe l'ar- dimento dei comici dei teatri della Foire. Delle vere produzioni teatrali scritte dai migliori autori francesi del tempo, diedero importanza artistica a quei teatri, e le maschere italiane cacciate dall' Hotel Bourgogne, sotto vesti francesi, trovarono ospitalità nei nuovi 77?ea- tres de la Foire costruiti appositamente nei luoghi stessi dove prima non esistevano che povere baracche. In- fine , arrivarono quei comici ad ottenere il permesso del dialogo e del couplet-, e così gli écriteaux coi re- lativi Amorini, che scendevano dell'alto, scomparvero, come pure scomparvero i libretti che si distribuivano' perchè gli spettatori potessero avere sott'occhio i cow plets che si cantavano. Lo spettacolo divenne così più interessante, più vario. Il Bernardin si occupa di questo nuovo teatro comico, dal quale poi derivarono il monologo, il vaudeville, V opera-comique, la revue, la féerie e... le fiabe del Gozzi. Un brevissimo esame Ji qualcuna delle pieces del repertorio dei teatri di ^oire ci metterà al corrente del contenuto delle stesse '^ièces.

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Una di codeste commedie recitate sui teatri di Foire è del Le Sage: Arlequin roi de Serendih. Nonostante il nome della maschera italiana , la commedia del- l' arte, la commedia di Flaminio Scala non e* entra per nulla. La commedia del Le Sage è una parodia dell' Iphigenie en Tauride di Duchet e Sauchet. L'a- zione si finge in Serendib, un' isola misterinsa , e la scena, all' alzarsi del sipario, rappresenta una riva de- serta. Il mare è in tempesta; un legno naufraga, ed Arlecchino, salvandosi a nuoto, tocca la terra. Egli ha con se una grossa borsa piena di zecchini, se non che, tre briganti, l' uno dopo l'altro, e tutti e tre di- versamente camuffati, lo costringono, armata mano, ai consegnare loro il denaro. Arlecchino strilla, protesta, piange; i ladri decidono d' ucciderlo, ma uno di loro s'intenerisce della sorte di quel disgraziato e gli fa salva la vita; perchè non fugga, lo chiudono in una botte vuota. Arlecchino piange ancora; un lupo affa- mato accorre, fiuta la carne fresca e con le zanne cerca di sfondare la botte; ma Arlecchino da una fessura di questa afferra la coda del lupo, il quale, sentendosela stringere cerca di darsela a gambe: Ar- lecchino tira ancora; la coda del lupo gli resta fra le mani, la botte si sfascia e mentre 1' animale fugge de un lato, Arlecchino si salva dall' altro.

A Serendib, intanto, esiste l'uso che lo straniere che vi sbarca deve essere eletto re per un mese. Ar lecchino non può sfuggire a questo onore. Accolte trionfalmente, è condotto al palazzo reale , dove , il mezzo ad una magnificenza straordinaria, riceve la co^

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rona. Ma non e* è gaudio senza dolore; il nuovo re apprende che dopo il mese di regno voluto dall'uso, questo vuole che il nuovo re o monarca sia immolato dalla grande sacerdotessa al Dio del paese, Kesaya. La grande sacerdotessa è Mezzettino, un' altra ma- schera italiana, e il suo confidente è un'altra maschera ma francese; Pierrot : il sacrificio è imminente; Mez- zettino, vestito da sacerdotessa di Kesaya, imbrandi- sce il pugnale e prima d'immergerlo nel seno della vittima, domanda ad Arlecchino il nome del suo paese. L'ex re gli risponde:

" C est à Bergame, hélas ! en Italie

Que une tripiére en ses flancs m*a porte.

II pugnale cade di mano a Mezzettino, il quale ri- conosce nell'ex-sovrano il suo famoso compatriotta Ar- lecchino : tutti e tre (perchè anche Pierrot è della partita) s'abbracciano , rinunziano al sagrificio e sva- ligiano il tempio ; ma quando stanno per mettere le mani su Kesaya, il dio di quel paese, il tempio co- mincia a crollare. I tre amici si mettono in salvo.

Nel Monde Renversè, dello stesso Le Sage , noi siamo nel regno del Mago Merlino, dove tutto suc- cede a rovescio di quello che succede nei mondi :onosciuti: ivi arrivano Arlecchino e Pierrot, i quali estano sorpresi di trovarvi procuratori onesti , petits naitres austeri, discreti e sobri , filosofi pazzarelloni , ìttrici pudiche, comici modesti, e mariti fedeli. Ar- ecchino , domanda subito se la bestia marito-cocu iva anche in quello strano paese, ma nessuno com-

Nel Regno delle Maschere 24

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prende la natura di quell'animale, ed Arlecchino s'af- fretta a spiegare che quella bestia è d'origine europea ed aggiunge : " Le cocu est le contraire du coq. Le coq a plus d' une poule et la femme d' un coq est une poule qui a plus d' un coq. " In un' altra com- media, le Eaux de Merlin, Arlecchino e Mezzettino s' imbattono, nella foresta delle Ardennes , nel mago Merlino che rivela loro le virtù meravigliose di due fontane colà esistenti :

" De ces eaux une goutte cu deux Guérissent un homme hamoureux; L' amour méme se change en haine, Mais l'eau de cette autre fontaine Fait un effet bien diffèrent: Dés qu'on en boit on seint son àme S' enflemmer d'une vive ardeur ".

Arlecchino e Mezzettino decidono di stabilirsi nel paese e di vendere quelle acque prodigiose. Si ca- muffano da ciarlatani perchè

" Un homme d'étrange apparence Gagne d'abord la confidence. Et surtout du peuple de France.

Aprono, intanto, bottega. Qui segue lo sfilare dei compratori, uomini e donne d'ogni età e condizione, che sono tanti caratteri disegnati con quello spirito- ch'era proprio dell'autore del Diahle Boiteux e di Qil Blas, poiché la commedia è del Le Sage. Ecco una giovane contessa che chiede l'acqua per calmare gli

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ardori d'un marito troppo innamorato; poi un giovane che vorrebbe estinguere con V acqua miracolosa l'a- more che sente per una principessa... da palcoscenico; poi un contadino ingenuo che vorrebbe farsi amare da una sua giovane vicina di casa, che gli dei... pizzicotti e lo guarda... con certi occhi!; poi un ma- rito che vorrebbe conoscere ciò che fa l' onesta sua metà durante l'assenza di lui. Negli j^nimaux ^ai- sonnahles del Fulizier, la scena si svolge nell'isola di Circe. Ulisse ha ottenuto dalla maga che i suoi com- pagni trasformati da lei in animali riprendano la loro forma umana; ma nessuno di loro vuol riprendere le antiche sembianze. A che servirebbe , per esempio, alla pollastra di ritornare una giovine civetta, al lupo un procuratore, alla beccaccina una ragazza stordita, al toro un marito ingannato, e al maiale un appalta- tore d'imposte? NeWylrlequin-DeucaUon, del Piron, la scena, nel primo atto, rappresenta la vetta del Par- naso, soggiorno d'Apollo e delle Muse; di si scorge il mare, che occupa tutto il fondo del teatro. E il diluvio. Subito Arlecchino-Deucalione arriva a caval- cioni d'una botte e d'un salto mette piede a terra. Egli si rallegra d'essere lui solo scampato dalla morte che ha colpito tutto il genere umano e fa quattro ca- priole per essersi liberato dalla moglie Pirra, bugiarda, ciarliera, gelosa e taccagna: poi pensa a far colazione e dalla sua sacca da viaggio poiché egli ha potuto salvare dal diluvio una sacca tira fuori due lingue affamicate, una coscia di castrato al forno e un pro- sciutto di ventotto libbre. Divora la sua colazione e

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si disseta ad una vicina sorgente d' acqua. Quindi improvvisa alcuni versi e comprende così che si trova nel paese d'Apollo. Ma già Arlecchino comincia ad annoiarsi della sua solitudine; se non che esce una bella signora, vestita alla romana, che passeggia gra- vemente, meditando una scena tragica: è Melpomene. Arlecchino, che se odia Pirra comincia pure a sen- tire il vuoto della sua assenza, s'avvicina alla Musa e l'invita ad unirsi a lui in un'opera altamente civi- lizzatrice ed umanitaria, quella, cioè, di procreare il nuovo genere umano. Ma la severa musa non gli ascolto; allora Arlecchino tira fuori la chiave di casa, se la mette alla bocca e fischia. A questo solo ru- more, la Musa della tragedia si scuote, getta un'oc- chiata terribile al sibilatore e dignitosamente si ritira come un'attrice fischiata. Entra subito in iscena Talia danzando e facendo scoppiettare come un'andalusa le castagnole. La Musa della commedia sta per parlare... Era il tempo in cui ai teatri della Foire era proibito di far recitare produzioni dialogate; diffatti, nella scena precedente. Melpomene era stata sempre muta, anche quando Arlecchino la fischia. Ma questa volta la brava maschera bergamasca comprende il pericolo e vol- gendosi verso la loggia dove sta il signor luogotenente di polizia, grida spaventato, accennando a Talia, che resta intanto interdetta: "Signor luogotenente, all'erta! Io non garantisco nulla... Salvateci dalla multa!" E fra le risate del pubblico si precipita sulla Musa e con una mano le tappa la bocca gridando : " Silenzio, chiacchierona! Vorresti forse far morire di rabbia i

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signori del Teatro Francese? " E cosi dicendo la spinge fra le quinte.

Un ballo di Silfidi chiude l'atto.

Nell'atto secondo, Pirra, la moglie di Arlecchino- Deucalione, scende dal cielo a cavallo di Pegaso, il quale, dopo d'averla deposta a terra, sparisce. Pirra, in una scena muta ella, dallo spavento del diluvio, aveva perduta la voce si rallegra d'essersi salvata dalle acque, si rassegna a viver sola sulla terra e fi- nisce con l'addormentarsi su d' un banco di pietra. Arriva Apollo cantando un'arietta, vede Pirra, e chi- natosi su di lei, intuona una canzoncina. Qui entra Arlecchino disperato di non aver potuto costringere nessuna delle nove muse a prendere il posto di Pirra presso di lui; ma scorge la moglie ed Apollo e resta interdetto ; quindi s' avvicina e trovando indecoroso per la sua dignità maritale l'atteggiamento d'Apollo, lascia cadere sulle spalle di questo mezza dozzina di colpi di bastone. Il biondo iddio fugge.

I due sposi passano alle spiegazioni ; Arlecchino, loquacemente, narra come potè salvarsi dalle acque; Pirra lo fa con gesti. Il primo va in cerca di Pegaso; lo ritrova: è un divino cavallo con le orecchie d'asino e le ali di tacchino con addosso una coperta , che spcirisce sotto diversi avvisi teatrali. Qui succede una rivista dei fatti più importanti accaduti a Parigi nel corso dell'anno. Infine Pegaso con Arlecchino addosso riprende le vie aeree, ma il suo compagno , con un dito salto, ritorna sulla terra.

Arlecchino riflette che sebbene ora abbia una com-

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pagna, Pirra , pure ciò non può andare alle lunghe ; egli dovrà orribilmente annoiarsi con una muta. Con- sultiamo gli Dei , dice , e si propone d' entrare nel tempio di Temi. " Con un di denaro si ha un oracolo "; esclama ; e picchia alla porta. Questa è aperta, e i due sposi entrano per consultare la Dea. Un secondo balletto chiude l'atto.

Neir atto terzo , Arlecchino e Pirra , in ossequio agli ordini di Temi, si collocano ciascuno accanto ad una quinta gettando dietro di questa delle pietre: su- bito, dalla quinta dove sta Arlecchino vengono fuori dei giovani, e da quella dove sta Pirra delle giova- nette. I giovani appena sono sul palco vengono alle mani ed Arlecchino grida e suda per dividerli. Egli osserva: " E* un grazioso presagio per la fraternità e la solidarietà dei popoli : " I giovani smettono d* acca- pigliarsi fra loro, ma si gettano sulle donne: altra fa- tica d'Arlecchino per tenerli nei limiti della decenza. Infine, Arlecchino, dopo che ha posto un d'ordine in quella " canaille ", recita un discorso pieno di sen- tenze morali e assai sensato; al contadino, all'operaio, al soldato, a tutti i componenti della nuova umanità, giacche quei giovani rappresentano le diverse classi sociali, lancia un motto , un frizzo , un monito. Per esempio, al soldato che gli sta dinanzi col cappello in testa e la destra sull' elsa della spada, strappa il cappello e gli dice :

" Chapeau bas devant ton pere, quand tes deux amis (il contadino e V operaio) sont dans leur devoir, ne croit-il pas avoir été forme d'une pierre plus pre-

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cieuse que les autres? Mon gentilhomme, un peu de modestie! Tout ton ta-lent est de savoir tuer! "

E prevedendo le sciagure a cui va incontro la nuova umanità, esclama:

" Je voudrais, quand j' ai jeté la maudite pierre dont il est forme {Fuomo), l'avoir poussée à cent lieues en mer ".

