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NEL REGNO DELLE MASCHERE
DELLO STESSO AUTORE
Epistolario, compreso quello amoroso, d* Ugo Fo-
scolo e Quirina >Iagiotti-]Mocenni. — Firenze , Sa-
lani, 1888. Un volume. (Seconda edizione, 1904).
!MÌSterÌ di Polizia. — Storia Italiana degli ultimi tempi, rica-
vata dalle carte d'un Archivio segreto di Stato. — Firenze, Sa-
lani, 1890. Un volume.
Un amore di Giuseppe Mazzini. — Milano, Kantorowicz,
1895. Un volume. (Esaurito).
Cospirazioni Romane. — Roma, Voghera, 1899. Un volume.
Fascino di Donna. — Romanzo moderno. — Torino , Stre-
glio, 1900. Un volume.
Fra le quinte della Storia. — Torino, fratelli Bocca, 1903.
Un volume.
Roma che ride. — Settant'anni di satira (1800-1870). — Roma-
Torino, Roux e Viarengo, 1904. Un volume.
Vittorio Alfieri e la Contessa d* Albany. — Roma-To-
rino, Roux e Viarengo, 1904, Un volume.
Giuseppe Mazzini e Giuditta Sidoli. Torino, Sten, 1909.
EMILIO DEL CERRO
(N. NICEFORO)
vO
Nel^regno
delle maschere
DALLA COMMEDIA DELL'ARTE
A CARLO GOLDONI
CON PREFAZIONE
DI
BENEDETTO CROCE
NAPOLI
FRANCESCO PERRELLA
Sodeti Aaosima Editti»
1914
Proprietà Letteraria
NAPOLI-TIR S, MORANO-S. SEBASTIANO 48 R P
PREFAZIONE
La commedia dell* arte è stata oggetto di molto la-
vorio fantastico. La vita girovaga di quei comici ; //
loro spargersi fuori d* Italia, in Francia, in Ispagna^
in Inghilterra, in Germania ; le loro avventure in-
fiorate di tanti aneddoti ; e , soprattutto , /' attitudine
ad essi attribuita dell* improvvisare come in una spe-
cie di furor comicus ; hanno circondato la comme-
dia delVarte del nimbo di non so qual mistero o pro-
digio ; e se ne parla volentieri come di un mirabile e
singolare prodotto dell* ingegno italiano, che brillò di
luce vivissima per circa due secoli e si spense poi per
sempre. Taluno è giunto perfino ad attribuire a quei
comici erranti il sacro deposito della nazionalità ita-
liana , che solo per loro mezzo si sarebbe affermata,
sarcastica protesta contro lo straniero e gli oppressori
di ogni sorta. Si tratta, insomma, di una leggenda,
la cui origine non è difficile spiegare ; e che ha il
suo analogo nel caso della " poesia popolare ", o, più
prossimo ancora, in quello dei poeti improvvisatori.
— VI —
Olirà gloria che rifulse nei secoli di decadenza e che
ora, per buona fortuna, è al tutto finita.
Quando io lessi, or sono quattro anni, in manoscritto
il presente libro del Del Cerro, non solo mi parve de-
gno di pubblicazione perchè l'autore aveva pel primo
procurato di mettere a frutto i molti documenti sulla
Commedia dell* arte venuti fuori nei decennii seguenti
al lavoro di Adolfo Cartoli; ma precipuamente mi
piacque perchè vidi che il Del Cerro, con fermo buon
senso e con sana critica d' arte , intendeva a dissipa-
re la " leggenda " della commedia dell' arte. Que-
sta commedia fu improvvisata per modo di dire : sotto
l'apparente improvvisazione (come, in altri modi, acca-
deva sotto quella dei poeti improvvisanti) e era la
preparazione e il meccanismo ; sotto V apparente ric'
chezza , la povertà ; e rimase sempre o quasi sem-
pre in un basso livello spirituale, con V intrigo delle
sue azioni, i caratteri-caricature, le facezie grossolane,
i lazzi triviali. E se piacque principibus viris, ammessa
e festeggiata nelle corti, codesto non tanto fu sua lode,
quanto piuttosto effetto del persistere di compiacenze
e costumanze ancora rozze e medievali nelle classi
sociali elevate dei secoli decimosesto e decimosettimo.
E quando i costumi s'ingentilirono, la commedia del-
l'arte decadde o fu costretta a trasformarsi. Il Del
Cerro ha ben visto che, col Goldoni, entra nella com-
— VII —
media un contenuto etico, indizio di arte pili alta, e
che questo per Vappunto costituisce Vessenziale della
riforma goldoniana.
Con ciò non si vuol dire che la commedia dell arte
non ritenga alcun pregio. Si vuol semplicemente otte-
nere che sia conosciuta meglio, nella sua schietta realtà,
allontanando le fantasticherie. Pregio della commedia
dell'arte fu l'elemento popolaresco e una certa libertà
di argomenti e di movimenti, ch'essa potè serbare con-
tro r irrigidimento della commedia regolare ; e, segna-
tamente, Vaver creato e disciplinato ottime compagnie
di attori drammatici, e perfezionato la tecnica teatrale:
e per quest'ultima parte veramente /' Italia concorse,
prima e più efficacemente di ogni altro popolo, alla
creazione del teatro moderno.
tNiapoli, dicembre Ì9Ì4.
Benedetto Croce
CAPITOLO PRIMO
La Commedia dell' Arte e la sua Storia.
Tutti sanno che tra la seconda metà del secolo XVI
e i primi anni del secolo XVIII fiorì in Italia la com-
media detta dell' arte, o a braccia, o a soggetto, o all'im-
provviso, poiché essa ebbe tutte codeste denominazioni ;
tutti sanno che essa, dopo un lungo ed anche glorioso
regno, fu detronizzata da Carlo Goldoni con la sua
riforma del teatro comico italiano ; però non tutti co-
noscono le sue vicende, la sua natura, i suoi pregi, le
sue deficienze. Da molti, anzi, ed anche non indotti, se
ne parla così, ad orecchio. Le stesse nostre storie let-
terarie non se ne sono occupate che di sfuggita onde
constatarne la morte per anemia , per esaurimento , o
per recitcìre sulla sua tomba un frettoloso : riposa in
pace ! Però non sempre i morti scendono intieramente
nel sepolcro ; spesso lasciano di se, nell'animo dei vivi,
qualche cosa che a suo tempo fruttifica : ed infatti ,
nella seconda metà del secolo scorso, sopratutto in
Francia, dove la commedia dell'arte, cosa tutta italiana»
ebbe vita gloriosa, la povera morta cominciò a iai pai-
V^tl Regno delle Maschere 1
— 2 —
lare di se, dando origine ad una letteratura piuttosto
copiosa. Codesto movimento, sebbene con minore ef-
ficacia, fu seguito in Italia. Adolfo Bartoli dapprima,
altri dopo — lo Scherillo e il Croce segnatamente —
hanno pubblicato studi o monografie assai importanti
sul proposito : ma il movimento è appena iniziato, anche
perchè pochi, assai pochi, presso di noi, hanno avuto
la cura di prendere in esame il materiale che tuttavia
giace inedito nelle biblioteche sia pubbliche che pri-
vate. Laonde se noi conosciamo discretamente l'ossa-
tura della commedia dell'arte, non che parecchie delle
trasformazioni di forma e di contenuto a cui andò sog-
getta lungo la sua brillante esistenza; se possediamo
un sufficiente numero di particolari biografici intorno
ai maggiori interpreti di siffatto spettacolo teatrale ; se
intorno a parecchi di codesti interpreti abbiamo la storia
del loro soggiorno in Francia , dove la commedia a
soggetto, recitata da italiani, ebbe vita lunga ed ono-
rata, non abbiamo ancora un'opera che esamini insieme
all'ossatura o impalcatura del genere teatrale di cui ci
occupiamo non che alle sue origini, al suo fiorire e
al suo decadimento, anche il suo spirito, la sua intima
essenza in rapporto alla società in cui la commedia
dell'arte nacque, fiorì e si spense. Anche nei suoi rap-
porti con Carlo Goldoni, e precisamente con la riforma
dal grande veneziano intrapresa e felicemente condotta
a termine, ci sembra che esista una lacuna. Non vo-
gliamo dire con ciò che non sieno state indagate, con
una certa ampiezza di sviluppo, le cause diverse che
provocarono la riforma goldoniana, poiché non si può
— :?
ponderatamente discorrere dei rapporti della commedia
dell'arte o a soggetto con la riforma del Goldoni senza
che non si tenga conto delle cause che provocarono la
riforma stessa : no ; non ci si attribuisca siffatto concetto,
perchè non corrisponderebbe al vero. Vogliamo soltanto
dire che gli scrittori che di codeste cause si sono occu-
pati, non hanno sempre colpito nel segno : tutti, o quasi
tutti, si sono fatti sedurre dal genio del grande comme-
diografo veneziano e la riforma della commedia da lui
com.piuta hanno giudicato come un atto spontaneo' e
semplice della volontà dello scrittore. Se Carlo Gol-
doni non avesse voluto, di proposito, intraprendere la
riforma del teatro comico italiano, continuando a bat-
tere la vecchia strada, come, per altro, aveva fatto nei
primi anni della sua carriera , la commedia dell' arte
non sarebbe morta. Ora, questo, a noi sembra errore.
Generalmente si ritiene che l'arte, nelle sue diverse
manifestazioni, non sia che un prodotto volontario del-
l'uomo, il quale, se accompagnato dal genio, le imprime
il carattere d' una vera creazione : ma non è precisa-
mente così. L'arte, nelle sue svariate manifestazioni, è
frutto d'ambiente, il quale, alla sua volta, è l'elabora-
zione di ambienti precedenti, di tradizioni, di tentativi
ora riusciti , tal' altra rimasti allo stato d' un semplice
conato, le cui origini, come un tempo quelle del Nilo,
spesso sono oscure, avvolte nel mistero. L' individuo,
certamente , in questa lunga e faticosa elaborazione
delle forme dell' arte , ha la sua parte più o meno
grande a seconda ch'egli si chiami Tespi o Aristofane,
Nevio o Plauto, Cimabue o Giotto, Brunetto Latini o
— 4 —
Dante Alighieri, lacopone da Todi o Francesco Pe-
trcirca, Durante, l'autore del Romanzo della ^osa in
italiano, o Ludovico Ariosto, Marlowe o Shakspeare;
ma nessuno di costoro , nemmeno il più grande , può
sottrarsi ai suoi tempi. Dante Alighieri, malgrado
che le due o tre ultime generazioni d' italiani l'abbiano
voluto strappare all' Italia del secolo XIV per farne il
precursore, anzi l' interprete dell' Italia moderna, resta
sempre un uomo medievale , cioè , il figlio dei suoi
tempi. La riforma del teatro comico italiano nel secolo
XVIII s' impersonò in Cailo Goldoni ; ma anche senza
di quest'ultimo e della sua audacia riformatrice, la com-
media dell'arte sarebbe morta ; sarebbe morta, proba-
bilmente, qualche dozzina d'anni più tardi, ma sarebbe
morta, o avrebbe trasportato i suoi lari sulle scene po-
polari, fra le plebi, poiché oramai essa non rappresen-
tava che la vis comica plebea; vis comica che prima
dell'apparizione del Goldoni sulla scena, e per parec-
chie generazioni, era stata quella delle altre classi so-
ciali. Imperocché, codeste classi — classi dirigenti — sin
dalla fine del secolo XVII, e più propriamente sin dal
principio del secolo successivo, sotto l'influenza d'un
gusto più raffinato , di abitudini meno grossolane , di
sentimenti più delicati , avevano, in Italia, subito una
trasformazione : il loro stato d'animo era sensibilmente
diverso da quello delle generazioni precedenti , e un
gentiluomo dei primi anni del secolo XVIII si sarebbe
vergognato di ridere di quel riso grasso, rumoroso, come
s'era fatto sin' allora, dinanzi alle trivialità condite di
sudicerie o alle scipitezze o alle insulsaggini d'un Ar-
— 5 —
lecchino o d*un Brighella, d'un Pantalone o d'un Dot-
tore Graziano , d* uno Scaramuccia o d' un Capitano
Spavento della commedia dell'arte : trivialità, sconcezze,
insulsaggini e scipitezze che pur avevano fatto ridere
sovrani come Enrico III ed Enrico IV, Luigi XIII e
Luigi XIV, regine come Caterina e Maria dei Me-
dici, principi come i Gonzaga di Mantova, i D'Este
di Ferrara, i Della Rovere d'Urbino, uomini di Stato
come il Colbert, cardinali come l'Aldobrandini (il ni-
pote di Clemente VIII) e il Mazzarino, letterati come
il Tasso, il Chiabrera, il Marino, artisti come Salvator
Rosa e il Bernini . . .
Che cosa era la commedia dell' arte ?
Era una commedia di cui l' autore non scriveva il
dialogo; scriveva soltanto lo scenario o soggetto: l'at-
tore ne improvvisava il resto. Scrisse Adolfo Bartoli :
" Si chiamò commedia improvvisa o dell' arte quella
della quale non è disteso il dialogo, ma semplicemente
è fatta la divisione delle scene ed accennato ciò che
i personaggi debbono dire (1). " E il Baschet: " C'était
une comédie improvisée , développée , détaillée en
quelque sorte par inspiration et selon tous les caprices
de r esprit , sur un sujet donne , sur un canevas pré -
pare (2). "
(1) Scenari Inedili della Comm. dell' Arte. — Firenze, Sansoni,
1880. Introd. p. IX.
(2) Les Comédiens Italiens à la Cour de France sous Charles
IX, Henri III. Henri IV et Louis XIII. — Paris. Plon et C. 1882,
p. 10-11.
— 6 —
Quanta parte la commedia dell'arte lasciasse all' im-
provvisazione, e quindi all'ispirazione particolare del-
l'artista, vedremo più innanzi. Ora ci domandiamo:
quando nacque la commedia dell' arte ?
Segnare l'anno preciso della sua nascita, quasi che
i generi letterari avessero il loro Stato Civile, e quindi
facile riscontrarne la venuta al mondo con la produ-
zione dell'atto relativo, sarebbe quasi impossibile. Le
manifestazioni letterarie o artistiche del pensiero umano
non sono che lente e spesso faticose elaborazioni con
un continuo passaggio da una forma all'altra, che non
di rado non differisce dalla precedente che in particolari
secondari, quasi impercettibili. Risalire dalla forma com-
pletamente evoluta ai suoi primi embrioni, per quanto
r indagine sia largamente praticata, pure non è cosa sem-
pre facile o sicura : quando s' è, o si crede d'essere alle
origini, ecco che mediante un'ulteriore indagine, risa-
lendo sempre più in alto, troviamo ancora traccie, più
o meno appariscenti, di quel genere letterario o artistico.
Ma per non troppo divagare dal nostro tema, ecco che
le origini della commedia dell' arte o a soggetto, so-
rella minore di quella scritta o letteraria, si fanno ri-
salire sino al Medio Evo, non perchè scenari di com-
medie improvvise o a braccia di quel tempo siano per-
venuti sino a noi, oppure, perchè storici o cronisti fac-
ciano menzione che durante quell'evo, o in qualche suo
deriodo, si fosse rappresentato qualcosa di simile ; ma sib-
bene perchè le origini o le prime manifestazioni dello
spettacolo a braccia si è creduto di riscontrare nelle farse
— 7 —
o dialoghi recitati, come scrive il Bartoli (1), dai più
volgari istrioni mezzi commedianti e mezzi saltimban-
chi. Altri volle dcire alla commedia dell'arte origini
più antiche, e trovò che essa discendeva in linea retta
dalle famose farse della Campania, chiamate appunto
da Ateìla, il paese d'origine, Fabulae Atellanae (2)y
le cui quattro maschere trovano un riscontro in alcune
di quelle della commedia improvvisa, e che scomparse
dalla scena aristocratica, restano ancora a far ridere il
volgo dagli umili teatri popolari. Opinione codesta forse
non troppo ardita, e che troverebbe la sua documen-
(1) Op. cit. p. IX-X.
(2) Baschet; op. cit. p. 11-12. — Il Bernardin scrive: " Plusieurs
siècles avant l'ère Christiane il se jouait en Campanie, dans la petite
ville d'Atella, des comédies populaires . . . C'étaient Manducus et Lamia,
l'ogre et la goule, et surtout, Dossennus, le sage bossu, le maigre Maccus,
làche, voluptueux et gourmand, et Pappus, le veillard amoureux et avare,
toujours dupé. On s* amusait à les revétir d' un costume et à les piacer
dans une situalion absolument contraire a leur caractère et à leurs goùts,
montrant, par exemple, le poltron Maccus en demoiselle à marier. Les
Atellanes peìgnaient plus volentier les moeurs des petits gens: bou-
langers, pécheurs, gladiateurs .... Le dialogue fut long temps improvisé
par les comédiens sur un canevas trace d'avance. " La Comédìe ItC'
henne et il '77héa(re de la Foire ; Paris, Revue Bleue, 1 902. SuU'as-
serta discendenza della commedia dell' arte dalle antiche Atellane scrisse
ampiamente ed acutamente Benedetto Croce nel suo scritto : Pulcinella
e le relazioni della Commedia dell'arte con la commedia popolare
romana, stampato in: Arch. St. per le Prov. Napol. Voi. XXIII, e
di recente ristampato in : Saggi sulla letteratura italiana del Seicento ;
Bari, Laterza e figli, 1910; p. 195. Con lo scritto predetto il Croce
mette molta acqua nel vino di coloro che vorrebbero vedere nella com-
media a soggetto la diretta e legittima discendente delle Atellane. Con-
tazione o base che dir si voglia nell'elemento etnico;
poiché la Campania hi ed è sempre la patria del riso
pieno, irresistibile, comunicativo, del motto salace, della
frase sboccata, del gesto più espressivo, più eloquente
della stessa parola ; doti tutte che costituiscono la base
dello spettacolo comico di cui ci occupiamo. Anche
oggi il rappresentante più diretto delle Fahulae JlteU
lanae è certamente Pulcinella, la maschera più briosa
di tutte le maschere italiane e più rassomigliante a quel
Maccus che nelle città e nelle borgate sorgenti in-
torno al Vesuvio rallegrò i contemporanei di Plauto, di
Orazio, di Cicerone e di Virgilio. S' aggiunga che i
vinto propugnatore della predetta discendenza si mostrò in Italia il De Amicis
(Vincenzo) nel suo studio: U Imitazione latina nella Commedia Ita-
liana del XVI secolo, stampato, nel 1871, a Pisa, e poi con aggiunte
e correzioni ristampato dal Sansoni a Firenze nel 1897. Ma di recente
un tedesco ha veduto più lontano dei De Amicis. 11 Reich nella sua opera:
©er Mimus, ec. ec. (Voi I, Theorie des ^JìiCimus; Berlin, Widmann,
1 903) scrive che nel mondo letterario greco accanto alla poesia idealistica,
al dramma classico (Eschilo, Sofocle, Euripide) fiorì una specie di let-
teratura di secondo ordine, realistica, il mimo, cioè, il dramma mimico.
Il dramma classico si svolse poscia con Seneca a Roma , con Marlow^e e
Shakspeare in Inghilterra, con Corneille e Racine in Francia , con Schiller
e Goethe in Germania. Il dramma realistico esordisce col mimo; dalla Gre-
cia passa a Roma, a Costantinopoli ; nella seconda metà del secolo XV,
in Costantinopoli divenuta Stambul, diventa Karagoz, una maschera turca.
Da Roma va in giro per l' Europa medievale coi buffoni , giullari e
s'introduce nei Misteri; infine, crea la Commedia dell'Arte, forse per
via di Costantinopoli, o meglio di Stambul. Il Croce, giustamente, trova
tutto ciò parecchio ardito e senza documentazione. Ved. Croce in:
Saggi ec. ce. p., 261 e segg.
— 9 —
primi saggi di commedia popolare italiana si riscon-
trano appunto in certe farse che furono scritte a Napoli
nella seconda metà del secolo XV e sul principio del
secolo seguente, dette Cavajole, perchè tra i perso-
naggi figuravano persone di Cava, un paese che godeva
fama d' essere abitato da gente rozza, credenzona, stu-
pida. E in queste brevi composizioni comiche che per
la prima volta s' incontra un vero spunto di vis comica
nonché la riproduzione della vita fatta in senso realista.
Sin' allora lo spettacolo dominante, anzi il solo spet-
tacolo teatrale signoreggiante la scena, era stata la
Rappresentazione religiosa succeduta alla Laude dei
Disciplinati delle verdi vallate umbre e nella quale
r illustre Alessandro D'Ancona trova il primo em-
brione dello spettacolo teatrale italiano ( 1 ) : era — la
Rappresentazione religiosa o cM^istero — un' esposizione
cronologica dei fatti del Vecchio e del Nuovo Testa-
mento più o meno inframmezzata delle leggende che
intorno ai medesimi fatti aveva creato la fantasia del
popolo o di qualche frate meno incolto dei suoi com-
pagni dichiostro. Non passioni umane, non analisi
d' anime, non caratteri, ma tipi foggiati dalla tradizione
e quasi mai modificati dal poeta. 1 personaggi di quei
lavori , scriveva il Torraca (2), non sono persone. La
(1) Origini del Teatro Italiano; Torino, Lcescher, 1891, Voi. I,
pagina 2.
(2) // Teatro italiano nei secoli XIII, XIV e XV — Firenze,
Sansoni, 1885, p. XVI -XVII; e Io stesso Torraca: Studi di Storia
Letteraria Napoletana; Livorno, Vigo, 1884. (I capitoli: P. A. Ca-
racciolo e Le farse Cavajole.
— 10 —
Rappresentazione religiosa era intanto penetrata a Na-
poli; ma qui, lo spirito del vecchio Maccus, quel
vecchio spirito salace, beffardo, che si stemperava in
un riso largo, in buffonate, in lazzi, s' appiccicò allo
stesso dramma religioso e ne vennero fuori le Farse
Spirituali, Maccus, che aveva riso nel trivio, accanto
al tempio di Venere o di honte al foro dove i gio-
vanotti galanti mormoravano i versi di Catullo o di
Properzio all' orecchio delle belle matrone o delle
gentili fanciulle, aveva voluto ridere anche in chiesa,
accanto ai gravi personaggi del racconto biblico, ai
santi e alle sante della agiografia cristiana. Ma a Na-
poli, la farsa popolare, vero studio dal vero, esatta
riproduzione di costumi locali, liberatasi dalle pastoie
religiose, ebbe presto a sollevarsi a dignità d' opera
d* arte. San Carlino , il famoso teatrucolo dove per
tanti anni scoppiettò lo spirito napoletano, non fece
che continuare la tradizione degli umili teatri, dove
furono recitate le cavajole.
Applaudite cavajole scrisse, fra la fine del secolo XV
e il principio del secolo XVI, Antonio Caracciolo.
Il Napoli - Signorelli (1) ne ricorda alcune insieme a
curiose notizie sulle stesse ; ma andarono perdute, meno
qualcuna. Fra le smarrite, il Napoli-Signorelli ricorda
V Ammalato dove figurano tre medici, che probabil-
mente avranno messo in ridicolo i loro colleghi e la
scienza da loro professata due secoli prima che il Mo-
lière facesse lo stesso in Francia. Un' altra, pubblicata
(1) Coltura delle due Sicilie; voi. Ili, pag. 236.
dal Torraca (1), introduce a parlare una cita, lo citOy
una vecchia, un notaro, lo Preite, lo Vacano et uno
terzo. E una farsa assai magra, ma già vi si riscontra
lo spirito che poi doveva informare la commedia let-
teraria italiana non che quella dell* arte. Eccone una
scena.
Il notaio Fiorillo stipula, sulla scena, il contratto di
nozze e lo legge :
Voi che siete a lo torno qui in presentia,
Ognuno ad udientia s' apparecchie
Da prestarmi l'orecchie in questa parte,
Per fin che queste carte avrò lette.
Oggi che so li sette de febraro,
Che vene da po' jennaro, in presenti anno
Che corre senza affanno 1514.
Uno dei patti :
E ditta cita
Se obbliga a la sua vita non mancare
De maje s'accarezzare co lo cito
Se proprio isso ha appetito da pigliarla
La notte et abbracciarla, e quanno invario
Facesse lo contrario, che isso possa
Romperle tutte 1' ossa et la cacciare.
E da po' se pigliare per mogliere
Chi le fosse in piacere.
Un altro patto :
Ifem promette et jura qua davante
Che se issa qualche amante vò pigliare.
De non se ne accorare, et se accascasse
Che isso maje la trovasse ne lo letto,
(1) Op. cit. p. 305.
— 12 —
Promette altro dispetto non le fare
Se no de se n'andare et stare fore
Pe quatto o cinque hore et non tornare
Se no lo fa chiamare; ma de patto
Vole che zò che ha fatto la mogliera
De farcelo assaporare sia costretta.
LA CITA
Puro che me prometta non m' accidere.
LO CITO
Io me ne voglio ridere.
Letti i capitoli, viene lo Prevete, il quale, interro- i
gati i testimoni, congiunge gli sposi con espressioni
burlesche.
Un' altra farsa popolare (cavajola), non del Carac-
ciolo, ma di Vincenzo Braca, s' intitola : Farsa cava-
iola della Schola (1). Riportiamo la lezione del maestro:
. . . Pigliate e lettiuni. Tacete omnes,
Conticuere omnes poslquam ilìa Dido
Trovato havea no nido de Cianfroni,
Edificava e mura de Cartagine
Con tutte quante e magine de Trojani
E de antichi Romani a natione.
A regina Junone contra Enea
Con Eolo ne venea, armata mano,
E pigliao, sano sano, o coloniello
Da dietro no vasciello, e s'annegao.
Enea se n'adonao, e disse: o Fato,
(1) Torraca; op. cit. pag. 431.
— 13 —
Oh, che sciagura è stato, eo songo puosto
Che so de o sangue vuosto, e mo m'anneo.
Così pregando Deo dette a sborrare
Natando dintro a o mare, e a Pezzulo
Se n'andao sulo, sulo. In chesto Acate,
Che l'era come frate, o secutava
E con isso natava co e bessicKe,
Lassando e navi amiche ncanna a l'onde.
Ma Venere e nasconde dintro a neglia
Dando a* sordati a veglia, e co a fortuna
lero a luce de luna po' a sbarcare
Dove vedero fare na Cetate
Dell' Afreca a e contrate, dove Dudone
Voze ntendere a raggione, che i gricci
Commattero anni dieci contro Troja.
Ejiea, che avea a fojade a Regina,
Comenzao na matina cossi a narrare:
Conticuere omnes et intentique
Angustie sunt ubique bora tenebant.
Ita Trojani dicebant: inde Thoro,
Pregando Santo Aitoro : eh, regina.
Tu vuoi stammatina, jubes rennovare,
Accomenza a cantare, dolerem . . .
Il maestro continua ancora un poco, poi si ferma e
dice:
Pe chello, che me veo, ca sto secundo
No o p>o ntendere Ramundo.
(Gli scolari si chiamavano: Ramundo, Parmades,
Ciardullo, Giandisco, Paduano e Masullo).
RAM. — Né Maffeo . . .
MAF. — Né manco Giarmisco, né Paduano . . .
PAD. — Ciardullo co o Masullo sta confuso . . .
— 14 —
CIAR. — Liei, Masto, o Furiuso . . .
PARM. — E Antonio Bruno ...
MAR. — E a storia de Liunbruni.
MASTRO — Quetollà,
Voglio fa punto eo cha.
CIARD. — Mastro, feria !
MASTRO — Ca non potimo sta miseria comportare.
Abbiamo voluto riportare codeste due scene di farse
cavajole, perchè già vi si comincia a disegnare un
motivo, che in seguito fu ampiamente sviluppato dalla
commedia dell' arte, la quale in questo ebbe a compagna
quella letteraria o scritta. Difatti, nelle due scene sopra
trascritte, e dove nell'una il notaio legge il contratto nu-
ziale, e nell'altra il maestro impartisce la sua lezione
agli scolari, fa capolino la parodia. Qui il notaio e il
maestro toccano il grottesco. Non è più il sorriso che
increspa il labbro ; è il riso largo, sguaiato che trasforma
la bocca in una smorfia. C è la rappresentazione del
vero, ma quasi sempre la rappresentazione precipita
nella caricatura. Le maschere, che dovranno costituire
più tardi la base della commedia dell'arte, già si sen-
tono, s'intravedono nelle farse cavajole. Quel notaio,
quel maestro di scuola , l' uno grottesco, l' altro igno-
rante, preannunziano l'arrivo sulla scena di personaggi,
che la commedia dell'arte renderà famosi. Se non che,
non abbiamo ancora la commedia a soggetto: le parti
delle Cavajole sono scritte, a meno che un primo al-
bore — un albore pallido, diremmo quasi incerto —
dello spettacolo improvviso non si volesse vedere in
quelle facezie, o meglio, in quei lazzi con che i per-
- 15 —
sonaggi delle farse del Caracciolo e del Braca accom-
pagnavano i loro discorsi ; per esempio, gli atti burle-
schi con che il 'Preite, nella farsa del primo dei due
sopra ricordati scrittori, infiorava la celebrazione delle
nozze.
Quasi al punto opposto della penisola, nel Piemonte,
e precisamente ad Asti , Gio. Giorgio Allione , con-
tenporaneo degli scrittori delle Cavajole, scriveva com-
medie e farse in vecchio dialetto astigiano misto qua
e là al fiancese , ricordo della calata di Carlo Vili :
ma la vis comica v' è povera , e quelle commedie e
quelle farse hanno tutta l'aria di discendere dalle vec-
chie Moralités e Soitises francesi (azioni dialogate).
La commedia popolare, o, semplicemente, farsa, non
fu, sulla fine del Quattrocento, un prodotto esclusiva-
mente napoletano. Farse, o commedie popolari furono
scritte e recitate anche fuori di Napoli ; potrebbe dirsi,
anzi, che sulla fine del secolo predetto se ne fosse dif-
fuso il gusto in tutta la penisola. L'anima italiana, sin' al-
lora terribilmente stretta fra le morse del misticismo medie-
vale, serrata fra le penombre delle chiese dalle strette
finestre ogivali , materiata di leggende foggiate nelle
oscure e malinconiche celle dei conventi, quotidiana-
mente minacciata dalle pene eterne dell' inferno, ral-
legrata soltanto da uno spettacolo scenico, qual' era la
Rappresentazione religiosa, dove tanta parte dell'anima
stessa, il sentimento amoroso, era severamente soppressa,
sentiva il bisogno di respirare più liberamente, di ri-
cordarsi che viveva insieme alla carne , che se l' una
aveva i suoi bisogni, anche l'altra aveva i propri. La
— lo-
carne; ecco il nuovo personaggio che nella seconda
metà del Quattrocento entrava sulla scena della vita ;
un personaggio che il Medio Evo, se non aveva igno-
rato, riteneva che fosse perfettamente trascurabile dopo
d'averlo reso impotente. L'uomo usciva fuori del triste
sogno; si svegliava ed aprendo gli occhi alla luce,
s'accorgeva che quanto gli stava intorno, vivente sotto
la volta del cielo azzurro, non era così brutto come
era stato dipinto dai teologi e dai moralisti : la donna,
sopratutto, non era quell'essere inferiore, quasi sozzura
vivente, nemica dell' uomo e della sua salute eterna ,
che gli avevano descritto, bersaglio d'anatemi, d'ironie
crudeli, d'oltraggi senza fine. Si ricordava, finalmente,
che prima di quell' incubo, tante volte secolare, l'uomo,
sotto quello stesso cielo azzurro, accanto a quei monti
superbi o a quelle colline dalle linee delicate, su quei
campi che il sole di giugno indorava nelle messi e
quello di settembre e d'ottobre imporporava nei grap-
poH pendenti dalla vite maritata all'olmo o corrente,
a guisa di festone, da un albero all'altro, era vissuto
lietamente, non turbato dai sogni o dai presentimenti
della vita futura. Perchè egli non avrebbe fatto come
i suoi antichi padri se nulla intorno a lui era cambiato,
se la natura era sempre la stessa?