Arlecchino però non si lascia vincere completa- mente dal suo pessimismo e consacra le nozze fra quei giovani e quelle giovinette. In questo momento un cuculo fa sentire il suo canto. " Ah , esclama Arlecchino , brutto animale , potevi aspettare che la nuova umanità fosse almeno alla sua seconda gene- razione! ".

Come nelle fiabe del Gozzi, nelle commedie del Le Sage, del Piron, del Fuzilier e d'altri, l'argomento è fantastico; la fantasia, la mitologia, la poesia, la leg- genda, tutto è buono, purché strano, purché bizzarro, a fornire la trama dello spettacolo. Talvolta basta un tenue filo tratto dalle Mille ed una Notte del Galland, o dai poemi omerici o daW Eneide di Virgilio perchè lo scrittore vi ricami intorno una favola piena di spi- rito, di comicità, d'interesse. C'è un di tutto, la strada come il palazzo , la casa borghese come la reggia, il "boudoir" della dama come la bottega del ciarlatano, il riso sguaiato delle antiche farse e il bon mot dei salotti. il teatro della Foire dimen- ticò l'attualità il fatto del giorno, che presentò ed in- corniciò in quadri satirici , dalla fuga del cassiere alle gare dei comici, alle guerre dei letterati, ai sue-

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cessi o ai fiaschi del teatro e della letteratura. Nelle Fiabe del Gozzi c'è qualche cosa di simile. L'Amo- re delle tre Melar ancie, Turandot , V Jlngellin bel- | verde, il Corvo e le altre fiabe del conte veneto non rassomigliano un poco alle commedie del Le Sage, del Piron, del Fuzilier ? Non vi si riscontra lo stesso sen- timento fantastico ? Le Maschere della commedia del- l'arte non agiscono in un ambiente affatto diverso da quello in cui vissero per tanti anni? Del resto, anche il teatro a braccia italiano aveva reso popolare la commedia a base di fantasia, di meraviglioso. U Ar- cadia incantata, difatti, del p. Adriani, ha boschi in- cantati , maghi , trasformazioni fantastiche, insomma, tutto il fa-bisogno d'un teatro de la foire. L'origina lità, dunque, del teatro del Gozzi deve intendersi in modo limitato. I chiosatori delle fiabe, e particolar- mente il Magrini , che come giustamente osservò il Masi, con molto amore trattò questo tema, hanno vo- luto indicarci assai minuziosamente le fonti alle quali il Gozzi attinse i diversi argomenti da lui trattati. Ma attingere ad una fonte non significa difetto d'origina- lità. Questa sta nell'anima, diremmo quasi, che l'au- tore sa imprimere all'opera sua. Un poco dopo la metà del secolo XVIII, a Venezia, le commedie-fiabe del Gozzi parvero originali; ma sarebbero apparse tali se accanto al teatro in cui si recitavano, in un altro teatro, con una compagnia francese , si fossero reci- tate le commedie del Le Sage, del Piron e d' altri | scrittori del Thèàtre de la Foire ?

Ma come già accennammo, pel Gozzi la rivendi-

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cazione dei diritti della commedia dell* 2U*te non fu che un pretesto. Egli non ripristinò affatto quest' ulti- ma sulla scena. Le sue commedie non costitui- scono la continuazione del regno della commedia a soggetto; esse iniziarono in Italia uno spettacolo af- fatto nuovo o quasi nuovo, per noi, un miscuglio dei due vecchi generi, la commedia improvvisa e quella sostenuta, su d'un fondo fantastico, dove le bizzarrie sostituivano le situazioni, con visibile derivazione dal teatro francese. Ma il successso del Gozzi fu di breve durata; i veneziani, dopo d'avere accolto festosamente le Fiabe, ebbero il buon senso di ricredersi. La prima fiaba Vylmore delle tre Melarance andò in iscena la sera del 25 gennaio 1761 ; la seconda, il CorvOj che il Masi ritiene la più drammatica di tutte, la sera del 24 ottobre dello stesso anno; la terza, il T^e Cervo, la sera del 5 gennaio 1 762; è dello stesso anno la prima recita della quarta fiaba, Turandot ; la quinta fiaba, la T)orìna Serpente, fu per la prima volta reci- tata la sera del 29 ottobre dello stesso anno. Qui c'è una breve sosta nella produzione fiabesca; la sesta fiaba, la Zobeide, fu recitata la sera dell' 1 1 novem- bre 1 763; la settima, i Pitocchi Fortunati, la sera del 29 novembre 1 764, ed ebbe un successo bazzotto e fu immediatamente seguita dal Mostro Turchino, (8 dicembre 1 704). U jìugellin Bel 'Verde e Zeim re dei Geni, le ultime due fiabe del Gozzi , furono re- citate l'una la sera del 1 7 gennaio e 1' altra la sera del 25 novembre 1765. Dopo, non più ^aèe, non più ritorno air antico; il Gozzi, è vero, ritornò a scrivere,

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pel teatro, ma non trattò più il genere fiabesco , ne si curò più della commedia dell' arte. Quando , nel 1806, scese nel sepolcro, nessuno, o quasi nessuno, s'accorse della sua scomparsa. 11 suo avversario, Carlo Goldoni, cinque anni dopo la recita dell'ultima fiaba gozziana, faceva rappresentare a Parigi , al Thèàtre Francais, il burbero benefico. Era il più gran trionfo che sin'allora avesse ottenuto il grande scrittore ve- neziano! La commedia dell'arte non era più che un ricordo.

Fine.

APPENDICE

a) Scenari di Loccatello» bj Scenari Napoletani^ cj Scenari del Adriani^

A.

DAGLI SCENARI D' BASILIO LOCCATELLO

a) Il Giuoco della Primiera.

b) La Commedia in Commedia.

Di Basilio Loccatello^ o come anche è stato chia- mato, Locatello o Locatelli, romano, scrittore di sce- nari, poco o assai poco si sapeva sino a non molti anni fa: appena il nome e i titoli, parecchi dei quali errati, delle sue commedie a braccia. Il primo a par- larne era stato V Allacci nella sua DrammaturgiQy stampata la prima volta un poco dopo la metà del secolo XVII ; poi, per rivedere il suo nome, bisognava saltare sino a Francesco Bartoli (1), vissuto nella se- conda metà del secolo XVIII. Il Bartoli aggiunse, di suo, qualche notizia biografica, spacciando non si sa

Scriviamo Loccatello, e non diversamente, p>erchè così sta scritto nel manoscritto casanatense e precisamente nel Discorso che precede i Soggetti,

(I) Notizie Storiche dei Comici Italiani; Padova, 1781.

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come per comico il Loccatello, il quale, d* allora in poi, come comico fu da tutti ritenuto. Nel 1894, il Valeri fCarletta) dissipò un po' le tenebre che si ad- densavano intorno al nostro commediografo (1). E- rano già stati rinvenuti gli Scenari, manoscritti, presso la Biblioteca Casanatense, di Roma, e dai quali noi abbiamo trascritto i due che ora pubblichiamo (2). Il loro autore fu certamente romano; ma quando nac- que? quando morì? Il Valeri, che cercò di accer- tarlo, non potè venirne a capo ; ritiene però che fosse nato sugli ultimi anni del Cinquecento e morto poco oltre la metà del Seicento : e se non fu comico di professione, ebbe certamente a far péu^te d' una di quelle tante società filodrammatiche, che allora si chia- mavano Accademie. Mandò alle stampe una commedia della quale non si conosce che il titolo : Li Sei Ri- trovati.

( 1 ) Gli Scenari Inediti di ^. Localelli in ; La ^uova Rasse- gna, Roma 1864. Questo studio fu stampato anche a parte.

(2) Sono in due volumi e il titolo preciso è il seguente : Della Scena dei Soggetti Comici di B. L. R. (Romano), in Roma. Il primo vo- lume è del MDCXVIII e il secondo del MDCXXII. L'opera è prece- duta da un discorso " per il quale si mostra esser necessarie le facetie a la vita humana, et faceto chiamarsi il comico ".

IL GIUOCO DELLA PRIMIERA

COMMEDIA

PERSONAGGI

Pantalone Lelio, figlio Zanni, servo

COVIELLO

Flaminia, figlia Furbo

ROBBE

Un abito da Pantalone - Una borsa di denari - Una sporta - Un mazzo di carte da giuoco.

La scena si finge a Roma

N. B. (Niella trascrizione non conserviamo perfettamente la vec- chia grafia del manoscritto per non islancare il lettore. Vogliamo solo avvertire che nel manoscritto si legge ora azzi ed ora azi.

Atto Primo

Pantalone con Zanni, di casa, sopra 1* amore che porta a Flaminia figlia di Coviello ; dice di volerla pigliar per moglie ; fanno lazzi ; alla fine basta ; in questo

Coviello, di casa, intende come Pantalone è inna- morato di Flaminia e volerla pigliar per moglie ; fanno lazzi; alla fine s'accordano della dote; chiama

Flaminia, di casa, intende essser maritata a Pan- talone, ricusa voler mau^ito, fanno altri discorsi , alla fine obbedisce al padre e la mano a Pantalone. Flaminia rientra in casa ; Coviello dice a Pantalone: fra un' ora si trovi al Banco della Scimia che gli fo pagare quattro mila scudi per la dote. Coviello parte, Pantalone dice che coi denari della dote comprerà gli abiti per le nozze. Entra in casa.

Lelio, di strada ; sopra l'amore che porta a Fla- minia, figlia di Coviello ; volerle scoprire 1' amor suo ; in questo

Flaminia, di casa ; intende l' amor di Lelio, gli dice come suo padre l' ha maritata con Pantalone, lo prega

Nel Regno delle Maschere 25

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guastar le nozze dandole la fede di consorte. Fla- minia in casa.

Lelio disperato vuol cercare Pantalone per gua- stare le nozze, in questo

Zanni, di casa, con sporta e denari per spendere; intende l'amor di Lelio e Flaminia, gli dice delle nozze, è pregato di guastarle. Zanni dice. Pantalone deve andare a pigliare quattro mila scudi della dote volergli mandare un altro in luogo di lui e fargli la burla. Lelio dice aspettarlo dal rigattiere e parte. Zanni sulla spesa che ha da fare facendo lazzi col contare li danari ; in questo

Furbo, di strada, con un par di carte da giuocare; fa lazzi con Zanni sopra il giuoco della primiera ; impara a giuocare a Zanni, facendo lazzi vince li de- nari, e le vesti a Zanni, facendolo restare in camicia. Zanni, disperato, ruba li denari e li vestiti e fugge per la strada gridando: al ladro!

Atto Secondo

Lelio, di strada, cerca di Zanni per sapere se ha avuto la dote per aver fatta la burla ; in questo

Flaminia, di casa, intende come vogliono guastare le nozze dandole il cenno nell' orecchie. Flaminia è contenta, entra in casa; Lelio per trovar Zanni parte per la strada.

Coviello, di strada, aver pagato la dote a Panta- lone, voler fare le nozze ; in questo

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Pantalone, di casa, volere andare al Banco e pi- gliar la dote, fa lazzi a Coviello che voglia fargli pa- gar la dote. Coviello dice avergliela data, Pantalone dice non esser vero, nega, vengono a parole ; Pan- talone dice voler andare alla giustizia, e parte. Co- viello resta in collera lamentandosi di Pantalone che gli nega la dote che ha pagato poco fa; in questo

Zanni, di strada, in abito da Pantalone, facendo lazzi dice andar cercando Lelio. Coviello gli dice della dote. Zanni conferma d'averla avuta; Coviello si lamenta perchè lui glielo abbia negato poca fa; Zanni dice burlava e parte per la strada. Coviello di non piacergli queste burle, in questo

Pantalone, di strada, esser stato alla giustizia e vo- ler far castigare Coviello. Fanno lazzi, Coviello d'a- ver avuto la dote. Pantalone dice non esser vero, ven- gono a parole, poi a pugni. Partono Coviello in casa, Pantalone per la strada.

Atto Terzo

Lelio con Zanni, di strada, intende aver fatto la burla con l'avere avuto la dote : fanno allegrezze ; Zanni dice voler fingere Pantalone e dire a Coviello di non voler più Flaminia, ma di darla per moglie a Lelio. S'accordano lodando l'invenzione. Fanno lazzi del Pantalone e dell' esser Lelio figlio di questo ; Zanni dice: figlio d'un castronaccio, ti darò la mia maledizione, non ti voglio esser padre ; infine, Lelio

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s' accorda di tutto quello che deve farsi, fa a Zanni riverenza dicendo : signor padre, gli faccio aver Fla- minia per moglie; infine vanno via.

Coviello, di casa, in collera per la dote che gli ha negato Pantalone. Zanni, fingendo Pantalone, dice a- ver burlato, e confessa averla avuta, ma non voler più Flaminia per moglie per esser vecchio, ma vo- lerla dare a Lelio suo figliuolo, facendo lazzi a Le- lio^, dicendo : fio d*un castronaccio, sei contento ? Alla fine, tutti contenti ; in questo

Flaminia, di casa, intende esser maritata a Lelio ; lei contenta, si toccano la mano facendo lazzi ; tutti in casa ; Zanni resta ridendosi della burla, dice vo- ler restituire li abiti al rigattiere ; parte per la strada.

Pantalone, di strada, in collera contro Coviello, dice volersi vendicare e castigarlo per via di giustizia ; in questo

Coviello, di casa, invita Pantalone andare alle nozze; Pantalone dice non voler fare le nozze se prima non ha la dote ; Coviello si meraviglia facendo lazzi dal- l' aver confessato d'averla avuta, vengono di nuovo a parole facendo rumore ; in questo

Lelio e Flaminia, di casa, corrono al rumore, si scopre Lelio esser marito di Flaminia e Pantalone aver fatto il parentado. Pantalone si meraviglia, di- cendo non esser vero ; tutti confermano esser vero; alla fine Lelio scopre ch'essendo innamorato di Fla-

* Deve intendersi presente in iscena, sebbene non risulti dallo Sce- nario.

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minia, Zanni ha finto esser Pantalone ed ha avuto la dote, e poi ha finto non voler moglie ed averla data a lui. Pantalone avendo udito va in collera contro Zanni, questi entra e dice che vuole andcire a man- giare alle nozze. Pantalone perdona facendo allegrezza. Tutti entrano in casa.

FINE DELLA COMMEDIA

LA COMMEDIA IN COMMEDIA

COMMEDIA

PERSONAGGI

Pantalone Lidia, figlia Zanni, servo

COVIELLO ArDELIA, figlia

Tofano, medico Lelio, poi

Curzio, figlio di Coviello Graziano, recitante Capitano, recitante, poi

Orazio, figlio di Pantalone ROBBE

Una scena - Sedie - Armi assai.

La scena si finge a Sermoneta

Atto Primo

Pantalone e Zanni ; Pantalone dice voler maritare Lidia sua figliuola ; Coviello averla domandata e vo- ylierla dare; batte

Coviello, di casa, intende come Pantalone è con- ento di volergli dare Lidia per moglie ; fanno lazzi ; estano d' accordo sulla dote ; Coviello chiama , in questo

Lidia, di casa, intende esser maritata a Coviello, lei ricusa, fanno lazzi, alla fine, a furia di minacce, Jdia cede e tocca la mano di Coviello. Lidia, mal- ontenta, rientra in casa. Coviello dice andare all'of- cio pei capitoli ed ivi aspettar Pantalone. Parte, Pan- alone dice a Zanni vada ad avvisare i commedianti li parenti per far recitare una commedia per alle- rezza. Zanni parte ; parte pure Pantalone.

Lelio, di strada, dice esser partito dallo studio di *adova, dove fu mandato dal padre, per riveder Li- ia che ama ; batte, in questo

Lidia, di casa, riconosce Lelio, quale va incognito 3n barba posticcia, avendo mutato nome ed essersi

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partito dallo studio di Padova. Lidia si dispera perchè Pantalone suo padre V abbia maritata a Coviello. Lelio dolendosi dice stia di buon' animo, e vuol cercare di guastar tutto; parte. Lidia rientra in casa.

Pantalone, di strada, dice aver fatto li capitoli e Coviello vuol far presto le nozze; in questo

Zanni e Graziano, di strada; Zanni dice a Pan- talone d' avere avvisato li parenti ed aver menato il capo dei commedianti, Graziano. Pantalone gli do- manda qual' è la sua parte ; Graziano dice fare l' in- namorato. Pantalone se ne ride dicendo : Guarda mo- staccio da far d' innamorato ; alla fine fanno il patto della commedia di dieci scudi ; li la caparra. Gra- ziano dice che va a chiamare i compagni ; parte. Pan- talone fa metter fuori V occorrente e le sedie ; dice voler aspettare V ora. Tutti in casa.

Coviello, di strada, allegro per le nozze e le feste; dice che vuol far godere delle nozze Ardelia sua fi- gliola; batte, in questo

Ardelia, di casa, intende come suo padre Coviello vuol prender moglie senza dar marito a lei e vuole che assista alle nozze e alla commedia; batte, m questo

Pantalone, Lidia, Zanni , di casa. Pantalone ab- braccia Coviello suo genero facendo allegrezze ; Lidia di mala voglia lo riceve ; poi siedono avendo inteso da Zanni che li commedianti sono in ondine. In questo

Tofano, di strada, essendo venuto alla commedia lo ricevono, e siede ; in questo

Lelio, di strada, si mette da parte insieme ad altri

n

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3er sentire la commedia. Si danno ordini per comin- :iare la commedia. In questo

Prologo, essendosi prima suonato musica, annunzia iilenzio perchè si ha da fare una commedia all' im- provviso; entra in questo

Capitano, discorre dell'amore che porta ad Isabella ìglia di Graziano, dice volerla dimandare al padre 3er moglie, batte.

Graziano, di casa, avendo inteso il tutto dal Ca- pitano, si mette d* accordo con questo per le nozze. [n questo, casca in terra a Lidia un guanto, Lelio su- DÌto corre a raccoglierlo e baciandolo lo rende a Li- dia. Coviello si leva in piede dicendo a quello che lui ci abbia da fare; si fa rumore; tutti in bisbiglio, uggono chi per la strada, chi per le case.

Atto Secondo

Pantalone e Zanni di casa ; Pantalone fa levar via e sedie e li apparati dispiacendosi dello sconveniente liuccesso, che ha messo una gran paura alla figlia e nanda Zanni a chiamare il medico, in questo

Coviello, di casa, armato, dice volersi risentire con- fo Lelio, perchè non doveva far quello che ha fatto; olerlo ammazzare. Pantalone lo riprende e dice che lon faccia il gradasso ; Coviello dice che Pantalone D ingiuria ; V altro lo consiglia a star tranquillo. Rien- rano in casa, anche perchè Pantalone ha mandato a hiamara il medico per Lidia; Zanni resta.

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Lelio, di strada, intende il tutto e promette mancia a Zanni se lo aiuta. In questo

Lidia , di casa, parlano del loro amoreggiamento, dandosi la fede; pigliano appuntamento di fuggirsene insieme alle due ore di notte. Lidia rientra in casa, Lelio va via.

Capitano, di strada, parla italiano, quando recitava la commedia parlava spagnuolo, e dice che quando lui recitò la commedia alla presenza di Pantalone, vide una giovane ed essersene innamorato; in questo

Ardelia, dalla finestra, vede il Capitano, si salutano insieme ; lei è pregata di venire in basso, lei viene, intende V amore del Capitano, lei lo accetta, dice che il padre la vuol maritare, ma lei vuole scegliersi da se il marito; dice volerlo rivedere, ma in casa d'una sua vicina ; si danno la posta per le due ore di notte. Capitano, allegro, parte ; lei rientra in casa.

Tofano, di strada, dice esser medico mandato da Pantalone a visitar Lidia sua figliola sposa tiovandosi inferma; batte, in questo

Zanni, dalla finestra, crede che si tratti del medico per veder la sposa, lo fa salire in casa.

Pantalone e Coviello, di strada, dicono aver man- dato il medico per veder la sposa, dicono voler sa- pere come stia ; battono, in questo

Tofano, di casa, dice che l'ammalata è gucirita ed esser niente, e sta bene , tutti si rallegrano ; Coviello dice volersi levar l' arma d'addosso, entra in casa; gli altri restano, in questo

Graziano, di strada, vede Pantalone, gli domanda

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facendolo tirar da parte i danari della commedia. Pan- talone dice che non V ha finito di recitare ; Graziano dice che farà pagare Coviello; Pantalone, che non vuol far questione, dice che li danari li pagherà suo fra- tello e mostra Tofano, che ha dei denari addosso ; Graziano si mostra contento; Pantalone dice a Tofano che Graziano ha bisogno dell'opera sua; Tofano ri- sponde che è pronto ; Pantalone va via. Tofano dice 1 Graziano che si accosti ; Graziano crede che lo pa- ?hi ; r avvicina ; Tofano risponde che è pronto; Pan- alone va via. Tofano gli prende il polso, l'altro si icusa, in fine si fa toccare il polso. Tofano gli ordina in serviziale ; Graziano gli chiede otto scudi che Pan- alone è rimasto a dare; Tofano dice che lui ha la lebbre, che lo fa farneticare ; ritiene che la febbre sia Hi quelle maligne; bisogna cavargli sangue facendo ,azzi; alla fine vengono alle mani, si danno pugni e j)artono.

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Atto Terzo

Capitano , di strada, finge notte , dice non saper uale sia la casa d'Ardelia, dice esser ora di ritro- arsi secondo si sono data la posta; in questo

Lidia, di casa, fingendo notte oscura la scena cre- ando il Capitano sia Lelio, e il Capitano credendo he Lidia sia Ardelia ; si abbracciano e partono per i strada.

Lelio, di strada, fingendo notte, dice voler vedere la Lidia, e tenerla in casa d'una sua amica ; in questo

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Ardelia, di casa, fa il cenno; si credono V una il Capitano, l'altro Lidia, senza parlare s'abbracciano e partono per la strada.

Capitano e Lidia, di strada, essendosi scoperti non essere amanti. Lidia lo prega a salvcir l'onor suo per amar Lelio, che in grazia la meni in casa d'una sua amica per rispetto di suo padre, e dove spera trovar Lelio. Capitano si lamenta e poi alla fine pregato si contenta, e partono.

Lelio ed Ardelia , di stiada , essendosi anch' essi scoperti e non essere amanti, Ardelia si raccomanda pensandosi fosse Capitano; Lelio dolendosi di Lidia accompagna Ardelia a casa; in questo

Capitano, di strada, lamentandosi della mala sorte non aver veduto Ardelia ; la vede, intende il brutto successo, alla fine scoprono lui e Lelio l'uno avere l'in- namorata dell' altro, e niuno avere pregiudicato l' a- mico neir onore ; dicono volerle andare a godere, par- tono.

Coviello, di casa, fingendo la mattina a buon'or? dicendo di non aver mai dormito tutta la notte pen sando a Lidia che vuole sempre pigliar per moglie dubitandosi qualche male ; in questo

Pantalone, dalla finestra, fingendo levarsi allora di letto, intende da Coviello voler la moglie , che ver rebbe menéu* via senza far nozze, ne feste. Pantalon» vien fuori e dice che Lidia sta molto bene e ch« tutta notte l'ha intesa andare e venire per casa; ali fine, pregato, chiama ; in questo

Zanni, di casa; intende Pantalone che chiama Lidi

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5 che è venuto Io sposo ; Zanni esce fuori più volte accodo lazzi, guardando verso la strada, e rientra in :asa; infine, dice che Lidia non è in casa. Coviello g Pantalone si disperano, entrano in casa, escono fuori, dubitano che Lidia sia stata rubata ; dicono volersi irmare e cercarla. Pantalone e Coviello rientrano nelle loro case.

Lelio e Capitano dicono aver lasciato le amorose donne vicino e volerle dimandare alli loro genitori per mogli, e se essi non vogliono darle a loro, le me- neranno pel mondo, ma si ritirano vedendo venire in questo

Coviello, di casa, e Pantalone e Zanni , di casa, jgualmente armati. Coviello dice che Ardelia ancora jei è fuggita di casa ; lui e Pantalone vogliono am- Inazzare chi ha tenuto mano alla fuga. Capitano, s'ac- |:osta a Coviello pregandolo dargli Ardelia per moglie ; oviello dice di non volerla dare a un commediante. Capitano si sdegna ; lui e un galantuomo; tutto il resto |0 dirà Graziano, il quale dirà d' averlo levato da pic- :olo a Francesca sua balia, e suo padre si chimava Pantalone de' Bisognosi. Pantalone ode questo, rico- losce nel Capitano Orazio suo figliolo, il quale fu por- ato via alla balia da Graziano; fa allegrezze, lo ab- braccia. Coviello avendo inteso che il Capitano è fi- ;liolo di Pantalone, gli concede per moglie Ardelia. -elio s' inginocchia davanti Coviello sua padre, le- gandosi dal volto la barba posticcia per non esser co- osciuto dice stare incognito e venire dallo studio di *adova per amor di Lidia. Coviello lo perdona e

400

Pantalone gli concede in moglie la figlia. Tutti fanno allegrezza.

Graziano, di strada, domanda a Pantalone gli otto scndi della commedia fatta. Pantalone lo piglia e gli discopre il tutto d' averlo menato via da Francesca Orazio suo figliolo; Graziano gli domanda perdonanza per campare recitava commedie. Pantalone lo per- dona; in questo

Capitano, Lelio, Lidia ed Ardelia, di strada ; le donne domandano perdono alli loro padri; Lidia, sposa Lelio; Ardelia, sposa il Capitano ; fanno allegrezze e vanno a fare le nozze.

FINE DELLA COMMEDIA

1

B.

DAGLI SCENARII DELLA RACCOLTA SER- BALE DI CASAMARCIANO J' J- J' J'

a) L'Amante Gelosa.

h) Le Disgrazie di Pulcinella.

e) Nerone Imperatore, tragicomedia.