Certamente, codesto cambiamento della psiche uma-
na, in Italia, non avvenne d'un tratto; sarebbe quasi
impossibile il segnare il giorno di questo risvegliarsi
dell'anima italiana alla vita novella. I primi segni pre-
cursori si ritroverebbero, forse, nell'Italia del mezzo-
giorno, alla corte di Federigo II svevo, dove l' impe-
— 17 —
ratore e re, tedesco d'origine, ma nato in Italia, e i
suoi cortigiani, metà soldati , metà trovatori , si beffa-
vano delle pene dell'inferno, e in quella del Setten-
trione e del Centro alla prima invasione dei poeti pro-
venzali o del gusto della poesia provenzale. Ma non
era che un' esigua , sottile corrente intellettuale attra-
versante, quasi limpido fiumicello, le masse popolari,
specie d' oceano torbido , profondo , travagliato dalle
superstizioni, dall' ignoranza, dal fanatismo. Dante stesso,
spirito superiore al suo secolo, non seppe intieramente
sottrarsi alle sue credenze d'uomo medievale, e se non
ebbe il coraggio di condannare Manfredi , soldato ,
poeta ed innamorato, all' inferno, lo cacciò nel purga-
torio.
Ma verso la metà del Quattrocento, in Italia, il di-
stacco fra l'uomo-nuovo e l'uomo-medievale, nelle classi
elevate o dirigenti, è completo. Re, principi, uomini
di spada, poeti, eruditi, rappresentano la nuova vita,
e con loro anche i papi, i cardinali, i vescovi. Il ri-
sveglio della vita, il ritorno al culto della natura, è
così profondo, è così baldo che pervade e vince il suo
antico nemico : la Chiesa. Si comincia a sentire il bi-
sogno di conoscere più intimamente il vecchio mondo,
quello pagano, così calunniato, così laidamente dipinto
dai padri della Chiesa e dai filosofi cristiani ; si fruga
negli archivi e nelle biblioteche; si fruga sotto le ro-
vine, e ne vengono fuori e manoscritti e statue. Si re-
staura il culto di Roma e d'Atene pagane. Il teatro
di Plauto, sopratutto, ottiene un successo trionfale ; di-
venne per l'ultima generazione intellettuale del Quat-
S^el Regno delle t^aschcre 2
trecento, per quella generazione che presenziò la sco-
perta del Guitemberg e dell'America, lo scrittore tea-
trale di moda, diremmo quasi il Dumas figlio o il
Sardou di quei tempi. Terenzio , forse perchè meno
sboccato, meno ricco di vis comica, sebbene più cor-
retto, piacque meno. I grandi signori furono i loro edi-
tori teatrali , i loro buttafuori , non esclusi i papi.
ì ty^enecmi, di Plauto, furono recitati alla corte di
Ferrara nel 1 482 ; nel 1 484 furono recitati dagli alunni
di Paolo Comparirti a Firenze, cittadella, come scrisse
il D'Ancona (1), della Rappresentazione sacra; sotto
Alessandro VI Borgia e alla sua presenza si recita-
rono, a Roma, oltre i ^M^enecmi, i Fantasmi, dello
stesso Plauto. A Mantova, ad Urbino, come a Fer-
rara e a Roma, Plauto e Terenzio sono i poeti comici
favoriti. Del primo, oltre le due ricordate commedie,
furono poste in iscena il JTO/es Qloriosus, ì Captivi,
il Trinummo, il Truculento, X Jlsinaria, YAulularia;
del secondo, VAndria e qualchedun' altra, senza tener
conto delle riduzioni e dei raffazzonamenti più o meno
liberi. Non è un'esumazione, un esercizio o passatempo
accademico, d' intellettuali ; è uno spettacolo che real-
mente piace, che incontra il favore del pubblico, che
esilara dotti ed indotti. E Plauto e Terenzio furono
subito imitati : e di qui ebbe origine il teatro comico
italiano letterario, che però per difetto d'un Carlo Gol-
doni nel Cinquecento, meno la ^Jì^andragora del Ma-
chiavelli , non diede che frutti senza sapore , privi di
(1) Op. cit. voi. lì; p. 61.
— 19 —
spirito , freddi, compassate riproduzioni delle opere del
teatro latino. Pure ai contemporanei, quelle commedie,
non parvero cattive : la Calandra, di Bernardo Dovizi
da Bibbiena, che oggi, riprodotta, addormenterebbe il
pubblico , quando apparve sulla scena divertì papi e
cardinali, dame e gentiluomini ; ne il suo successo fu
effìmero , poiché troviamo che nel 1 548, cioè, più di
mezzo secolo dopo eh' era stata scritta , fu recitata, a
Lione, da una compagnia di comici italiani per festeg-
giare in quella città l' ingresso di Enrico II e di Ca-
terina dei Medici (1).
Ma qui noi non dobbiamo fare la storia della com-
media letteraria. La farsa popolare, che a Napoli ac-
quistò perfezione sopratutto per opera del ricordato
Caracciolo e di Giosuè Capasse, si diffuse, come già
dicemmo , per tutta Y Italia. Essa si distingueva da
quella erudita perchè più spigliata , più leggiera, più
ricca di vis comica ; si distingueva segnatamente perchè
aveva risentito meno l' influenza del teatro comico la-
tino, e quindi essa anziché plasmarsi troppo fedelmente
sulle opere di Plauto e di Terenzio, riproduceva più
o meno felicemente dal vero i suoi personaggi. In
somma , essa era cosa viva ; Y altra non era che una
esercitazione letteraria.
(I) E la fredda Calandra piacque davvero in Francia. Un con-
temporaneo lasciò scrino che essa fu scelta, a Lione, nel 1 543, " per
ciò che piacevolissima era e di sollazzevoli motti piena et dsii più in-
tendenti stata sempre lodala e pregiata molto. "
Baschet, op. cit. pag. 7.
— 20 —
A Firenze scrisse commedie popolari il Cecchi ;
ma i suoi lavori sono meno vivaci di quelli dei suoi
confratelli di Napoli (1). Allo stesso Cecchi dobbiamo
la definizione della commedia o farsa popolare : la
togliamo dal Prologo della Romanesca. Eccola:
La farsa è una terza cosa nuova
Tra !a tragedia e la commedia : gode
Della larghezza di tutte due loro,
E fugge la strettezza lor ; perchè
Raccatta in sé li gran signori e principi :
Il che non fa la comedia ; raccetta
Com' essa fosse o albergo o spedale,
La gente come sia, vile e plebea ;
Il che non vuol far mai donna Tragedia ;
Non è ristretta ai casi; che li toglie
E lieti e mesti, profani e di Chiesa,
Civili, rozzi, funesti e piacevoli ;
Non tien conto di luogo : fa il proscenio
Ed in Chiesa ed in piazza e in ogni luogo :
Non di tempo; onde s'ella non entrasse
In un dì, lo terrebbe in due, in tre;
Che importa ? E insomma, eli' è la più piacevole
E più accomodata foresozza
E la più dolce che si trovi al mondo,
E si potrebbe agguagliarla a quel monaco
II quale volea promettere all' abate
Fuor che 1' ubbidienza, ogn' altra cosa.
La quale definizione non abbiamo riportato a solo
titolo di curiosità ; perocché , come vedremo innanzi ,
quasi tutti gì' ingredienti di cui il Cecchi ci ha fornito
(1) Torraca; op. cil. p. XVII.
I
I
— 21 —
la ricetta , entreranno a far parte delia composizione
della commedia dell'arte; anzi, quest'ultima, meno la
parte scritta, non sarà che una farsa popolare riveduta
e corretta, specie con l'introduzione delle maschere
o col più ampio sviluppo a loro dato.
La farsa, o commedia popolare, come già avvertimmo,
s'innalzò subito a vero lavoro d'arte per quel certo suo
spunto d'originalità di cui fu cosparsa, il che non av-
venne per la sua sorella maggiore, la commedia lette-
raria, che vivacchiò fra i ricordi classici, più che arte
e viva riproduzione di vita vissuta, imparaticcio d'eru-
diti brancolanti fra persone e cose morte per quanto
su quest'ultime, tratto tratto, passasse un soffio di vita,
un'eco del mondo contemporaneo : imperocché, lo scrit-
tore, pur restando fedele alla falsariga del capolavoro
d'un'altra età, non poteva a quando a quando, anche
alla sua insaputa, non dar sfogo al proprio spirito. Certo,
fra le due sorelle, il distacco non fu così enorme da
non più ravvisare fra l'una e l'altra la comune origine :
molte situazioni , parecchi tipi , certi atteggiamenti , e
qua e là qualche derivazione dal tronco originario ri-
masero comuni; ma la sorella maggiore restò più so-
stenuta, più obbediente alle tradizioni classiche, anche
quando volle rispecchiare le diverse correnti letterarie
imperanti nella penisola, sia se d'origini nostrane , sia
se esotiche , mentre la sorella minore più briosa , per
nulla pedante, ribelle al dominio delle accademie e
dei canoni, anche se questi dettati in nome d'Aristo-
tile, più a contatto col popolo e da esso attingendo le
sue ispirazioni, il suo riso piuttosto volgare , fìnanco i
— 22 —
lazzi più indecenti, conservò una freschezza quasi rin-
novantesi di generazione in generazione tanto da assi-
curarle una vita rigogliosa, brillante, la cui fama ben
presto varcò le Alpi diffondendosi pel mondo civile
d' allora.
Ma la caratteristica che meglio di qualsiasi altra
doveva far distinguere la commedia letteraria o soste-
nuta, come anche si disse, dalla popolare, fu l'aboli-
zione del dialogo scritto in quest'ultima ; mentre l'una
continuò sempre ad essere scritta, di modo che l'attore
non doveva recitare che la parte dettata dal comme-
diografo, l'altra, soltanto ideata e sceneggiata dal suo
autore, venne affidata, quanto al dialogo, all' ispirazione
dei comici. '%
Quando avvenne tale separazione ? Quando il com-
mediografo si limitò a trovare il soagetio del suo la- t
voro e a dividerlo in atti e scene, lasciando che l'ar-
tista ne inventasse il dialogo su una breve indicazione
o traccia fornita dall'autore stesso? Già dicemmo come
non fosse diffìcile che qualche cosa di spontaneo, nella
rappresentazione delle Cat^o/o/e napoletane, fosse lasciato
all'ispirazione dell'artista, quasi ricordo o continuazione
di quanto gì' istrioni o buffoni o saltimbanchi praticavano
nei loro spettacoli o ludi da piazza o da fiera ma le
prime manifestazioni della commedia dell'arte o improv-
visa non dubbie, ne limitate a qualche sola parte, s'hanno
nella prima metà del Cinquecento (1). Come quasi
(I) Lo Stoppato {La Commedia popolare in Italia; Padova, 1887)
dà conto d'una farsa o satira morale di Venturino Venturi, pesarese,
anteriore probabilmente al 1521, con personaggi parte allegorici e parte
— 23 —
sempre, il creatore rimane avvolto nel mistero : ecco
la commedia dell' arte ; essa regna sulla scena ; ma chi
fu il primo a stendere un intiero scenario con tutte le
parti dei personaggi non scritte , ma solo indicate ?
Adolfo Bartoìi (I) ritiene che il tedesco Klein (^e-
schichte des Drama's , IV, Das italienische T)raTna ^
I, 903) s'inganni quando fa il nome di Francesco
Cherea come inventore della commedia a soggetto ap-
poggiandosi ad un passo dalla Venetia descritta ecc.
del Sansovino. Questi , parlando del Cherea , eh' era
commediograio ed attore, scrisse : " Egli — il Cherea —
piacque grandemente ai nostri, onde inventori, in queste
parti di recitar commedie, si suscitarono in quei tempi
a sua persuasione diversi nobili ingegni, che ne reci-
tarono di belle ed onorate. Perciò che allora mise mano
a questa impresa Antonio da Molino inteso Burchiella,
" huomo piacevole et che parlava in lingua greca et
schiavona corretta con l' italiana, con le più ridicolose
et strane inventioni et chimere del mondo ..."
Il passo del Sansovino non darebbe , secondo il
nostro modesto parere, tanto torto allo scrittore tedesco ;
in quel Cherea, eh' è inventore non solo di commedie,
umani, fra i quali ultimi è notevole lo Spampana che viene in iscena
bravando , dimostrandosi in parole e in gesti bravissimo bravo , tipo
anticipato del Capitano della commedia a soggetto. Ma siamo sempre
il ; più che d' una commedia, si tratterebbe d'una sola parte a braccia.
Ved. D'Ancona; op. cil.. Voi. II, p. 53.
(1) Op. cit. p. X (in nota).
— 24 —
come fu realmente (1), ma anche inventore in queste
parti di recitar commedie ; in quel Burchiella, che recita
sulla scena in lingue straniere più o meno italianiz-
zate le più ridicolose et strane inventioni et chimere^
ci parrebbe di vedere qualche cosa di diverso dal sem-
plice attore recitante una parte scritta. In ogni modo,
la cosa resta avvolta nel dubbio, il quale solo potrebbe
dissipare Y esumazione del teatro a soggetto del Cherea,
ove pure questi ne avesse scritto uno e qualche esem-
plare ne esistesse sepolto in qualche nostra biblioteca,
specie del veneto. Qualunque però fosse stato il tempo
in cui la commedia dell'arte apparve sulla scena, egli
è certo che nella seconda metà del secolo XVI essa
era fiorente; non s'arresta entro i confini d'Italia, ma
valica le Alpi, e noi vediamo che i suoi interpreti,
nel 1 570, in Francia, coi loro lazzi, con le loro facezie,
con le loro trovate più o meno spiritose fanno ridere
Carlo IX, sua madre, Caterina dei Medici, ed i loro
cortigiani: riso, lazzi, facezie, trovate che non impe-
dirono a quella corte, quattro anni più tardi, di con-
sumare quell'orrendo misfatto, che passò alla storia
sotto il nome di notte di San Bartolomeo , o sempli-
cemente, Saint-Barthélemy.
(I) Cherea, nome tolto dai teatro terenziano, era Francesco dei
Nobili, lucchese, che fu favorito, insieme a tanti altri comici istrion^
cantori e poeti, di Leone X. Visse molti anni della sua vita a Ve-
nezia, dove, nel 1 508, chiese ed ottenne da quel Senato il privilegio
della stampa delle sue commedie e tragedie alcune delle quali dovevano
essere riduzioni ed anche semplici traduzioni dal latino come lo dimo-
strano i titoli: il ó^iles, VAmphitrione, XAulularia, la Mastellaria,
* Menecmi. Ved. D'Ancona; op. cit. Voi. II; p. 111.
— 25 —
Comici italiani della commedia dell'arte apparvero
verso quel tempo anche in Austria ed in Ispagna; il
che dimostrerebbe come già in quel tempo il nuovo
spettacolo fosse non solo adulto, pieno di giovinezza,
ma anche assai gustato da pubblici di temperamento,
cultura e gusto diversi. Ne è da far le meraviglie :
la commedia letteraria o sostenuta era stata sin' allora
una povera cosa; fredda, pedestre imitazione della la-
tina, essa aveva avuto una certa fortuna dinanzi ad un
pubblico che sazio delle vecchie Rappresentazioni sacre,
o dei MisterU o delle <^oralità informate ad uno spirito
che non era più quello del tempo, faceva buon viso
al nuovo spettacolo, se non altio per la novità del suo
contenuto. Bisogna risalire sino alle generazioni che
vissero tra la seconda metà del Quattrocento e la prima
metà del Cinquecento e fare, anche compendiosamente,
un inventario delle loro credenze, delia loro cultura,
dei loro libri favoriti di lettura, dei loro divertimenti,
sia privati che pubblici, per farsi un' idea della sorpresa
piacevole che la nuova commedia dovette produrre sul
loro animo. Per quanto il nuovo spettacolo comico a
soggetto fosse calcato, sino a certo punto, su quello
letterau-io, e questo su quello classico, di guisa che ca-
ratteri e personaggi, ed anche situazioni, non presen-
tassero che uno scarso sapore di novità (1), pure l'im-
provvisazione, che formava la pietra angolare della
nuova commedia, dava a quest' ultima un'attrattiva, un
(1) A. Bartoli; op. cit. p. LVill.
— 26 —
fascino che non si riscontrava nelFaltra. Il Gherardi (1)
scriveva : " Qui dit bon comédien italien dit un homme,
qu' a du fond, qui joue plus d' imagination que de
memoire, qui compose, en jouant, tout ce qu' il dit. "
Ed un altro scrittore (2) : " La fagon dont les comé-
diens italiens composent , apprennent , et représentent
leurs comédies , est inexprimible , et si je T ose dire ,
inconcevable, par la quantité d' agréments et des dis-
cours non étudiés qu' ils y ajoutent. " Sebbene codesti
due giudizi contengano un po' d' esagerazione, poiché,
come dimostreremo, non è esatto il dire che tutto il
dialogo della commedia a soggetto fosse improvvisato,
pure il nuovo spettacolo avvicinandosi di molto più
che r altro al vero, alla vita reale, non poteva che
piacere grandemente ad una società che sino a quel
momento per suo pascolo intellettuale non aveva avuto
che lavori esumati di sotto alle rovine d* un mondo
scomparso o calcati sugli antichi. Così si spiega il
grande favore che acquistò la commedia dell'arte non
solo in Italia, ma anche in Francia, dove, recitata da
italiani, sino a divenirvi uno spettacolo diremmo quasi
nazionale, sopravvisse, sebbene di poco, alla sua scom-
parsa nel paese d'origine. Il teatro francese, meno qual-
che produzione , verso la fine del Cinquecento , era
d'argomento sacro: il vecchio Mistero e la vecchia
Moralité si strascinavano sulle scene, sebbene avessero
assunto forme moderne, o meglio classiche. Sul prin-
(1) Le Théàtre Italien de Qherardi, ou Recueil Qen. de toutes
les comédies, ec. Paris, 1717. Advertissement.
(2) A. Bartoli; op. cit. p. LXXI (in nc.a).
— 27 —
cipio del Seicento gli argomenti sacri non erano ancora
scomparsi dal teatro : nel 1 60 1 troviamo un Joseph le
Chaste, un Achab, una Lutece ou L'Jlmour divìn,
del De Marie ; una Sainte Cécile e un Job del
Sainte-Marthe. Dopo la comparsa dei primi comici
italiani alla corte di Francia sotto il regno di Carlo IX,
nel 1581, sotto il regno di Enrico ili, apparve alla
stessa corte la famosa compagnia dei Gelosi già esi-
stente a Firenze sin dal 1 578. Ne facevano parte i
celebri coniugi Francesco ed Isabella Andreini : questa
non era soltanto una grande attrice, era anche poetessa,
e i suoi contemporanei la celebrarono in prosa e in
versi (I). Morì giovane a Lione, nel 1604, mentre era
in viaggio per rientrare in Italia. La Municipalità di
Lione le rese solenni onoranze funebri come se fosse
una regina o una principessa reale, ed uno scrittore fran-
cese del tempo, Pietro Mathieu, ne volle conservare,
col suo stile pomposo, il ricordo nella sua Histoire de
(I) In Italia fu celebrata da Torquato Tasso, che la conobbe a
Roma, presso il cardinale Aldobrandini, nipote di Clemente Vili, e
dal Chiabrera ; in Francia, al momento della sua partenza per l' Italia,
Isacco de Ryer, cantò :
Je ne crois point qu' Isabelle
Soit une femme mortelle.
C est plutot quelqu* un des Dieux
Qui s' est déguisé en femme
A fin de nous ravir l àme
Par roreille et par Ics yeux.
Baschet ; op. cit. p. 134.
— 28 —
France: " Si elle eust vescu en Grece au tems que
la comédie estoit en vogue, on lui eust douné les
statues et eust re^ué sur le théhàtre autant de fleurs,
comme les mauvais joùeurs y recevoient de coups de
pierre (1). " Il marito, che fu anche scrittore, creò o
meglio, rinfrescò con nuovi atteggiamenti la parte del
Capitano, che egli battezzò col nome di Capitan Spa-
vento di Valle Inferna; una parte, o maschera, che
risaliva sino al t^iles Qloriosus di Plauto, ma che in
realtà era la parodia dei soldati spagnuoli allora spa-
droneggianti in Italia. Narrando le sue gesta d' alcova ,
poiché egli s'atteggiava a formidabile seduttore, diceva,
per esempio, eh' egli in una sola notte aveva posto
fuori combattimento duecento donne , e discorrendo
delle doti meravigliose della sua persona narrava che
la natura per formarlo aveva preso l' oro della prima
età, l'argento della seconda, il bronzo della terza e
il ferro della quarta, e che, fatta questa scelta, gli
aveva fregiato il capo con l'oro, il corpo con l'ar-
gento, le gambe col bronzo e le braccia col ferro; j
oppure, facendo l'inventario degli oggetti preziosi dafl
lui posseduti, citava la sua spada fabbricata da Vul-"
cano poi offerta al Fato, che l' aveva data a Serse,
il quale, alla sua volta, l' aveva dato a Dario passando
successivamente per le mani d'Alessandro, di Romolo,
di Tarquinio, del Senato Romano e di Cesare dal
quale pervenne in quelle gloriose di lui. il carattere
di Capitan Spavento di Valle inferna divenne presto
(1) Baschet; op. cit. p, 147-148.
— 29 —
celebre ; egli fu imitato, copiato e non si scrisse o non
si ideò commedia sostenuta o a soggetto di quei tempi
che a quel personaggio fanfarone non si assegnasse
una delle prime parti : lo stesso Andreini ne volle
dare un saggio abbastanza ampio in un suo libro dal
titolo: Le Bravure del Capitano Spavento, divise in
molti ragionamenti in forma di dialogo, la cui prima
parte fu stampata a Venezia nel 1607 e la seconda
nel 1618. L'intiera opera fu ristampata, sempre a Ve-
nezia, nel 1 624 e nel 1 669 ; segno, certamente, questo
del successo ottenuto da un* opera che sebbene scritta
in uno stile ampolloso, gonfio, riboccante di esagera-
zioni ed iperboli grottesche, pur rispecchiava il gusto
delirante del tempo (1).
Essendo entrata pienamente la commedia dell' arte
nel gusto del pubblico, alcuni principi italiani pensa-
rono di prendere al loro stipendio i migliori attori del
tempo creando così delle vere compagnie comiche di
corte, quasi stabili. 1 principi di Mantova, sotto questo
aspetto , potrebbero , anzi , chiamarsi gì' impresari più
fortunati che abbia avuto l' Italia tra la fine del Cin-
quecento e i primi tre decenni del Seicento ; difatti,
tutte le volte che la corte di Francia volle sentire dei
buoni comici improvvisi, fu sempre costretta a chiedere
al duca di Mantova la cessione di quelli da lui sti-
( I ) Le tre prime edizioni sono citate dal BascKet, op. cit. ; un esem-
plare di quella del 1669, si trova nella Biblioteca Nazionale di Pa-
lermo. Le Bravure (prima parte) furono tradotte in Francia e stampate,
nel 1608, a Parigi; ma l'opera francese, in verità, più che una tra-
duzione, è una riduzione.
— 30 —
pendiati. Ne le trattative per averli per qualche sta-
gione erano facili : una gita dei comici di Sua Altezza
Serenissima il signor duca di Mantova a Parigi assu-
meva tutta r importanza d' un affare di Stato ; non ba-
stava un semplice scambio di lettere fia ministri e mi-
nistri; occorreva nientemeno che il re o la regina di
Francia scrivessero direttamente per ottenere che i com-
medianti del signor duca, profumatamente pagati e re-
galati , recitassero al palazzo di Borgogna, la c7^Caison
delia commedia italiana di quel tempo a Parigi. Quivi
erano attesi con impazienza ed ascoltati con estrema
benevolenza, anche perchè la lingua italiana era allora
assai conosciuta in Francia, ove , come scrive il Ber-
nardin (1), " depuis les guerres d'Italie et le mariage
de Catherine de Medicis, Y italien on parlait beaucoup
et bien des parisiens étaient capables de comprendre
et de suivre une comédie italienne. "
Le compagnie comiche, per altro, si moltiplicarono
col crescente successo della commedia dell* arte ; lo
spettacolo a soggetto o a braccia era allora diventato
il divertimento più gradito, più gustato delle alte classi
sociali. Gli istrioni italiani facevano ridere re e regine,
ministri ed alti dignitari di Corte. Mentre V Italia spro-
fondava nella miseria, essa rideva e faceva ridere. Ecco
perchè nessuno, nemmeno essa stessa, se ne accorgeva.
L* Italia era stesa sul cataletto, che la Spagna le aveva
preparato ; ma che importava ? O gì' italiani non ride-
vano?
(1) Op. clt. ; p. 10-11.
— 31 —
Interessante, certo, riuscirebbe una storia delle compa-
gnie comiche che interpretarono la commedia dell' arte
in Italia e fuori ; se non che, le indagini, lunghe, pazienti
che richiederebbe un lavoro simile, non ne hanno reso
possibile sino a questo momento l'attuazione. Il Baschet
tentò, su documenti inediti esistenti in Francia e nel-
l'Archivio di Stato di Mantova, una storia dei com-
medianti italiani che recitarono in Francia sotto i regni
di Carlo IX, Enrico II, Enrico III, Enrico IV e Luigi
XIII ; ma, come si vede, occorrerebbe riempire ancora
delle lacune, e vaste, poiché le recite dei comici ita-
liani in Francia continuarono sotto i regni di Luigi
XIV, di Luigi XV, e non cessarono completamente,
sebbene avessero smesso di adoperare la lingua propria,
che sotto il regno di Luigi XVI (1). Però delle mag-
giori compagnie, come dei maggiori comici, che recita-
rono in Italia, non mancano notizie, anche perchè Fran-
cesco Bartoli, un amoroso cultore della storia dell'arte
comica, dopo d'essersi ritirato dalle scene, stampò a Pa-
dova, nel 1781, un grosso volume di polizie Storiche
dei Comici italiani. Prima di lui, sullo stesso argomento,
un copioso materiale (ma per la storia della commedia
italiana dell'arte in Francia) avevano radunato il Ricco-
boni e il Gherardi, come il Bartoli, scrittori e comici ;
e dopo lo stesso Bartoli, abbiamo avuto Maurizio Sand
col suo prezioso libro: ty^asques et BuffonSy ed altri
( 1 ) Sulle vicende dei comici italiani a Parigi sotto i regni di Luigi
XIV, Luigi XV e Luigi XVI, ha dato, di recente, curiose notizie il
Bernardin. Ved. op. cit.
— 32 —
come il Campardon, il Moland, il Magnin, il BaschetJ
il Bernardin, e fra gì' italiani Adolfo Bartoli e Luigi
Rasi, il primo con la sua Introduzione agli Scenari Ineditiì
e il secondo col T)izionario biografico dei Comici ita\
lianì (1).
Una delle più vecchie compagnie comiche italiana
che ricordi la storia è certamente quella di Drusiam
Martinelli, che dopo d'essere stata in Francia, fu nel
1577 in Inghilterra alla corte della grande Elisabetta^
un'altra, diretta da un certo Ganassa , fu in Ispagna
alla corte di Filippo II, formando la delizia del tetre
Tiberio spagnuolo. Il Ganassa recitava le parti del
secondo Zanni', recitò anche in Francia e scrisse ui
Lamento con messer Stefano Bottargo sopra la morte
d'un pidocco. Una compagnia che acquistò subito fama
grandissima fu quella detta dei Gelosi costituitasi a Fi-
renze qualche anno innanzi al 1 580 con gli avanzi
di due altre compagnie l'una delle quali detta dei
Confidenti e l'altra, come la nuova, dei Gelosi, che per
qualche tempo formarono una sola Compagnia detta dei
Comici Uniti, Dei nuovi Qelosi erano principale orna-
mento i due artisti già da noi ricordati, Francesco An-
dreini e la moglie di lui, Isabella ; gli altri artisti erano
Lodovico da Bologna (Arlecchino), Giulio Pasquali
(Pantalone), Simone da Bologna (Zanni), Gabriele da
Bologna (Francatrippa), Mario da Padova (Innamo^
rato), Adriano Valerini (secondo Innamorato), Giro-
(1) Per quanto riguarda le provincia napoletane è importante l'opera
del Croce : / Teatri di Napoli ; Napoli, Pierro, 1 89 1 .
— 33 —
lamo Salimbeni da Firenze (vecchio borghese), Silvia
Rovaglia (Franceschina o fantesca). Di questa compa-
gnia lo stesso Francesco Andreini, quando, in seguito
della morte della moglie, si ritirò dalle scene, scrisse
che " la fama non avrebbe mai visto l'ultima notte ! "
In una delle sue trasformazioni, essa ebbe per capo o
direttore Flaminio Scala, il quale scrisse parecchie com-
medie a soggetto i cui scenari furono stampati dallo
stesso Scala a Venezia , nel 1 60 1 col titolo : Teatro
delle Favole rappresentative ( 1 ) : e sono i più antichi
che si conoscano. Nel 1 599, sotto gli auspici del duca
di Mantova, si formò una compagnia d' " Arlecchino " ,
dalla maschera che n' era il capo. Il nome della ma-
schera aveva quasi soppresso il nome dell'artista che
la portava, e con tale nome gli scrisse Enrico IV il
il 2 1 dicembre 1 599 per iscritturarlo coi suoi comici
pel teatro di palazzo Bourgogne. " Arlequin, Etant
venue jusqu' a moi votre renommée et celle de la bonne
compagnie de comédiens que vous avez en Italie, j'ai
( 1 ) Altri Scenari, ma inediti, sono quelli di Basilio Luccatello o
Loccatello, romano, conservati nella Biblioteca Casanatense, di Roma.
Hanno per titolo : Della Scena di soggetti comici, di B. L. R. ; in
Roma; (P. I.) MDCXVIII e (P. II.) MDCXXII. Leone Allacci,
nella sua Dramaturgia, Roma, 1666, stampò, ma non esattamente, né
completamente, i titoli delle commedie del Loccatello, che furono ri-
prodotti da A. Bartoli (op. cit.) né correggendoli, né completandoli.
Due altri manoscritti di Scenari conservansi nelle nostre biblioteche pub-
bliche, l'uno nella Corsiniana, di Roma, l'altro in due volumi, alla
Nazionale, di Napoli, a cui fu donato da Benedetto Croce. Quest'ul-
tima raccolta è la più ampia che si conosca contenendo 183 scenari.
Il primo volume porta in fronte la seguente indicazione: Gihaldone da
3^el Regno delle Maschere 3
— 34 —
desiré de vous faire passer en mon royame ecc. ecc. (I). "
Però il nome dell'Arlecchino del serenissimo duca di
Mantova pervenne ai posteri : egli era Tristano Mar-
tinelli, fratello di Drusiano e marito di madama An-
gelica, prima donna. La compagnia era detta degli
j^ccesi e pare che fosse la più rinomata che allora
contasse l' Italia. Ne faceva parte Pier Maria Cecchini,
che si rese celebre nella parte di Frittellino. Era anche
autore di commedie a soggetto.
Un' altra compagnia di comici italiani, che percorse
con gloria non solo le nostre scene, ma anche quelle
francesi — oramai i comici italiani avevano acquistato
diritto di cittadinanza in Francia — fu quella diretta da
Giambattista Andreini, figlio di Francesco e d' Isabella.
Ne facevano parte Virginia, detta florinda, moglie del
capo-comico, alla quale fece il ritratto il Bronzino,
recitarsi all'Impronto. — Alcuni propri e gli altri da diversi, raccolti
da D. Annibale Sersale, Conte di Cas amarciano. Il secondo volume
è intitolato: Gibaldone Comico di Vari Suggetti di Comedie ed Opere
Bellissime copiate da me Antonino Passanti detto Oratio il Cala-
brese, per comando dell' Ill.mo signor Conte di Casamarciano, ì 700.
Il manoscritto originale di quelli editi dal Bartoli appartiene alla Ma-
gliabechiana, di Firenze. S'ha ricordo d'altri scenari, per esempio, di
quelli di Domenico Biancolelli, che possono leggersi riassunti nella Hi-
stoire de l'Jlnc. Théàtre Italien, del Gherardi. Altri titoli di Sce-
nari, ma del teatro italiano di Parigi, si possono rilevare dal Bartoli,
op. cit. p. XXXVII e segg. Infine diciotto Scenari si leggono in un
manoscritto conservato nella Biblioteca Comunale di Perugia (A. 20)j
e del quale rese conto Benedetto Croce in: Giornale Storico della
Leti. Italiana, XXXI, p. 458 (ved. nostre Appendici).
(l) Baschet; op. cit. p. 106.
— 35 —
Eularia Coris, assai bella, Giovanni Paolo Fabri, Nic-
colò Barbieri, detto Beltrame, eh' era anche scrittore
di commedie, Domenico Bruni, Diana Ponti (Lavinia),
Niccolò Zeno (Bar (olino), Girolamo Caravini {Capitan
Rinoceronte), ed altri. L'Andreini, come il padre,
come la madre, era colto e scriveva commedie e tra-
gedie, e fra queste ultime si ricorda ancora V Adamo
dal quale qualcuno pretese che il Milton avesse preso
l'idea del suo Paradiso Perduto. La compagnia si
chiamava dei Fedeli e si ha notizia che nel 1608 fu
a Milano, nel 1609 a Torino, dove recitò Florinda,
tragedia, dalla quale poi la prima attrice della compa-
gnia. Virginia Andreini, prese il suo nome d' arte, nel
1612 a Bologna, nel 1612 di nuovo a Milano. Poscia
i Fedeli andarono a Parigi, chiamativi da Maria dei
Medici, e vi stettero sino al 1618; ritornati in Italia,
furono a Milano nello stesso anno 1618, a Venezia
nel 1619, poi ancora a Milano. In seguito *la regina
Maria de' Medici li volle nuovamente a Parigi, dove
stettero sino al 1623; indi passarono a Torino, poi a
Venezia. Li troviamo ancora a Parigi nel 1 624 ; nel
1625 sono a Venezia, a Praga nel 1630, a Venezia
nel 1633, a Bologna nell'anno seguente, a Perugia
nel 641. Nel 1645, si formò una nuova compagnia sotto
la direzione del Barbieri, detto Beltrame, la quale,
regnando in Francia Luigi XIII, passò a Parigi, dove
stette tre anni. Un' altra, condotta da Giuseppe Bianchi,
che recitava le parti di Capitano Spezzaferro, andò
ugualmente a Parigi, dove fu una prima volta nel 1639
ed una seconda nel 1645. Ne facevano parte Tiberio
— 36 —
Fiorini, che vi acquistò fama grandissima creando la
parte di Scaramuccia (1), Gabriella Locatelli, Giulio
Gabrielli, Margherita Bertolazzi, Domenico Locatelli
{Trivellino), Brigida Bianchi ed altri. La compagnia
recitò a\V Hotel Bourgogne sino al 1647 o 1648. Altra
compagnia di comici italiani che recitò a Parigi un
pò* più tardi (1653), fu quella di cui facevano parte
insieme a parecchi artisti della compagnia precedente,
il Turi (pantalone), Costantino Lolli {T)ottore), Marco
Romagnesi (Innamorato), Beatrice Adami (Diamantina),
Quest' ultima pare che sia stata molto apprezzata nella
capitale francese, se un poeta potè cantare di lei:
Mademoiselle Béatrix
Emporta ce jour là le prix.
La compagnia, che cominciò a recitare al Petit-
Bourbon, nel 1660 passò al Palais-Royal aggregandosi
via via nuovi attori i cui nomi possono leggersi in:
Masques et Buffons, del Sand. Se non che, nel 1 668,
il favore che sin' allora aveva goduto in Francia la
commedia italiana dell' arte cominciò a decrescere : le
recite non si fecero più esclusivamente in italiano. Era
cessata in gran parte la conoscenza della lingua ita-
liana ; il pubblico cominciava a non capir più la lingua
( I ) Morto il Fiorini, sotto un ritratto di lui furono posti i seguenti
due versi:
Il fut maitre de Molière,
Et la nature fu le sien.
— 37 —
dell* Ariosto e del Tasso, specie che col matrimonio
di Luigi XIV con una principessa della casa reale di
Spagna, la lingua del Cervantes, del Calderon e di
Lope de Vega era divenuta di moda in Francia. Al
teatro italiano, dunque, le produzioni nella lingua dei
comici si alternarono con commedie e farse in lingua
francese, distinguendovisi Francesco e Caterina figli di
Domenico Biancolelli (1), Evaristo Gherardi, autore di
parecchie commedie a soggetto e della Histoire de
V Ancien Théàtre Italien, Giuseppe Tortoriti e Angelo
Costantini (cM^ezzettino), che s' acquistò fama non solo
per le sue attitudini artistiche, ma anche per le sue
avventure (2). Sotto un ritratto di lui , dipinto dal
De Troy, il La Fontaine scrisse i versi seguenti :
lei de Mézetin, rare et noveau Prothée,
La figure est raprésentée:
La Nature l'ayant pourvù
Des dons de la métamorphose ;
Qui ne le voit pas, n' a rien vù.
Qui le voit, a vù toute chose.
( 1 ) L* autore degli Scenarii riassunti dal Gherardi nella Histoire de
r Ancien Théàtre Italien.
(2) Il Costantini, lasciato Parigi, andò in Sassonia chiamatovi da
quell'Elettore (Augusto II) per formare e dirigere una compagnia co-
mico-lirica. S'acquistò la benevolenza e la slima del principe e da questo
fu creato nobile nonché suo cameriere intimo e tesoriere dei suoi minuti
piaceri. Ma il Costantini non parve contento di tutta codesta pioggia
di favori; cercò di rapire al principe l'amante. Augusto II obliò com-
pletamente le allegre risate che doveva a Mezzettino, e Io fece arre-
stare ed imprigionare nel castello di Konigstein dove rimase più di venti
anni. Infine, un' altra amante del principe ottenne la sua liberazione.
A. Bartoli, Op. cit. p. CXLVIII, in nota.
— 38 —
i
(
Se non che, nel 1697, quando sembrava che i co-
mici italiani avessero posto salde radici in Francia,
vennero bruscamente espulsi, si disse per una commedia
dove si volle vedere più d' una allusione a madama
Maintenon, la quale, in quel tempo, dall'alcova di Luigi
XIV, governava dispoticamente. Scaramuccia, Mezzet-
tino, Brighella, Frittellino, Arlecchino non fecero più
echeggiare delle loro grasse risate le sale deWHótel
Bourgogne ; essi si sparsero un po' qua , un po' là,
anche in Francia, perchè a loro non fu interdetta che
la sola scena parigina; ma morto il Re-5o/ez7, nel 1716
il duca d'Orleans, Reggente del regno, che non aveva
gH scrupoli della vecchia Maintenon, richiamò i nostri
buoni comici a Parigi, dove, la sera del 18 maggio,
diedero la loro prima rappresentazione alla presenza
dello stesso Reggente. Vi rimasero sino al 1729; poi
fecero una punta in Italia, ritornando a Parigi nel 1731.
Ma se italiani erano i comici, italiano non era più
il repertorio : questo era divenuto completamente fran-
cese ; d' italiano non aveva che le vecchie, le allegre, J
le gloriose maschere. Arlecchino era Tommaso An-
tonio Vicentini ; Pantalone, Pietro Alberghetti ; il Dot-
tore, Francesco Materazzi.
Se le vicende del teatro comico italiano a soggetto
in Francia possono oggi riassumersi molto facilmente
grazie ai lavori storici dei nostri vicini d' oltre Varo ,
non è lo stesso per quelle del teatro comico a soggetto
in Italia : non mancano, in verità, le notizie, ma sono
scarse, e quasi nulle per alcune regioni della penisola.
Di parecchie compagnie s' hanno però gli elenchi, che
— 39 —
si possono leggere nell'opera più volte ricordata di
Adolfo Bartoli, rari nei primi anni del Seicento, nu-
merosi fra la fine di questo e il principio del Sette-
cento; ma già, in quest'ultimi elenchi, cominciano a
far capolino i nomi di quegli attori ai quali Carlo Gol-
doni doveva far recitare le sue commedie.
Di cotesti attori della commedia dell'arte a soggetto,
molti ebbero certamente attitudini comiche di primo
ordine, se re, regine e principi se li disputarono ; pa-
recchi ebbero cultura non ordinaria ; non pochi rag-
giunsero la celebrità. La maggioranza, anzi la grande
maggioranza, non era certamente ne colta, ne probabil-
mente bene educata, visto che l' educazione, in quei
tempi, difettava anche nelle classi elevate , dirigenti :
era povera gente che non sapendo adattarsi ad un
mestiere manovale, si buttava all'arte, ove, se non altro,
quando indossava un abito gallonato o un cappello
piumato poteva illudersi d'essere qualche cosa di più
dei suoi pari. I guitti d' oggi , che vagano di paese
in paese, che lasciano all'albergatore in pegno i loro
costumi di velluto di cotone o semplicemente i loro
abiti ordinari , non nacquero ne ieri , ne ieri l' altro ;
ma discendono da quei comici che i primi resero po-
polare la commedia a soggetto, discendenti, alla loro
volta, da quegli istrioni, buffoni o saltimbanchi che nel
Medio-Evo divertivano con le loro facezie, con le
loro canzoni, coi loro salti castellane e popolane, genti-
luomini e borghesi. Ma quanto all' ingegno, e, sopra-
tutto, alla cultura, meno le eccezioni delle quali ab-
biamo oià fatto cenno, non crediamo che ne avessero in
— 40 —
misura straordineiria, ed esagerava certamente Adolfo
Bartoli quando scriveva: " Certo è che per improv-
visare quel dialogo o anche per adattare alle varie
situazioni le cose già lette e imparate a memoria, si
richiedeva nei comici dell' arte non solamente ingegno
e disposizione naturale, ma anche coltura. E questa
necessità ci spiega un fatto che riuscirà forse nuovo
a molti, cioè, gli attori dei secoli passati furono scrit-
tori (1). " Giudizio questo, ripetiamo, che pecca d'esa-
gerazione, ed anche d' inesattezza : d' accordo che per
diventare grande attore o grande attrice occorre un'at-
titudine speciale, diremo anche eccezionale, per ripro-
durre tipi e caratteri, per investirsi degli afletti e delle
passioni del personaggio che si rappresenta sulla scena.
L' ingegno di Garrick o di Talma, della Rachel o della
Ristori, di Gustavo Modena o di Tommaso Salvini,
sotto questo aspetto, non è minore di quello di un
grande poeta, d' un grande scultore o d' un grande
pittore; ma argomentare da questo ingegno speciale
la cultura dell'artista, non ci sembra esatto. Dimo-
streremo più innanzi come il dialogo, nella commedia
dell' arte, non fosse affatto improvvisato, o per lo meno,
all'improvvisazione non fosse lasciata che una parte
assai modesta per quanto la commedia a soggetto o
a braccia fosse chiamata " improvvisa " , ed essa, sulla
carta, non si riducesse che ad un magro scenario e
a sobrie indicazioni. Per altro, compulsando bene la
storia, si troverebbe che dei tanti comici-commedio-
(1) Op. cit. p. CIX.
— 41 —
grafi ricordati da essa, nessuno, proprio nessuno, lasciò
un* opera, anche breve, che fosse degna d' essere ri-
cordata, meno forse Y Adamo di Giambattista Andreini,
non tanto pel suo valore intrinseco quanto per essere
stato ritenuto da parecchi il punto di partenza, per
Giovanni Milton, del suo Paradiso Perduto : lo stesso
Bartoli, in sostanza, ne conviene tanto che per met-
tere insieme una rassegna di comici-scrittori, ebbe a
frugare faticosamente nelle biblioteche dalle quali non
trasse fuori che nomi d'autori e titoli di commedie
perfettamente dimenticati. Ciò non pertanto, codesti
comici - scrittori costituiscono una pagina della storia
della commedia dell'arte, ne, in questo nostro lavoro,
deve passarsi sotto silenzio. Così oltre il Cherea da
noi ricordato , scrissero commedie o tragedie Angelo
Beolco, detto il Ruzzante (1), il quale forse fu il
primo ad introdurre sulla scena i diversi dialetti d' I-
talia , Flaminio Scala, che fu il primo a compilare o
a raccogliere gli Scenari (2), Giovanni Donato Lom-
bardo , Giovanni da Pistoja , Bernardino Lombardi,
autore d' un A Ichimista, in cui il Bartoli trova qualche
pregio, Fabrizio de Fornaris, Pier Maria Cecchini ,
( 1 ) Il Ruzzante fu erroneamente ritenuto come autore di commedie
a soggetto. Le sue commedie sono tutte distese. " Se il carattere della
commedia dell* arte è quello d'essere improvvisata, è chiaro che tale
non può dirsi la commedia del Ruzzante. Diciamola commedia popo-
lare, sì, ma non dell' arte, se non vogliamo confonder tutto. " A. Bar-
toli; op. cit. p. CXXVII, (in nota).
(2) Si ha a stampa una commedia distesa dello Scala: Il finto ma-
rito (Venetia, 1619).
— 42 —
che scrisse anche sul modo di recitare le commedie,
Niccolò Barbieri detto Beltrame, che scrisse anche a
difesa dei comici e del teatro comico, tacciati gli uni
e l'altro d'immoralità, Andrea Calmo sotto il nome
del quale va anche qualche commedia del Ruzzante (I),
Pietro Cotta, detto Celio, Silvio Fiorillo, Francesco
Bartoli, che scrisse anche [Njìtizie Storiche dei Comici
Italiani e fu marito di quella Teresa Ricci, comme-
diante come il Bartoli, che fu corteggiata da Gaspare
Gozzi; Giuseppe Imer, di Genova, Brigida Bianchi,
Francesco Bassi, Pietro Adolfatti, Pietro Rosa, Andrea
Patriarchi, Pompilio Miti, Nicodemo Manni, Placido
Grani, Domenico Fortunati, ed altri ed altri. Scrissero
pel teatro comico italiano di Parigi Pier Francesco
Biancolelli, Elena Belletti-Riccoboni, Giovanni Anto-
nio Romagnesi, Fabio Strioti, Carlo Veronese.
Ma tutti codesti nomi non arrivano a farci cambiare
di parere; la grande maggioranza di quei comici era
plebe. Il Perrucci (2) scriveva : " Il male si è che
oggi si stima abile per ingolfarsi nella Comica improv-
visa, e la più vile feccia della plebe vi s'impiega,
stimandola cosa facile ; ma il non conoscere il pericolo
nasce dall' ignoranza Ond' è che i vilissimi ciur-
matori e saltimbanchi che s' hanno posto in testa d' al-
lettare le genti vogliono rappresentare nelle pub-
bliche piazze commedie all' improvviso, storpiando i
soggetti, parlando allo sproposito, gestendo da matti ,
(1) L. Rasi; Dizionari v. Biogr. Voi. I.; p. 350.
(2) Dell'Arte liappreserìtaliva, ec. Napoli, 1699, pag. 189.
— 43 —
e quel eh* è peggio, facendo mille oscenità e spor-
chezze ..."
Come abbiamo potuto vedere, la commedia italiana,
sia distesa o scritta, sia a soggetto, sino ai primi anni
del secolo XVIII, e quindi prima del Goldoni, non
aveva avuto ancora ne un Plauto , ne un Molière :
solo era emersa quella improvvisa, ma per virtù dei
suoi interpreti i quali per due secoli avevano avuto
la virtù di far ridere i pubblici di Italia e di Francia;
ma era virtuosità d' artisti : sulla scena del teatro comico
italiano non era ancora apparso un genio creatore di
un tipo di commedia che non fosse ne quella degli eru-
diti, calcata sulle orme dei classici, ne quella a braccia
affidata allo spirito e all'arte dei comici.
a a
CAPITOLO SECONDO
La Forma della Commedia dell'Arte
Sebbene tutte le forme dell'arte subiscano, più o
meno, l' influenza dei tempi attraverso i quali si evol-
vono, pure la commedia dell' arte o a soggetto, nella
sua parte esteriore, materiale, non obbedì che lenta-
mente, assai lentamente, a siffatta legge. La forma
della commedia dell'arte — si badi, forma, e non
contenuto — durante la vita quasi bicentenaria di
quello spettacolo, e quindi durante la seconda metà
del Cinquecento, tutto il Seicento, e una parte del
Settecento, è quasi immobile, quasi cristallizzata in
quella latina o erudita: essa non ricalca che molto
pedestremente le orme di Plauto e di Terenzio. Se
si riducesse a scenario o a soggetto una delle comme-
die di questi due ultimi scrittori, si vedrebbe che il
nuovo scenario o soggetto plautino o terenziano non
differirebbe che in maniera impercettibile da uno di
quelli del teatro di Flaminio Scala o del Loccatello. •
Come nella tragedia a tipo classico la forma non s' i-
spirò che ai precetti d' Aristotile, e questi — almeno in
— 45 —
Italia e in Francia — non furono posti da parte che as-
sai tardi, quando, cioè, la reazione contro il classici-
smo prese vigore e consistenza sotto il nome di ro-
manticismo, così nella commedia dell* arte la forma
latina non fu abbandonata completamente che con la
riforma goldoniana. Si confronti una commedia di
Plauto o di Terenzio con una commedia dell' arte, e
subito ciò salterà all'occhio : c'è la stessa immobilità di
scena ; questa, sempre, o quasi sempre, non rappresenta
che una piazza o una strada; le case dei personaggi
che prendono parte all'azione, o quelle dei principa-
li, si trovano in quella piazza, in quella via : i loro
inquilini, gli amici dei loro inquilini, vi entrano o ne
escono a loro talento, secondo i bisogni dell'azione (1).
L'immobilità della scena con tutte le sue incoeren-
ze, che non possono passare inosservate nemmeno al
più ingenuo degli spettatori, regna sovrana tanto nella
commedia latina come in quella a soggetto. Vi si
sente quasi l'infanzia dell'arte, la quale se è spiega-
bile nel teatro latino, anche per le abitudini di vive-
re in pubblico, nei fori, nelle basiliche, nelle terme,
non trova nessuna giustificazione nel teatro a braccia
nato e cresciuto in una società affatto diversa. Lo
stesso Plauto, lo stesso Terenzio, s' accorgevano bene
(1) Contrariamente agli Scenarii dello Scala, della Magliabe-
chiana, del Loccatello e d'altri, parecchi di quelli della Raccolta Na-
poletana offrono esempi di cambiamenti di scena: se non che trattasi
di scenarii o soggetti della fine del 700 o rimaneggiati verso quel
tempo e quindi quando il teatro spagnuolo con le sue libertà anti-ari-
stoteliche era stato fatto proprio dai comici italiani.
— 46 —
di tutte le difficoltà che si traeva seco V immobilità
della scena; se non che, non sapevano superarle, o
credevano d' averle superate con ripieghi, con mez-
zucci, eh' erano addirittura infantili. Plauto, per esem-
pio, nella Casina (Atto II, Se. I), immagina che
Cleostrata ha bisogno di recarsi in casa della sua a-
mica Mirrina, la cui casa e lì, sulla piazza, accanto
alla propria ; ma ecco che 1' amica ne vien fuori, e
quindi è evitato il cambiamento di scena:
E or anderò qui dalla vicina
A lamentarmi della mia fortuna;
Ma crepita la porta : eccola viene
Fuori essa stessa : non mi mossi a tempo,
Per Ercole (1).
Nella stessa Casina ( atto IV, se. I) , non potendo
Fautore fare assistere il pubblico al banchetto che si
celebrava per le nozze della fìnta Casina col villico
Olimpione, perchè ha luogo in casa di Stalinone , è
costretto a farne fare la descrizione dalla serva Parda-
lisca, mentre questa se ne sta sulla piazza :
Tutti si danno gran moto per la casa.
Il vecchio grida in cucina ed esorta
I cuochi. Oggi che fate? Che ci date,
Se pur qualche cosa date? Fate presto:
La cena bisognava che fosse
Cotta. E il villico con una corona.
Bianco vestito ne va avanti e indietro
(1) Traduzione del senatore Gaspare Finali.
— 47 —
Tutto lindo e azzimato. Esse poi vestono
Dentro una stanza l'armigero, il quale
Dee far da moglie invece della Casina ;
Ma san dissimular quel che accadrà.
I cuochi fanno in maniera che il vecchio
Non ceni; ora ribaltan le pignate,
Ora spengon il fuoco con dell'acqua...
Sempre nella stessa Casina (atto IV, se. II), il vec-
chio Stalinone, che ha divisato di godere i favori della
giovine schiava Casina, che ha creduto di maritare al
suo villico Olimpione , mentre la moglie con sottile
astuzia ha sostituito alla schiava un soldato, annunzia
alla sua famiglia, stando sulla porta della casa, ch'egU si
reca in campagna:
Voi se sapete fare, moglie mia.
Andrete a cena appena che sia cotta;
10 cenerò in campagna, dove voglio
11 novello marito accompagnare,
E la novella sposa: so pur troppo
Quanti uomini vi son di male affare
Che potrebber rapirla. Ora voi fate
Tutto il vostro piacere
Si comprende che la moglie del vecchio Stalinone
sta in casa e non è vista dagli spettatori.
Nel 'Punitore di se stesso, di Terenzio, i due amici
Cremete e Menedemo, sono in iscena, cioè, in piazza:
occorre all'autore, ai fini dell' azione, che il secondo
dei detti personaggi resti solo, ed allora Cremete dice
ch'egli è stato proposto arbitro in una causa e deve
— 48 —
andar via. Va via, difatti, e poco dopo rientra e dice
d'aver fatto tutto (atto I; se. I e segg.) Nella stessa
commedia Sostrata , moglie di Cremete , scopre , me-
diante un anello, che la ragazza che ha in casa, è sua
figlia; vuol dare la lieta novella al marito, esce fuori,
s'imbatte in quest'ultimo, e sulla via gli narra la sco-
perta e il modo con che si sbarazzò della figlia dopo
d'averla messa al mondo (atto IV; se. I).
Questi esempi si potrebbero moltiplicare all'infinito,
poiché la commedia latina, imbarazzata dalla stabilità
della scena, era costretta di ricorrere a cento e cento
ripieghi, la cui scarsa ingegnosità, come abbiamo visto,
lasciava travedere un'arte veramente infantile. Ne di-i
versamente procedette la commedia a soggetto. Se noi
che, qualche volta l'azione non si piega alla stabilità
della scena per quanto l'autore si affatichi a piegarvela;
ed allora il personaggio stesso s'incarica di far cono-
scere al pubblico il luogo dove in quel momento si
svolge l'azione.
Nella Vedova costante (1), l'azione ha luogo sulla
strada, dinanzi alle case d'Isabella e d'Ardelia, questa
figlia d' Ubaldo , quella del Dottore ; Isabella dà ad
Orazio, un amante da lei non corrisposto, un appun-
tamento fuori le mura della città: ora si reca al luogo
designato, ma siccome la scena non ceunbia, così egli
per far conoscere agli spettatori che la scena cambia,
dice semplicemente che quello li è il posto fissato per
l'appuntamento.
(1) A. Bartoli; op. cit. p. 13.
I
— 49 —
AI contrario della commedia latina, quella dell'arte
ha saputo rendere più varia la stabilità della scena
traendo profitto dalle mutate condizioni dell'architettura.
La finestra, nella commedia a soggetto, serve spesso a
dissimulare le difficoltà che presenta l'immobilità della
scena: dalla finestra si ascolta facilmente, quasi senza
ricorrere a ripieghi più o meno ingegnosi, quello che
si dice e fa sulla piazza o sulla via, e da questa quello
che si dice e fa in quella, senza tener conto che i
colloqui fra coloro che stanno alla finestra e quelli che
stanno sotto sono facili e naturali. La finestra , poi ,
aiuta a complicare l'intrigo: si salta assai agevolmente
da essa sulla strada, e da questa su quella. Nella com-
media // Medico volante (1), Cola, servitore e finto
medico (Atto II; Se. XVII e XVIII), rappresenta
due personaggi, dei quali uno deve trovarsi in casa
del vecchio Ubaldo e l'altro in piazza: ebbene, Cola
saltando, attraverso la finestra, dalla casa sulla piazza
e da questa in quella, rappresenta, imbrogliando l'in-
trigo, le due parti. Lo stesso esercizio Cola ripete nel-
l'atto terzo della commedia medesima. Nel teatro co-
mico latino, pel difetto, nelle case private, di finestre
sporgenti sulla via o sulla piazza, l'autore non poteva
ricorrere a codesto artifizio: i personaggi si fermavano
sulla porta e di là discorrevano con coloro che stavano
dentro la casa o venivano di fuori.
La finestra si porgeva, poi, nella commedia del-
l' arte, a rendere facili i colloqui amorosi, specie che
(1) A. Bartoli; op. cit. p. 103.
!ACel Regno delle ^^aschere 4
— 50 —
i padri e i mariti erano, quasi sempre, dipinti diffiden-
ti, gelosi, e chiudevano a chiave le figlie e le mo-
gli. Puntalone dei Bisognosi, o il vecchio Ubaldo o
il suo vicino di casa Pandolfo — questi due ultimi
personaggi non erano che una sotto-varietà del pri-
mo — avevano un bel raccomandare, uscendo di ca-
sa, alla figlia o alla moglie di non metter hiori della
finestra la punta del naso: raccomandazione sprecata,
la finestra era lì aperta o socchiusa, e, nella assenza
del padre o del marito, i colloqui fioccavano. Se la
porta di casa non era serrata, si spiava dalla finestra
r arrivo del padrone, e l' amante, che la serva o il
servo compiacente aveva introdotto in casa, aveva
tutto il tempo per nascondersi o svignarsela. Non
parliamo poi delle serenate fatte, al chiaro di luna,
di sotto alla finestra. Quando non e' era la finestra,
e* era il tenazzino: allora la padrona o la serva vi
pigliava il fresco, o vi stava a contemplare la luna,
mentre, di sotto, dalla strada, un Lelio o un Florindo
spiava r occasione di far giungere all' amata una let-
terina esprimente il suo amore.
Tanto nella commedia latina quanto in quella del-
l' arte, i personaggi che non occorre vono più per far
scena, si mandavano via spesso senza un apparente
motivo ; andavano e venivano con tutto il loro comodo;
e quando di questo loro andare avanti ed indietro
volevano fornire una spiegazione, questa era spesso
ingenua, sciocca. Plauto mandava via di scena ordi-
nariamente i suoi personaggi, se vecchi, col pretesto
d' andare al foro per difendervi la causa d' un clien-
— si-
te, o per dare il suo giudizio come arbitro; nella
commedia dell' arte, questo pretesto era diverso, ma
non meno estraneo, allo svolgimento dell'azione, di
quanto lo fosse quello delle commedie di Plauto e
di Terenzio.
L' azione, spesso, si svolgeva per narrazione ; i per-
sonaggi, più che agire, raccontavano ciò che avevano
fatto o che avrebbero fatto. Nei comici latini questo
mezzo assai ingenuo e primitivo per far progredire
r azione o portarla a cognizione del pubblico era an-
cora, se possibile, più ingenuo e primitivo; poiché
r attore, che recitava il Prologo, s' incaricava, prima
che cominciasse la rappresentazione, di spiegare agli
spettatori quanto sarebbe avvenuto sulla scena. Nel-
r Aulularia, di Plauto, il prologo è recitato dal La-
re della famiglia, il quale narra che in una di quel-
le case, che si vedono sulla scena, sta un certo Eu-
clione, un vecchio avaro e padre d' una bella fan-
ciulla. C era là sepolto un tesoro ed egH, il Lare, lo
fece rinvenire a quel vecchio e ne aggiunge il mo-
tivo:
In grazia degli onori che mi rende
Feci che quel tesoro ritrovasse
Euclione, affinchè più facilmente
Possa darle [alla figlia) marito. Un giovinotto
Di gran famiglia ad essa usò violenza;
Il giovinotto la conosce bene,
Ma non sa dessa chi sia stato, e il padre
Non sa che la figliuola sia violata.
— 52 —
Oggi io farò che il vecchio (1) di qui presso
Per sé la chiegga in moglie; io farò questo
Perchè più facilmente la conduca
In moglie quegli che le usò violenza.
Lo stesso Plauto, nel prologo dei Prigionieri (Ca-
pteivi), e più esplicito; espone l'azione sin nei più
minuti particolari :
Questi due prigionieri che vedete
Qui stare, i due che son lì fermi, stanno
Ambedue in pie non già a sedere.
Egione il vecchio che sta qui presso,
E' padre di costui ; ma per qual caso
Questi al suo padre serva, innanzi a voi
Lo spiegherò, se m'ascoltate....
Terenzio non faceva diversamente ; egli, veramente»
faceva qualche cosa di più, discuteva anche nel pro-
logo coi suoi critici che gli rinfacciavano i suoi plagi»
dei quali egli, per altro, menava vanto (2).
Però, il prologo, che ad imitazione della comme-
dia latina aveva messo radice dapprima nelle rap-
presentazioni religiose, poi nelle commedie letterarie
del Cinquecento, fu abolito in quelle dell' arte : in
(1) Megadoro, uno dei personaggi della commedia.
(2) Nel Punitore di sé stesso: " Quanto alle voci propagate dai
malevoli, cioè, eh' egli abbia mescolato poche commedie greche, men-
tre ne compone poche latine — non gliene rincrebbe per nulla; anzi
ha intenzione di farlo anche in avvenire. In ciò egli segue I' esempio
dei buoni autori.... „ E probabilmente alludeva a Plauto.
— 53 —
queste l' autore volle che la curiosità del pubblico
restasse viva e sospesa sino alla fine dello spettacolo,
senza che uno degli attori , prima dell' alzarsi del si-
pario, uscisse fuori a sciuparla raccontando l' intieccio
della commedia.
La caratteristica principale della commedia dell'arte,
in ordine alla forma, era, come si sa, l* improvvisazione.
Andrea Ferrucci, scrivendo sulla fine del secolo XVII
l'opera: Dell'Arte rappresentativa premeditata e allo
improvviso, dichiarava che alla prima rispondeva la
commedia letteraria, intieramente dialogata, e alla se-
conda la commedia dell' arte o a soggetto e della quale
non si scriveva che il solo scenario.