La raccolta posseduta dalla Biblioteca Nazionale di Napoli, ^ alla quale fu donata da Benedetto Croce, è in due volumi (manoscritti). Il primo volume porta il seguente titolo : Sibaldone de Soggetti da recitarsi air Impronto A Izuni propri e gli altri da diversi rac- colti— Di T). ylnnihale Sersale conte di Casamarciano. Il secondo : Sibaldone comico di %Jarj Soggetti di com- medie ed opere bellissime copiate da me Jìntonino Pas' sante detto Oratio il Calabrese per comando dell* ecc.mo sig. conte di Casamarciano. 1 700.

* Segnatura: Mss. XI, AA. 41.

\e/ Regno delle v^aschere 26

L'AMANTE GELOSA

COMMEDIA

PERSONAGGI

GlANGURGOLO, padre di

Luzio

COVIELLO, servo PaSCARIELLO, padre di

Vittoria Fiammetta, serva Angela Flaminio Pulcinella, servo Brunetta, serva

ROBBE

Un sacco - Vestito da mago - Bastone

Città: Napoli

ATTO PRIMO Scena I.

Giangurgolo e Pascariello

Fanno parentela, cioè Pascariello Vittoria sua figlia a Luzio figlio di Giangurgolo; PasccU*iello via; Giangurgolo batte

Scena 11.

Coviello e Giangurgolo

Inteso da Giangurgolo il parentado , fanno lazzi ; Coviello però da prima accennerà che Luzio è amante d' Angela ; Giangurgolo via; Coviello resta ; in questo

Scena III.

Luzio e Coviello L'amore di Angela ; vede Coviello, il quale dopo

406

lazzi gli dice come il padre l'ha accasato con Vittoria; Luzio si lamenta volendo Angela e la fa chiamare.

Scena IV.

Brunetta e Detti.

Fa lazzi con Coviello e dopo scena la fannno chia- mare.

Scena V.

Angela e Detti.

Coviello, il lazzo dell'acqua calda e della fredda, poi Luzio si fa avanti, fanno scena amorosa, si danno la fede ; donne in casa, loro via.

Scena VI.

Flaminio e Pulcinella.

L*uno r amore di Vittoria, l'altro l'amore di Fiam- metta e mentre stanno per chiamarle

Scena VII.

Pascarielloy %)ittoria, Fiammetta e Detti.

Esce Pascariello contrastando con la figlia perchè vuole che si accasi con Luzio; Flaminio e Pulcinella

407 -

dopo lazzi nascosti si fanno avanti facendo loro par- iate ; Pascciriello entra più in sospetto, sgrida sua fi- glia e parte per ritrovare Giangurgolo e concludere il matrimonio; donne restano facendo scena amorosa r una con Flaminio, Taltra con Pulcinella ; Vittoria poi dirà del matrimonio che vuol fare il padre con Luzio e crede che Luzio lo procuri; Flaminio si a- dira contro Luzio, promette disturbare ; donne entrano in casa; loro restano ; in questo

Scena Vili.

Luzio, Coviello, Flaminio e Pulcinella,

Saluta Flaminio, il quale fa l'alterato, fanno diversi lazzi, alla fine si chiariscono, 1' una ama Angela l'al- tro Vittoria, inteso che poi la darà a Flaminio e lui sarà sposo di nome e questo di fatto ; sono d'accordo, Flaminio e Pulcinella vanno via , Luzio e Coviello restano ; in questo

Scena IX.

Pascariello, Giangurgolo, Coviello e Luzio.

Vedono Luzio, gli dicono il parentado fatto, lui finge contentarsi ; loro battono.

408

Scena X.

Vittoria, Fiammetta e Detti.

Pascariello dice che tocchi la mano a Luzio, essa ricusa, loro gliela fanno toccare per forza; in questo

Scena XI.

Jlngela, brunetta e Detti.

Vedono il tutto di nascosto, ed Angela si altera; tutti via, Angela e Brunetta restano ; poi Angela fa entrare la serva, ed essa resta lamentandosi ; in questo

Scena XII.

Coviello ed Angela.

Coviello esce dicendo che vuole avvisare Angela deir invenzione presa ; Angela in vederlo senza dargli tempo di parlare gli una grande bastonata ed entra, Coviello resta meravigliato ; in questo

Scena XIII.

Fiammetta e Coviello. Fa scena amorosa con Coviello; in questo

- 409

Scena XIV.

Pulcinella e Detti.

Pulcinella fa suoi lazzi di dietro, poi si fa avanti e contrasta con Coviello per Fiammetta ; ia questo

Scena XV.

Brunetta e Detti.

Piglia gelosia, attaccano rumore uomini e donne e finisce Tatto.

ATTO SECONDO Scena I.

Giangurgolo, Luzio e Coviello.

Giangurgolo dice a suo figlio che entri da sua mo- glie, perchè lui vuole andare a convitcìre i peu^enti, e via ; Coviello dice a Luzio che Angela 1* ha basta- nato ; Luzio batte da

Scena II.

Angela, Luzio e Coviello.

Angela rimprovera Luzio in vederlo dicendogli che non l'ama più, gli serra la parta in faccia ed entra; Luzio, sua disperazione; in questo

410

Scena III.

Qiangurgoloy Coviello e Luzio.

Giangurgolo dice che ha invitato i parenti ; Luzio delira, in questo

Scena IV.

Angela e Detti

Angela, dalla finestra, si rimproverano con Luzio ; Giangurgolo fa suoi lazzi ; infine Angela entra ; Gian- gurgolo dice a Luzio che entri da sua moglie; Luzio fa spropositi e parte ; Coviello fa la signa ( l ) di Lu- zio e parte ; Giangurgolo appresso.

Scena V.

Flaminio e Pulcinella,

Desiderosi di sapere 1* invenzione di Coviello, in questo

Scena VI.

angela, brunetta e Detti.

Angela domanda a Flaminio chi sia il suo più caro amico ; questi dice essere Luzio ; essa dice che Luzio

(I) Scimmia.

411

è traditore atteso che cerca accasarsi con Vittoria sua innamorata; Flaminio la sincera dicendo che Luzio ama lei, e che questa era invenzione fatta da Coviello per amor suo, contandole il tutto ; Angela per alle- grezza l'abbraccia ; in questo

Scena VII.

'Vittoria, Fiammetta e Detti,

Vedono il tutto di nascosto. Vittoria s' adira, tutti via; restano Fiammetta e Vittoria quale poi manda la serva : ed essa resta facendo suo lamento; in questo

Scena Vili.

T^ulcinella e Angela.

In veder Pulcinella lo bastona ed entra, lui resta, in questo

Scena IX.

Flaminio e Pulcinella.

Pulcinella dice che Vittoria Tha bastonato, e via ; Flaminio batte

Scena X.

Vittoria e Flaminio.

In veder Flaminio gli uno schiaffo ed entra; lui si lamenta; e via.

- 412

Scena XI.

Luzìo e Coviello. Malinconici pel disamore d'Angela; in questo

Scena XII.

Angela e Detti.

In veder Luzio gli domanda perdono, perchè cre- deva che lui l'avesse tradita; Luzio l'abbraccia, si danno di nuovo la fede, Angela in casa, Luzio via con Coviello.

Scena XIII.

Pulcinella solo. Sopra il passato, in questo

Scena XIV.

Brunetta e Detto. Fa scena amorosa con Pulcinella ; in questo

Scena XV.

Coviello e Detti.

Coviello fa suoi lazzi da dietro, poi si fa avanti e contrasta con Pulcinella per Brunetta , in questo

413

Scena XVI.

Fiammetta e Detti.

Piglia gelosia di Pulcinella, attaccano rumore uo- mini e donne e finiscono Tatto secondo.

ATTO TERZO Scena I.

Flaminio e Pulcinella, Per sincerarsi e pacificarsi con Vittoria, battono

Scena II.

Vittoria e Detti.

Si sincerano, si pacificano ; si danno la fede ed entra Vittoria ; Flaminio via ; Pulcinella resta in questo

Scena III.

Cornelio e Detto.

Coviello e Pulcinella, dopo lazzi, si pacificano ; dopo Coviello gli dice che se vuole aiutare il suo padrone si vesta da negromante e dica che Luzio è spiritato, che per levar gli spiriti vuol portare un sacco

414

di demonj sotto il letto della sposa, e con questa scusa faranno entrare Flaminio nel sacco ; Pulcinella entra a vestirsi, Coviello resta ; in questo

Scena IV.

Qiangurgolo, Pascariello e Coviello.

Ascoltano da Coviello che Luzio è spiritato e che ha trovato un mago che vuol sanarlo ; loro dicono che lo chiami, e Coviello chiama

Scena V.

Pulcinella e Detti.

Pulcinella da mago fa suoi lazzi, poi dice che per sanare Luzio porterà un sacco di demonj sotto il letto della sposa; loro si contentano e vanno a battere da

Scena VI.

littoria, Fiammetta e Detti.

Li Vecchi le danno ordine che quando verrà Co- viello con un sacco che lo piglino e lo pongano sotto il letto, perchè è mercanzia ; Coviello di nascosto av- visa Vittoria che questa è sua invenzione per farle avere Flaminio ; essa risponde ai Vecchi che si con- tenta. Donne in casa. Vecchi via; restano Pulcinella e Coviello; questi manda Pulcinella a pigliare un sacco; Pulcinella via, Coviello resta ; in questo

415

Scena VII.

Flaminio e Cornelio. Coviello gli conta il tutto, lui si contenta, in questo

Scena Vili.

Pulcinella e Detti.

Pulcinella porta il sacco , vi pongono dentro Fla- minio, e battono

Scena IX.

Vittoria, Fiammetta e Detti.

Ricevono il sacco e via tutti, resta Coviello ; in questo

Scena X.

Lazio e Coviello.

Ascolta il tutto di Flaminio, si rallegra , Coviello batte da

Scena XI.

Angela, Brunetta e Detti.

Si sposa Angela con Luzio e Brunetta con Coviello; m questo

416

Scena XII.

Pulcinella e Detti.

Domanda Fiammetta per moglie, Coviello dice che già sta per lui, ed entrano tutti in casa di Vittoria.

Scena XIII.

Giangurgolo e l^ascariello.

Per vedere se il mago ha sanato Luzio ; battono alla casa di Vittoria.

Scena ultima.

Tutti ; si possono fare diversi lazzi per finire 1' o- pera ridicola, cioè, o con il lazzo uscendo uno ad uno del La la la, o con quello d* allegrezza , allegrezza, oppure della fenestra ; tutto questo è arbitrario ; poi Coviello cerca perdono, si concludono i matrimoni e finiscono V opera.

fine della commedia

LE DISGRAZIE DI PULCINELLA ^

COMMEDIA

PERSONAGGI

Dottore, padre Isabella, lìalia

COVIELLO, servo

Luzio

Tartaglia, padre

Cinzia, figlia

Rosetta, serva

Orazio

Pulcinella, napoletano

Facchino

Servì

Ponno anche intervenire sei figlietti vestiti alla Pulcinella.

Città : Bologna

* 11 presente scenario fu riprodotto per sommi capi dal Caprin nel suo libro sul Goldoni.

tKd "Regno delle ^JiCaschtre 27

ATTO PRIMO

Isabella, da casa, viene lamentandosi con Coviello suo servo del poco affetto d'Orazio e della fede do- natagli prima che andasse allo studio, e dopo un così lungo tempo dopo la sua partenza, non aver potuto avere lettera ; lui la consola dicendole che non dubiti della fede di quello ; lei domandi al procaccia per lettere ed entra ; Coviello va via.

Orazio, ritorno alla patria e l'amore d' Isabella , e volerla domandare per isposa al padre ; in questo Dot- tore, vede quello, si rallegra di sua venuta ; dopo sce- na Orazio gli chiede la figlia per isposa ; lui dice averla casata con un mercante di pietre pomici di Na- poli ed avere avuto la lettera che in breve sarà per isposare la figlia in Bologna , mostrandogli la lettera di quello e lasciandosela cadere, parte ; lui doloroso resta e voler rimproverare la sua donna ; batte.

Isabella, vedendo Orazio con allegrezza corre per abbracciarlo; lui discostandosi da quella la rimprove- ra ; lei per non poter parlare, s'affligge ; in questo

Coviello vede Orazio, corre con allegrezza ; lui tira

420

la spada per uccidersi ; Coviello chiede la causa del suo cordoglio ; lui dice il tutto del matrimonio d'Isa- bella; loro dicono non saperne niente : vedono un fo- glio in terra ; Orazio conosce esser la lettera dello sposo caduta al Dottore ; la pigliano, la leggono e ri- dono delli spropositi; Coviello dice loro che lui di- sturberà il tutto ; concerta Orazio da Pulcinella , gli il modo di quello ; donna entra, Orazio e Coviello vanno.