Improvvisa, realmente, fu chiamata quest' ultima com-
media, e così si continua a chiamare ; se non che, se
non tutti, certamente parecchi di coloro che ne hanno
scritto, o continuano a scriverne, hanno ritenuto, o con-
tinuano a ritenere, che sulla commedia dell' arte il solo
canovaccio, cioè, l'argomento svolto nelle sue grandi
e piccole divisioni d' atti e di scene, appartenesse al-
l' autore ; il resto, cioè, il dialogo, fosse opera esclusiva
dei comici. Divisione, codesta, in forza della quale la
parte riservata al commediografo era assai povera cosa,
o, per lo meno, non era la principale, la più impor-
tante, poiché spesso, nello scenario o soggetto, le si-
tuazioni non erano che superficialmente accennate ,
quando non lo erano affatto. Molti degli scenari della
commedia dell' arte non danno che una idea assai vaga,
confusa dell' azione : qui, più che un canovaccio, si
direbbe una linea; là, un segno ; era addirittura l'artista
— 54 —
che non solo recitava, ma creava di sana pianta
la parte. Negli Scenari corsiniani questa sobrietà d'in-
dicazioni è incredibile : degli atti intieri sono condensati
in poche righe (1). Quindi s'ingannerebbe a partito chi
prendesse alla lettera la denominazione di commedia
improvvisa, o a soggetto o a braccia; in realtà, assai
poco, veramente assai poco, era lasciato all'improvvi-
sazione, anche perchè non tutti i comici che prende-
vano parte alla recita avevano cultura o attitudine per
dire all' improvviso : e se commedia premeditata fu detta
allora quella intieramente scritta, non meno premeditata
in gran parte si potrebbe chiamare quella improvvisa.
E difatti, impropriamente improvvisa fu detta quest' ul-
tima; ne noi, dicendo così, affermiamo cosa che non
possa giustificarsi, come subito si vedrà, con le prove
alla mano.
Chi non conosce il retroscena della commedia del-
l'arte, chi non l'ha studiato nei suoi particolari intimi,
specie nella sua preparazione e nel suo allestimento
scenico, potrebbe supporre che la parte dialogata della
azione s'improvvisasse sulla scena, come in quei tempi,
e nei posteriori, i poeti improvvisavano versi e magari
tragedie sul semplice tema offerto da uno degli uditori.
Certamente, una commedia improvvisata in tal modo
avrebbe dato al pubblico un saggio assai apprezzabile
(1) Però ogni scenario (e sono in tutto cento) porta in fronte una
tavola a colori rappresentante in tutti i suoi particolari la scena-madre
o principale: cosa assai importante per una futura storia del costume
teatrale italiano.
— 55 —
non solo della valentia tecnica dell' artista, ma anche
del suo ingegno e della sua istruzione. I dialoghi briosi,
le trovate comiche, i lazzi degli zanni, le uscite sen-
timentali dell' innamorato e della innamorata, quelle
roboanti di Capitan Spavento, i discorsi infarciti di
latino del Dottor Graziano, le parole o le frasi a doppio
senso, tutto in tal modo sarebbe stato il prodotto del-
l'ispirazione del momento. Ma nessuno ha mai pensato
sin' ora che se realmente le cose fossero passate così
sulle scene del teatro comico a soggetto, le compagnie
della commedia dell' arte avrebbero dovuto reclutare
il loro personale artistico fra gl'ingegni più svegliati,
più arguti, più riboccanti di fantasia e di vis comica
del tempo, senza tener conto che in tal modo composte
le compagnie, avrebbero queste avuto degli eccellenti
improvvisatori, ma non sempre comici valorosi ; poiché
è risaputo come difficilmente le due qualità, cioè, di
inventore e d' interprete, vadano riunite nella stessa per-
sona. E vero che nei comici della commedia dell'arte
codeste due qualità andarono qualche volta accoppiate;
ma ove si pensi che codesti attori ed autori ad un tempo
non costituivano che una quasi impercettibile minoranza
di fronte all' immensa turba degli interpreti dotati d* una
superfìcialissima cultura e sforniti di facoltà inventiva,
incapaci di mettere insieme poche battute di dialogo,
un soliloquio magari di forma più che minuscola, già
è bello e detto come il concetto d' una commedia im-
provvisata, nella parte dialogata, lì per lì, sulla scena,
alla presenza degli spettatori, sia da relegarsi fra le
leggende. Del resto, qui non si tratta di congetture,
— 56 —
poiché, come già dicemmo, possiamo provare quanto
ora affermiamo, anche perchè i fatti si accordano con
le ragioni dell' arte, non potendosi immaginare un' a-
zione ben concatenata fra le sue parti e sopratutto ben
dialogata senza che sia preceduta da un accurato al-
lestimento, e quindi senza quella tale premeditazione,]
come scriveva il seicentista Ferrucci, che solo rende
possibile la perfetta esecuzione d'una commedia. jj
Ma entriamo, per un istante, con un leggiero sforzo
della nostra immaginazione sussidiata da qualche do-
cumento del tempo, in uno dei teatri in cui nel se-
colo XVII si recitava la commedia a soggetto. Entriamo
in teatro nell' ora della prova, un po' prima di mezzodì.
Noi abbiamo una buona guida che ci assisterà durante
la nostra presenza sul palcoscenico svelandoci i segreti
dell'arte comica di quei tempi. E il Ferrucci da noij.
più volte ricordato. 1
Come su tutti i palcoscenici nell' ora mattutina delle
prove, la luce non piove sulla scena che in modo assai
scarso ; entrando dall' usciolo d' ingresso, posto ordina-
riamente in fondo al corridoio dei palchi di prima fila,
non ci si vede affatto tanto le ombre avvolgono cose
e persone. Inciampando ora in una sedia, ora in una
quinta, dando ora la punta del naso in una canucola
pendente dall' aito, ora sulla parte estrema d' una scena
alzata per metà, noi arriviamo a pervenire sul proscenio,
in prossimità del cupolino del suggeritore. Il nostre
occhio che nel frattempo s' è abituato a quella mezza
luce che regna lì dentro, comincia a distinguere, ur
po' alla volta, tutte le particolarità del luogo, comprese
— 57 —
le persone. Queste attirano subito la nostra attenzione:
sono i comici lì riuniti per la prima prova d'una com-
media a soggetto, poiché la commedia dell' arte, sebbene
detta improvvisa, si provava e riprovava come se fosse
una commedia distesa o letteraria.
Non duriamo molta fatica a riconoscere le attrici:
la prima donna, l' amorosa, la servetta. Ecco gli attori:
I due vecchi, cioè, Pantalone e il Dottore, l' innamorato,
il Capitano, gli Zanni sotto le diverse denominazioni
di Stoppino , Trappola , Cola , Pulcinella , Brighella ,
Arlecchino. Tutti costoro fanno cerchio, chi seduto,
chi all' impiedi , al direttore , che il Perrucci con una
parola presa a prestito dal teatro greco, chiama corago.
Questi ha in mano un fascicoletto assai sottile, mano-
scritto ; e lo scenario o soggetto della commedia che
si concerta. Possiamo scegliere, per lo spettacolo che
si mette in prova, a piacere, e poiché siamo verso la
fine del secolo XVII, la scelta può cadere benissimo
su d' uno degli Scenari editi da A. Bartoli. Si concerta,
dunque, Y Incauto, ovvero, l'Inavvertito. Un secondo
esemplare del soggetto sta attaccato ad una quinta ,
perchè possa essere consultato da chiunque , mentre
ognuno degli artisti ne ha in mano una copia per proprio
uso. Il corago (1) legge dapprima il titolo della com-
( 1 ) " Lorsqu'on doit jouer une pièce nouvelle , ou une de celles
que l'on remet au théatre, ou méme lorsque la troupe est composée
d'acteurs qui n'ont pas encore joué ensemble, le premier acteur les réunit
le matin; leur lit le pian de la pièce, et leur explique fort au long
tout ce qui la compose; en un mot, il joue lui seul devant eux la
— 58 —
media, poi l' elenco dei personaggi ; con parola facile,
ed ampiezza di particolari, egli spiega il soggetto atto
per atto, scena per scena. Il luogo dell' azione lo preoc-
cupa ; imperocché, egli dice, occorre che Y attore co-
nosca bene il luogo dove l'azione si svolge, e non dica
per esempio, che si trova a Venezia, mentre deve dire
a Milano : si accrescerebbe poi il ridicolo della situa-
zione ove un' altro attore venisse a dire che l' azione
ha luogo non a Venezia, ne a Milano, ma a Genova.
In seguito, il corago aggiunge : Questa volta l' azione
si svolge a Napoli e i personaggi della commedia
sono.... — e qui indica le personae dramalis. Indi de-
scrive la scena : questa è la casa d' Ubaldo, padre di
Valerio ; quell' altra, là, è la casa di Pandolfo, padre
d'Ardelia; la terza è la casa dove alloggia Lucinda,
la giovine schiava, che poi si scopre essere Clarice.
Occorre che l'artista conosca bene la disposizione delle
diverse case sulla scena perchè non succedano equivoci
e non si scambi la casa dell'uno per quella dell'altro.
Sull'assegnazione delle parti non può più rimanere
dubbio: Ubaldo, uno dei due vecchi, è il padre di
Valerio ; questi, s' intende è l' innamorato ; Cola è il
servo di Valerio, e la sua parte spetta ad uno degli
zanni'. Pulcinella, mercante di schiavi e padrone di
pièce entière ; rappelle à chacun ce qu'il doit dire, quant au fond ; lui
indique les traits brillans qui, consacrés par le temps, sont devenus in-
dispensables ; les jeux de théàtre que porte la scène et la manière don*
les lazis doivent se répondre les uns aux autres.
Hist. Jlnc. du Théàtre hai Paris, 1769; voi. 1; p. 41.
— 59 —
Lucinda, è un altro zanni e con Cola ha 1* incarico
di divertire il pubblico ; Lucinda è 1' amorosa ; un' altra
amorosa e Ardelia; Pandolfo, secondo vecchio, è il
padre di quest* ultima ; un terzo servo, amico di Cola,
è Stoppino , anche lui , come l' altro , incaricato di
far ridere gli spettatori, e quindi la sua parte è recitata
da un terzo zanni; Doretta è una seconda schiava, ed
è parte di amorosa ; è parte d* innamorato quella di
Ottavio ; infine , e' è il Capitano , lo spaccamontagna ,
r ammazzasette, che finisce sempre col pigliarle da Cola
o da Stoppino, quando non le piglia da tutti e due
insieme.
Assegnate le diverse parti, il corago, passa a spie-
gare diffusamente l' intreccio della commedia. Pulcinella,
mercante di schiavi, è capitato a Napoli con una parte
della sua triste merce : fa parte di questa la giovane
e graziosa Lucinda , della quale s' innammorano per-
dutamente due buoni amici, Valerio ed Ottavio, seb-
bene il primo sia fidanzato d' Ardelia, la quale non
r ama, ma ama, invece, Ottavio, il quale, a sua volta,
per r amore che porta alla schiava , non ne contrac-
cambia r affetto.
Tutti e due i giovani, Valerio ed Ottavio, vogliono
venire in possesso di Lucinda e cercano di comprarla
da Pulcinella, ma in seguito a diverse avventure, ecco
che un terzo la compra, ed e il Capitano ; questi che
è innamorato di una certa Isabella, fatta schiava, crede
di ritrovarla in Lucinda ; ma s' inganna , poiché que-
st' ultima non è che la sorella d* Isabella, ma a lei molto
somigliante, e tutte e due tratte in ischiavitìi dai pirati.
— 60 —
In seguito a tale scoperta, tutti sono contenti, poiché
il Capitano va via, Valerio sposa Lucinda dalla quale
è riamato, ed Ottavio, non potendo sposare la schiava,
impalma Ardelia, che 1' amava segretamente. Durante
r azione, Cola e Stoppino, i due zanni, aiutano i pa-
droni nei loro amori, si moltiplicano per trarli hiori dalle
situazioni critiche , si burlano di Pulcinella e dei due
vecchi tenendo sempre allegro il pubblico coi loro lazzi.
Più minutamente il corago spiega le situazioni più
importanti abozzandone anche il dialogo e tratto tratto
aggiunge : qui ci vuole il tale lazzo ; qui occorre una
scena equivoca e ne suggerisce la trama ; oppure : qui
occorre un* uscita più lunga, là bisogna infiorare il dia-
logo con tale o tal' altra figura o metafora (non dimen-
tichi il lettore che siamo nel Seicento) ; qui bisogna
che il dialogo proceda con rapidità, che sia più diffuso
per dar tempo ad un travestimento. Eppoi altri suggerì- 1
menti : badino i signori comici a non esser lunghi di
soverchio nei lazzi, che, spesso, la lunghezza di questi
fa perdere o interrompe bruscamente il filo dell' intrec-
cio, o si stenta , finito che sia il lazzo , ad afferrarlo
di nuovo ; badino, sempre nei lazzi, anche se vecchi,
a non fare a fidanza con la memoria, perchè non sempre
i coraghi li concertano nella stessa maniera, ne sempre
i particolari della commedia sono i medesimi.
Come si vede, la tanto decantata improvvisazione
della commedia dell' arte comincia già a dissiparsi. Ma
si ascolti ancora il Perrucci, il quale, mentre il corago
continua a concertare coi suoi artisti la commedia, ci
dice : Questi signori comici possono benissimo appli-
— 61 —
care alla loro recitazione improvvisa qualche cosa di
preparato tanto se il pezzo sia stato scritto apposta per la
commedia alla quale prendono parte, quanto se sia di cose
universali che si tengono a mente per applicarsi a qual-
sivoglia commedia, come sono le Prime Uscite, le Di-
sperazioni, ì Corìcetti, ì Rimproveri, i Saluti, i Pa-
ralleli, e, infine, uno o più dialoghi , secondo casi.
Occorre però che il tutto sia disposto non a casaccio,
a modo d' una rabberciatura qualunque , ma opportu-
namente, con discernimento, perchè non paia che stia
lì come i cavoli a merenda, o come Pilato nel Credo ( 1 ) ;
che, in quest' ultimo caso, il collocamento ozioso o inop-
portuno di quella Prima Uscita, o di quel Concetto,
o d' altra simile cosa , salterebbe subito all' occhio.
Del resto, ogni buon comico deve avere la mente riem-
pita di sentenze , di descrizioni, di discorsi d' amore,
di disperazione , di deliri e simili per averli sempre
pronti air occasione. Occorre, poi, che il comico parli
bene l' italiano , che riproduca con esattezza la parte
che recita e questa vivifichi con Y anima sua e il suo
pensiero. Un ultimo consiglio : ogni comico sia prov-
visto d' uno Zibaldone o Repertorio ove sieno raccolti
Concetti ed altre materie attinenti alla propria parte.
(I) Il comico Pier Maria Cecchini scriveva: "Sogliono questi che
si compiacciono di recitare la difficile parte d' Innammorato, arricchirsi
prima la mente d'una leggiadra quantità di nobili discorsi attinenti alla
varietà delle materie che la scena suol apportar seco. Ma è da avver-
tire che le parole susseguenti alle imparate vogliono avere uniformità
alle prime acciò il furto appaia patrimonio, e non rapina, " Frutti delle
moderne commedie et avvisi a chi li recita ", Padova, 1628.
— 62 —
I Concetti, per esempio , sono diversi : concetti d' in-
namorato, d' amor corrisposto, di gelosia, di priego, di
scaccio, di sdegno j di pace, d* amicizia, di merito, di
partenza. Vi sono poi i soliloqui, parti toscane (I);
ahri soliloqui sono le ^rime Uscite, che portano nomi
diversi, cioè, d* amante corrisposto, d' amante tacito ,
d' amante disprezzato, d* amante sdegnoso. Altre 7-^r/-
me Uscite sono quelle contro amore, contro la fortuna,
d' un forestiere che viene in città, d' uno che ritorna
in patria. C è di tutto e per tutti in quei benedetti
Zibaldoni (2); la pentola è sempre piena ; basta attin-
gervi a tempo opportuno e scodellare con garbo. Per
esempio ; i soliloqui, che bisogna aver sempre sotto
mano, sono infiniti : e' è il soliloquio con tropi, quello
con figure di parole, 1* altro di rimprovero con figure
ritrovate per accrescere vaghezza, oppure quello di di'
sperazione d' amante disprezzato, e così via via.
La poesia, ali* occorrenza, viene in aiuto della prosa ;
alla fine d' una scena o d' un soliloquio, oppure d' un
dialogo, prende posto la chiusetta composta d* ordinario,
(1) Ecco come l'Adriani (manoscritto della Biblioteca Comunale di
Perugia) spiega i propositi che lo guidarono nel formare il suo Zibal-
done o Seha : " La Seltìa io 1' ho fatta perchè ho provato e toccato
con mano che anche i più bravi recitanti all' impronto dovendo fare
15 o 20 recite diverse li mancano le forme, si vuol dire le parole, e
per lo più replicano l' istesso ; ancora chi sa la parola sola d'Innamo-
rato, si trovi pronto per li dialoghi d' amore, di sdegno ecc. ecc. e
per questo ho raccolto tutto acciò ognuno abbia panno per vestirsi ".
(2) Cioè, dei personaggi che non parlavano il dialetto. Erano sempre
parti toscane quelle dell' innamarato e dell'amorosa o prima donna.
— 63 —
di due versi ; e quindi e* è la chiusetta d' amante ta-
cito, quella per salutare la donna amata , oppure di
priego, di partenza, d' infelicità, d' amicizia, ed altre.
Eccone una d' amante tacito.
Per scoprir, per parlar la mente adopro.
Penso assai, poco tento, nulla scopro.
Chiusetta contro V amore :
Amor, angue tu sei, se il tuo veleno
Sen corre al col, mentre mi serpe in seno.
Di priego :
Se mi sdegni, vedremo
Chi più stabile sia.
La tua fierezza, o la costanza mia.
Di disperazione :
Pietà più nel mio cuor non trova luoco.
Vada il regno d'Amor a sangue e fuoco.
Il Ferrucci continua ad ammonire : Di codesti zi-
baldoni o repertori ogni attore o attrice abbia il suo
formato in base alle parti che recita o al carattere o
maschera che rappresenta. Così chi fa le parti di padre
deve avere la sua raccolta di Consigli, di Persuasioni,
di ^Maledizioni al figlio ; il Dottore i suoi sproloqui
o infilzate di cose sciocche, strampalate, buffonesche,
lardellate di latino, riboccanti di nomi pomposi di fi-
losofi, di medici, di giureconsulti ; il Capitano, sia che
— 64 —
si chiami Spavento, o Rinoceronte, o Spezzaferro, deve
avere sempre pronti i suoi racconti di battaglie san-
guinosissime, da lui non combattute ne viste, di am-
mazzamenti, non che un' odissea di viaggi fantastici e
una sfilata interminabile di conquiste amorose. Si fac-
cia altrettanto dagli Zanni pei loro lazzi o trovate
comiche, dagli innammorati e dalle amorose per i loro
discorsi patetici ecc.
Lo Zanni, aggiunge il Ferrucci, il quale coi suoi
precetti sembra che voglia ad ogni istante provare come
la commedia improvvisa non sia che una commedia
premeditata — lo Zanni, il cui ufficio è di tirare in-
nanzi V intrigo ed imbrogliare le carte (1), ha bisogno
d* avere tutto il soggetto a memoria, come suol dirsi,
per portar franco l'intreccio e le invenzioni senza men-
dicarle, esser pronto e vivace nelle risposte, non uscir
tanto fuori del soggetto che subito non vi possa rien-
trare, dire a tempo i motti arguti e caldi, ma che non
abbiano dello sciocco ; infine, non esca dalla sua parte
con tagliare i motti ridicoli al secondo Zanni.
Intanto il corago o direttore della compagnia è an-
dato già innanzi nella spiegazione del soggetto o scenario
in prova. Egli è arrivato alla scena seconda dell' atto
secondo. Diamo un' occhiata allo scenario dove la
scena è accennata con le seguenti magre indicazioni :
Pulcinella e Pandolfo.
" Sente Pulcinella che Pandolfo vuol comprare la
schiava , gli narra la cosa del sequestro , Landolfo
( 1 ) Ferrucci ; op. cit. pag. 283.
— 65 —
glielo legge, e Io conduce seco al Giudice per libe-
rarlo da tal sequestro (1). "
Ecco ora come il corago, facendo tanto la parte di
Pulcinella quanto quella di Pandolfo, spiega e rende
dialogata la scena di sopra trascritta (2) :
feltrarne e CMiezzettino,
BEL. — O di casa!
MEZZ. — Chi è là?
BEL. — Amici.
MEZZ. — Che amici ?
BEL. — Sono Beltrame. Olà, che voce languida è questa ? Mes-
ser Mezzettino, una parola.
MEZZ. — Perdonatemi, messer Beltrame, non posso aprire.
BEL. — E che avete le mani in pasta ?
MEZZ. — Sto in modo che non mi posso muovere.
BEL. — E che cosa avete ?
MELZZ. — Cosa tale che non posso venire.
BEL. — E che siete storpiato ?
MEZZ. — Peggio, signore.
(1) BartoH A. — Op. cit. p. 96.
(2) Non volendo porre in bocca al corago un dialogo di nostra
invenzione, ci siamo attenuti ad un piccolo artifìcio: abbiamo tolta la
scena dialogata riportata nel testo da una commedia di Nicolò Bar-
bieri, comico, il quale, sebbene con un titolo un po' diverso (L' Inav-
vertito, ovvero Scapino disturbato e Mezzettino travestito, Venezia ,
1630), distese, cioè, scrisse la parte dialogata dello scenario spiegato
dal nostro corago ai suoi comici. S'avverta però che il Barbieri, nel
distendere lo scenario, v'introdusse qualche cambiamento: ridusse gli
atti e le scene ad un numero minore e cambio i nomi dei personaggi.
'Pulcinella e Pandolfo divennero c^ezzettino e feltrarne. (Bartoli
A. — Op. cit. p. XCVIII).
5\^e/ Regno delle Maschere 5
— 66 —
BEL. — Ma in buon'ora, fate ch'io sappia almeno quello che
avete.
MEZZ. — Sono sequestrato.
BEL. — Come sequestrato? Siete sequestrato in casa?
MEZZ. — Non so ; so bene che sono sequestrato tutto.
BEL. — Aprite la porta, e non uscite voi se siete sequestrato in
casa.
MEZZ. — Ma credo sia sequestrata anche la porta.
BEL. — O mi fate ridere, voi siete ben balordo. E come si se-
questrano le porte e
MEZZ. (venendo fuori) — Eccomi; ma avvertite che se io vad
in pena alcuna, che ne siete cagione voi.
BEL. — Ov' è il sequestro ?
MEZZ. — Qui in scarsella.
BEL. — Mostratemelo un poco.
MEZZ. — Come mostrarvelo s'egli è sequestralo ?
BEL. — O questa sì che è da scemo! Siete così ignorante o pur
fate il balordo per qualche vostro interesse ?
MEZZ. — Io non sono stato mai in questo intrigo. Mio padre
morì disgraziatamente per giustizia, ed io con l' esempio mi sono av-
vilito in modo che vedendo i birri, mi pare d'essere legato.
BEL. — E come morì vostro padre ?
MEIZZ. — Lo strozzarono per aver fatto la sentinella.
BEL. — Doveva aver fatto qualche segnale al nemico o passato
qualche accordo seco.
MEZZ. — Anzi r impiccarono per essere troppo fedele.
BEL. — lo ciò non V intendo, se non parlate più chiaro.
MEZZ. — Faceva la sentinella mentre certi suoi compagni rompe-
vano una bottega, acciocché la Corte non sopraggiungesse, ed uno in-
vidioso del bene altrui gli diede la querela, e per far servizio al suo
prossimo, fu col prossimo mandato in Piccardia.
BEL. — Veramente queste sono certe carità che non meritano altra
ricompensa. E voi che cosa avete fatto ?
MEZZ. — Niente di male eh' io sappia e per niente sono ridotto
a questo passo. Hu, hu, hu
I
— 67 —
BEL. — Non piangete , siete così pusillanime ? E vergogna , un
uomo come voi siete, pratico del mondo, dare in queste bassezze?
MEZZ. — Do nelle bassezze per tema di dare nelle altezze e ri-
maner per aria. E una mala cosa l'esser stato predestinato a fare il
fine del padre e cominciare la giustizia venirmi a casa. Il male co-
mincia spesso da poco , e quel poco s' avanza tanto che tira le per-
sone alla morte. La giustizia ha cominciato ; non so altro.
BEL. — Mostratemi, di grazia, questo sequestro.
MEZZ, — Toglietelo voi fuori di scarsella, che io non voglio pre-
terire r ordine della signora Giustizia ; ma avvertite a quello che fate voi.
BEL. — Lasciate la cura a me. De mandato magnae Curiae *U/-
cariae.
MEZZ. — Chi ha mandato alcuna vigliaceu'ia ?
BEL. — A proposito I Non dico vigliacaria, dico d' ordine della
Gran Corte della Vicaria. Non sapete che cosa è Vicaria in Napoli ?
MEZZ. — Signor sì, dove sono gì' incarcerati ; ed ecco che que-
sto è un principio di disgrazia. Oh cielo! Aiutami!
BEL, — Fermatevi, jìd istantiam domini Fulvii de Bisognosis....
MEZZ. — Signor no, signor no ; io non ha fatto istanza al signor
Fulvio, è lui che voleva la mia schiava, il signor Pantalone ha torto
a mandarmi la giustizia a casa.
BEL. — Piano, piano, che il signor Pantalone non vi fa torto, né
dice che abbia fatto istanza al signor Fulvio. Sequeslreiur omne per
illud quod reperitur penes Domino Mezzettino....
MEZZ. — lo non ho reperito, né rapito né penne, né pennacchi
a nessuno, la giustizta é male informata.
BEL. — Tacete in buon'ora, che non parla né di rapine, né di
rubare ; uti bona pertinentia ad Dominum Cinlhium Fidentium...
MEZZ. — Non è vero; io non ho fatto impertinenze al signor
Cinzio; io gli ho parlato sempre con somma riverenza.
BEL. — Se voi non avete pazienza, non la finiremo maù ; non in-
tendete, e però tacete ; scolarem Beneventanum , videlicei aurum et
argentum...
MEZZ. — Sono dugento ducati d' oro, ed io non ho argento ecco,
e non l' ho rubati, che sono per il riscatto della schiava.
BEl^. — in buon'ora; et in ispecie...
— 68 —
MEZZ. — Io non ho spezie...
BEL, — Non parlo di vostre spezie, ascoltatemi ; dico mancipium
unam captivam...
MEZZ. — Che mi vogliano porre una mano in ceppi perchè è
cattiva ? E qual mano ho io cattiva ?
BEL. — Non vi turbate, che non dice così. Udite : cum declara-
tione quod ipse non possit amplius eam tenere ncque possidere...
MEZZ. — Ch' io non possa più sedere ? Oimè ! Sono rovinato, oh
meschino, è impossibile ch'io possa stare sempre in piedi!
BEL. — O pazzo, non dice che non possiate sedere, dice che non
possiate possedere: ncque in pedihus.
MEZZ. — Neanco in piedi ! Oh poveretto me ! Sono morto I
BEL. — Voi mi volete far perdere la pazienza. Fermatevi in
buon'ora, che starete seduto e in piedi, come vorrete voi! Ut dicitur
alienum constituere, et quod ficret in contrarium fiat frusta.
MEZZ. — O quella sì che l' ho intesa e non me la imbroglierete.
Contrarium frusta vuol dire che mi frusteranno per le contrade...
BEL. — Voi mi volete far morire di ridere. O che voi dubitate
dei vostri meriti o che voi v' interpretate a forza di paura.
MEZZ, — Ah , signore , voi non volete esser quello che mi dia
cattiva nova; ma io intendo per discrezione.
BEL. — Oh, se v'intendete tanto di mangiare, non occorrerebbero
maestre di torte o musiche de maccheroni. Datevi pace ed abbiate
f>azienza ch'io vi legga il tutto: Ed hacc sub poena Ontiarum auri
centum...
MEZZ. — Che mi vogliono ungere in cento ?
BEL. — A proposito ; le onze d' oro sono un valore di moneta ,
e credo che sia di cinque ducati d'oro un'onza; T^cgio Fisco appli-
candarum...
MEZZ. — Che mi vogliono appiccare al fresco ? Oh , poveretto
me! Oh, mia madre, che triste novella intenderete dell'unico vostro
figliuolo! Almanco si potesse sapere perchè...
BEI.. — Eh, quietatevi, che non vuol dir così, no. Applicandarum
dice, e non apicandum , da applicarsi al Fisco , da darsi alla Corte ;
intendete? Registratum per publicum Notarium éJìiCoscttinus Calerà...
MEZZ. — Oh, questa non si può dir più chiara! Mezzettino in galera!
— 69 —
BEL. — Voi diventate pazzo tra la vostra paura e la vostra inter-
pretazione. Mosettinus vuol dire Moisè in diminuitivo, e Calerà è una
casata spagnuola.
MEZZ. lo non voglio andare in Ispagna. Ma in che linguaggio è
scritta questa carta?
BEL. — In latino.
MEZZ. Deve venir dunque questo sequestro dal paese dei Latini
ed io non so dove sia.
BEL. — 11 paese dei Latini è l'Italia ecc. ecc.
Non aggiungiamo altri esempi tolti dal repertorio o
zibaldore che ogni comico aveva l' abitudine di tener
suo costantemente durante le sue peregrinazioni da un
teatro all' altro, per dimostrare come la commedia im-
provvisa non fosse meno pensata e distesa di quella
letteraria o scritta, anche perchè più innanzi, quando
e' intratterremo del contenuto della commedia a soggetto,
dovremo ritornare sull' argomento. In sostanza, una sola
casa differenziava il primo dal secondo spettacolo ; men-
tre questo, il letterario, presentava tutte le parti dei per-
sonaggi scritte dallo stesso commediografo, l' altro, quello
a braccia o a soggetto, aveva le parti scritte da persone
diverse e per lo più raccattate di qua e di là, o modi-
ficate dal capriccio o dal gusto dei comici stessi.
L' artista, certamente, anche nelle parti che non in-
ventava, ci metteva del suo, specie se all' abilità tecnica
del comico accoppiava un ingegno colto, vivace, crea-
tore : v' aggiungeva certamente meno se quest' ultima
qualità possedeva in misura minore; ripeteva ciò che
altri prima di lui avevano detto nella stessa parte, o
non s' allontanava affatto da ciò che aveva imparato
sulle pagine dello Zibaldone, se mancava completa-
— 70 —
mente d' ingegno e di cultura. Nei soliloqui, sopratutto,
la fantasia d' un artista poteva spaziare a suo pieno
talento, anche perchè non avendo ad aspettare la ri-
sposta del compagno di scena, o da darla a questo,
era più libero. Spesso un vuoto di scena, come i co-
mici chiamano la mancata entrata d' un personaggio,
si riempiva prolungando il soliloquio per dar tempo al-
l' altro attore d* entrare. Carlo Gozzi, che, come si sa,
fu strenuo propugnatore della commedia dell' arte quando
questa, sotto i colpi della riforma goldoniana, non dava
più che segni di vita stentata, nelle sue Memorie Inu-
tili (1) narra come egli, nella sua giovinezza, recitando
a Zara nel teatro di Corte, per la mancata entrata in
iscena d' un comico, che rappresentava Pantalone , fosse
stato costretto a prolungare un suo soliloquio. A mal-
grado di ciò, ad un certo punto, egli si trovava proprio
sulle spine, perchè Pantalone non solo non usciva in
iscena, ma, non si sa per qual motivo, nemmeno era
arrivato in teatro. " Levai lo sguardo ai palchetti ac-
cidentalmente — prosegue il Gozzi — e vidi in uno di
proscenio quella Tonina di mal costume risplendere in
una bellezza e in una gala illuminatrice del frutto dei !
suoi delitti, che baldanzosamente rideva più degli altri
delle mie freddure donnesche (2). Mi risovvenne
in quel punto il pericolo che aveva corso delle trom-
bonate per di lei cagione. Parvemi d' aver trova-
to un tesoro, e un lampo di novello argomento ri-
Ci) Venezia, 1797; Parte I.; Gap. XIII.
(2) 11 Gozzi recitava una parte di donna allattante la sua bambina.
— 71 —
svegliò in me un' eloquenza ardita , eh' e permessa
e goduta in un teatro non venale .... e potei
soccorrere il mio povero soliloquio eh' era spirante.
Posi in sul fatto il nome di Tonina alla mia figliuo-
letta bamboccia, e rivolsi il mio discorso a quella.
L' accarezzai , contemplai le sue fattezze , mi lusingai
che la mia figlia Tonina dovesse crescere una bella
ragazza . . . Esclamai quindi verso la mia piccola
Tonina . . . che se ad onta delle mie cure materne
ella dovesse cadere un giorno nei tali e tali errori . . .
sarebbe la peggior Tonina del mondo. Non vidi ai
giorni miei avere maggiori acclamazioni un comico so-
liloquio del mio. Tutti generalmente gli spettatori a
punto voltano i loro visi al palchetto della bella To-
nina in gala con la maggior chiamata di risa e mag-
gior fracasso di picchÌ2u*e di mani che fosse giammai
udito. . . Giunse, finalmente, Pantalone ".
Ma codesto modo più o meno ingegnoso di non fare
accorgere il pubblico d'un vuoto di scena, non era,
per altro, una caratteristica esclusiva dei comici a sog-
getto. Basta avere una conoscenza anche superficiale
della vita del palcoscenico, non solo dei tempi passati,
ma anche moderni, per sapere come in parecchie oc-
casioni del genere accennato dal Gozzi, anche l'artista
della commedia letteraria o dialogata ricorresse, o ri-
corra, a ripieghi improvvisi. Senonchè, noi abbiam
voluto dimostrare, come già dicemmo — e il ripeterlo
giova — che se in qualche parte, in qualche scena, o
dialogo, o soliloquio, il comico dell'arte improvvisava,
generalmente l'improvvisazione si riduceva a ripetere
— 11 —
ciò che si sapeva già a memoria o pazientemente era
stato concertato in precedenza. La parte dialogata na-
sceva e si stendeva nelle stesse condizioni in cui na-
sceva e si stendeva nella commedia scritta ; studiosa-
mente, amorosamente, in lunghe e ripetute prove, col
concorso di tutti gli attori, e sotto la guida del capo-
comico, si riempiva la tela dei dialoghi, dei soliloqui,
delle uscite; si concertavano i lazzi; il tutto con l'aiuto
dei propri ricordi, delle tradizioni sceniche, ma, sopra-
tutto, con la collaborazione dei repertori o zibaldoni,
mercè la quale, anche l' attore o 1* attrice meno intel-
gente era in grado di recitare nel modo piìi brillante
la sua parte a soggetto o a braccia. Che più ? I lazzi,
la parte più vivace, più spigliata, la più riboccante di
vis comica, diremmo quasi la più ribelle alle regole,
della vecchia commedia, erano, direbbe il Ferrucci,
premeditati. Il pubblico rideva, rideva anche sino alle
lagrime, e batteva le mani alle felici e geniali improv-
visazioni deir attore ; ma quel lazzo, che metteva tanto
di buon umore la platea, aveva tanto di barba da
due o tre generazioni, più o meno riveduto e corretto,
aveva rallegrato i pubblici ; qualche volta non aveva
di particolare, di proprio, che qualche insignificante
aggiunta ; spesso era tale quale da anni ed anni vedeva
la luce della ribalta, di guisa che per gli spettatori
non era che una vecchia conoscenza. Lo si sapeva a
memoria e non lo rendeva geniale e gradito che la
sapiente abilità dell'interprete.
Negli scenari o soggetti ì lazzi erano appena ac-
cennati col loro nome : il lazzo di torna a bussare, il
— 73 —
lazzo di lascia questo e prendi quello, il lazzo deW aquila
a due teste (1), oppure il lazzo della circoncisione nel
Finto Principe (2) ecc. ecc. Ma bastava il solo titolo
del lazzo perchè lo Zanni lo svolgesse con tutto il
suo brio : egli , però , quasi sempre , non faceva che
ripetere con più o meno genialità un vecchio motivo (3).
Sebbene tutto ciò si sapesse, pure si riteneva gene-
ralmente che la commedia a soggetto s'improvvisasse.
Ne lo riteneva soltanto il grosso pubblico, quello che
applaudiva dal lubbione ; lo ritenevano anche le persone
colte. Il presidente De Brosses nelle sue Lettres sur
r Italie (4), scriveva : " Cette manière de jouer à l'im-
promptu., .rend l'action très-vive et très-vraie... Le geste
et r inflexion de la voix se marient toujours avec le
propos au théàtre; les acteurs vont et viennent, dia-
loguent et agissent comme chez eux. Cette action toute
autrement naturelle, a un tout autre air de verité, que
de voir, comme aux Frangais, quatre ou cinq acteurs
rangés à la file sur une ligne , comme un bas-relief,
au-devant du théàtre , débitant leur dialogue chacun
a leur tour. "
Qui si vede che il buon presidente francese giudicava
dalla platea e che non aveva mai posto il piede su
(1) Perrucci; op. cit. p. 363.
(2) A. Bartoli ; Scenari Inediti.
(3) " E certo poi che a poco per volta andò quasi stereotipandosi
nella commedia dell'Arte, " A. Bartoli; op. cit. p. LXXII.
(4) II; p. 254,
— 74 —
d*un palcoscenico durante una faticosa prova della
commedia a soggetto : egli doveva perfettamente igno-
rare r esistenza dei repertori o zibaldoni dai quali
l'artista attingeva in gran parte il suo spirito, la sua
parlata facile, brillante, i suoi lazzi; di vero soltanto
e' era eh' egli, il De Brosses, restava ammaliato dalla
spigliatezza, dalla vivacità, dalla naturalezza del modo
di recitare dei nostri commedianti , i quali pare che
non rassomigliassero affatto ai comici del suo paese ,
freddi, compassati ed addormentatori di pubblici.
Ma il pregiudizio di cui abbiamo parlato guadagnava
qualche volta anche lo spirito di coloro che vivevano
della vita stessa dei comici della commedia dell' arte
e ne conoscevano , quindi, i segreti ; difatti , il Ghe-
rardi scriveva neW Advertisssment del Théàtre Italien
ou Recueil general de toutes les comédies et scènes fran-
caises jouée par les comédiens Italiens. " Qui dit co-
médien italien dit un homme qui a du fond, qui joue
plus d' imagination que de mémoire, qui compose, en
jouant, tout ce qu' il dit, qui fait seconder celui avec qui
il se trouve sur le théàtre e' est à dire, qu' il marie si
bien ses paroles et ses actions avec celles de son ca-
marade, qu' il entre sur le champ dans tous les mu-
vements que l* autre demande d' une manière à faire
croire à tout le monde qu' ils étoient déjà concertés " .
Proprio così : a far credere che fossero concertati ! O
i comici — e questo lo sapeva bene il Gherardi —
non venivano in iscena dopo d' aver concertato la com-
media e quando ciascuno di loro era sicuro della parte
a lui affidata ? Ma insieme al Gherardi quel pregiu-
— 75 —
dizio aveva guadagnato altri : Carlo Gozzi scriveva così :
" Contemplo nella commedia improvvisa un pregio del-
l' Italia. Lo giudico un trattenimento d' una specie af-
fatto separata da quella delle rappresentazioni scritte
o maturate. Animo i talenti colti a produrne di buone
e regolate, e non appello con chiara sfacciataggine igno-
rante plebaglia quell' uditorio , che vedo cogli occhi
miei propri alla commedia improvvisa e alla premedi-
tata essere il medesimo. Considero i valenti comici
air improvviso molto più di quei poeti improvvisatori,
che senza dir nulla, cagionano la meraviglia di quelle
adunanze che l'affollano per ascoltarli (I). "
Ma già dalle stesse parole del Gozzi si comprende
come la commedia detta improvvisa fosse ammalata ,
assai ammalata, quasi in fin di vita, ai tempi dell'au-
tore delle Fiabe. E solo al letto degli infermi che i
medici danno consulti.
Il Gozzi aveva un bel dare consigli ai " talenti
colti " a produrre buone e regolate commedie improv-
vise ; i tempi non volgevano più propizi a siffatto ge-
nere di spettacolo, a cui lo stesso Gozzi con le sue
Fiabe aveva voluto infondere, sebbene inutilmente, nuo-
va vita.
(1) Opere; voi. I. Ragionamento ingenuo e storia sincera dell'o-
rigine delle mie dieci Fiabe teatrali.
CAPITOLO TERZO
II contenuto della Commedia dell'Arte.
La commedia dell'arte fu per eccellenza una comme-
dia d'intreccio, quasi sempre amoroso, per non dire addi-
rittura sempre amoroso. Non sappiamo se sia stato da
altri osservato ; ma la commedia d' intrigo è stata sempre
la commedia dei popoli primitivi. Lo scrittore trova più
facile il suo compito svolgendo dinanzi al suo uditorio
la tela d' un' azione mediante una serie più o meno
complicata d' avventure, anziché mediante una pittura
di caratteri, uno studio di costumi, un'analisi di pas-
sioni, una ricostruzione d' ambiente. Quest' ultimo lavoro
richiede uno spirito d'osservazione, un' acutezza di mente, |
una ricca messe d'indagini, un profondo studio del
cuore umano che non possono riscontrarsi che nei com-
mediografi di società più evolute dove quasi sempre
il senso dell' analisi e dominante. Si nóirra facilmente
da tutti ; ma non si scruta nel fondo dell' anima umana,
non se ne riscontrano i segreti, non se ne rilevano le
sfumature anche più delicate, non si riproduce un ca-
— 77 —
rattere con nitidezza di contorni come sopra una lastra
fotografica, non si fissa su d' una tela tutto un ambiente,
non esclusi i particolari d'ordine più infimo, che da
pochi ingegni eletti, diremmo quasi esercitati a noto-
mizzare un* anima, un sentimento, una società. Si confronti
Terenzio con Plauto : sebbene il primo non sia vissuto
che poche dozzine d'anni dopo il secondo, pure il
succedersi d' una o due generazioni, e quindi il mag-
giore evolversi della società latina avvenuto nel frat-
tempo, bastò perchè il poeta africano, a differenza del-
l' umbro, si mostrasse meno incompleto nello studio dei
caratteri e nell' analisi delle passioni, senza che la sua
commedia cessasse per ciò d'essere una commedia di
intreccio. La commedia dell' arte o a soggetto, venuta
al mondo nella seconda metà del Cinquecento, cam-
minando, quanto al suo organismo, sulle orme di quella
letteraria, la quale, alla sua volta, s' era formata su quella
latina, mantenne per tutta la sua vita codesto carattere :
fu sempre d'intreccio.
La riproduzione comica della vita non fu studiata
che dal lato della successione dei fatti attraverso i quali
la vita stessa si manifesta. Lo spettacolo a soggetto fu
una specie di cinematografo ; lo spettatore non era chia-
mato ad assistere ad uno studio di caratteri, o di pas-
sioni, o di costumi ; non gli s' impostava una tesi d' ordine
morale, economico o politico per risolverla o sentirla
risolvere ; no. Egli assisteva soltanto allo svolgersi di
un' avventura più o meno comica, più o meno interes-
sante. Quando il commediografo voleva accrescere l' in-
teresse o la comicità della sua azione, non ricorreva ad
— 78 —
un esame più diligente di caratteri o di passioni ; ma
solo sovraccaricava d' avventure, d'episodi la sua azione,
o meglio, parallelamente all' intreccio principale ne face-
va correre un secondo, un terzo, magciri un quarto.
Ciò, come si diceva allora, imbrogliava V azione, e ne
accresceva l' interesse, Plauto e Terenzio, peraltro, non
avevano fatto diversamente.
Neil' jìndria di quest' ultimo abbiamo una doppia
azione amorosa ; quella del giovane Panfilo e di Gli-
cerio, e l' altra di Carino e la figlia di Cremete. Lo
interesse della conmiedia terenziana sta in questo : Si-
mone, padre di Panfilo, vuol dare a questo in moglie
la figlia di Cremete, mentre questa è amata da Carino
e Panfilo ama Glicerio, una giovinetta forestiera e della
quale s'ignora il casato. Si scopre che quest'ultima è figlia
di Cremete e quindi di buona ed agiata famiglia, e cessa
ogni ostacolo per contrarre matrimonio col figlio di Si-
mone. Così sono poste in iscena due azioni, due amori due
intrecci che si rincorrono, s' attraversano, s'aggrovigliano
sino alla scena finale, dove un doppio matrimonio re-
stituisce la calma e la felicità nel seno di due famiglie.
Nella commedia dell'arte, come dicemmo, se l'autore
sente il bisogno di rendere l'opera sua più densa di
interesse , sovrappone un intreccio ad un altro intrec-
cio ; le file della tela non corrono diritte, ma qua e
là si confondono ; ad un certo punto la matassa si
arruffa in modo tale da riuscire quasi impossibile il tro-
varne il bandolo ; ma un fortunato incidente, un'astuzia
preparata bene e meglio condotta da un servo, o una
scoperta opportunamente fatta rischiara il buio pesto
— 79 —
che si è andato addensando intorno all'azione prin-
cipale ; le cose ritornano al loro posto, la matassa non
e più arruffata, ma si dipana quasi da se, e la tela
scende sui personaggi tutti contenti come pasque.
L' intreccio è quasi sempre, se non sempre, amoroso,
anche se duplice o triplice. Gli amori, in quest'ultimo
caso, s' incrociano, si mescolano ; poi, al tocco della
verga d* un mago, ogni amore riprende il suo posto e
le nozze si celebrano. Ne le fanciulle, ne le vedove
giovani e belle, alla fine della commedia, restano mai
desolate : un tocco di marito lo trovano sempre. Qualche
volta l'azione s'imbroglia in un modo incredibile. Negli
Intrighi d'Amore (1), per esempio, l'azione non è ne
duplice, ne triplice, o quadrupla ; è sestupla ; vi sono
sei amori ; Lucinda ama Valerio ; Ubaldo aspira alla
mano di Lucinda ; Ottavio, fratello non conosciuto di
questa, ama la sorella ; Pasquella, cameriera, spera di
farsi sposare dal vecchio Pandolfo, Colombina, altra
cameriera, da Stoppino ; infine, il vecchio Ubaldo,
non potendo ottenere Lucinda, vuol fare sua Pasquella.
Ma per quanto l'intreccio s'aggrovigli, i mezzi che il
commediografo adopera per destare l'interesse o accre-
scere la comicità della situazione, sono sempre infan-
tili, grossolani, d' una vis comica, che confina spesso col
grottesco. Si direbbe che il commediografo non scriva
che per un pubblico di grandi bambini o d'un popolo
primitivo, grossolano.
Già abbiamo detto come l'azione si svolga gene-
(1) A. Bartoli; op. cit. p. 119.
ralmente sulla piazza o sulla via in un modo del tutto
contrario alle leggi del verosimile, e come in un modo
non meno inverosimile i personaggi entrino in iscena,
s' incontrino, odano gli uni i discorsi degli altri, com-
presi gli a solo, ed escano. Adolfo Bartoli (1), a que-
sto proposito, scriveva : " I mezzi dei quali si serve {la
commedia dell' arte) sono generalmente poveri e vol-
gari. Per metterci sotto gli occhi le segrete furfanterie
d* un uomo , si fa eh* egli stesso , in un soliloquio , le
racconti al pubblico (2). Per far credere d' essere morti,
si ricorre ad un sonnifero (3). Una donna pei suoi
intrighi d' amore si finge muta e spiritata (4) , e spi-
ritati si fìngono gli assenti ed i servi (5). " Nelle Tre
Gravide (6) i mezzi che il commediografo impiega per
svolgere Y intreccio sono addirittura grotteschi nella loro
sconcezza. Le tre fanciulle costrette a nascondere la
loro gravidanza, si dichiarano ammalate e per impedire
che i medici scoprano il vero, il posto di quest' ultimi,
con molte buffonate è preso dai loro amanti.
Nei ^re Becchi (7) , Valerio, amante di Lucinda,
si fa introdurre in casa di questa dentro una cassa, che
(1) Op. cit. p. X-XI.
(2) Nel Pedante, di F. Scala.
(3) Nella Creduta ^Miorta e nei 'tragici successi, di F. Scala.
(4) Nei due Fidi Notati, di F. Scala.
(5) Nel Finto Negromante e nei Quattro finti Spiritati di F. Scala.
(6) A. Bartoli; op. cit. p. 149.
(7) A. Bartoli; op. cit. p. 165.
— si-
lo stesso marito di Lucinda , il vecchio Landolfo ,
aiuta a mandar dentro ; nell'ultimo atto, Lucinda, per
mandar via di casa Valerio senza che Pandolfo se
ne accorga, dice al marito che il suo ferraiuolo è tutto
inzaccherato ; gliene alza un lembo : Valerio, nascosto
da questo, scappa. Nella stessa commedia Colombina
per far fuggire l'amante senza che lo veda il marito,
mette in capo a costui un bigonciolo. Nella Finta
^Niotte di Colafronio (1), Zanni ha una collana, Pul-
cinella gliela adocchia e pensa di rubargliela ; si ve-
ste da diavolo e fa il colpo ; Cola , che in disparte
ha visto tutto , si veste da Morte e mette le mani
sulla collana, che Pulcinella, spaventato da quella ap-
parizione, si lascia portar via : ma Pandolfo ed Ubaldo ,
che hanno assistito alla scena , si vestono da birri e
fìngono di menare in prigione Cola ; questi lascia la
collana e fugge. Nei Quattro Pazzi (2), quattro im-
pazziscono per amore ; un mago sopravviene, sorprende
i quattro matti nel sonno e mediante un suo sortile-
gio li guarisce. Qualche volta la situazione dramma-
tica con r introduzione del comico banale diventa grot-
tesca : nella Cameriera dei manoscritti Croce della
Nazionale di Napoli, due coppie d'amanti, ritenen-
dosi falsamente vittime di reciproco inganno, si avve-
lenano ; già sentono prossima l' ora estrema , quando
Pulcinella che aveva preparato la pozione mortifera ,
interviene e spiega che nella terribile fiala egli non
(1) A. Bartoli; op. cit. p. 1 7 .
(2; A. Bartoli; op. cit. p. 203.
!ACel Regno delle ^^aschere. 6
- 82
aveva introdotto che della " pisciazza " . Grottesco ed
indecente.
Un mezzo molto comune nelle commedie dell'arte
sono i travestimenti : non sono quasi mai ingegnosi ;
quasi sempre sono infantili ; il che conferma sempre
di più il nostro concetto sulla ingenuità primitiva della
trama della commedia improvvisa o a soggetto e del
gusto grossolano degli spettatori di quel tempo. Nella
%)edoVa Costante {]) , Isabella che ama Orazio, lo
ritiene ucciso da Ottavio suo rivale, e giura di ven-
dicarlo ; indossa abiti maschili e si fa soldato : ugual-
mente si arruola nello stesso reggimento Orazio, anche
lui travestito ; ma ne luna riconosce l'altio, ne questi
quella , sebbene fra loro si stringa intima relazione.
Anche Ardelia, che ama Orazio, senza esserne cor-
risposta, si veste da uomo e si arruola nella compa-
gnia d'Orazio, senza che questi la riconosca. Nel T^a-
dre Crudele (2), Ottavio, che indossa il ferraiuolo e
il cappello di Valerio, è scambiato per quest'ultimo,
si busca così una schioppettata, fortunatamente, inno-
cua , perchè Cola , che ha avuto l' incaiico di ucci-
derlo , dimenticò , pel vino copiosamente bevuto , di
mettere la palla nell'archibugio. Nella stessa comme-
dia il vecchio Ubaldo per entrare senza essere rico-
nosciuto in casa di Colombina , indossa abiti femmi-
nili ; Zanni lo scambia per la stessa Colombina e gli
fa lazzi di amore, infine , scopre 1' inganno e manda
(1) A. Bartoli, op. cit. p. 3.
(2) Id. op. cit, p. 3.
- 83 —
via Ubaldo scorbacchiato e vergognoso. NeWIncauto
ovvero r Inavvertito ( 1 ) i travestimenti sono diversi ; si
travestono Cola ed Ottavio da magnani, lo stesso Cola
e Stoppino da marinai. Nel (dedico Volante (2) Cola
si traveste da medico per visitare Lucinda , ne esa-
mina l'orina e spiattella una serqua di aforismi burle-
schi. Nella stessa commedia Ottavio e Valerio per
parlare con le loro innamorate si tiavestono da suo-
natori. Neil' Onorata fuga di Lucinda (3) , la prota-
gonista per raggiungere l'amante che l'ha abbandonata,
si traveste da uomo, stringe amicizia con lo stesso Va-
lerio, senza che questi dubiti del sesso del suo nuovo
amico. Nei ^re pecchi (4) , Ottavio per introdursi
in casa d'Ardelia, si traveste da mendicante. Nel Finto
Principe (5), Cola mediante una certa radice datagli
da un mago, può a suo talento trasformarsi in principe
e da principe nel buffone di lui. Nei '^re Principi
di Salerno (6) , Briseide e Rosetta si travestono da
uomini , sono scambiate pei loro mariti , Lionello e
Cola, ricercati dagli sgherri del principe regnante, ed
uccise. Nei Quattro T^azzi (7) Giangurgolo e Cola,
perchè il Capitano non sposi Lucinda , si travestono
da birri e fingono d'essere mandati dalla comunità di
(1) A. Bartoli, p. 91.
(2) Id. p. 105.
(3) Id. p. 135.
(4) Id, p. n5.
(5) Id. p. 193.
(6) Id. p. 193.
<7) Id. p. 203.
— 84 —
Orbetello per arrestare il Capitano come ladro. Nel
Giuoco della Primiera ( I ) , Pantalone ottiene da Co-
viello la mano della figlia e quattromila ducati che
dovrà riscuotere dal banco della " Simia ". Dispera-
zione della ragazza, la quale ama Lelio figlio di Pan-
talone : Zanni, servo, viene in aiuto degli amanti ; sa
che Pantalone, suo padrone, deve andare a riscuotere
la dote, si traveste con gli abiti di quest' ultimo , va
al banco e ritira i denari ; poi, va da Coviello e gli
dice che tutto sta bene e che affretti le nozze. Pan-
talone, alla sua volta, va al banco, ne è mandato via
come un truffatore, e corre a lamentarsene con Coviello ,
il quale ne resta meravigliato e gli fa osservare che
poco prima gli aveva pur confessato d'aver ritirato la
dote. Naturalmente, gli equivoci si dissipano e Lelio
sposa la figlia di Coviello. Nelle T)isgrazie di Pul-
cinella (2) , il Dottore promette la mano di Isabella
sua figlia a Pulcinella, che sta a Napoli, e ne aspetta
a Bologna l'arrivo per celebrare le nozze. Disperazione
d'Isabella che ama Orazio e ne è riamata ; ma costui
con l'aiuto d'un servo astuto si traveste da Pulcinella
e si presenta al Dottore. Questi l'accoglie a braccia
aperte, ne diversamente fa Isabella, la quale sotto la ma-
schera dell'altro ha riconosciuto il proprio amante. Arriva
Pulcinella, ma è accolto male, anzi è cacciato via di
casa. Dopo diverse avventure, si teme che l' inganno
si scopra, e Rosetta, la cameriera d' Isabella, si tra-
(1) Scenari di B. Luccatello della Casanatense di Roma.
(2) Scenari Croce della Nazionale di Napoli.
- 85 -
veste e si spaccia per la moglie di Pulcinella ; è ac-
compagnata dai figli, che vedendo il loro padre , gli
fanno festa. Pulcinella protesta e dice che non ha mo-
glie, ne figli ; ma le sue proteste come i suoi giura-
menti non valgono a cambiare la sua posizione ; il
Dottore minaccia di farlo arrestare , ed egli riprende
la via di Napoli. E una serie di travestimenti la com-
media le (Metamorfosi dì Pulcinella, del manoscritto
della Comunale di Perugia. Il Dottore ha due figlie,
che custodisce gelosamente in casa ; i loro innamo-
rati , che vogliono entrare in carteggio amoroso con
loro, non ne sanno trovare il modo. Coviello, servo di
uno dei giovani, s'incarica di trovarlo lui, e consegna
le lettere a Pulcinella, il quale , per entrare in casa
del Dottore , si traveste in cinque o sei foggie , ma
sempre inutilmente, sino a che Coviello, con un'ulti-
ma invenzione, non arriva a far conchiudere le nozze.
Altro mezzo di destare l' interesse e di provocare
un facile scioglimento dell' azione, erano i riconosci-
menti. Qui la commedia dell' arte scendeva in linea
retta da quella di Plauto e di Terenzio. Come si sa,
questi due ultimi ne fecero quasi il capo-saldo delle
loro commedie nelle quali un riconoscimento era quasi
sempre indispensabile. Nei Prigionieri del primo n' è
la base ; neWEpidico, dello stesso autore, Perifane ri-
nosce sua figlia nella schiava che il proprio servo ha
riscattato ; nella Donna d'Andria, del secondo, Cre-
mete riconosce sua figlia in Glicerio ; nel Punitore
di se stesso, del medesimo Terenzio, Cremete ritrova
sua figlia in Antifila ; un'altra giovinetta perduta e poi
— 86 -
ritrovata, Panfìla, noi riscontriamo nell'Eunuco, ed in
Formione il vecchio Cremete riconosce sua figlia in
Fanio. Codesti riconoscimenti, che coronavano la fine
d'una commedia, dovevano essere ricchi di emozioni
pel pubblico, se essi dapprima a Roma repubblicana
ed imperiale, e, poi, nell'Italia della Rinascenza e della
preponderanza spagnuola, formarono ininterrottamente
la delizia delle platee. Del resto, nel Cinquecento e
nel Seicento, i fanciulli e le fanciulle rapiti da cor-
sari e poi riscattati, non costituivano una reminiscenza
di letture classiche. Sulle spiagge del Mediterraneo gli
sciabecchi di Tunisi , di Algieri e di Tripoli da-
vano una caccia spietata alle nostre popolazioni, men-
tre a Venezia, con la protezione delle leggi, si com-
pravano schiavi turchi predati dalle navi vittoriose della
repubblica nei mari di levante. Erano, sopratutto, fan-
ciulle tratte in cattività dopo l' espugnazione d' una
città o d'un castello, o rapite da pirati lungo una riva,
che davano così materia al nodo e allo scioglimento
della commedia. Nel teatro latino , codeste fanciulle
rapite si presentavano quasi sempre cadute nelle mani
d'un lenone o d'una lenona, e col loro riconoscimento
da parte dei loro genitori passavano dalla casa infame
in quella d'un onesto cittadino, senza che questo im-
provviso passaggio con la non meno improvvisa riabilita-
zione morale stomacasse il pubblico ; nel teatro ita-
liano, compreso quello dell' arte, alle fanciulle rapite
o sperdute, non toccava sempre una sorte tanto triste ;
non cadevano sempre nelle mani di lenoni e alla fine
della commedia non passavano con la massima disin-
— 87 —
voltura dal lupanare alla casa maritale. Nei T)ue
Schiavi Rivenduti {\), Ubaldo ha fatto comprare due
giovani schiavi di sesso diverso che alleva in casa e
tiene a modo di figli, dopo che V unica sua figliuola
insieme alla balia gli era stata rapita dai corsari. Essi
si chiamano 1' uno Ali e 1' altra Armellina ; già s' a-
mavano prima che fossero stati venduti ad Ubaldo, ed
ora sono felici, perchè possono amarsi anche sotto il tetto
del nuovo padrone. Se non che, il vecchio s'innamora
della giovinetta, e vuole sposarla; ma questa ricusa, per-
chè ama Ali : Ubaldo va in collera e si raccomonda al
servo, Cola, per ottenere la mano della schiava. An-
che Ali si raccomanda a Cola perchè il vecchio ri-
nunzi alla mano di Armellina , e Cola che ha pro-
messo il suo aiuto ad Ubaldo, lo promette ugualmente
ad Ali. Intanto arriva il Capitano ; viene dalla Spagna
ed è diretto a Tunisi per liberare un suo fratello fatto
schiavo parecchi anni prima e colà condotto : vede
Armellina e se ne innamora, rinunzia al suo viaggio e
saputo che il vecchio Ubaldo, in seguito alle ripulse
della giovinetta, la vuol vendere, risolve di comprarla.
Ali , che a malgrado del nome turchesco è cristiano
e si chiama Valerio, scopre che la sua compagna, la
bella Armellina, è d'origine italiana ; fu rapita ancora
bambina insieme alla balia dai pirati e condotta in
Barberia, e con le indicazioni che gli dà Cola, sco-
pre che è la figlia d' Ubaldo : la sua disperazione è
al colmo, perchè se prima poteva sperare di far sua
(1) Bartoli ; op. cit. p. 43.
— 88 —
Armellina, schiava , ora non lo spera più : essa e la
figlia del proprio padrone. Ma la sua disperazione e
breve ; arriva il momento dei riconoscimenti : il Ca-
pitano ritrova in Ali il fratello perduto , il vecchio
Ubaldo ritrova in Armellina la figlia rapita dai pirati
e la dà in moglie a Valerio. Nel ^adre Crudele (I),
Paldolfo, che ha perduto il suo unico figliuolo in un
incendio, alleva presso di se ed ama come se fosse
il proprio, il figlio di un amico, Valerio, che ama Lu-
cinda, una giovanetta alla cui mano aspira il vecchio.
Questi scopre i loro amori innocenti e caccia Vale-
rio di casa. Intanto il padre di Lucinda s' impegna di
dare la figlia a Landolfo ; disperazione dei due gio-
vani ; se non che , dopo una serie di avventure tra-
gico-comiche, si scopre che Valerio è figlio di Pan-
dolfo, il quale non si oppone più alle nozze dei due
giovani. Nella commedia l'/ncau/o, ovvero V Inavver-
tito (2), nella protagonista è riconosciuta una fanciulla
già rapita. Negli Intrighi d'Amore (3), Pandolfo ebbe
rapito dai turchi il suo unico figliuolo ; ora ha con se
una figlia, Lucinda , che vuole accasare. Questa è
amata da Valerio, ma il padre di lui, Ubaldo, la vuol
prendere lui stesso in moglie e ne ottiene il consenso
da Pandolfo. Arriva Ottavio, il quale si è potuto li-
berare dalla schiavitù in cui era caduto con la sua
virtù, vede Lucinda e se ne innamora. Dolore di Va-
(1) Bartoli; op. cit. p. 73.
(2) Bartoli; op. cit, p. 91.
(3) Bartoli; op. cit. p. 191.