Pulcinella e Facchino. Pulcinella viene raccontan- do all'altro molte cose. 11 Facchino con molte valigie in collo posa le robbe e chiede esser pagato, lui gli dice esser sposo e fa il mercante di pietre pomici ; quello non volerne saper niente e voler essere pagato; quello che quando piglia la dote lo pagherà ; sono in contrasti ; in questo

Coviello, acquieta il rumore, sente esser quello Pul- cinella lo sposo, manda via il facchino, e lui resta con Pulcinella, quale gli chiede del Dottore ; Coviello con lazzi lo manda in villa : Pulcinella prendesi le valigie in collo, via ; Coviello resta, ed accenna all'amore di Rosetta ; in questo

Luzio, sopra l'amore di Cinzia, chiede aiuto a Co-^ viello, quale gli dice anche lui essere amante della serva : batte da

Rosetta, fa scena amorosa con Coviello , e dopa scena chiama

Cinzia, fa scena d'amore con Luzio; Coviello dice che se loro vogliono essere aiutati occorre che s'ado- perino ancora con lui ad una sua invenzione ; quelli

421 -

promettono ; Coviello parla all'orecchio di Cinzia , e poi le dice che vestendosi come le dice sia lesta alla sua chiamata ; poi parla all' orecchio di Luzio e poi concerta Rosetta da Dottore e che stiano pronte al suo cenno ; in questo

Tartaglia, da strada, vede le donne con quelli, adi- rato le sgrida : Luzio fa il lazzo del passeggio sino alla porta con la riverenza alla muta, e via; Coviello il simile con Rosetta, e via ; gli altri restano.

Tartaglia e Donne. Tartaglia dice alla figlia : che cosa quelli volevano ? Lei dice : signor padre, quelli volevano di me... S'imbroglia e col lazzo che lo dica lei, più volte fatta la scena. Tartaglia le fa rientrare; in questo

Orazio, accappottato, fa passata da bravo, e via ; Tartaglia, sua paura, e resta : in questo

Coviello r istesso e parte; Tartaglia disperato e pau- roso resta ; in questo

Dottore ; Tartaglia fa il lazzo del passeggio por- tandolo per mano e la passata dell'accappottato; Dot- tore se ne ride e lo stima per matto; lui gli racconta ii tutto ; Dottore lo consiglia di casare la figlia ; lui approva il suo parere, infine via ; Dottore ridendo re- sta; in questo

Coviello, di fretta, dice essere venuto in piazza un forestiero e domandava di lui ; Dottore dubita non sia lo sposo di sua figlia; in questo

Orazio, da Pulcinella, con lazzi sciocchi dice d'an- dar cercando Dottore e lui esser lo sposo di sua fi-

422

glia chiamato Pulcinella ; Dottore 1' abbraccia e con allegrezza chiama

Isabella, intende esser Io sposo, lo guarda; Coviello di dietro fa lazzi : le accenna esser Orazio; lei in- teso si contenta , ed abbracciati entrano in casa , il Dottore li segue ; Coviello resta , ed allegro per la riuscita nell' invenzione, via.

Pulcinella, dice aver camminato dieci miglia con le valigie in collo, ed essere stato burlato ; dice essergli stata insegnata casa Dottore e voler chiamare . in questo, di dentro, lazzi d'allegrezza dicendo : Sia il ben venuto il signor Pulcinella : lui intende, si ralle- gra credendo l'abbiano veduto venire, e tacendo al- legrezza e con sollecitudine batte.

Dottore, di dentro, dice accomodare la tavola per far desinare il signor Pulcinella ; lui si rallegra ; in questo Dottore vien fuori e dice a quello, stimandolo povero, che torni dopo pranzo, ed entra ; lui, attonito resta, e di nuovo batte.

Dottore, il lazzo : è fatta la carità ; ed entra ; lui s'adira e di nuovo batte.

Dottore, lo minaccia perchè disturba la cena ; lui dice esser Pulcinella ; Dottore ridere dice esser matto, perchè Pulcinella è in casa ; Pulcinella dice esser lui ch'era venuto per la sposa ; Dottore lo chiama furbo; sono a contrasti, e Dottore adirato chiama.

Orazio, da casa, da Pulcinella, fa lazzi, spropositi; s'attaccano a pugni, pongono il Dottore in mezzo e con lazzi e rumori finiscono l'atto primo.

423

ATTO SECONDO

Cinzia, da casa, chiedendo a Tartaglia, suo padre, marito ; lui s'adira dicendo che attenda a star mode- sta , che lui avendo buona occasione , la caserà : la manda in casa, e lui adirato contro di quella, via.

Pulcinella, doloroso del passato pel Pulcinella falso; in questo

Coviello finge di non conoscerlo : Pulcinella Io sa- luta ; egli dice che dal giorno in cui lo mandò in villa non ha potuto più vedere il Dottore; gli racconta es- sere stato burlato per essergli stata insegnata la casa di un altro Dottore con un Pulcinella falsario ; Co- viello finge di non saper chi sia, ne che dica, e non averlo mai veduto, e che quelli che hanno insegnato la casa vedendo esser lui forestiero , hanno voluto prendersi gusto con burlarlo , che il dottore suo pa- drone non stava in quel loco , e gli mostra la casa, dicendo essergli lui servo, e chiamarsi Meìi, e batte da

Rosetta, da Dottore, dopo lazzi, chiama

Cinzia, con stampelle da stroppiata, con empiastri, tutta fasciata, fa lazzi con lo sposo ; lui non volerla , donna fingendo adirarsi entrano. Pulcinella con Co- viello resta , e Coviello finge compatirlo, e che lui aveva fatto molto male a venire a prendersi una sposa che non sapeva senza prima informarsi del vero ; lo consiglia che se ne torni ; lui di ; Coviello via; Pul- cinella resta dicendo male del Dottore ; in questo

Tartaglia, vede Pulcinella , lo conosce , essendogli

424

stato amico, gli fa cerimonie, chiede che cosa era ve- nuto a fare a Bologna ; lui gli dice il tutto dei ma- trimonio e della sposa stroppiata e del Pulcinella fal- sario ; Tartaglia dice che l'avevano burlato e che il Dottore era un uomo di molto garbo e la figlia una compita dama, la più bella della città ; s'offre far fede di lui ch'era il vero Pulcinella, e lo vuol portar seco per parlargli ; Pulcinella ringraziandolo lo prega aiu- tarlo ; in questo

Dottore, sopra il successo dei due Pulcinella, vede quello, si adira, lo chiama furbo ; Tartaglia fa fede esser lui stato ingannato, che quello era il vero Pul- cinella , mercante di pietre pomici , napoletano , suo amico, e parte : Dottore gli chiede perdono di non averlo conosciuto e con allegrezza chiama

Isabella, le dice essere stati ingannati, che questo era il vero Pulcinella ; in questo

Coviello osserva e si dispera ; Dottore fa loro toc- care la mano ; Coviello porge loro cose ridicole, ed entra; loro rimangono facendo cerimonie e dicendo che nella città vi sono molti belli umori che vogliono pigliarsi gusto ; in questo

Orazio, da medico, dice a Pulcinella d'aver fatto l'unguento del mal francese : lui si adira e bastona quello, il quale fugge ; loro restano ; in questo

Coviello da mammana, dice ad Isabella quando sarà il tempo del parto che la mandi a chiamare sol- citamente ; Pulcinella s'adira, lo ributta ; lui parte, e loro restano ; in questo fanno entrare Isabella in casa e loro vanno via.

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Coviello viene dicendo ad Orazio che non dubiti e lasci fare a lui per imbrogliar tutti, gli parla all'o- recchio e lo manda via ; e lui accenna prepararsi per altre furberie e chiama

Rosetta, gli dice se ha sortito bene 1* invenzione; Coviello accenna di fare il meglio, la concerta a porsi un manto che quando sarà tempo che giunga esser la moglie di Pulcinella ch'era venuta a posta da Napoli per ritrovarlo e averla lasciata con sei figli e mezzo (incinta) ; lei dice di sì, e lui la manda a vestirsi e che sia lesta , e che quando lui darà il segno che venga ; lei entra, lui resta, poi parte per la strada.

Dottore e Pulcinella allegri per aver fatti li scritti ed ora non esserci più impedimento, e chiamano

Isabella, loro dicono che abbracci lo sposo, quella ricusa, in questo

Coviello osserva e chiama con cenni

Rosetta, con manto ; Coviello, via ; lei rimprovera Pulcinella d' ingrato per averla lasciata con sei figli e mezzo in Napoli (1) e piena di debiti e volere an- dare alla giustizia, e parte ; Dottore s' adira con Pul- cinella per averlo ingannato ed esser sposo d'un'altra moglie, e voler andare a farlo castigare dalla giusti- zia ; fa entrare la figlia e lui adirato parte ; Pulci- nella disperato resta ; in questo

Coviello, fìnge parlar dentro, che trattengano la fo-

( 1 ) Nota nel manoscritto : " Qui ponno uscire sei figlioli vestiti da Pulcinella dicendo esser figli di Pulcinella, chiamandolo: Papà, papà, e gridando : Pane, pane ".

426

Testiera e il Dottore, quali volevano con la Corte car- cerare Pulcinella ; Pulcinella lo vede, lo chiama signor Meìi ; Coviello nega constar chi sia, e chiamarsi: Te r ho detto, ed esser lavandaio di panni sporchi , e chiede chi sia lui. Pulcinella glie lo dice ; poi Co- viello gli dice che si salvi perchè una donna napo- letana, che dice essergli moglie, e il Dottore, l'hanno querelato alla giustizia e che vanno per la città coi birri per querelarlo , ed andrà in galera: Pulcinella comprende e lo prega di aiutarlo. Coviello finge di non saperne il modo, infine gli dice volerlo servire e volerlo cacciare fuori la città dentro un sacco di panni sporchi, che se per fortuna s' incontrano con la Corte e chiesto che robba era nel sacco, lui dirà esser panni sporchi e che poi essendo fuori le porte della città anderà via ; lui si contenta e lo ringrazia ; Coviello entra, e poi fuori.

Coviello, con sacco, pone Pulcinella dentro e lo lega ; in questo

Orazio e Luzio ; Coviello dice il tutto di Pulci- nella nel sacco e li concerta fingere la Corte ; loro voler prima le donne ; in questo lui chiama

Isabella, la consegna ad Orazio e li manda via ; Luzio resta con Coviello quale chiama

Cinzia, e gliela consegna, e li mando via; lui resta aspettando i Servi di quelli per fingersi la Corte, se- condo come sono rimasti appuntati ; in questo

Servi, fingono la Corte, dicono che vi sia nel sacco; Coviello dice : panni sporchi ; Pulcinella di dentro, fa il lazzo di panni sporchi ; loro lo sciolgono; Pul-

il

427

cinella scappa fuori e con paura fugge ; loro basto- nando l' inseguono e finiscono l'atto secondo.

ATTO TERZO

Pulcinella, sopra le sue disgrazie ; in questo Co- viello ; Pulcinella vedendolo lo chiama: Te l'ho detto; Coviello dice di non conoscerlo, e che lui si chiama: Tu lo sai, tei dirò, e con te l'ho detto. Fanno lazzi sopra del nome ; Pulcinella gli narra le sue disgrazie; Coviello che il Dottore era un mago stregone e che la figlia era bruttissima e lui per incanti la fa parer bella a tutti, ma aveva le gambe di legno, gli occhi di vetro, la testa di cocozza, li denti di cera e che sotto portava la bocca della montagna di Somma, lun- ga sei miglia e fonda in quantità e che stia in cer- vello, e che tutto quello che gli era successo erano macchine del Dottore; Pulcinella lo ringrazia, dopo Coviello va via, e lui rimane ; in questo

Dottore lo vede, lo rimprovera uomo di due mogli, e Pulcinella lo chiama stregone, sono a contrasti, in questo

Tartaglia li riprende che sempre facevano lite: Pul- cinella gli dice che il Dottore era uno stregone e tutte le sue disgrazie erano sue finzioni e che la figlia era bruttissima, con le gambe di legno, li occhi di vetro, la capa di cocozza e li denti di cera, come sotto ha la bocca del monte Somma larga sei miglia e fonda in quantità. 11 Dottore adirato vuole ucciderlo; Pul-

- 428

cinella fugge ; Taitaglia placa il Dottore e tutti e due risolvono di pigliarsi loro l'uno con V altro le loro fi- glie e chiamano ; in questo

Coviello, dice d'avere incontrato Pulcinella con cin- que o sei persone armate , che portavano via le loro figlie ; loro dicono volerlo inseguire , ma aver paura della gente d'armi e pregano Coviello, quale dice che se loro vogliono pagare un bravo , li accompagnerà ; loro promettono e Coviello chiama

Orazio, da bravo, tira la spada facendo bravure ; loro fuggono per la paura ; Coviello li trattiene, che non temano che quello fosse così furioso. Orazio pro- mette aiutarli ed esce con loro ; Coviello resta e dice volere imbrogliare tutti ; in questo

Pulcinella disperato, vede Coviello, lo chiama: Tu lo sai, tei dirò ; gli dice avere ingiuriato il Dottore, quale, vedendosi scoverto voleva ucciderlo, e lui era fuggito ; Coviello gli dice che stia sulla sua, perchè il Dottore con due bravi lo vanno cercando per uc- ciderlo : Pulcinella lo prega a salvarlo ; Coviello gli dice di volerlo difendere ed armarsi con un altro suo amico ed accompagnarlo. Pulcinella lo ringrazia e vanno ad armarsi.