— 89 —
lerio, che apprende che l'altro vuole impalmare la gio-
vinetta da lui amata; Ottavio si adopera presso Pandolro
per ottenere la mano di Lucinda, ne ottiene il consenso,
ma la fanciulla continua ad amoreggiare con Valerio;
il padre la sorprende alla finestra nell'atto che parla
col suo damo ; la sgrida, ma Valerio lo persuade che
si è ingannato. Ottavio, intanto, si crede felice, spo-
serà presto Lucinda. All' incontro , Valerio è sulle
furie; ma ecco, Pandolfo scopre che Ottavio è il pro-
prio figliuolo ; il suo matrimonio con Lucinda è im-
possibile e questa, in mezzo alla gioia di tutti, sposa
Valerio. Nei Tre <^atti (ì), Ubaldo Lanterni, dopo
diverse peripezie, diventa commissario dell'isola d'Elba;
ha una figlia, che s' innamora del servo Orazio ; per
amoreggiare liberamente si finge pazza , ma il Capi-
tano che l'ha domandata in moglie, indica un medico
per guarirla. Intanto, Ardelia , figlia di Fabrizio, sa-
pendo che il proprio amante, Orazio, trovasi schiavo
all' Elba , si traveste da uomo insieme a Colombina
sua serva ed approda nell'isola recando il danaro ne-
cessario per riscattare dalla schiavitù il giovane. Qui
ha luogo una serie d' avventure strane ; ad Ardelia
rubajio il denaro che porta ; intanto mercè una certa
acqua portentosa che doveva guarire la pazzia di Lu-
cinda, Ardelia, Colombina e Zanni amante di costei e
lo stesso Ubaldo diventano matti : è stato un sem-
plice equivoco , giacche invece di bere 1' acqua che
restituiva il senno, bevvero quella che lo fa perdere.
(I) Bartoli ; op. cit. p. 237.
— 90 —
Qui altre avventure , ma comiche ; infine , si scopre
che Orazio è figho d'Ubaldo e sposa ArdeUa , Lu-
cinda sposa Fabrizio fratello di questa, Colombina
sposa Zanni. Anche in Commedia de! p. Adriani, Pan-
talone riconosce nel Capitano un suo figliuolo.
Altra caratteristica della commedia dell'arte è il ru-
more che fanno i personaggi sulla scena, specialmente
alla fine del primo e secondo atto dell'azione col re-
lativo panico e fuggi fuggi dei personaggi, anche per
cose da nulla. L'azione, allora, diventa caotica, tutti
gridano , gesticolano , si rincorrono o fuggono per la
strada o si rinchiudono in casa. Spesso i personaggi
si bastonano fra loro, si scambiano schiaffi, calci ; chi
cade , travolge nella caduta il compagno o getta a
terra chi arriva. Non cadono soli ; trascinano nella ca-
duta anche i mobili. Quasi tutti codesti finali d'atti —
meno l'ultimo in cui con le nozze ritorna la calma —
non sono che scene di fracasso. Nello scenario : For-
tuna di Flavio, dello Scala, leggiamo : " Arlecchino
fa accomodare il banco da montare a vendere la roba ;
poi Servitori vi mettono sopra la sedia, la valigia, poi
chiama i compagni Gratiano e Turchetto vengono fuori
dall' hosteria , montano tutti in banco ; Turchetto co-
mincia a suonare e cantare ; in quello Flaminia alla
finestra sta a guardare i ciarlatani ; in quello Burat-
tino viene ad ascoltare ; in quello Franceschina arriva,
si ferma per vedere : in quello l^antalone arriva, sa-
luta Oratio e tutti si fermano a vedere. Qui Gratiano
sopra la sua roba fa l'imbonimento, jìrlecchino il si-
mile ; Turchetto suona e canta ; in quello Capitano
— 91 —
vedendo Flaminia alla finestra subito la saluta ; Fran-
ceschina saluta lo schiavo ; Capitano osserva Arlec-
chino e lo riconosce per quello che aveva in governo
la sua donna, Io tira giù dal banco ; Pantalone dice
ad Oratio quello Capitano essere suo nemico ; Oratio
caccia mano contro Capitano ; Capitano il simile ; ylr-
lecchino fugge ; Capitano lo seguita e in quel mo-
mento il banco va per terra, ognuno fugge a casa sua ;
Pantalone e Pedr olino li seguono (1) ". Il finale del-
l'atto secondo della Finta U^otte di Colafronio e in-
dicato così : " Scena X. jìrdelia. Isabella, ^asquella.
Zanni e Colombina. Ar delia chiama Isabella la-
mentandosi del torto che riceve da lei benché povera
vedova , mentre gli vuol torre Ottavio quale gli ha
dato parola di sposarla : lei dice che sempre visse
amante d'Ottavio siccome ella fu amante di Valerio ;
Pasquella si duole con Colombina che le tolga il suo
Pulcinella. Le padrone vengono agli schiaffi, le serve
ai capelli, Zanni di mezzo sparte e finisce l'atto (2) ".
Ecco il finale dei Due Schiavi l^ivenduti : " Scena
XV. Ubaldo e Cola. Ubaldo viene con le gioie, vuole
entrare in casa , sente un gran rumore , si rompono
pentole ; diversi strepiti; esce {Cola) fuori con bastone,
bastona il vecchio ed entra ; vecchio fugge (3) ". Nella
stessa commedia la traccia della scena quinta dell'atto
terzo è la seguente : " Cola si rallegra con Valerio
(1) Bartoli; op. cit. p. XII.
(2) Id. op. cit. p. 24.
(3) Id. op. cit. p. 50.
— 92 —
che r invenzione cammina bene ; in questa rientra il
Capitano e il servo, Cola bastona ; loro paura e fug-
gono ^'. Ecco le due ultime scene dell'atto primo del
Padre Crudele : " Scena VI. T^asquella e Colombina,
vengono discorrendo insieme a ragionamenti amorosi,
si domandano chi sia il damo , tutte dicono d'essere
amanti di Stoppino dove alterate si azzuffano ; e in
questo : Scene VII ; Stoppino e le dette. Entra di
mezzo, e vuole intendere la causa della contesa, cia-
scheduna la vuol dire, l'una non lascia parlare l'altra,
di nuovo si danno, Stoppino frusta tutte e due, esse
fuggono in casa ( 1 ) " . Negli Intrighi d' ylmore, Pa-
squella e Colombina si tirano i capelli nel primo atto;
si picchiano nel secondo ; Pandolfo bastona Lucin-
da (2) ". NeW Onorata fuga di Lucinda, Valerio va
a fare una serenata sotto la finestra di Ardelia , ma
Pantalone, padre della ragazza, gli tira sul capo una
pentola; Valerio e il suo servo, impauriti, fuggono (3).
Nelle Tre Gravide, i tre falsi medici (Cocivola, Co-
cilla e Birimbocciola) bastonano il vero medico (4);
Colombina bastona Cola e il Capitano ; le tre gravide,
fìngendosi spiritate, s'avventono sul vero medico e gli
danno pugni e calci : quest'ultimo dice che sono ar-
rabbiate e tutti fuggono. Nelle T)isgrazie di Colafro-
nio , Cola è bastonato da tutti , da Fabrizio perchè
l'ha messo in disgrazia di Lucinda, da Orazio perchè
(1) Id. p. 76-77.
(2) Id. p. 119.
(3) Id. p. 143.
(4) Id. p. 155.
— V:>
r ha messo in disgrazia d' Ardelia, dal Capitano perchè
gli ha sviato il servo (1). Nei Tappeti, Zanni travi-
sato da diavolo bastona il Capitano, Pantalone e tutti
gli altri personaggi che si trovano sulla scena ; tutti
prendono la fuga e finisce l'atto secondo (2). Anche
le donne maneggiano il bastone e mettono in fuga i
personaggi. NeWylmante Geloso della raccolta Croce,
Angiola e Vittoria bastonano Pulcinella e Coviello
(atto secondo) ; nella Cameriera, della stessa raccolta,
Florinda, per gelosia, bastona Angiola e qumdi Orazio
suo amante perchè implora perdono per quest'ultima.
Nella commedia dell'arte le trivialità e le sconcezze
dal titolo passavano nel contenuto. Nelle Tre (gra-
vide il Capitano è innamorato di Lucinda e Cola suo
servo di Colombina : si presentano alle due donne,
fanno la loro dichiarazione, ma sono bastonati ; le due
donne msieme ad Ardelia, sorella di Lucinda , par-
lano dei loro amori ; Lucinda ama Orazio ; Ardelia,
Ottavio ; Colombina, Zanni servo d' Ottavio. Tutte e
tre sono rimaste incinte ; temono d' essere scoperte,
Lucinda e Colombina sopratutto, perchè hanno ap-
preso che i loro amanti devono partire per Pisa senza
che prima possano sposarle. Pandolfo, padre d'Orazio,
difatti, ha imposto a suo figlio d'andare a fare i suoi
scudi in quella città e Zanni deve seguirlo. Lo stesso
Pandolfo, ch'è vedovo, domanda la mano di Lucinda,
ma Ubaldo, padre di questa, non può subito accon-
ci) Id. p. 255.
(2) Id. p. 287.
— 94 —
sentire alle nozze perchè la figlia è indisposta ; oc-
corre che prima guarisca ; poi contentissimo di dar-
gliela in isposa.
Il male della figlia progredisce ; progredisce quello
di Colombina, la quale dice che ha dolori matricali
perchè ha mangiato fave. Cresce col male l' imbarazzo
delle donne ; Zanni si mette loro intorno e le con-
siglia di non farsi toccare il polso dal medico, ne di
mostrargli le orine; gridino che non vogliono esser vi-
sitate da medici e fingano di esser spiritate. Il Capi-
tano che s'è visto respinto da Lucinda, la chiede diret-
tamente in moglie al padre , questi risponde che la
ragazza è ammalata , ma 1' altro s' impegna di farla
guarire, e corre per un dottore. I tre innamorati, Ora-
zio, Ottavio e Zanni, travestiti da medici, si presen-
tano , si presenta anche il medico chiamato dal Ca-
pitano, ma i primi tre si mettono contro l'ultimo ve-
nuto, che, alla fine, scappa. Nell'atto secondo, il Ca-
pitano e Cola vengono in iscena vestiti da dottori e
dicono che sono Esculapio e Galeno , vogliono visi-
tare Colombina, ma questa li bastona. Torna il me-
dico vero e visita le tre donne ; queste gridano, di-
cono che hanno addosso gli spiriti, bistrattano il me-
dico, il quale dichiara che tutte e tre sono arrabbiate.
Si chiama un negromante ; questi arriva , ma non è
che uno degli amanti, Orazio , il quale si chiude in
camera con Lucinda per fare i circoli ; arriva Otta-
vio vestito da mago e si chiude in camera con Ar-
delia per preparare 1' incantesimo. Anche Colombina
vuole un astrologo o un mago ; Zanni è pronto ad
— 95 —
assumere tale qualità e si chiude in camera con Co-
lombina. Il vecchio Ubaldo dice che anche lui va a chia-
mare un astrologo per far guarire la sua mula. Nell'atto
terzo , il Capitano e Cola vestiti da astrologhi pic-
chiano alla porta d' Ubaldo ; vien fuori Zanni vestito
da astrologo, chiama Ottavio ed Orazio e tutti e tre
bastonano il Capitano e Cola, i quali se la danno a
gambe. Ubaldo domanda ad Orazio se le donne sono
spiritate e il giovane risponde che sono soltanto me-
lanconiche perchè desiderano prender marito ; il che
saputo il vecchio Pandolfo , dichiara ad Ubaldo che
è pronto a sposare Lucinda. Questa è chiamata in-
sieme ad Ardelia e Colombina e Ubaldo partecipa
alla prima che Pandolfo ha richiesto la sua mano. Co-
lombina protesta per le tre gravide, dice che il loro
male non può essere conosciuto da astrologhi, ma da
donne ; Ubaldo risponde che manderà a chiamare una
levatrice. Imbarazzo delle tra giovani , si vedono già
scoperte, ma Zanni viene in loro aiuto ; difatti, poco
dopo, uno dei tre innamorati , Orazio , viene vestito
da levatrice : vengono fuori le tre ragazze, e Lucinda
con la fìnta levatrice rientra in casa. Arriva Ottavio
ugualmente vestito da levatrice e con Ardelia si ri-
tira in casa ; arriva parimente Zanni vestito da leva-
trice e con Colombina si chiude in casa. Intanto, di
dentro , Lucinda grida che finalmente il suo male è
stato conosciuto ; viene fuori, Ubaldo le domanda che
male e il suo, l'altra risponde che è gravida e 1' ha in-
gravidata la levatrice. Il padre ride, ride anche Pan-
dolfo. Orazio vien fuori in abiti maschili e dichiara
— 96 —
che l'autore di quella gravidanza e lui. Lo stesso di-
chiara Ottavio per Ardelia e Zanni per Colombina.
Tutti allegri, quando piombano in mezzo a loro il Ca-
pitano e Cola travestiti da levatrici offrendo i loro
servizi, ma sono ringraziati e messi alla porta.
Negli Scenari di Flaminio Scala l'oscenità assume
le forme più plebee, più stomachevoli. Nel %)ecchio
Geloso , Burattino , ortolano , dà alla figliuola lezioni
sul modo di maneggiare la zappa , un doppio senso
sconcissimo che faceva sbellicare dalle risa le dame
e i cavalieri che ascoltavano la commedia. Lo stesso
Burattino, nelle Gelosie d' Isabella y chiamava Pedro-
lino " signore impregnatore " ; sempre la stessa ma-
schera, nella Caccia, prega tutti " che facciano poco!
romore, perchè il medico possa meglio impregnare sua
figlia "; nel Uecchio Geloso domanda a Pantalone " se|
Gratiano avendo usato con sua moglie , egli può es-
sere chiamato becco " ; nel Finto Negromante una gio- 1
vane domanda all'innamorato " se la sposerà essendo
la gravidanza al colmo ". Nel Pedante , PedrolinoJ
Arlecchino e Burattino " tutti e tre vestiti da beccai
e da castraporci con coltellacci grandi in mano e una]
conca di rame si accingono a castrare Cataldo pe-!
dante". NelF/r?/oA^egroman/e, Arlecchino vomita "sfor-
zandosi di far del corpo ". In un'altra commedia (1),
(1) É il Vecchio Geloso. Ecco come ne è indicata la scena : " Men-j
tre si balla Isabella accenna a suo marito di voler orinare ; Pasquella
subito con licenza di Pantalone la conduce in casa. Pantalone subito,
per gelosia si pone alla guardia della porta ... Ognuno vorrebbe en-
trare in casa Pasquella per fare qualche servizio, e Pantalone dice :
- 97 —
durante una festa, la moglie di Pantalone si chiude
per un certo suo bisogno in camera do\e già l'aspet-
tava l'amante ; il marito , perchè la sua onesta metà
non sia turbata in quella sua funzione fisiologica , si
mette, di guardia, accanto alla porta : la moglie vien
fuori, tutta rossa , sudata e gli abiti in disordine , e
Pantalone, premuroso, le ricompone il vestito e con
un fazzoletto le asciuga il sudore.
Che più ? 11 Perrucci, che neWArte Rappresenta-
tiva s'ingegna ripetutamente di far comprendere ai co-
mici come debbano eviteire nel loro linguaggio non
solo ogni oscenità ma anche i doppi sensi palesemente
immorali, nel proporre ai commedianti all' improvviso
alcune forme di dire figurato o arricchite di tropi, gli
mette sott'occhio i seguenti esempi tratti da commedie
molto in voga ai suoi tempi ( 1 ).
A.) Con occulto sospetto di cosa oscena :
" Ma subito , Bertuccia mia , che la terra sia guasta per troppo
scavarla ? ".
B.) Concedendo ciò che s'oppone.
FL. — Ruffiano sfacciato...
TOC. — Questa è l'arte mia, e non la niego.
FL. — Non t'arrossisci di non mantener la parola ?
TOC. — Se son ruffiano come vuoi che n'arrossisca ?
FL. — Scellerato I...
TOC. — Per guadagno, signor sì.
Di grazia, non andate a disturbare mia moglie, la quale fa un servizio...
Vien fuori Isabella tutta sudata ; Pantoione subito la rasciuga col suo
fazzoletto dicendole che quando le vengono quelle volontà che se le
levi, e non patisca ". Scala, op. cit. pp. 2 1 -22.
(1) Op. cit. p. 213.
!ACel Regno delle ^asehere 7
— 98 —
C.) Con la vera sciocchezza.
" T^asquella. Fra le muraglie di questa rocca è sempre battuta la
bellezza ; non posso muovere il piede ch'io non sia adirala. Se io vo
in mercato , mi gridan dietro come s' io fussi l' immagine della Dea
Venere : Oh che fa l'esser bella! Oh, come vi sono queste poppone,
che paiono due zucche prataie ; vanno pazzi costoro di me ! ( 1 ) ".
D.) Rimprovero di serva al servo.
" A me dunque far questo,
Becco con tutto il resto ?
Dunque, l'amasti tanto
E il tanto sospirar è stato vano ?
Mezzo cornuto e tutto ruffiano !
O razza di lumaca,
O cervo a paletta, razza di Lioncorno,
Già che fu la tua fé' per me di vetro.
Quello, ch'heù in testa, che ti corra dietro! (2)
E.) Rimprovero (di Pulcinella) alla serva, in dialetto napoletano.
" Ah, cana arrennegata , arma cotta ; accossì quanno credeva a la
chiazza de ssa 'bellezza fare eo sportiello de gaudebilia, non solamente
me vinne la rrobba contr' assisa , ma trovola chiù fraceta e stantiva !
Lo pane a ruotolo è divenuto palatella d'assisa, l'erve de le speranze
so' mosce e nsocetute, lo vino de la grazia è spunto, sbolluto e ghiunto
a Tacito ; li pisce de le mpromesse ne af archiate a la grotta de l'in-
ganno, che pareno vive , fetono ; li frutte de li guste ammoruse pa-
reno belle, e nce so dinto li vierme ; lo lardo de sa janchezza pare
frisco e sa di scartato ; pe' parte de vetella de Sorrento trovo carne
de vacca de cient'anne; lo caso è fraceto , le ricotte so acetizze , li
frutte de mare che speravo di trovare chine, so' bacante pe' essere a
la scolatura de la luna e dinto la pasticceria de ssa bellezza trovo pa-
(1) Op. cit. pp. 323-27,
— 99 -
sticcie de inganne, pizze sfogliate de imbroglie... e sfogliatelle e mat-
tonate de carne de ciuccio, de mosche... (1) ".
F.) Scherzi al vecchio innamorato.
" 1 cervi e i vecchi sono simili perchè nella vecchiaja aggravandosi
la testa dei corni, non possono più innalzarla. I vecchi sono come le
piante, che quando hanno per l'età pigliato la piega, non v'è peri-
colo che si possano più raddrizzare (2) ".
Per riassumere : il contenuto della commedia del-
l' arte non è superiore a quello delle farse che oggi
si rappresentano nei teatri dialettali d'infimo ordine e
dove la maschera rallegra ancora i pomeriggi e le
serate della plebe. Pasquino, Pulcinella, Meneghino,
Cassandrino, Gianduja , ancora fanno ridere coi loro
lazzi, con le loro boccacce, con le loro trivialità, coi
loro doppi sensi più o meno apertamente osceni in
commedie, che come quelle improvvise d' una volta,
hanno per base un' intreccio infantile ; soltanto codeste
maschere, oggi, non fanno ridere che le serve, i guat-
teri, i portinai, i rivenduglioli, insomma , un uditorio
infinitamente plebeo , mentre le vecchie , quelle glo-
riose del Cinquecento e del Seicento , facevano ri-
dere dame gentili e cavalieri inappuntabili, nobili e
gente di lettere, abati di spirito ed uomini di spada.
Quale caduta !
Se qualcuno l'avesse predetto al nostro buon Per-
rucci il domani della pubblicazione del suo libro,
forse lo scrittore palermitano gli avrebbe gridato : IJa
(1) Op. cit. p. 297.
(2) Op. cit. p. 305.
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retro, Satana ! Per sua fortuna, quando egli morì, la
commedia dell'arte era ancora piena di vitalità ed egli
potè portar seco nel sepolcro la convinzione che quel
genere di spettacolo avrebbe sempre costituito una
delle glorie più pure e meno discusse dell' Italia
nostra.
i
CAPITOLO QUARTO
I Personaggi della Commedia dell'Arte
Certamente l'attrattiva maggiore della commedia del-
l'arte non deve cercarsi nella orditura della comme-
dia stessa, ma nei suoi personaggi, anzi , nelle Ma-
schere. Chi , per altro , diceva commedia dell' arte,
diceva maschere : era impossibile immaginare 1' una
senza le altre ; se lo scenario costituiva l'ossatura, lo
scheletro della prima , le maschere n'erano il sangue
e le carni ; n'erano, anzi, 1' anima. Senza queste ul-
time , probabilmente , la commedia a soggetto non
avrebbe fatto il giro di tanta parte d' Europa e 1' I-
talia avrebbe avuto una gloria letteraria di meno.
Esse, più che caratteri , rappresentavano tipi , che
lo scrittore comico e l' artista resero quasi immobili,
quasi condannati a muoversi inesorabilmente dentro li-
miti tracciati dalla tradizione e dall'arte stessa e senza
che nessuna delle tante sfumature che presentano i ca-
ratteri umani modificasse, meno casi rarissimi, una sola
piega del loro volto. La stessa maschera che copriva
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il viso dell'artista, contribuiva, con la sua immobilità,
a rendere non meno immobile il tipo che la medesi-
ma rappresentava. Qualche volta cambiavano i parti-
colari, ma il personaggio rimaneva sempre lo stesso,
fisso , rinchiuso diremmo quasi nella sua cristallizza-
zione. Pantalone poteva cambiare professione o me-
stiere. Arlecchino, o Pulcinella , poteva per un mo-
mento nascondere la sua livrea di servo , ma il suo
carattere non variava d'una linea.
Fra i personaggi principali o maschere della com-
media dell'arte prendevano posto i %)ecchi. General-
mente i vecchi erano due, ma non portarono sempre
e dappertutto lo stesso nome. Furono però più cono-
scinti r uno sotto il nome di Pantalone e 1' altro di
Dottore Graziano o semplicemente di Dottore. Negli
Scenari dello Scala c'è Pantalone ; in quelli editi dal
Bartoli codesti due nomi non figurano che di rado; nel
T)ottore Bacchettone, che crediamo anteriore e quindi
non una derivazione del 'tartufo del Molière (1), il dotr,
(1) lì carattere del bacchettone è vecchio nella commedia italiana.
Scomparso o quasi, nel Seicento, durante 1* infierire della reeizione cat-
tolica, riapparve sulle scene nel Settecento col Gigli, toscano. Nel li-
cenzioso Cinquecento Pietro Aretino intitolò dall' ipocrita una delle
sue commedie, la quale, certamente, fu conosciuta dal Molière. Scrive
un francese : " Le personnage principal de la comédie de Lo Ipocrito
a de commun avec Tartuffe, non seulement l'hypocrisie, mais ancore
la gourmandise et la sensualité. 11 emploie les mémes moyens pour
conquérir son prestige et son influence : simagrées pieuses, humilité feinte,
jargon de la dévotion. 11 est place dans un milieu pareil, au sein de la
famille oìi il exerce une autorité dangereuse ". Moland, Molière et la
Comèdie Italìenne; Paris, Didier et C. 1 867, p. 222.
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tore si chiama appunto Graziano; ma è bacchettone, don-
naiuolo e strozzino; Pantalone figura nella stessa com-
media, nei Tappeti, e poi in nessun'altra. I %)ecchi si
chiamano Pandolfo ed Ubaldo ; Pantalone ricompaire
negli Scenari del Luccatello, ma scompare , o quasi
in quelli della raccolta Croce, tutti composti o rima-
neggiati a Napoli, dove la maschera, d'origine vene-
ziana, perdeva, per così dire , la sua nazionalità per
quella napoletana diventando Giangurgolo , o Pasca-
riello, o Tartaglia.
I %!)ecchi , per altro , sono sempre i genitori della
coppia amorosa ; gridano, ammoniscono, fanno mostra
di molta severità, lodano i tempi antichi e bistrattano
i presenti; i| che non impedisce loro d'innamorarsi,
qualche volta , d'una giovinetta o d' una vedova , e
qualche altra di sposare la serva ; ma sono sempre
burlati se fanno i galanti , e il loro rigore di padri
burberi ed inaccessibili ai sentimenti gentili sfuma di
botto quando il sipario sta per cadere sull'ultima sce-
na della commedia. Ma gli Ubaldi , i Pandolfi ed
altri simili, come i Giangurgolo, i Tartaglia, non ebbero
che una celebrità relativa, forse appena regionale; gli
immortali, coloro che scrissero a caratteri d'oro il loro
nome nelle pagine della storia dell'arte comica furono
Pantalone e il Dottor Graziano.
Sebbene appartengano l'uno a Venezia e l'altro a
Bologna, pure s' è voluto dar loro un' origine remota,
assai remota ; il loro capostipite sarebbe stato il Senex
della commedia latina. Non diciamo che più d' un
punto di rassomiglianza non esista fra le due maschere
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italiane e i X)ecchi del teatro di Plauto e di Teren-
zio ; per esempio, Pantalone che soffre di mal d'amore
e il Dottor Graziano che fa il galante a Colombina o
a Pasquella potrebbero benissimo trovare un riscontro
non forzato, non stiracchiato, ma naturale, nel vecchio
Stalinone della Casina, di Plauto, che vuole ottenere
i favori della schiava : del resto, un vero Don Gio-
vanni con gli acciacchi della vecchiaia in di più co-
desto Stalinone , il quale , nella scena terza dell'atto
terzo, scioglie un inno all'amore, che tradotto in ve-
neziano o in bolognese, oppure in napoletano avrebbe
potuto trovar posto fra le Prime Uscite dei X)ecchi
d'una commedia dell'arte.
Nel mondo
Cosa v'è più splendido e leggiadro
Dell'Amore? Che cosa ricordare
Si potria, più piacevole e gustosa ?
Meraviglio che tanti condimenti
Usino i cuochi e non usin quell'uno
Che ogni altro avanza. Quando in una cosa
V'è un condimento d'amore, a ciascuno
Piace di certo ; e per contrario nulla
Può essere soave e saporito
Quando l'amore non v'è misto. Il fiele,
Che tanto amaro, fa diventar miele,
E l'uom da triste, disinvolto e lepido.
{Trad. di G. Finali)
Ma tolti pochi punti di rassomiglianza, dovuti na-
turalmente alla circostanza che tanto i comici latini
quanto gli italiani non crearono che lo stesso tipo o
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carattere, e quindi con esso riproducevano tutte le
debolezze che sono comuni ai vecchi di tutti i tempi,
le due maschere della commedia a soggetto hanno
una fisonomia tutta loro propria ed eminentemente ca-
ratteristica perchè si possano ritenere una semplice ri-
produzione di quelle della vecchia Roma. Esse , di-
fatti, rispecchiano, sebbene in caricatura , che spesso
tocca il grottesco , le debolezze , i difetti, i vizi dei
vecchi della società italiana dei secoli XVI , XVII
e XVIII : severi coi figli, partigiani della più assoluta
autorità paterna in famiglia , mariti burberi, essi fini-
scono sempre col cedere ai desideri dei figli , o col
secondare i capricci delle mogli ; bacchettoni , colli-
torti, ossequienti a preti e a frati, tutti chiesa e con-
fessionile, di nascosto professano una morale comoda,
assai comoda , e trovano il tempo e il modo d' inta-
volare uu intrigo galante , di prestare il denaro ad
usure fenomenali o di perderlo in una bisca o nel-
l'alcova d'una donna ; memori dei peccati e dei di-
fetti della loro giovinezza, ora, nella vecchiaia , vor-
rebbero ripeterli ; la qualcosa , forse , spiega perchè
finiscono sempre col dar ragione ai giovani e perdo-
nare ai loro trascorsi. Di caratteristico , di regionale,
codeste due maschere hanno questo : in Pantalone,
nella persona del quale s' incarna il mercante vene-
ziano , stitico , avaro , facile ad innamorarsi come a
ciarlare, si riscontra spesso l'uomo prudente , la per-
sona dai buoni consigli, giacche , allora , i veneziani
erano in fama di diplomatici accorti , tanti Machia-
velli trapiantati dalla terra di Dante in quella di San
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Marco ( 1 ) ; nel Dottor Graziano, ch'è bolognese (2),
si riscontra la sapienza e l'erudiizione , perchè Bono"
nia docet ; se non che, la sua sapienza e la sua eru-
(1) Ferrucci, op. cit. , p. 245. Era naturale che si volesse cono-
scere Y origine del nome di Pantalone. Chi scrisse che derivasse da
pianta-leoni, poiché i veneziani, nelle terre da loro conquistate, met-
tevano in marmo, come segno del loro dominio , la loro gloriosa in-
segna : il leone di S. Marco ; altri lo derivò da un nome molto usato,
almeno nei tempi andati, a Venezia : Pantaleone.
(2) Come Pantalone fu detto dei Bisognosi, il Dottor Graziano fu
detto Balanzon. Qualcuno pretese che prima d' assumere quest'ultimo
nome, ne avesse un altro, Baloardo. Quello di Balanzon pare che lo
abbia preso nel 1570, quasi derivandolo dalla professione che eserci-
tavano i comici di quei tempi prima di salire le scene. Erano quasi
tutti ex saltatori, ex ballerini. Corrado Ricci (/ 'teatri di Bologna nei '
Secoli XVII e XVIII; Bologna, succ. Monti, 1888) però crede che
venga da balla (frottola). Il Sarti (// 'teatro Dialettale bolognese; \
Bologna, Zanchelli, 1895, p. 142) opina, invece, che venga da ba- \
lama (bilancia), emblema della giustizia. Sulle origini delle maschere
e dei loro nomi, si può veramente ripetere : tante teste, tante sentenze.
Però anche il teatro greco conobbe un personaggio quasi simile al Dot-
tore bolognese, cioè, un personaggio dai discorsi senza costrutto. In
una commedia di Sofrone un retore fa discorsi spropositati, in un'altra :
di Epicarmo un filosofo della scuola d'Eraclito spiega balordamente la '■
teoria della perenne trasformazione d'ogni cosa. Di qui le varie deri- '
vazioni : il Socrate delle Nubi, l'Euripide degli Acarnesi ed altri per-
sonaggi del teatro aristofanesco. Secondo il Sarti l'inventore della ma- :
schera del Dottor Gratiano sarebbe stato Luzio Burchiello , il quale
sottoscrivendosi Lus Burchiello Gratià , aveva preso ad imitare un
vecchio barbiere detto Gratiano delle Cotiche. Del resto, lo stesso Sarti
cita diverse lettere di comici fioriti nella seconda metà del Cinquecento
che si firmavano : Dottor Qratiano dei Gelosi (la famosa compagnia
comica), oppure : Comico Andreazzo Gratiano o Dottor Gratiano
Scarpazon. (Op. cit. p. 135).
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dizione sono vecchi e muffiti (ondi di magazzino messi
insieme a casaccio da una mente squilibrata e non
meno a casaccio posti fuori da una bocca ciarliera.
E la caricatura del dottore bolognese.JLaonde, scrive
il Ferrucci ( 1 )^ è "un Dottore ciarlone che non fa
respirare chi seco parla toccandosi in ciò il difetto di
alcuni letterati, che non voglion far fare una base la
loro compagno , per dimostrare che v' è farina nei
sacco ",
Dal libro dello stesso Ferrucci togliamo unVesempio.
òìjConsigtio e un altro df^ersuasiva che ci daranno
un idea del linguaggio che si metteva in bocca a
codeste due maschere. Il Consiglio e in dialetto ve-
neziano , e parla Fantalone ; la Persuasiva e in dia-
letto bolognese alquanto italianizzato per comodo degli
spettatori non nati all' ombra del tempio di San Pe-
tronio, e parla il Dottore.
" CONSEGUO.
" I antighi Egizii, Ezzellentissimo Prinzipe, volendo mostrar un ze-
rogrifico del conseggio , i fava un Pluton con el Zimier in sol cao,
che robava Proserpina, in sto muodo volendo dir che chi vuol far
acquisto de la ocasion el ghà d* aver custodìo el cao del zimier del
conseggio ; chi vuol raccoger el fruto da quel chi ha seminao s'è ne-
cessitae che se vaia del semenaor del consegger per cogmosser el tempo
che sia ben a farlo. Chi vuol alzar l'edifìzio della Politica, el se ser\à
del fondamento della rason, perchè senza questa anderà per tera tutta
la rnachma. El comandar a la orba xè un voler cascar dentro un fuogo
de disgrazie ; per non star a scuro bisogna haver el moccolo del giu-
dizio. El xè bisogno che el timon governi 'a gal;a del Regno, per no
((ly'Op. cit. p. 245.
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dar into i scoggi e inte le secche d'un mar pericoloso, le cui aque so
avelenae da le bisse delle turbolenze, e no se fa chiare, che col corno
del Lioncorno. E el cavai del Governo non anderà mai dreto se noi
vien governao dal cavezon del consulto. Fa ben donca Vostra Zelenza
come Pluton a servirse del Zimier del conseggio, come terà a servirse
del semenaor del conseger, come edifizio a fabbricar sora el fondamento
de la Prudenza. Fra la scuritae servirse del nostro mocolo per non andar
a taston ; come Galìa a tior da drio el nostro timon de la acutezza ; come
Lioncorno a scarzar col nostro corno de la Providenzia el Velen de le
oculte trapole ; e come cavai a farse rezer dal cavezon del saver d'i
soi(l)".
" PERSUASIVA ALLO STUDIO.
" L'è rhom al mond senzi al saver sicul asinus sine capistro. perchè se
ha el cavezon, chi el mena per la strada de la virtù, el va a scave-
zacol al prezipiz. L'è appunt sicut porcus in luto, che se non s'ingrassa
col beveron de la Dutrina, el non sarà bon per ingrassar la minestra de
la conversazion ; al l'è un papagal int'al bosc eh' al non articutat verba;
de muod che se dal maestr non l'è post int la gabbia, e vien ammaistrà
ad articolar i azzient, non c'è pericol che sippa ne gotta. A l'è al boja
mal prattic che non savendo struzar la ignoranza, al se espon al pericol de
le sassà del popol. Voi mi per tant che ti set l'asin, ma col cavezon meae
disciplinae ; el porc, ma col beveron de mi document ; el papagal, ma
che sippa reddere voces ; el boja, ma praitic che ti possa iugulare igno^
rantiam. Perchè di ti non si possa dir as/nus ad liram, porcus inter glan-
des, psittacus in nemore et carnifex in furcis, ma asin cargà de sapienza,
porc gras de dutrina per ingrassar le pentole dell'Accademia, papagal
int' la gabbia de la Corte per saper adular el prossimo, e boja del pu-
blic, per struzar l'ignoranza, haved i applausi da i ragazzi, e così ti sarat
el l'asin d'or d'Apulejo, ch'era asin ma filosof, el porc d'Enea, ch'ai fu f
prognostic del regni , el papagal che diss ad Ottavia : Ave , Caesar [
Imperator, ed il boja de tedesc che l'avent tajà più melone, al diviè
(I)) Perrucci, op, cit. p. 247.
— 109 —
Cavalier. In sto muod ti sarat e l'asin, el porc, el papagal, el boja, e mi
el cavezon, el beveron, el maest e la forc per fari prattic int al me-
slier (1) ".
Il Cecchini, che come comico acquistò una grande
notorietà recitando nella parte di Frittellino, nei suoi
Fruiti ecc. , scriveva a proposito della maschera del
Dottor Graziano : " La pcute del Dottor Gratiano
tanto grata a chi l'ascolta (quando vien fatta da chi
l'intende) vien hoggi dal poco conoscimento d'alcuni
adulterata in guisa , che non gli vien lasciato altro,
che 'l semplice nome. Ditemi, e chi è quello il quale
possa trattare senza sdegno con uno che essendo tu
Pantalone, ti dica : T^antalimon, T^etulon, Pultranzon,
e peggio?... Un'altra spetie Grationatoria si è ritro-
vata, ed è che pensando questa di correggere T uso
del parlar rovescio (2) , si è posta a dir motti latini
e sentenze tirate.... in guisa che non lasciando mai
parlare chi seco tratta, confonde e snerva il filo della
favola ". Ed aggiunge : " Costumano i nostri comici
italiani di servirsi per consigliere del prelibato signor
Gratiano il quale... dà principio al suo discorso con
una : Sacra Cremona, o vero : Sacra Carlona, o Sa-
(1) Ferrucci, op. cit. p. 269.
(2) Il Ferrucci scriveva: " Molti anni sono s'introdusse un modo di
recitare da Dottore che stravolgea i vocaboli, v. g. TerribiI Orinai per
Tribunale ; Amerigo piega la groppa all'asino per dir l' America, l'Africa,
l'Europa e l'Asia, e così si cavava la risata dal nome storpio... Ma per-
chè si conobbe far il Dottore da troppo semplice balordo, si è disusato...
lasciando al dottor Graiziano la dottrina soda ed erudita, ma accompa-
gnata dalle dicerie lunghissime ". Op. cit. p. 254.
— no —
lada Menestra ". E sempre lo stesso Cecchini seri- |
veva : '' Per rappresentare... questo così gratioso per-
sonaggio direi che quello che si dispone di portarlo
in scena, si formasse ben prima l'idea di tal huomo, !'
il quale voglia essere moderno al rispetto dell' anti- i
chità e che a tempo mandasse fuori sentenze spropo-
sitate quando alla materia , e sgangherate quanto al-
Tespressura, il condimento delle quali fosse una lingua
bolognese in quella forma eh' ella vien esercitata da
chi si crede non si possa dir meglio, et poi di quando
in quando lasciarsi (con qualche sobrietà) uscir di
bocca di quelle parole secondo loro più scelte , ma
secondo il vero le più ridicole che si ascoltino; come
sarebbe a dire : interpretare per impetrare, urore per
terrore, suolari (credendo di parlar toscano) per scuo- ■.
lari .... Bisognerebbe anche talvolta dar di piglio a
qualche materia sciocca , triviale et molto ben cono-
sciuta, et quindi mostrare o fìngere di credere ch'ella
sia la più curiosa, la più nova et la più incognita del
mondo : onde senza dar punto segno di ridere darsi
a credere di ha ver fatto stupire (1) ".
Un' altra_maschera__era__quelljL^^^ d^^^ Capitano. Era
costui rappresentato come un soldataccio spaccone, va-
naglorioso, bugiardo, tagliacantoni a parole, ma sem-
pre pronto a pigliar pugni calci e colpi di randello.
Era sempre innamorato, di maniere esagerate, galanti
e cerimoniose con le donne, le quaH lo pigliavano,
(1) Frutti delie moderne Commedie et Avviso a chi le recita. Pa-
dova, 1628.
s' intende, in giro, dichiarandosi ostinatamente insensibili
alle sue appassionate proteste d' amore, ai suoi sma-
glianti galloni, alla sua formidabile durlindana, ai suoi
baffi dalle punte fieramente rialzate, al suo largo cap-
pello enormemonte carico di piume. Era una specie
di don Giovanni - guerriero imbottito di tutte le più
ardite, le più strampalate, le più sgangherate metafore
foggiate, nel Seicento, in Italia e in Ispagna. Anche
questa maschera , come Pantalone , come il Dottore,
si presenta col suo albero genealogico, che mette capo
ai soldati millantatori del teatro latino, al famoso Miles
Gloriosus, di Plauto, e all'altro (Trasone) un po' meno
famoso, deir Eunuco, di Terenzio. "_jE._ ^^^^sta una
parte , scrive il Perrucci ( 1 ) , ampollosa di parole e
di gesti, che si vanta di bellezza, di grazia e di ric-
chezza ; quando per altro è un mostro di natura, un
balordo , un codardo , un pover' uomo , e matto da
' catena, che vuol vivere col credito d' essere tenuto
; quello che non è , dei quali non pochi si raggirano
nel mondo (2) ".
(1) Ferrucci, op. cit. p, 274. /
(2) I caratteri che il Perrucci riscontra nel Capitano dei suoi tempi,
si riscontrano ugualmente nel Miles plautino (atto secondo) :
" Borioso, svergognato,
Vile, pien di menzogna e d'adulteri ;
Si vanta che lo seguono bramose
Tutte le donne ; in ridicolo è messo
Da tutti e ovunque vada ; però qui
Le meretrici in farne tanto scherno
Colle labbra, vedrai la maggior parte
Colla bocca contorta "'
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Codesta maschera, tra la fine del Cinquecento e il
principio del Seicento, fu quasi rifatta da cima a fondo
da uno dei più grandi attori della commedia dell'arte,
e precisamente da quel Francesco Andreini che in-
Ed una cortigiana ne fa quest'altra pittura (atto terzo) :
" .... a tutti egli è antipatico,
Millantator, ricciuto, porcellone,
Profumato.... ".
Lo stesso ^^iles si descrive così (atto quarto) :
" .... In me non nacque mai
L'avarizia | abbastanza ho di ricchezze.
Non fo per dir, ma di fìlippi d'oro
Ho mille moggia ....
. . . . O donne, io nacqui
Il giorno dopo che Opi partoriva
Giove.... ".
Del resto, anche sulle stesse scene greche, cercando bene, si potrebbe
ritrovare il progenitore del Capitano nell'Atleta, che poi si trasformò nei
goldati dai nomi altisonanti, come nel nostro Seicento: uno di codesti bra-
vacci, nel Filippo, di Mnesimaco, diceva come un capitan Rodomonte
o un capitan Terremoto qualunque :
" Sai tu con chi devi azzuffarti ? Noi
Mangiamo a pranzo spade acuminate.
Fiaccole ardenti trangugiamo a cena ;
E dopo il pranzo
Metto in tavola cuspidi cretesi
Per frutta, a mo' di ceci, e troncon' franti
Di lancia ; e per guanciali usiam corazze,
E il fronte inghirlandiam di catapulte ".
(Le Commedie di Aristofane, trad. da E. Romagnoli; Torino, Bocca,
1909. Introd. p. 6).
- 113 —
sieme alla moglie, rattrice-poetessa Isabella, abbiamo
visto essere splendido ornamento della commedia a
soggetto. Ritirandosi dalle scene, TAndreini compose
e pubblicò a Venezia un libro intolato : Bravure del
Capitano Spavento divise in molti ragionamenti in for-
ma di dialogo. Le Bravure erano i discorsi o le Tirate
del Capitano del genere di quelle ^rime Uscite, di
quei Saluti, di quei Consigli e di quelle Persuasive
che il Ferrucci più tardi doveva scrivere pel suo libro
suWArte ed altri pei loro Zibaldoni.
Se non che, le Bravure dell' Andreini sono dialogate,
e non in forma di soliloqui , giacche oltre la parte
del Capitano c'è quella del servo o scudiere di que-
st'ultimo, ch'era sempre rappresentato da uno dei due
Zanni della compagnia, quello sciocco. Battezzò an-
che l'Andreini il Capitano da lui rappresentato sulle
scene con un nome particolare, che divenne quasi si-
nonimo di quello dell'attore. Egli lo chiamò Capitan
Spavento, anzi , Capitan Spavento di Valle Inferno.
Aveva avuto prima, ed ebbe dopo , altri nomi, tutti
reboanti, tutti terrificanti: capitan Rodomonte, capitan
Matamoros , capitan Coccodrillo , capitan Terremoto,
capitan Spezzaferro, capitan Spaccamonte, ecc. Anche
il Miles Gloriosus, di Plauto , porta un nome da far
venire la pelle d' oca : Pirgopolinice (distruttore di
città) ; ma il Capitano dell'Andreini, oltre quello di
Spavento, aveva altri nomi : capitan Aviarasche , ca-
pitan Diacatolicon , capitan Leucopigo , capitan Me-
lampigo. Questi ultimi nomi , certamente , erano pel
pubblico scelto, per gli eruditi, per gli studiosi, per i
\"e/ regno delle v^aschere. 8
— 114 —
membri di quelle cento e cento accademie che al-
lora formicolavano nella penisola. Pel grosso pubblico
del lubbione codesti nomi dovevano riuscire più oscuri
di un indovinello. Lo stesso Andreini s' affretta, nel
suo libro, a spiegarli : " Diacatolicon vuol dire capi-
tano universale, capitan Ariarasche vuol dire principe
della milizia , capitan Melampigo vuol dire capitan
Cui bianco ".
In codesta maschera , ai nostri tempi, si volle ve-
dere una caricatura o una satira feroce del soldato
spagnuolo che tra il sorgere e il tramonto della Com-
media dell'arte, spadroneggiò in quasi tutta Italia. Pos-
sibile; giacche la commedia, anche quella più obbe-
diente alle tradizioni letterarie, anche quella più pe-
destremente seguace di vecchi modelli, non può fare
astrazione dai tempi in cui vive e dagli uomini a cui
deve parlare. Del resto, i soldati del Seicento, anche
italiani , non erano fior di cortesia. Più che soldati,
erano dei bravacci professanti un' arte che alla gente
onesta di quei tempi sembrava semplicemente da mal-
fattori. Ecco come il Garzoni ne parla : " Quest'arte
{militare) ci insegna a tessere inganni , a mettere
aguati, a usar diversi stratagemmi contro l'inimico....
a spogliar chiese e saccheggiare città, a spiantar ca-
stella.... a conculcar leggi, adulterar matrone, stuprar
vedove, rapir donzelle. Attende per lo più massima-
mente ai nostri tempi a questo fine di farsi nome di
minatori del mondo e valorosi omicidi e trasformare
gli uomini in usanze di fiere e costumi di bestie. Però
la guerra par che non sia altro che un comune omi-
— 115 -
cidio... I titoli di molti sono questi : ladroni, guasta-
tori , raptori , stupratori , ruffiani , puttanieri, adulteri,
traditori, sagrileghi, manigoldi, giuocatori, bestiammia-
tori, assassini , corsari , incendiari , tiranni et altri si-
mili... Tutti questi ditetti chi gli vuole imprimere in
una parola dica : soldati moderni (1) ". Ma comunque
sia, e certo che la maschera è più vecchia della do-
minazione spagnuola in Italia, anche perchè essa trovò
le sue origini nel teatro latino , la cui resurrezione
nella seconda metà del secolo XV non poteva re-
stare assolutamente estranea alla creazione dei carat-
teri della commedia italiana tanto letteraria quanto
air improvviso , senza tener conto che essa prosperò
anche in luoghi, specialmente a Venezia, dove non
arrivò ne la signoria, ne l' influenza politica spagnuola.
Non neghiamo però che qualche tratto più o meno
caratteristico di questa maschera non sia stato preso
dal soldato spagnuolo ; se non che, a siffatta deriva-
zione, non bisogna dare molta importanza, se i con-
temporanei non la videro, e se ebbero, anzi, la pre-
mura di distinguere la maschera del Capitano italico
da quella del Capitano spagnuolo. Erano, queste, due
maschere diverse, sebbene fra loro avessero parecchi
tratti comuni. 11 Ferrucci (2), che pur doveva saperne
qualche cosa, scriveva che la parte di Capitano bravo
" molti autori.... per lo più forestieri.... la praticano
(1) La 'Piazza universale di tutte le professioni del mondo; Ve-
nezia, 1614, p. 637.
(2) Op. cit. p. 293.
- 116 —
\ per deridere i napoletani vanagloriosi. " Altro che
caricatura di soldati spagnuoli! La satira o caricatura
che dir si voglia, sarebbe quindi non d' un carattere
straniero, ma paesano. Lo stesso Ferrucci , scrivendo
per gli attori le bravure da recitarsi, poneva cura, nel
foggiare quelle del Capitano spagnuolo , di farle di-
verse da quelle del Capitano italiano , e scriveva :
" Quando si fanno (le bravure) in spagnuolo, bisogna
farlo con decoro, perchè questa Nazione per ogni verso
gloriosa, non patisce esser derisa come non lo soffrono
le altre (1), facendosi deridere i Napoletani per scioc-
chi e linguacciuti ; i Bolognesi per ciarloni ; i Fran-
cesi per ubbriachi ; i Siciliani per garruli e conten-
ziosi, i quali non si alterano anzi ne godono. Ma Io
Spagnuolo ride nell* ascoltare le bravure; ma non vuol
vedere nella parte, benché fìnta d'un soldato, codar-
die ". E volendo dare un saggio di una bravura spa-
gnuola fatta con " decoro ", cioè, senza buffonate e
trivialità, presenta in lingua spagnuola la seguente
bravura spagnuola (2) :
" Non sapete chi sono ? Non avete visto il bagliore
di questo braccio che ha vinto Firro , Annibale , gli
Scipioni, Marcello, i Fabi, Alessandro e sino Ercole ?
e 1 ) Qualche volta il povero comico le pigliava sul serio dagli spagnuoli
senza che la sua durlindana da palcoscenico servisse a qualche cosa. Il
Croce ricorda un disgraiziato Capitano che a Pesaro fu bastonato a morte
da alcuni uffiziali spagnuoli, (Saggi, p. 242, n.).
(2) Per maggiore comodità dei lettori la riproduciamo in italiano.
— 117 —
Prode in campo aperto, negli assalti, nelle difese, ho
ammazzato, scannato, devastato, distrutto, incenerito,
annientato migliaia e migliaia di soldati d'ogni grado
ed arma. Picchieri, moschettieri, cavalieri, colonnelli,
maestri di campo, sergenti generali, generali, re, sol-
dani, imperatori , ed anche giganti e pigmei. Il mio
corpo e una fortezza , il mio petto è una trincea , il
mio capo un castello , il mio stomaco un campo , le
mie braccia sono due cannoni, la mia voce è un tuono
e le mie armi sono fulmini : il mio valore fa tremare
il mondo ".
Esempi di bravure di Capitani non forestieri sono
quelli che ci porge l'Ardreini nell'opera sopra ricor-
data. E sempre una sfilata di ampollosità , di erudi-
zione barocca, di frasi strampalate , di periodi rigur-
gitanti di metafore puro sangue seicento. Sono meno
scurrili, meno plebee di quelle, che con gesto tragico,
col cappellaccio piumato sulle ventitré, recitavano i ca-
pitani da strapazzo, da fiera ; ciò non ostante, la frase
volgare, la trivialità sciatta, disadorna, fa capolino qua
e là insieme all' irrompere delle metafore più goffe. Nar-
rando le sue grandi imprese, il Capitano dice che una
volta salvò il mondo dal diluvio. Incerto dapprima "o
di bevere tutta l'acqua che pioveva o veramente quella
che da tutti i fiumi traboccava... per ultima resolutio-
ne me ne andai nella valle del Settentrione, e quivi
pigHai una grandissima nube, la quale s'era calata nel
mar del nord per abbevereirsi; pigliata eh' io ebbi la
sgonfiata nuvola, subito vi cacciai dentro i venti, tutte
le piogge, tutti i fiumi, legandola in modo che non
potessero uscire ; poscia con grandissimo ardore, slan-
ciandola, la slanciai verso il sesto cielo , là dove ar-
rivando, percuotendo, e spezzandosi, affogò Giove con
tutto il concistoro degli Dei; e così per opera mia fu
salvato il mondo da un diluvio d'acqua (1) ".Un'al-
tra volta racconta la guerra ch'egli mosse alle stelle.
" Io cominciai ad armarmi alla bizzarra ed alla fan-
tastica ponendomi indosso la torre di Nembrotte per|
tonica e il monte Tauro per morione. Armato eh' io
mi ebbi il capo, il petto, gli omeri e le braccia, pi-
gliai l'arco baleno per balestra e il laberinto di Creta
per carcasso e tutte le Piramidi d'Egitto per frecce e vir-
rettoni, poscia pieno d' ira e di furore, ascesi alla ci-
ma del monte Olimpo , con ferma intenzione di fra-
cassare l'uno e l'altro Polo : pervenuto ch'io fui sulla
cima dell'altissimo monte, cominciai a balestrare il fir-
mamento, e tante balestre gli tirai eh' io lo sforacchiai
come un crivello (2) ".
Il pubblico rideva e trovava che il Capitano aveva
una fantasia ariostesca , foderata d' una solida erudi-
zione.
Ascoltiamo ora il Capitan bravo innamorato. La ti-
rata la togliamo dal nostro Perrucci ridotta da lui stesso
in italiano dal dialetto calabrese :
" Ben abbia quando ti vidi : codeste treccie son li-
gami d'oro, funi e cordelle eh' han cinto d'intorno lo
erede della Magna Grecia. Quegli occhi, che vibrano
0)Rag. III.
(2) Rag. IL
- 119 -
saette, hanno pertugiato, succhiato, bucato, perforato il
cuore al cuore di tutti i cuori miei ; la bocca è un
fialone ove fanno nido le Grazie, e l'Amore fatto Ape
vola fra i fiori succhiandone il miele, o fiore di Zum-
pano (1). Le tue narici sono pezzi d'artiglieria che
sparando e colpendo in questo petto fanno un dirupo
della casamatta della bravura del mondo : insomma,
codesta bellezza è lo specchio d'Archimede che ac-
cende un incendio nelle viscere del più gran Capi-
tano degli Eserciti. Quindi, giacche mi prendesti come
pettirosso, beccafico, o merlo al trabocchetto, non mi
far desiare, liquefare e andare in succhio. Brami cin-
que o sei cittadi di quelle che prese Platone nel cavo
della luna, vuoi il grembiale di Giunone ? La spada
di lama della lupa di Marte ? Lo scudo di Pallade ?
I cavalli lattanti del sole? Brami il colascione che fece
Mercurio d'una tartaruga ? Apri la bocca e se tu an-
che volessi il pitale di Giove fatto di stelle e 1' ori-
nale fatto d'un pezzo di luce, te lo porterò; e con un
passo disteso ascendo al cielo e fo saltare a calci in
e... gli Arieti, i Tori, i Leoni, gli Scorpioni, i Ge-
mini, le Orse , gli Asini e tutte le bestiahtadi delle
Stelle.
Che altra bestia son* io che non son quelle ? (2) ".
Passiamo ora alle altre maschere. Cccoci aglrsZann/i
La regola ottava della parte seconda dell'opera del
(1) Casale di Cosenza.
(1) Op. cit. pag. 277.
— 120 —
Ferrucci tratta: Delle parti ridicole di primo e secondo
Zanni, " In questa regola — scrive il citato autore —
I sta tutta la difficoltà del rappresentare all'improvviso,
perchè se la commedia, come dice Aristotele, è fatta
per lo riso, e tanto più l' improvvisata, senza dubbio
saranno le parti più essenziali i ridicoli (1) ".
Erano gli Zanni i servi della commedia dell' arte,
e questa ne conosceva due : il primo Zanni e il se-
condo Zanni avendo ciascuna di queste due maschere
una fisionomia particolare. " Il primo — scrive il Fer-
rucci— ha da essere astuto, pronto, faceto, arguto, che
vaglia ad intricare, deludere, beffare, ingannare il se-
condo, mordace, ma cum moderamine , di modo che 5
le arguzie sue dette dai latini Dicteria , abbiano del
salato e non dello sciocco. La parte de! secondo servo
deve essere sciocco , balordo , insensato , di maniera
che non sappia qual sia la destra o la sinistra ".
Erano il principale sostegno della commedia del-
l'arte, anzi le due maschere maggiori, le più apprez-
zate, certamente le più popolari. Gli Zanni, del re-
-^o, potevano vantare di discendere dal teatro comico
/ latino , dove spesso i servi rappresentavano Ja^parte ^
principale. Se non sempre, quasi sempre, erano essi
che imbrogliavano, complicavano l'azione, sino al mo-
mento in cui quest' ultima , sbarcizzandosi di tutti gli
incidenti, si schiariva e filava al suo fine. Ricordiamo '
ai nostri lettori come esempio tipico di siffatto genere i
di commedia , 1' Epidico, di Flauto , dove l' azione è
(1) Op. cit. pag. 280.
- 121 -
diretta da un servo tanto che quella commedia po-
trebbe chiamarsi Le astuzie d' Epidico (perchè è ap-
punto Epidico il servo), e la Donna d J^ndria, di Te-
renzio, dove la parte principale è affidata a Davo,
servo. La commedia a soggetto accrebbe smisurata-
mente r importanza del servo nell' azione ; questi di-
ventò il personaggio più importante della commedia ;
egli creava le situazioni, guidava T intrigo, lo invilup-
pava sino air inverosimile , 1' arrestava , lo distrigava.
Non c'era ostacolo più difficile eh' egli non sapesse
superare , trabocchetto più insidioso eh' egli non sa-
pesse preparare, sorpresa più stupefacente ch'egli non
sapesse accogliere senza batter ciglio. Si comprende che
questo era il servo astuto, non lo sciocco. Ombra del
suo padrone, ne seguiva i passi, ne indovinava i pen-
sieri, ne favoriva le avventure, specie se galanti ; ne
divideva i pericoli come le gioie. Spesso, e con pia-
cere, pigliava le bastonate dirette al padrone, quando
non poteva farle pigliare al servo sciocco. Del resto,
gli affari del suo cuore egli li faceva camminare di
pari passo con quelli del suo signore, con questa sola
differenza, che mentre il padroncino , alla fine della
commedia, sposava la figlia d'un mercante o d'un dot-
tore, egli ne sposava la serva. Le due azioni amorose
o i due intrighi , si svolgevano parallelamente , senza
che il cammino dell'uno arrestasse o intralciasse quello
dell'altro , ma sempre porgendosi aiuto , sempre ren-
dendo più vivace, più spigliata l'azione.
11 servo scjocco (uno sciocco, però , che in fondo
^ilTe sue sciocchezze metteva sempre un grano di
f
— 122 —
sale, e, qualche volta , più d' un grano di fine astu-
zia), il servo sciocco, diciamo , naturalmente, era il
contrapposto del suo fratello numero uno : non faceva
sfoggio, neir azione, d' astuzia , o , per lo meno , in
apparenza, non era astuto ; se non che , i suoi con-
trattempi, i suoi equivoci, le sue goffaggini , se esa-
minati bene, erano spesso piccoli capolavori di spi-
rito , d' arguzia e non servivano all' interesse scenico
meno dello spirito inventivo, della frase incisiva, del-
l' arguzia , della disinvoltura dell' altro servo.y^nche
, Jui , lo zanni sciocco , contribuiva ad ingarbugliare
r azione , a renderla più briosa , più ridanciana e ,
spesso , a condurla allo scioglimento/ Anche lui era
f o^fibr^ vjeppuo) ne^dron^ il_mezzano dei suoi amori,
cteTcome l' altro servo, conduceva di pari passo coi
propri, che finivano, come quelli de! padroncino, con
,le_nozze. Solo piìi di .qi^felle del suo furbo compa^
gQo>^ più di quelle di tutti i personaggi della com-
media, le sue spalle s' arrossavano _SQttQ-_i colpi del
bastone.
Codesti servi assunsero nomi diversi, sebbene, ge-
neralmente, compresi sotto la denominazione di zanni.
Anche qui s' invocò l'erudizione per farli discendere
dal sannio delle atellane (l). Altri non crede a siffatta
discendenza, e l'origine del nome riscontra nella parola
zanni, che è una corruzione o deformazione di Gianni o
(1) De Amicis V. Lo stesso autore (op. cit. p. 23) cita Cicerone il
quale scriveva ; " Quid enim potest tara ridiculum quam Saanio esse ?
Qui ore, vultu, imitandis motibus, voce denique corpore ridetur ipso ".
\
— 123 -
Zuane o Giovanni (1). E certo però che sin dalla metà
del secolo XVI, codesto nome si dava ad un personag-
gio burlesco, e probabilmente veneto , o dei domini
della Serenissima se si mandava a spasso, nel carne-
vale, " avec son Magnifique à la Venitienne (2) ". Se
non il più celebre, certamente uno dei più celebri di
codesti nomi , è quello d' Arlecchino che rappresen-
tava la parte del servo sciocco. Anche qui si è scritto
a lungo sulle origini del nome. Arlecchino? Hanno
domandato a se stessi gli erudiri , e, naturalmente ,
ognuno di loro ha trovato una risposta , che non è
sempre quella degli altri. Qualcuno ha voluto ritro-
vare r origine del nome della nostra maschera , in
quello d' un eroe della mitologia scandinava, un certo
Herlenkonig , altri in quello di Alichino , uno dei
diavoli dell' Inferno di Dante, trasformato in seguito
sulla scena francese in quello di Hallequin, e d'Ar-
(1) Croce, Saggi ec. p. 220.
(2) Ioachim du Belley nei suoi Regrels, stampati per la prima volta
nel 1558, cantava a proposito del carnevale di Roma :
" Voicy le Carneval, menons shacun la sienne,
Allons baller en masque, allons nous promener,
Allons voir Marc-Antoine ou Zany bouffener
Avec son Magnifique à la Venitienne ".
Si crede che sia la prima volta che in un* opera stampala si faccia
cenno d'un Zanni o Zany. E sempre òmÌY origine degli Zanni: il Va-
sari, nella vita di Battista Franco, scrive a : " I Zani o Zanni sorsero
nella metà del secolo XVI e riapparvero nelle commedie fatte fare a
Roma da una brigata d'artisti e beili umori a capo dei quali era Gio-
vanni Andrea .Anguillara... Lo Zanni è maschera lombarda e veneziana ".
lecchino in quella italiana ; altri nel nome d' un co-
mico o zanni italiano che andato a Parigi ai tempi
d'Enrico III, trovò un protettore in un gentiluomo della
Corte, certo Achille de Harlay, e che da questo no-
me si chiamò Harlequin. Ma un altro ha sentenziato:
no, non fu Achille de Harlay, ma un altro Harlay, che
fu il quinto degli Harlay, Francesco Harlay de Cha-
valon, che dette il suo nome alla maschera {Harla})-
Quint). Un altro erudito volle dare al brioso comico
origini imperiali e le trovò nel nome di Carlo Quinto
C^harles Quint). Per un altro, il nome d' Arlecchino
potrebbe derivare da jìrlotto e cocchìno fari e eoe-
chino, ari e chino). Adolfo Bartoli (1) le chiama eti-
mologie impossibili ; noi le chiamiamo etimologie di
eruditi sfaccendati. Più recentemente, un tedesco. Otto
Driesen, con molta erudizione , mise in chiaro, e in
modo inconfutabile, come scrive il Croce (2), nell'opera:
Der Ursprung des Harlequin ec. (Berlin, Dunker, 1 904)
che il nome d' Arlecchino deriva dal medio evo fran-
cese. Harlequin, Herlequin, Hellequin era il nome
d' un diavolo conduttore di schiere di diavoli, di Har-
lequins , che trovarono il loro posto nella letteratura
francese dal secolo XI in poi in drammi, fahleaux ,
misteri ec. Ma, evidentemente, tutto ciò non riguarda
che il nome, non la maschera.
(1) Op. cit. IntT. p. CLXXIV.
(2) Op. cit, p. 269. Ved. pure : Renier, Svaghi Critici; Bari, La
Terza, 1910, pp. 465-83; laffei, 5\^o/e Critiche su le t^aschere ec.
in: Rivista d'Italia, (Roma), maggio 1910.
— 125 —
Ma qualunque sia l' origine del nome e dello stesso
personaggio (1), Arlecchino è uno dei principali so-
stegni della commedia dell' arte. Con le sue facezie,
coi suoi lazzi, con le sue stesse balordaggini, egli si-
gnoreggia la scena. Langue 1' azione? Egli è pronto
a rialzarla con una frase, con un gesto , magari con
una delle sue tante goffagini, soprattutto con un lazzo.