Tartaglia, Dottore ed Orazio, armati alla ridicola, cercano Pulcinella; in questo

Luzio, Coviello e Pulcinella, armati, si vedono con quelli ; fanno lazzi di passeggi ; Orazio dice a Luzio: Mi conosci chi sono ? Luzio di no ; Orazio dice: Io sono Orlando : Orazio risponde : Io sono Rinaldo; ed abbracciati partono col lazzo : O signor parente. Gli

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altri restano ; Coviello dice a Tartaglia : Io sono Man- ricardo, e Tartaglia : Io sono Ferrali ; abbracciati fan- no il simile ; Pulcinella e il Dottore restano ; Pulci- nella dice : E tu chi sei ? Il Dottore dice : Io sono Angelica, e Pulcinella risponde: Io sono Marfisa biz- zarra : ed abbracciati partono facendo il simile.

Isabella e Cinzia, non hanno veduto più i loro a- morosi, temono di qualche inconveniente . in questo

Luzio, Orazio e Coviello, travestiti, ridono del pas- sato: in questo s'avvedono delle donne, si danno a cono- scere, le narrano le burle fatte a Pulcinella, e ridendo tutti via nel casino per prepararsi a nuovi imbrogli.

Pulcinella, armato alla ridicola, dice aver per^o i suoi compagni ; in questo

I Vecchi lo vedono solo, cacciano la mano per uc- ciderlo ; lui grida, in questo

Orazio da giudice, Luzio da scrivano, Coviello da caporale, gridano loro di fermarsi; li arrestano; li Vec- chi d'aver perso le figlie e averle Pulcinella rubate; quelli che le figlie sono in potere della Corte e di volere il loro consenso per poterle casare a gusto loro; i Vecchi di no ; loro che andranno carcerati; i Vec- chi per paura acconsentono ; loro chiamano

Isabella dice voler Orazio.

Cinzia, domandata, lei voler Luzio.

Rosetta, lei voler Coviello. I giovani si levano le barbe, scoprono il tutto, e con matrimoni finiscono la commedia.

FINE DELLA COMMEDIA

NERONE IMPERATORE

TRAGICOMMEDIA

PERSONAGGI

Nerone, imperatore

Ottavia, moglie Agrippina, madre Seneca, maestro

DO'iTORE / . ,. .

rr^ ( consiglieri

Tartaglia ^ ^

Ottone, cavaliere POPPEA, moglie TlRIDATE, re d'Armenia

Sergio Galea Giustizia Divina coviello / ...

r^ i cortigiani

Pulcinella i ^

Paggi

Soldati

ROBBE

Trono in iscena - Trombe e tamburi - Più lettere - Letto, stile, scato- lino di veleno - Tumolo - Bacile d'argento - Due corone, due scet- tri - Conca dove svenare Seneca - Catena per schiavo - Due tra- vestiti Pulcinella e Coviello - Sangue - Due sedie d'appoggio.

Città : ^oma

ATTO PRIMO Scena I. perone, Ottone, Seneca, Consiglieri, Corte

(Trono in camera)

Nerone sopra l' incendio di Roma ; ordina la sua rinnovazione nello spazio di sol trenta giorni e che fosse riedificata con più superbi palcizzi e sontuosi e- difizi ; tratta di deporre la madre dal trono e la sua incoronazione ; chiede consiglio a tutti, ognuno suo parere ; a chi approva promette premj, chi contradice li minaccia ; in questo

Scena II. Paggio con lettere su d*un bacile.

Lui legge che Portogallo chiede per mancanza del Governo il nuovo dominante ; lui assegnerà ad Ot- tone la carica e che parta prima del nuovo giorno ; e via tutti.

!Kel Regno delle ^^aschere. 28

434 -

Scena III.

(In Città)

Poppea, Tamor di Nerone, in questo.

Scena IV. "Dottore e 'tartaglia.

La riveriscono ; lei li chiede che si dice in Corte e se sarà regina ; loro di e danno notizia della par- tenza d*Ottone suo marito con la carica di governa- tore di Portogallo ; lei , ciò inteso , si rallegra della partenza di suo meu'ito per aver campo di maggior- mente godersi col suo amato Nerone, e con allegrezza entra ; tutti la seguono mormorando della sua sfaccia taggine.

Scena V. Ottavia.

(Camera)

Sopra la sua sventura e l'odio di Nerone suo sposo e la sfacciataggine di Poppea lasciva ; in questo

Scena VI. Pulcinella e detta.

Pulcinella dice come Ottone vuol riverire la Sua Maestà ; lei intende Ottone, dice : che vada a rive- rire la maestà di sua moglie, e senza accettare la vi- sita, via. Pulcinella rimane; in questo

- 435

Scena VII. Ottone e Pulcinella.

Ottone chiede a Pulcinella se fece Y imbasciata ; lui dice che la regina gli disse : che vada a riverire la maestà di sua moglie, e senz'altro dire s'era par- tita, e via Pulcinella. Lui intende la cifra e discorre che Nerone cerca obbligarlo con cariche e dividerlo dalla moglie ; giura vendetta ; in questo

Scena Vili. Nerone e detto.

Nerone vede non esser partito , lo minaccia di morte ; Ottone via, e lui rimane : in questo

Scena IX. Ottavia e Nerone.

Ottavia vede il marito, lo prega di non essere rigoroso verso di lei in disprezzarla ; annoiato della 5ua vista, le volge le spalle e lasciandola parte ; in questo

Scena X. JJgrippina ed Ottavia.

Agrippina vede turbata Ottavia, le chiede la causa; quella, che Nerone suo figlio, per l'amore della dru- da, la disprezza e la disdegna ; congiurano unitamente la morte di questa e partono.

- 436

Scena XI. Pulcinella e Coviello.

Avere inteso il tutto della congiura della morte di Poppea e volerlo riferire a Nerone, e partono.

Scena XII. Poppea coricata e Nerone,

f Camera con Ietto)

Nerone V amoreggia , fanno scena amorosa a loro gusto ; in questo

Scena XIII. Coviello e "Pulcinella e detti.

Coviello e Pulcinella scoprono come Agrippina sua madre ha consigliato ad Ottavia sua moglie la morte di Poppea. Nerone ciò inteso ordina a Pulcinella e Coviello portino la madre alle Quinquatrie, luogo di sue delizie, e dentro una barca forata, le dieno nel- l'acqua, sommergendola, la morte. Loro per l* effetto impostoli da Nerone, partono, e tutti via.

Scena XIV. Seneca.

(Camera)

Sopra la tirannide del discepolo e la ruina di Ro- ma ; in questo

437

Scena XV. Nerone, T>oitore, Tartaglia, Corte e detto.

Nerone dice a Seneca come sua moglie Ottavia era discoperta impudica e voleva fosse castigata; Se- neca dice essere calunnie ed accingersi per la difesa di quella; Nerone dice che intende fare il ripudio, minaccia Seneca quale mormorando parte; loro re- stano: in questo

Scena XVI. Coviello e detti.

Coviello dice a Nerone come un marinaro, mentre Agrippina stava sommergendosi nell'onde , opponen- dosi agli ordini suoi, ha liberata la madre ; Nerone adirato gli uno stile ed ordina che uccida il ma- rinaio, e morto quello, vadano a svenar la madre, e parte ; Corte lo siegue ; Coviello e Pulcinella sono contenti perchè uccidendo quella saranno premiati, e viano.

Scena XVII. Serìeca.

Sopra la sfacciataggine di Nerone, e sua crudel- tade ; in questo

Scena XVIII. T)ottore, "tartaglia e detto.

Dottore e Tartaglia, d'ordine regio, lo fanno pri- gioniero, e partono.

- 438 Scena XIX. Agrippina.

(Camerone)

Assisa in una sedia, esagerando la crudeltà del fi- glio; in questo

Scena XX. Coviello e Pulcinella.

Entrano per ucciderla, fanno i loro timori; in questo

Scena XXI. tNsrone e detti.

Nerone anima Coviello e Pulcinella ad ucciderla; loro le danno con lo stile e Tuccidono.

ATTO SECONDO

(Camerone con tumolo d'Agrippina; poi Trono)

Scena I. Ottavia.

Piangendo la morte d'Agrippina ; in questo

Scena II. Toppea.

Esce parlando sopra V amore di Nerone ; Ottavia Tascolta, la chiama; Poppea disprezzandola, non le orecchio, chiamandola ripudiata d'un Cesare; Ottavia vedendosi abbiettata e schernita, la chiama adultera,.

439

impudica e le uno schiaffo ; lei grida chiamando soccorso ; in questo

Scena III. Nerone e della.

Nerone placa Poppea, chiede del suo rammarico ; Poppea cerca vendetta contro la moglie per averla chiamata adultera e averle dato uno schiaffo; Nerone promette vendicarla, l'acquieta, e chiama

Scena IV. Dollore, TarlagUa e detti.

Nerone ordina sia sprigionato Seneca e lo si con- duca in quel luogo ; fa salire Poppea sul trono ; in questo

Scena V. Seneca accompagnato dal T)ollore e da '^arlaglia e detti.

Nerone voler ripudiare per adulterio Ottavia; fa ve- nire dei testimoni che si sentono.

Scena VI.

Coviello, da suonatore, accusa Ottavia, e parte. Se- neca dice, se v* è altro ; in questo

Scena VII.

Pulcinella , da cieco , fa l' istesso, e via ; Seneca dice : che venga un altro ; in questo

- 440

Scena Vili.

Un testimonio, fa l'istesso, e via; Seneca asserisce essere quelli falsi, difende Ottavia, e parte. Nerone fa venire le insegne imperiali per coronare Poppea e ordina che vada esule Ottavia dal regno ; in questo

Scena IX. Paggio e detti.

Dice essere venuto Tiridate d*Ai*menia ; Nerone che entri ; in questo

Scena X. Tiridate e detti.

Tiridate s* inginocchia avanti al Trono, chiede di essere incoronato ; Nerone fa venire un'altra corona e scettro e incorona Tiridate ; offre la sua protezione. Tiridate via, Poppea facendo segni d* allegrezza lo segue, mentre Tiridate mostra segni d'amore verso di quella.

Scena XI. Coviello e "Pulcinella, (Città)

Avere ucciso Agrippina e sperarne premi da Ne- rone, e via.

Scena XII. Ottavia sola.

Sopra la sua partenza dolorosa, e via.

441

Scena XIII. "Poppea.

(Camera)

Si rallegra della sua incoronazione.

Scena XIV. "Virìdate e detta. Tiridate le si scopre amante ; in questo

Scena XV. Alerone e detti. Nerone avere osservato, minaccia Tiridate, e chiama

Scena XVI. Consiglieri e detti.

Nerone ordina che Tiridate sia posto quale schiavo in catena e con dialogo in tre finiscono l'atto.

ATTO TERZO

(Camerone con conca di rame)

Scena I.

Seneca svenato, suo lamento e muore.

Scena II.

(Camerone con Trono)

Tiridate con catena al piede viene pregando Ne- rone per la sua libertà ; lui non ammettendo discolpe

442 -

lo caccia dal suo cospetto : licenzia tutti, si siede e s'addorme ; in questo

Scena III.

Giustizia, lo minaccia, e via ; lui si sveglia e pre- cipita dal trono ; in questo

Scena IV.

Dottore, gli una lettera ; lui legge la ribellione di alcuni regni ; s* imperversa e giura farne vendetta;

Scena V.

Tartaglia l' istesso, con altra lettera di ribellione e parte ; Nerone adirato risolve d'andar di persona a far strage dei sudditi ; in questo

Scena VI.

Poppea, esorta Nerone alla fuga dicendogli come Sergio Galba ed Ottavia sua consorte, fuori le porte di Roma, con grossissimo esercito, tentano imposses- szu'si del dominio : lui sdegnato le un calcio , e via ; lei resta, e con un discorso sorpresa dal veleno muore a pie del Trono.

Scena VII.

Pulcinella e Coviello, disperati, come la città era piena di nemici, e Nerone spensierato dimora ; ve-

443

dono quella, la stimano ubbriaca , fanno molti lazzi» infine, la vedono morta, la portano via.

Scena Vili.

^^Camero con Trono)

Nerone, suo pensiero dando in furore per non po- ter fare vendetta ; in questo, di dentro trombe, tam- buri, gridi : Mora Nerone , lui più imperversa ; in questo

Scena IX.

Coviello con stile al fianco gli dice salvarsi, che il palazzo era dei nemici pieno e cercano di sorpren- derlo ed ucciderlo ; lui vede lo stile , gli dice che l'uccida ; quello ricusa, e dando lo stile e il veleno in suo potere, via ; Nerone esagerando dice volersi avvelenare, infine, si risolve, butta il veleno e s'ucci- de ; in questo

Scena X.

Galba, Ottavia, Tiridate, soldati, sopra li loro trionfi, ringraziano soldati, vedono morto Nerone ed ordinano la sepoltura, danno la libertà a Tiridate, pongono Ot- tavia nel dominio e finiscono l'opera.

e.

DAGLI SCENARI DI D. PLACIDO ADRIANI Le Metamorfosi di Pulcinella.

Del p. d. Placido Adriani si sa questo soltanto : che nacque a Lucca nella seconda metà del secolo XVII ed entrato nell' ordine dei pp. Benedettini dimorò a lungo nelle provincie napoletane , precisamente nelle Calabrie: poi fu a Perugia, indi a Montecassino. Si ignora dove sia morto e in quale anno. Da un suo grosso manoscritto posseduto dalla Biblioteca Comu- nale di Perugia (man. A. 20) ed intitolato : Selva oppure Sihaldone di concetti comici ecc. con la data : MDCCXXXVIII , si rileva che amò appassionata- mente l'arte della recitazione all'improvviso, col recitare lui stesso le peuti del Pulcinella parlando assai bene il dialetto napoletano ; che nel 1 7 1 9, fu a Castrovillari, per rappresentare un San Francesco di Paola il quale " riuscì assai bene "; che nel 1732, ad Assisi, co-

446 -

mandato da una dama, compose una commedia : La Pietra Incantata e nella quale recitarono i figli della predetta dama; che nel 1730 e 1731 recitò, ali* im- provviso, a Perugia; che negli anni seguenti (1735 1 736 e 1737) recitò a Montecassino, all' Albaneta, nella stagione di carnevale. Nello stesso manoscritto leggiamo che nel 1 737 scrisse: " U Omo al punto " d'Onore d' Jlmore e d'Amicizia, e dopo d'averne " ritrovato la Historia in Tito Livio, fu concluso re- " citarsi all'impronto; così venne da Napoli il signor " Cristoforo Rossi bravo ingegnere e pittore ed ec- " cellentissimo in rappresentare la parte di Pulcinella " con un bravo Coviello ed altri recitanti in musica " per gli intermezzi ". La commedia: Le Metamor- fosi di Pulcinella fu recitata nel carnevale del 1 730 nel monastero di San Pietro a Perugia, sostenendone i monaci le parti e lo stesso suo autore quella di Pulcinella. Altri tempi, altri monaci!

Di codesti Scenari, quello che porta il titolo : Non può essere, ovvero. La donna può ciò che vuole, è stato <la noi pubblicato in: Rivista d* Italia, di Roma, fa- scicolo d' agosto 1911. (Un Commediografo dimen- | ticatoj.

I

LE METAMORFOSI DI PULCINELLA

Commedia in tre atti

PERSONAGGI

Dottore, padre di

Clelia e Rosaura

Rosetta, loro serva

Orazio

Luzio

Pulcinella

coviello

ATTO PRIMO

Scena I. "Pulcinella solo

(Città)

Pulcinella esce cantando, poi fa scena sopra l'A- more della vajassa del Dottore, e la grande gelosia con cui tiene la serva e le figlie. Sua scena contro l'Amore, poi esce.

Scena II. Covìello e T>etto

Pulcinella cerca aiuto a Coviello ; lui pure cerca aiuto e dice come il suo padrone è innamorato d'una delle figlie del Dottore; in questo

Scena III. Orazio, Luzio e T>etti

Innamorati dicono essere invaghiti delle figlie del Dottore e avere scritto una lettera , ne sapere come fare a fargliela ricapitsu^e in mano. Buffi loro lazzi muti. Orazio scorge Coviello; lui dice se regaleranno

Nel Regno delle Maschere 29

450 -

dieci ducati a Pulcinella lui farà subito. Loro pro- mettono denaro; e via Innamorati. Coviello concerta Pulcinella da moretto statua a uso di tavolino; Pul- cinella, suoi lazzi; poi via tutti per vestirsi.

Scena IV. Dottore solo

(Camera)

Sua scena contro il sesso femminile e potià dire le seguenti parole notare a pag. 83 (1) ove nella tirata si spiega la scena, acciò Pulcinella si vesta da moretto; poi chiama

Scena V. Clelia, %osaura. Rosetta e Detto.

Dottore esorta le donne allo studio delle belle lettere; Rosetta cercare belli fatti e non parole. Dot- tore la sgrida, poi si sente bussare, Rosetta va a ve- dere, torna e dice essere un falegname. Dottore fa ritirare le donne.

(1) Difatti nello Zibaldone, a pag. 83, si legge la tirata contro il sesso debole e di cui diamo soltanto la prima parte: " La donna z'è il seppo dell'incostanza, z'è il specche dell'infedeltà, z'è la maistra delie frodi, z' è l'amiga delli inganni, z' è l' inventris della simulazion. Ora è il dir ben colò che non ghè mal che non vegni della femina, e queir alter disse che mejo abitar int' una tierra deserta che star con una femina stizzosa, e un alter al dicea che la femina più dura della morte e per questo sta scritt , che de mill' omine se ne triova uno bon, ma fra tutte le femine non ghe n* è una; e per quest se dise, che tutte le malizie del mondo son corte a rispett della malizia de la donna. E che si sappia el ver sta scritt , che l'è miglior la iniquità pell'omm che una bona azzione d'una femina ecc. ecc.

- 451 -

Scena VI. Pulcinella Coviello e T>etto,

Pulcinella da statua di nero con tavolozza in mano per posare ; Pulcinella viene portato da due. Coviello da maestro artefice dice essergli giunto questo bel tavolino air ultima moda , dice al Dottore che lo compri. Loro Icizzi del prezzo; si accordano ; Dottore piglia un fiasco, mette il vino nel bicchiere e mentre discorrono Pulcinella beve, si fa due volte il lazzo ; Dottore fa meraviglie; Coviello che sarà come l'acqua- vite che va in fumo; poi beve Coviello, e va via lui coi facchini. Dottore chiama.

Scena VII. Clelia, Rosaura, Tiosetta e Detti.

Dottore fa vedere compra da lui fatta , poi entra. Pulcinella, subito lazzi con Rosetta; le donne gridano; esce Dottore ; che il tavolino si muove ; Dottore le tratta da sciocche, e via; Pulcinella, suoi lazzi; loro grida; Dottore come sopra ; la terza volta Dottore s'accorge, bastona Pulcinella, e via tutti.

Scena Vili. Orazio, Luzio.

(Città)

Ansiosi cosa abbia fatto Coviello con lettera; loro lusinghe sia ricapitata nelle mani delle loro donne ; speranza d'esito felice; in questo

452

Scena IX. Coviello e Detti.

Coviello ansioso per sapere l'esito dell' invenzione fatta da Pulcinella. Innamorati vedono Coviello , di- mandano cosa abbia fatto. Coviello racconta la tra- sformazione di Pulcinella in moretto e che le cose sono andate bene essendo un' invenzione assai vaga; in questo

Scena X. Pulcinella e Detti

Pulcinella, suoi lazzi. Coviello cosa abbia fatto della lettera; Pulcinella che odori le spalle; poi dice non volerne saper altro. Innamorati lo pregano; qui ci va il lazzo della Pellegrina ; Pulcinella promette aiuto ; Innamorati via, Coviello concerta Pulcinella da Chia- ravalle di Milano, e lui pure da Astrologo; loro lazzi e via a vestirsi.

Scena XI. T>ottore solo

(Camera)

Uscendo finge cadere, recita la tirata dello scap- puccio; poi chiama Rosetta.

Scena XII. Rosetta, poi Clelia, Rosaura, Detto

Dottore dice alla serva che chiami le ragazze; le loda, la virtù esser necessaria nelle donne ; si sente

453

bussare. Rosetta va a vedere, dice essere due astro- loghi; Dottore, che entrino.

Scena XIII. Pulcinella e Coviello da astrologhi, T>etti

Pulcinella con mappamondo illuminato e compasso, Coviello con gran libraccio ; tutti siedono attorno al tavolino. Dottore, sua tirata d' astrologia; Pulcinella, suoi lazzi con Rosetta; poi considerano il globo ce- leste; Pulcinella fissa in cima al compasso la lettera; poi dice che quelle stelle significano un' arietta in musica; Dottore, che la dica. Pulcinella canta : Pi- gliatella sta cartella Su, o figlioletta me ffa chiù pantecà e col compasso tocca verso Clelia quale ci guarda dopo la seconda replica; se ne ac- corge il Dottore; rumore, cadono sedie, cade il Dot- tore, e finisce Tatto.

ATTO SECONDO

Scena I. T>ottore, Clelia, ^osaura, Rosetta

(Camera)

Dottore si lagna che per causa loro succedono tante baronate. Donne dicono che le mariti. Dottore dice che per via d'astrologia ha compreso che i due figli d'un gran re delle Indie devono venire a sposarle, attendano allo studio, e via. Donne si lagnano che devono rivoltare libri, quando vorrebbero abbracciare amanti, ed entrano.

- 454

Scena II. Pulcinella solo.

(Città)

Fa una tirata, poi non volere saper altro ; in questo

Scena III. Luzìo, Orazio, Coviello, T^etto.

Pulcinella dice che li andava cercando ; Coviello che occorre che si ripiglino la lettera non volendo fare il procaccia amoroso; loro lo pregano; lui ricusa; loro che gli daranno 20 scudi. Pulcinella promette; loro si raccomandano a Coviello, e via; Coviello con- certa da statua Pulcinella, questi fa lazzi che non cam- minerà , ma girerà ; Coviello che il tutto è finzione. Pulcinella e Coviello via a vestirsi.

Scena IV. Dottore, poi Rosetta

(Camera)

Dottore dice ora essere innamorato di Rosetta ed averla chiamata per iscoprirle il suo amore. Rosetta, suoi lazzi di ciò che le bisogni; Dottore, anche lui ha dei bisogni; Rosetta, che li spieghi , Dottore, essere di lei innamorato; sua scena amorosa. Rosetta, a parte lo burla; fìnge di corrispondere ; Dottore dice che subito accasate le figliuole vuole sposarla, e farla pa- drona di casa ; Rosetta , che è povera donnicciuola, non esser degna. Dottore, che lui vuole così. (Si dia

455

tempo a Pulcinella di vestirsi). Si bussa; Rosetta corre, torna, dice essere uno scultore; Dottore, che entri.

Scena V. Covìello da scultore, T^ulcinella da Statua,

T>etti.

Coviello con facchini che portano Pulcinella da statua sopra piedistallo. Coviello con cerimonie, poi, a tempo, fa muovere la statua, ora le braccia, ora le gambe, ora il capo, dicendo essere tutta arte mate- matica. Dottore domanda il prezzo; si accordano; Dot- tore paga; Coviello via. Dottore dice a Rosetta, fac- cia vedere la statua alle donne, e via.

Scena VI. Clelia, Rosauna, T>ettL

Rosetta dice avere il Dottore comprato una statua; loro che non se ne curano; vogliamo robba viva e di carne. Pulcinella scende e si pone in mezzo; paura. Le donne hanno paura. Dottore viene , domanda la causa; loro che la statua si muove; lui saperlo bene che loro non sanno maneggiare bene il negozio. Muove il braccio a Pulcinella, sale sul piedistallo ; Dottore via. Donne tornano a discorrere che vogliono marito; Pulcinella si pone in mezzo, tutto come sopra. Dot- tore entra; Dottore si pone ai piedi della base; Donne gridano; Pulcinella cerca di fuggire ; Dottore lo ba- stona e lui via.

- 456 -

Scena VII. Luzh, Orazio

(Città)

Ansiosi sopra Fesito della lettera e delFinvenzione; in questo

Scena Vili. Coviello, T>ettL

Orazio domanda a Coviello cosa si sia fatto; Co- viello gli speranza di felice esito sperando che l'invenzione della statua sia riuscita; in questo

Scena IX. Pulcinella, Detti.

Coviello dimanda dell'invenzione; Pulcinella che se da statua non si fosse fatto corriere , il Dottore l' a- vrebbe storpiato. Innamorati in disperazione. Coviello loro fa animo; loro pregano Coviello. Lui che vadano, che lascino fare a lui. Loro via. Coviello concerta Pulcinella da bamboccio detto Cicco bimbo, figlio di Porziella lavandcu*a del Dottore e lui si fìngerà la- vandara. Pulcinella ricusa; Coviello gli farà un piatto di maccheroni; Pulcinella farà tutto. Via a vestirsi.

Scena X. Donne.

(Camera;

Le donne assettate al tavolino con libri in mano; Rosetta che spolvera libri. Si rammaricano di non

I

- 457

aver marito; Rosetta, che si saria pigliata la statua, Donne non volere statua, ma giovane di carne e ner- boruto; in questo

Scena XI. T)ottore e Detti.

Dottore se hanno veduto bene la lezione; loro di ; si bussa ; Rosetta va e torna ; dice essere la la- vandara.

Scema XII. Pulcinella, Coviello, Detti.

Pulcinella da bamboccio , Coviello da lavandara. Coviello prega Dottore tenere in casa Cicco bimbo che deve andare a lavare i panni ; Dottore che lo lasci. Coviello via. Pulcinella , suoi lazzi , di cacca, di pappa, Dottore voler prendere una ricotta o altro. Pulcinella fa lazzi; donne gridano; Dottore entra con ricotta, le sgrida, poi imbocca Pulcinella. Rosetta va a prendere biscottini, e torna; Donne imboccano Pul- cinella e finiscono l'atto.

ATTO TERZO Scena 1.

(Città) Pulcinella, Scena d'Amore.

458 -

Scena II. Orazio, Lazio, Coviello e Detto

Coviello dimanda a Pulcinella come sia riuscita Tinvenzione; Pulcinella, al solito, male; Coviello dice che ha saputo che il Dottore aspetta una mummia da levante e concerta Pulcinella da mummia. Sua scena; poi gli promettono Rosetta per moglie e via tutti.

Scena III.

(Camera)

Dottore solo, fa scena di voler maritare le figlie e per poter poi sposare Rosetta, poi dice che gli hanno scritto che un amico gli voleva mandare una mummia per un mercante levantino , e lui volerla comprare ; poi chiama

Scena IV. Donne e T>etto

Dottore dice se hanno studiato bene la lezione ; loro gettano in terra i libri e dicono voler marito. Dottore le conforta e dice che fra breve verrà chi le consolerà, frattanto siedano e studino. Loro pigliano li libri e studiano. Dottore, suoi lazzi muti amorosi con Rosetta. Si batte ; Rosetta va e torna dicendo essere un mercante levantino; Dottore, che venga, e via donne.

Scena V. Coviello, Pulcinella, Dottore

Coviello da mercante levantino; due vastasi facchini con la cassa e Pulcinella da mummia. Loro patto;

459

Dottore paga, e Coviello via. Dottore al tavolino; sua tirata d'anatomia, come a f. 11 (1). Pulcinella, suoi lazzi muti. Poi Dottore chiama le donne, raccomanda lo studio, e via.

Scena VI. Donne e Pulcinella.

Donne dicono d'essere tediate di tale seccaggine; volere mcirito, si raccomandano a Rosetta. Lei che il padre non fa entrare in casa nemmeno un gatto ma-^ Schio. Pulcinella si pone in mezzo, loro paura, stril- lano. Viene il Dottore che le tratta da spiritate per tre volte, poi scopre, rumori, cadute. Pulcinella via.

(1) Ne diamo il principio. " Contro uno che vuole ammazzare uomo. Ti voi ammazzare un uomo, che la Mader Natura tanto s' af- fatigò in formarlo, e che il sippia ver, non vedi che lo ritondò nella testa, l'imbridò nell'occhio, l'incavò nell* orecchie, lo breve nel volto, lo squadrò nella front, lo zergevizè inti la tempie, l'aguzzò nel nas, lo dispartì nelle gambe, il consolidò su i pie, l'incurvò nelle spalle, l'organizzò nei membri, l' articulò nelle giunture , e el voli am- mazzar, cancaraz !

" Un uomo, al qual ghe sta da cuor per viscer, polmon per re- spirar, zervel per intender, senzo per penzar , fantasia per imaginar , intellett per discorrer, memoria per ricordar , volontà per deliberar , nervi per sosteners, muscoli per muovers, vertebre per piegar, arterie per vivificar, vene f>er remear, sangue p>er ementar, diaframma per ri- der, fià per significar, ventricolo per concacer , stomag per appetir, denti per mastegar, esofagh per inghiottir, pori per trasportar , polsi per dibatter, milza per camminar, fiel per consumar, vessiga per ri- purgar e mi el voi ammautzar, cospettonaz I ".

460 -

Scena VII. Innamorati, Coviello. (Città)

Sperano sia riuscito il loro disegno , Coviello lo spera stante Pulcinella è innamorato di Rosetta, in questo

Scena Vili. Pulcinella e Detti

Tutti allegri gli sono attorno , cercano ciò che ha fatto, lui dice nulla. Coviello voler fare altra inven- zione. Pulcinella non volerne più sapere. Loro pre- gano, Pulcinella che vuol lui fare a suo modo con nuova ritrovata, loro pregano glielo dica, lui non vo- lerlo dire, ma fare, e via tutti.

Scena IX. Dottore solo.

(Camera)

Non sapere di dove gli vengono tante trappole, e furberie, e però aver risoluto per guardar la casa voler pigliare un bravo ed averlo detto ad un suo pau"ente perchè mandi un buono sgherro acciò guardi bene la casa. Chiama.

Scena X. Donne e Detto

Si raccomanda stare attente alla casa, perchè vede di molti rigiri di furbi e voler procurare un uomo

461

bravo che invigili ed averlo detto ad un suo parente. Donne avere necessario un uomo, in questo si sente bussare; Rossetta va e torna dicendo essere un Bravo ;. Dottore che entri.

Scena XI. Pulcinella e detti

Pulcinella da Bravo dice aver saputo che lui cerca un uomo bravo per guaidare la casa ; lui essere a proposito e fcuà la sentinella : fanno il prezzo; poi il Dottore, che si ponga in guardia e faccia vedere la sua bravura. Pulcinella schermisce con le mani, prima verso il Dottore, poi verso Rosetta e le donne alle quali getta la lettera in seno. Donne via. Pulcinella, sua scena di bravura; poi tornano le donne con lettere di risposta in seno ; Pulcinella si schermisce con loro e piglia le loro lettere ; poi dice volersi provvedere d'arma da fuoco, e subito tornerà ; via. Dottore che atten- dano alla casa, e via. Donne dicono come due belli giovani sono innamorati di loro e le hanno scritto una lettera ed avere risposto la strettezza in cui sono te- nute, la pazzia del padre di volerle accasare con due principi figli d'un re delle Indie ; che essi cerchino il modo d' indurre il padre che ora sono pronte di volersi sposare.

Scena XII. Innamorati, Covici lo. (Città)

Essere oramai stracchi di tante invenzioni senza

462

avere avuto esito favorevole. Coviello non sapere più -che trovare ; in questo

Scena XIII. "Pulcinella, Detti.

Pulcinella nel suo solito, allegro, cantando, mostra la lettera; cerca li 20 scudi e volere Rosetta. Loro promettono la donna, lo pagano. Lui la lettera, loro la leggono e Coviello che bisogna concertare Pulcinella da re, lui da ambasciadore, loro da prin- cipi indiani e così burlare il Dottore; loro allegri tutti ; vanno a vestirsi.

Scena XIV. Donne sole.

(Camera)

Ansiose per sapere che abbiano fatto li loro amanti; Rosetta che lei è innamorata del Bravo , e le pare averlo veduto sotto altra figura e che lui forse è quello che altra volta è venuto sotto altro vestito. Donne sono dello stesso parere e che facilmente ritornerà. Rosetta lo spera per averle il predetto individuo fatto qualche cenno amoroso. Donne come farà essendosi accorte che il Dottore è innamorato di lei ; Rosetta fìngerà di corrispondere, non volere un vecchio ricco ma piuttosto un giovane povero ; in questo

Scena XV. Dottore, Dette.

Donne, quando le darà marito; Dottore, che spera ^i farlo in breve e che il Bravo gli ha detto che a

463 -

momenti si aspettava un re grande con due principi suoi figliuoli e spera che sia quello da lui previsto con l'astrologia. Donne, che non può essere. Dottore che se non Sca"à quello ne troverà altro. Si batte. Ro- setta va, torna, dice: essere un Principe ambascia- tore. Dottore, che entri.

Scena XVI. Covìello e Detti.

Coviello da cunbasciatore chinese. Loro lazzi di ce- rimonie ; Coviello dice essere lui principe di Sango- riccio ambasciatore del re Tiritappiataccù il quale è arrivato con due principi suoi figli , Tuno si chiama Gnagnao, l'altro principe Barabao , e vogliono spo- Scire le sue due figlie. Dottore dice non essere de- gna la casa sua di ricevere tanti onori. Coviello, così vuole il re Tiritappiataccù, il quale già sente che viene. Suoni di trombe, tamburi.

Scena XVII.

Pulcinella da re indiano; Innamorati da principi. Pulcinella portato in se Jia. Loro atti di cerimonia chinese ; Pulcinella dice che per via d'astrologia nel segno del Capricorno ha saputo che lui tiene due figlie belle e virtuose, e lui le vuole per sue figlie sposan- dole a principe Gnagnao e al princiqe Barabao. Dot- tore, suoi lazzi di umile ossequio; poi prende le figlie. Pulcinella Clelia ad Orazio e Rosaura a Luzio. Dottore, sue riverenze. Pulcinella dice che il prin-

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cipe Gnagnao farà li gnagnao'ini e il principe Barabao li barabaorini. Poi farà accostare Rosetta, scherza con lei ; Dottore, sue smanie, dice la serva non essere degna di stare vicino al re. Pulcinella, che la lasci stare piacendogli assai. Dottore, sue smanie mute. Pul- cinella la vuole per moglie avendo fatto a Giove voto per salvarsi da una tempesta di sposare una fantesca. Dottore, sue smanie mute ; Pulcinella sposa Rosetta ; poi scopre tutto. Dottore si quieta e tutti allegri gri- dano: evviva l'invenzione di Pulcinella!

FINE DELLA COMMEDIA

LAZZI

{Dal manoscritto Adriani)

1 . Il lazzo del piangere e ridere è che 1* uno va gabbando l'altro come allorché il Vecchio piange per la partenza del figlio e ride per aver campo aperto senza gelosia di goder l'innamorata. Lo stesso fa il figlio.

2. 11 lazzo di frutti e baci è che Coviello finge la voce della Donna amata da Pulcinella. Questi do- manda i frutti d'amore, Coviello di dietro lo batte. Pulcinella dice non esser quelli i frutti d'amore; Co- viello di dietro gli schiaffetti.

3. Lazzi impasticciati sono che Coviello impara (insegna) a Pulcinella a parlare amoroso e di dietro li dice mille spropositi ; Pulcinella li replica ; Coviello da dietro per affogarlo, e Pulcinella fa lo stesso alla Donna.

4. 11 lazzo della mosca è che Pulcinella essendo stato lasciato a guardia della casa del padrone, e do-

i^Cel Regno delle éXaschere 30

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mandato se in casa vi è nessuno gli dice non esservi una mosca: il padrone vi trova gente e rinfaccia Pul- cinella, e lui dice : Non ci hai trovato mosche , ma uomini.

5. Il lazzo di polso e orina è che Pulcinella tocca il piede e dice: è doglia di capo, poi si fa portare Torina, e la beve, e la sbruffa in faccia a Coviello, poi per fare la ricetta fa calare Coviello a quattro piedi con il preterito alfudienza, fa cacciare la mano di dietro a Coviello e vi fa tenere il calamaro , e quando piglia inchiostro gli mette la penna nel pre- terito dicendo : Galeno, io ti ringrazio , ego medicus.

6. Il lazzo del taci, è che il padrone parlando Pul- cinella Tinterrompe, e il padrone per tre volte dice: taci; poi chiama Pulcinella, e questi gli rende la pariglia.

7. Il lazzo di Pulcinella nato prima di suo padre è che Pulcinella dice a Coviello esser nato prima di suo padre; Coviello lo nega essendo impossibile. Pul- cinella dice che camminando suo padre cadde e poco mancò che una carrozza non li passasse sopra, onde uno disse: Mo' sii nato, onde ciò essendo successo Tanno passato, lui è nato prima di suo padre.

8. Il lazzo della Pellegrina è quando li Amanti pregando Pulcinella o Coviello s' inginocchiano, e Pul- cinella o Coviello parlando ad uno ad uno volta il preterito alFaltro.

9. Il lazzo delForina fresca è che Pulcinella dice: tutte le orine esser calde ; la servetta dice che fresca s'intende quando è fatto allora, cioè, di fresco, e lo sincera.

I

INDICE

p.f.

PREFAZIONE V

PARTE PRIMA

Capitolo Primo La Commedia dell'arte e la sua storia. 1 CAPITOLO Secondo La Forma della Commedia del- l' Arte 44

Capitolo Terzo Il contenuto della Commedia dell'Arte. 76 CAPITOLO Quarto I Personaggi della Commedia del- l'Arte 101

Capitolo Quinto Il Costume dei Personaggi della Com- media dell'Arte . 159

CAPITOLO SESTO L'Arte nella Commedia dell'Arte . 169

Capitolo Settimo Il pubblico della Commedia dell'Arte. 207

PARTE SECONDA

Capitolo Primo I tempi di Carlo Goldoni . . 245 Capitolo SECONEX) Carlo Goldoni e la Commedia del- l'Arte 256

Capitolo Terzo La Nuova Commedia . . .295

Capitolo Quarto L' originalità della Commedia goldo-

diana .......... 350

Capitolo Quinto Un risveglio della Commedia del- l'Arte 360

APPENDICE

A). Dagli Scenari di Basilio Loccatello romano . . ,381 B). Dagli Scenari della Raccolta Sersale della Biblioteca Na- zionale di Napoli . . . , . . . 40 1 C). Dagli Scenari del p. D. Placido Adriani . . 445 D). Lazzi 465

ERRATA-CORRIGE

pag. 138 - Un. 15

dal commediografo è adi da! commediografo è azi

o atti. o azzi , forma volgare di

adi o atti.

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466

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