Il pubblico è di cattivo umore ? Egli sa subito rab-
bonirlo. La cassetta del capo-comico segna zero ? Egli
è là, col suo vestito multicolore e il suo bastone di
paglia, pronto a mettere su uno spettacolo atto a chia-
mare il pubblico a teatro e far ridere fìnanco gl'ipo-
4l) Tanto Arlecchino quanto il suo compagno Brighella sono stati
sempre ritenuti come due maschere bergamasche, perchè gli zanni che
hanno portato codesti nomi hanno sempre parlato nelle commedie del-
'arte in bergamasco. Non diciamo gli storici, ma coloro che scrivono la
storia fondandosi sulla leggenda, hanno narrato che i due zanni, essendo
nati a Bergamo, l' uno (Arlecchino) nella città bassa, V altro (Brighella)
nella città alta, rappresentano a meraviglia il diverso carattere degli abi-
:anti, l'uno con la sua goffagine, l'altro con la sua furberia. E qui, a
rommento di quanto asseriscono, aggiungono che, a Bergamo, gH abi-
anti della città bassa hanno sempre goduto fama di gente di corto intel-
etto, e quelli della città alta, dove l' aria è più sottile, sono stati ritenuti
>er gente che sa far bene i propri affari (Sand, Masques et (Quffons ;
ol. 1, p. 75). Ma a smentire siffatta leggenda, ecco un' altra leggenda,
fecondo il Riccoboni (Hisl. du Théàtre it. voi. II, p. 218) i due zanni
Iella commedia napoletana corrispondenti ai due zanni veneti, sareb-
bero nati a Benevento, quello sciocco nella città bassa, il furbo in quella
Ita. " On dit que cette ville, qui est moitié sur la hauteur d'une monta-
ne et moitié au bas, produit les hommes d' un caractère tant diffé-
ent. Ceux de la haute ville sont vifs et très actifs. Ceux de la basse
ille sont paresseux, ignorants et presque stupides ". Leggende, ripetiamo-
.... :"" , . . ,<
condriaci. E sciocco, è bastonato, è schiaffeggiato, è
preso a calci; ma egli è sempre di buon umore, ride
e fa ridere. E mezzano, truffatore, bugiardo, ingordo,
ubbriacone, poltrone, vigliacco, ma tutti codesti suoi
difetti non sono che motivi di riso. Che più ? Anche
le sue disgrazie, specie se coniugali, fanno ridere. Non
e soltanto goffo, è anche triviale , anzi trivialissimo ;
il suo liuguaggio, quando non sa di lupanare, sa d' o-
steria e di stalla. Se non che, anche qui il pubblico
ride ; egli gli vuole un bene matto. Ed Arlecchino lo
sa : di qui, il suo linguaggio senza misura, il suo gesto, j
in certi momenti , osceno. E il beniamino del pub-
blico, e questo non solo !' ama, ma gli sa perdonare
molte cose.
Ciò nondimeno. Arlecchino, sebbene fosse una ma-
schera assai popolare ed apprezzata, non era che un
secondo Zanni; il primo , cioè , la maschera sagace,
astuta, salacissima nel linguaggio se non più , certa-
mente, quanto Arlecchino, portò diversi nomi. Si chiame
Brighella, Coviello, Zaccagnino, Truffaldino, Mezzet
tino, Gradellino, Stoppino ecc. ecc. Ma parecchi d
codesti nomi non ebbero che notorietà regionale; altri
col volgere del tempo, furono smessi per essere sosti
tuiti da altri; il più celebre, però, fu Brighella e il su<
regno iu anche il più lungo, il più assoluto nell'Alt
Italia, ed anche nella Centrale ; nell'Italia del Sud (prò
vincie napoletane) il servo astuto portò se non sempre
quasi sempre, il nome di Coviello.
Un'avvertenza è qui necessaria : non sempre la d
stinzione fra servo astuto e servo sciocco era manU
— 127 —
nuta nettamente nella pratica. Non.era^rai:0-ilcaso che — ^^
in una commedia il posto di Brighella fosse preso da_ A^
Arlecchino, e viceversa. Ciò dipendeva anche dal ca-
priccio o dalle esigenze dei comici, i quali, se rap-
presentavano parti sciocche , non si sapeveno frenare
dal mostrarsi astuti, e se recitavano parti astute, dal
mostrar ch'erana capaci di parere goffi. Il Ferrucci av-
vertiva, difatti, i comici del suo tempo a non trasmo-
dare ; ognuno, diceva, si contenga nei propri confini.
Ma se facile è dettare precetti, non è sempre facile
metterli in pratica.
Un'altra maschera, che non è ancora morta, e forse
non morrà , sebbene relegata in poveri teatrucoli , è
quella di Pulcinella. E una maschera prettamente na-
poletana. Anche essa ha la sua storia e le sue origini
si fanno risalire ad un buffone delle Atellane, Macco,
il quale pare che in quelle farse rappresentasse un ca-
rattere non diverso dal Pulcinella napoletano , come
può rilevarsi dai titoli di quelle farse stesse {Maccus
caupo, Maccus virgo, Maccus miles, Macci gemini); la
sola cosa rimastaci di tutto quel teatro primitivo.
Non si finirebbe mai se si dovesse tener conto di tutte
le ricerche più o meno ingegnose fatte per assodare
le origini di Pulcinella o per lo meno del suo nome.
Per esempio : il Fainelli ( Gior. St. della Leit. Ital.
voi. 54, p. 59) fa risalire il nome della maschera napole-
tana ad un Pulcinella Dalle Carceri, veronese, vissuto
nel secolo XIII. Il suo Dalle Carceri fu persona furba,
mtrigante ; fu anche soldato ; imprigionato , fuggì dal
1 carcere , e finche visse seppe sottrarsi ai suoi perse-
— 128 -
cutori. Non si comprende però come quel Pulcinella
sia passato, anche nel solo nome, da Verona a Na-
poli. Il Levi (Fr, di Vannozzo e la lirica nelle Corti
Lombarde ecc. Firenze, 1908, pag. 381), trova l'ori-
gine del nome di Pulcinella nei versi d*un certo De
Bonis, poeta del 300, il quale, parlando della discesa
dell' Imperatore in Italia , vedeva 1' aquila imperiale,
già avvilita, venire
perseguendo i pulcinelli
Perchè voltati mantelli
E mutansi di senno in ora in ora.
Altri non fan risalire al Medio Evo il nome di Pul-
cinella , il quale pare che per la prima volta abbia
fatto la sua comparsa letteraria in un poemetto di Giu-
lio Cesare Cortese, napoletano, il Viaggio di Parnaso,
stampato a Napoli nel 1 62 1 . Immagina il poeta che
in una commedia rappresentata nel Parnaso, Pulcinella,
nel Prologo, metta in Cciricatura i pzu-latori e gli scrit-
tori toscaneggianti (I). Se questa fu forse la prima
apparizione letteraria o poetica, quella teatrale sembra
che sia stata in una commedia, la Colombina, di Vir-
gilio Verucci, romano, e stampata la prima volta a
Foligno nel 1628. Pulcinella vi parla in dialetto na-
poletano, ma soverchiamente italianizzato ed è il servo
del Capitano. Come costui, egli è spaccone, vigliacco ; -
è mangione ed amico del bicchiere. Probabilmente il
Verucci non sarà stato il primo commediografo a met-
(1) Croce, op. cit. pag. 232.
— 129 —
teie sulla scena Pulcinella, servo e napoletano ; anzi
l'avere egli, romano, messo in bocca al suo Zanni il
dialetto napoletano , fa supporre che sulla scena del
teatro partenopeo, non lettercirio, ma a soggetto, quella
maschera fosse piuttosto comune. I caratteri o tipi tea-
trali , per altro , non si creano a un tratto nella pie-
nezza di tutti i loro particolari ; hanno sempre dei pre-
cedenti più o meno incerti, più o meno oscuri ed appena
abbozzati sino a che un uomo di genio non ne cavi fuori
una figura spiccata, scultoria, che non morrà. E qua-
si* uomo di genio , per la maschera di Pulcinella , fu
un comico napoletano del Seicento, Silvio Fiorillo, che
rappresentava le parti di Capitan Matamoros, il quale
nel 1632, a Milano, scrisse e stampò una commedia:
La Lucilla costante con le ridicolose disfide e prodezze
di Policenella. Due anni dopo, nel 1634, Francesco
Guerrini, romano, stampava una sua commedia intito-
lata : / Cinque Carcerati, dove uno di costoro è appunto
Pulcinella (1). Ma già il nome di Pulcinella era uscito
dall'oscurità e le commedie dove esso figurava, non si
contavano più ; nel 1 664 la maschera di tal nome era
appresentata dal capo-comico della compagnia che re-
stava al teatro S. Bartolomeo di Napoli (2). Essa
compendiava la commedia napoletana.
Ma ai grandi inventori, comò si sa , non si rende
empre giustizia. Cristoforo Colombo non fu che uno
li codesti grandi disconosciuti. Così, nella stessa Na-
(1) Croce, op. cit. p. 254.
(2) Croce, loc. cit.
5V"e/ regno delle ^^aachere. 9
— 130 —
poli che diede i natali a Silvio Fiorillo e che lo vide
certamente recitare da Pulcinella , verso la fine del
Seicento , il Ferrucci scriveva che in quella città si
credeva che la briosa maschera fosse la creazione di
un giureconsulto, certo Andrea Ciuccio, che nei mo-
menti in cui si riposava dalle fatiche del fóro recitava
delle parti buffe nei teatri partenopei; se non che, lo
stesso Ferrucci, meno ingiusto dei napoletani dei suoi
tempi, s'affretta a dire che, in realtà, la maschera era
stata una creazione del Fiorillo, e solo Andrea Cal-
cese, soprannominato il Ciuccio (che razza di sopran-
nome per un dotto giureconsulto !), morto nella pesti-
lenza del 1656, l'aveva perfezionato (1). "La quale
maschera, scrive il medesimo autore, accompagnando
la fisionomia sciocca con Fazione, s'è fatta così usuale
con scherzare, con la veste eh' è di canape grosso, e
con la maschera, che nel carnevale altro non si vede
a Napoli che Folicenelli, volendo far del grazioso ".
Fili d' uno ha voluto dare la definizione di Pulci-
nella (2) e quindi tracciare nei limiti della stessa de-
(1) Op. cit., pag. 293.
(2) Il D'Ambra nel D/z/onar/o Napoletano- 'toscano (Napoli, 1873)
ha una poesia in vernacolo napoletano , che ha la pretesa di conte-
nere il ritratto di Pulcinella. Eccola:
Pollecenella è furbo ;
E cheslo non se fegne ; '
Ma pe n'avè disturbo
Chillo fa marcagegne.
Si pò tra gente bone
No jorno s'asciarrà,
— 131 —
finizione il carattere della maschera. Il Croce ( I ) dice
che Pulcinella non può definirsi, e dice bene ; ma si
potrebbe anche dire lo stesso per altre maschere ; im-
perocché, le diverse sfumature d'un carattere o d'un
Nozente qua peccione
Isso addeventarrà.
Pollecenella è tristo,
Se dice p'ogne lato
Ma quello fa 1' ntisto
Pe n'essere accoppato.
Lo munno è na coccagna,
Ognuno se lo sa.
Lo lupo se lo magna
Chi pecora si fa.
Pollecenella è smocco,
Credono pe sta terra ;
Ma chillo fa lo locco
Pe non ghire a la guerra.
Aspetta lo minuto
Che pure à da torna,
P'addeventà saputo
E farvi straluna.
Pollecenella è chiunzo,
O puro è nu frabutto.
Ma chillo s'era abbrunzo,
Nzi a no sarriasi strutto-
Chi non se fa marmotta,
E sape scimià.
Abbotta, abbotta, abbotta,
E nfine pò crepa.
{marcagegne, furbo, intrigante — peccione , piccione — ntisto , mole-
sto — smocco, sciocco — chiunzo, pigro).
(1) Op. cit. pp. 197 e segg.
— 132 —
tipo teatrale, che ha avuto una esistenza più volte se-
colare , che ha subito 1' influenza d' ambienti diversi,
nonché di correnti letterarie non meno diverse, d' a-
dattamenti e rifacimenti continui, sebbene qualche volta
lenti o quasi insensibili, non può definirsi, o, meglio»
la definizione che ne vien fuori, anche se fatta da cri-
tici eminenti, per esempio, come Francesco De Sanctis,
che volle provarsi a dare quella della nostra masche-
ra (I), riesce monca o falsa. La definizione si rende
anche più difficile , perchè Pulcinella non sempre si
presenta sulla scena in qualità di servo. Negli Sce-
nari della Nazionale, di Napoli, come in altri , egli
assume mestieri, professioni e qualità che nulla hanno
da fare coi servo : è fornaio, oste, guardiano di mo-
nasteri , ortolano , villano , mercante , pittore , soldato,
ladro, bandito ecc. ecc. Non è sempre sciocco, è an-
che furbo. Se non che , è sempre Pulcinella , anche
quando non tutti i suoi caratteri corrispondano al tipo
tradizionale. Chi lo vede agire, anche sotto un trave-
stimento, lo riconosce subito ed esclama : è lui, è Pul-
cinella ! Ma non solo s* è voluto definire Pulcinella,
ma più d'uno ha domandato : che cosa rappresenta ?
E la risposta è stata pronta : il popolo napoletanoTrra
coloro che hanno risposto in tal modo vi è il Goethe.
A noi sembra che tale rassomiglianza non esista che
sino ad un certo punto. Pulcinella è creazione pura-
mente napoletana , ma non è il napoletano plebeo o
(1) " Pulcinella rappresenta il popolano sciocco e borioso ". Scritti '
inediti e rari, pubblicati da B. Croce; Napoli, Morano, 1898, p. 196.
— 133 -
semiplebeo. Certamente fra la maschera e quest'ultimo
i punti di contatto sono parecchi , ma il ritratto non
esiste. La plebe napoletana può chiamarsi pigra, amante
del dolce far niente, ghiottona, credula, superstiziosa;
ma non tutto un popolo, anche se con questa denomi-
nazione si voglia intendere la sola parte cenciosa dello
stesso, è mezzano, vigliacco, ubbriacone, ladro, truffa-
tore, doti queste non belle e che spesso la maschera
possiede. Tutto al più in Pulcinella potrebbe vedersi
il rappresentante dei vizi della plebe napoletana.
Come per le altre maschere o personaggi della com-
media a soggetto, così anche per Pulcinella si vollero
disciplinare e preparare le Prime uscite, le Tirate ecc.
affinchè gli artisti recitando... all'improvviso attinges-
sero la loro ispirazione... al premeditato, come scriveva
il Perrucci, dal libro del quale riportiamo una
Prima uscita
nella quale Pulcinella paragona 1' innamorata al trot-
toletto chiamato in napoletano strumholo.
" Addommannammo 'na vota a no masto de scola che cosa fosse
I st Ammore, che fa muovere lo vermiciello 'nt'a la rocchia ; mime de-
cette eh* era no peccerillo , che sempe pazzaja ; io penzanno a che
ghiuoco va ghiuocanno, vego che non ghiuocava ad autro ch'a lo strum-
molo. Perchè se lo strummolo è fatto a lo tuorno , lo nnamorato è
posto a la rota de fortuna: a lo strummolo se 'mpizza nponta no flerro,
e a lo nnamorato Ammore le schiaffa ncuorpo tanto na frezza. Lo
strummolo s'arravoglia con la fonecella, lo nnamorato è intorniato de
lazze ; lo strummolo sol' essere speretecchio , lo nnamorato spereta pe
la gnora ; lo strummolo fa na fìtta quann' è zitolo , lo nnamorato fé-
— 134 —
dele non se parte de le petrole de la scrofa ; co lo strummolo se pia
a lo rotiello, a tozzammuro, a parm'a tuzzo, a bottare, lo nnamorato
se non coglie a lo rotiello de lo core de la nnamorata tozza co
la capa a le mura, e sempre cerca de vottare. Lo strummolo se pi-
glia mmano ; lo nnamorato se serve de la mmano per tozzolare ; chi
perde a lo strummolo va sotto e abbusca pizzate; lo nnamorato con
tutto ca va da coppa se sta da sotto, e quanno se crede co le piz-
zate spacca lo strummolo de lo contiento, e cacciarene l' esca , trova
chillo de la gnor a de decina accossì tosto che nce lascia la ponta, e
pè' chesto cantaje no Pellegrino:
" Fatto strumento son del mio destino (1).
Ecco una Prima Uscita dì primo Zanni o Coviello
napoletano :
" Ch'animale sia st'Ammore, io nzi a mo non aggio ashiato Dot-
tore, Felosofo, Poeta o Miedeco che me lo saccia a dicere , perchè
disse non saccio chi diaschine fosse:
" Quid sit Amor provole oglie, Cecala poeta.
" Uno, che benneva franfellicche, decette ch'era n'Apa, che quanno
te cride, che te dia mele, te schiaffa tanto no spungolo ncuorpo ; se
pogne le femmene, le fa abbottare la panza, e dice ca ce lo mmez-
zaje no speziale, che deceva:
" Picciola è l'Ape, e come l'Ape Amore,
" No chianchiero deceva ch'era na mosca ntista, che se la caccie,
torna ; se la fa a tuorno a le carogne, addo ve lassa le vierme, che
rosecano li core de li povere nnamorate, e me lo decette no nchiajato :
" Quanto più lo discaccia, tanto piìi torna.
(1) Op. cit., p. 295.
— 135 —
" No varviero decette, ch'è sangozuca, che s'attacca a lo pretereto,
ne te lassa se non t'abbia bevuto na botta de sangc; accossì Am-
more ne sorchia lo denaro, che è secunno sango de 1' hommo, e lo
'mparai da no sangonacciaro, che deceva :
" Succia Lesbia la borsa e succia il core ;
Stolto è chi compra col suo sangue Amore.
" Na vecchia deceva, ch'era na polece, pratteca a ncapparle sotta
le pettole, perchè porta le arscelle, mozzeca e fuje, te rompe lo suonno,
e te trase nto l'orecchio e si schiaffa sotta li panne de le femmine e
li cazzune dell'hommene, e lo ghieva cantanno Porziello vennenno pi-
gnate :
" Sempre intorno di voi, Donne m' aggiro.
" Nsomma, chi dice ch'è na zecca che non te lassa , no chiattillo
che t' acciarra , no peducchio che te sbreogna , na pimmece che te
nfetta, no lavano che te stordesce e pogne ; ora quale sia quest' ane-
male, signure mieje, no lo saccio, essendocene confuso, perzò lo gran
Dottor Chiajese decette (1) :
" Or chi sa questo matto interpretare ?
" Ma s'haggio da decere la intenzione mia, diciarria che sia lo verme
peluso che stace ucuorpo a nuje, e non se vede, se non quanno co
la sementella de la grazia ammorosa non lo racove , e si no, t'arriva
a fa dolere lo stommaco , e te roseca lo core , e che perzò decette
non saccio se cerurgeco o sagliemmanco :
" E un verme Amor, che rode a poco a poco.
" Che pozza schiaffa de sbianco ",
(1) Il Dottor Chiajese, scrive il Croce (Op. cit., p. 38) fu a Na-
poli una celebrità popolare , una specie di buffone , che fioriva alla
corte del Viceré duca d'Ossuna. Fu cantato burlescamente dal Cor-
lese, poeta napoletano del Seicento, del quale, in alcuni esemplari della
— 136 —
Oltre le T^rime Uscite e erano preparati per gli
Zanni anche i Saluti alle serve. " I saluti alle serve
sogliono farsi in versi come se il servo per allettare
o lodare la sua donna volesse imitare i poeti; ben è
vero che alle volte sogliono terminare in equivoci di-
sonesti e questo si deve evitare, o pure farsi che non
resti scandalizzato Y innocente ed il casto , di modo
che i due sensi sieno così equivoci che non s'intende
chiaramente lascivo, ma espresso con onestà (1) ".
Diamo, al solito, qualche esempio di codesti Saluti.
a) Saluto napoletano.
{Ss' Ammore è fuoco p' ahhroscià lo core).
" Tu puro cana (e chesta ne abbroscia)
Tutto de fuoco sì pell'arma mia:
T'haje la neve a la faccia, e ncuorpo arzura.
No Tusco diciarria: Quel volto bello
È di fiamme e di nevi un mongibello.
Doje vrasere de fuoco
So' ss' uocchie che m'abbrosciano con sfarzo:
Vieneme addorà si non feto d'arzo.
Chisse lavra ncarnate
So tezzune allumate,
Che no me fanno no luce la notte,
Ma a dareme tracuollo
Me fanno luce e rompere lo cuoUo.
So belle sse mascè se mascelle
Che fanno lommenaria,
prima edizione del Cunto de li Cunti (1636), si legge una canzone
che ha per titolo : Conziglio dato da lo Chiaiese ad una persona che
l'addemanaje qual fosse meglio nzor arese o stare senza mogliera.
(1) Ferrucci, op. cit. p. 286.
— 137
E me ne fanno ghl nfonno e pell'aria,
Nzomma, sì n'artefizio natorale,
Addò dà fuoco Ammore, e l'arme smacche
Co' truone, cazzetiglie, e tricche-tracche.
M'è benuto golìo
Trasire a ssa caverna,
Gomme no tiempo Prinio, nzomma.
Sì bè jettasse fuoco cchiù che Somma.
Ed io so' tanto frieddo
Che si me scarfo no poco,
No me ne curo niente, o gioia cara,
Si bè me schiaffe nto a la Zolfatara(l) ".
Ed ora un Saluto in bergamasco , ma in verità ,
un bergamasco parecchio lisciato :
" Front più bianca, che l' èl cavial,
Occi bughi, ove stanz' amor crudel.
Vis che set del formai più dolze e bel,
Boca, ti de le Grazie, e' t l'urinai.
Per ti post al me ved' int'un stivai,
Per ti, cara, ho perdù tutt'ol zervel.
Ed entrandom' amor intre '1 furél
Se ajudo nò me ne dat, al me va mal.
Per ti son post de le bestie al rol,
E pormi al ziogo non haurò per vii.
Purché al segno d'ù Tor diventi un Sol.
Groso Amor faza el so cor del sotil ,
E me faza con ti rompere el col.
Mia bela Vaca, Idolo mio zentil (2). "
Gli Zanni con tutta la loro famiglia avevano dei
modi particolari per destare nel pubblico il riso , il
(1) Perrucci, op. cit., p. 289.
(2) Perrucci, op. cit., p. 301.
— 138 —
riso allegro, pieno, ridanciano, da far sussultare , nei
suoi scoppi fragorosi, tutta la persona : e questi modi
si chiamavano lazzi. Anche questa parola {lazzi) si
volle sottoporre al crogiuolo dell'etimologia. Ottorino
Pianigiani, nel suo Dizionario etimologico, presentò un.
saggio dei risultati di siffatte pazienti ricerche : dal
latino lax , fiode ; dallo svedese lat , gesto , mossa ;
dall'ebraico latzon , burla , baia ; dall' italiano lazzo ,
aggettivo, di sapore aspro.
Ma noi crediamo che la parola derivi dal latino ae-
do che passando attraverso le sue derivazioni {adi,
gVacti, V atti, V azzi) sia divenuta l' italiano lazzo o
lazzi. Difatti , nei manoscritti più antichi delle com-
medie dell'arte {Scenari della Casanatense) la parola
adoperata dal commediografo è adi o atti. Questo
per r origine della parola ; quanto all' origine di ciò
che sulla scena s' intende per lazzo , si disse cosa
tutta napoletana ; il che trovò poi eco e diffusione in
in tutto il teatro a soggetto : e fu questo ritenuto forse
perchè si trovò una relazione fra lazzo, lazzi con laz-
zaro, lazzari, ingiurioso appellattivo col quale si volle
designare la plebe napoletana (1). Se non che, il
. . 1
(1) Avendo richiesto qualche chiarimento a Salvatore di Giacomo,'"
questi ci ha confermato nella nostra opinione, cioè, che lazzo derivi da
actio. H
" L'origine di lazzo non può venire da lazzaro certo ; io credo che la
parola rampolli da actio : difatti il lazzo è un'azione comica, grottesca ;
talvolta è una frase a doppio senso. Ma per lo più, un atto ".
La medesima conferma avemmo dal chiar.mo prof. N. Zingarelli
dell' Università di Palermo.
— 139 —
lazzo sulla scena comica è molto più vecchio della
commedia dell' arte. Ma , anzi tutto , che cosa è il
lazzo ? Sebbene le definizioni sieno sempre da sfug-
gire , perchè mai o quasi mai rendono integralmente
il significato della cosa che definiscono, pure il lazzo
può definirsi in un atto o in parecchi atti scherzosi,
tale da far muovere il riso degli spettatori , con ac-
compagnamento di parole, e, talvolta, anche senza ac-
compagnamento di parola alcuna, perchè il lazzo, quasi
sempre, sta più nell'atto comico, burlesco che fa l'ar-
tista, anziché nelle parole di lui. Questi lazzi , nove
volte su dieci, accompagnati dalla scurrilità della peg-
giore specie, sono spesso piccoli capolavori di mimica ;
qualche volta si riducono ad una frase, a uno spunto
di dialogo basato sull'equivoco ; tal'altra sono dei veri
giuochi di parole, doppi sensi, o parole o frasi inter-
pretate a sproposito. " Nous appelons lazzi — scrive
il Riccoboni (1) — ce que 1' Arlequin ou les autres
acteurs masqués font au milieu d'une scène qu'ils in-
terrompent par des épouventes, ou par des badine-
ries étrangères au sujet de la matière que l'on traite,
et à laquelle on est pourtant obligé de revenir. Or
ce sont ces inutilités qui ne consistent que dans le
jeu que 1' acteur invente suivant son genie, que les
comédiens italiens nomment lazzi ". Lo stesso Ricco-
boni ci dà un esempio di codesti lazzi. " Dans la
piece Jìrlequin dévaliseur de maisons , Arlequin et
Scapin sont valets de Flaminia qui est une pauvre
(1) Op. cit., voi. I, p. 65.
— 140 —
lille éloignée de ses parents, et qui est réduite à la
dernière misere. Ailequin se plaint a son camarade
de la facheuse situation et de la dite qu* il fait de-
puis long-tems. Scapin le console et lui dit qu'il va
pourvoir à tout; il lui ordonne de faire du bruit de-
vant la maison : Flaminia attirée par les cris d'Arle-
quin lui en demande la cause ; Scapin lui explique
le sujet de leur querelle ; Arlequin crie toujours
et dit qu'il veut Tabandonner ; Flaminia le prie de ne
point la quitter et se recommande à Scapin, qui lui
fait une proposition pour la tirer honnétement de la
misere, qui Faccable; pendant que Scapin explique
son projet à Flaminia, Arlequin par différents lazzi in-
terrompt la scène; tantot ils'imàgine d'avoir dans son
chapeau des cerises, qu' il fait semblant de manger et
d'en jeter les noyaux au visage de Scapin ; tantot de
vouloir attraper une monche qui vole, de lui couper
comiquement les ailes et de la manger , et choses
pareilles ".
Ma come già dicemmo , il lazzo e più vecchio
della commedia a soggetto. Il teatro d'Aristofane ne
contiene parecchi. Nei Cavalieri , Plafagone offre a
Popolo, a cui fa la corte, due lepri ; ma Salsicciaio,
suo rivale, che nulla ha da offrirgli , non vuol rima-
nere da meno, e fissando gli occhi in un punto die-
tro a Plafagone, all' improvviso, esclama :
Non mi fa,
Non mi ficca ! Arrivano !
PLAF. — Chi arriva ?
SAL. — Gli ambasciatori coi quattrini a sacca.
— 141 —
PAL. — Dov'è ? Dov'è ?
{si volta per guardare)
SAL. — Che t' importa ? Lasciali.
{gli ghermisce le lepri e le offre a Popolo)
Oh popoluccio,
Che belle lepri t'ho portato, vedi(l).
Nelle Rane, Dioniso spaventato dal rumore della
porta dell'inferno che gli sbatte in faccia il portinaio
di Pluto, si accoccola e dà segni evidenti di incoer-
cibile paura :
ROSSO — Coso, che fai ?
DIONISO — L' ho fatta I Invoco il Nume !
ROSSO — Oh coso buffo I Su, rizzati prima
Che qualcuno ti veda !
DIONISO— Adesso svengo!
Dammi una spugna, che sul cuor la ponga.
ROSSO — To', mettila.
DIONISO— Ov'è?
(la piglia e ci si netta)
ROSSO— Dei d'oro! Il cuore
Ce r hai costì ?
DIONISO — Lo vedi ? Per paura
Mi è scivolato in fondo alle budella (2).
Negli Uccelli , dello stesso Aristofane , Cinesia,
poeta, arriva nella città degli Uccelli, dove incontra
Gabbacompagno, e canta :
Tra i soffi dei venti vagare
Vorrei sopra i flutti del mar...
(1) Trad. di E. Romagnoli.
(2) Trad. cit.
— 142 —
GABBAC. — Adesso te li smorzo io questi soffi.
{prende due ali, e nascondendo sotto esse il bastone, s 'avvicina)
CINES. — Ed ora per l'umide strade io veleggio.
{Gabbacompagno gli e vicino e finge di assicurargli le ali; Cinesia
guarda con soddisfazione).
Grazioso e fine è il tuo trovato, o vecchio !
(Gabbacompagno dandogli una bastonata)
Questi fremiti d'ala ti soddisfano? (1)
La commedia greca, che passò quasi tutta in quella
latina, v' introdusse pure il lazzo. E un lazzo cer-
tamente quello che contiene, neW Asinaria, di Plauto,
la scena in cui Libano al vecchio Demenete intima
di ripetere quello che aveva detto :
LIB. — E ti scongiuro
Che sputi quel ch'hai detto.
DEM. — Sarà fatto :
Farò a tuo modo.
LIB. — Su, su via, finché |
Abbi la gola asciutta.
DEM. — Ancora ?
LIB.— Sì,
Per Ercole, fin dalle più profonde fauci. I
DEM. — Ma ancora ?
LIB. — Più. j
DEM, — Non basta ancora ?
LIB. — Voglio fino alla morte (2).
Passando alla commedia dell* arte , ecco un lazzo
che togliamo dal Pedante (3) di Flaminio Scala. Lai
scena passa fra Arlecchino, Pedrolino e Burattino.
CI) Trad. cit.
(2) Trad. di G. Finali.
(3) Giornata XXXI, p. 93.
— 143 —
" A r lece, con un piatto di maccheroni da presen-
tare a Ped. da parte del Capitano , glielo dà ; Ped.
piangendo lo riceve dicendo piangere per un acci-
dente venuto a sua moglie, e così dicendo comincia
a mangiare, jìrleee. piange anch' egli e si mette a
mangiare piangendo piangendo ; in quello Burat. vede
quelli che mangiano i maccheroni piangendo; si mette
a piangere e piangendo mangia ancora egli ; finito
che hanno di mangiare, T^ed. piangendo dice ad Arleec.
Baciate da parte nostra le mani al Capitano , e via ;
Burat. dice il simile , e via ; jìrleee. piangendo e
leccando il piatto, via ".
Per i lazzi non accadeva generalmente quello che
accadeva per le Prime Uscite, i Saluti, le Chiuset-
te ecc. ecc., cioè, essi non trovavano d'ordinario il loro
posto in quei tali Zibaldoni parte indispensabile del
bagaglio d'ogni comico all' improvviso. Quasi sempre
non si tramandavano da una generazione d'artisti ad
un'altra che a memoria. Difatti, i Zibaldoni non con-
tengono in generale nessuna spiegazione di lazzi, meno
quello della Comunale di Perugia, dove il p. Adriani
curò di spiegarne quaranta riunendoli in una raccolta a
parte. Gli Scenari non hanno che un'indicazione gè
nerica : jìrlec. fa lazzi ; T^ulcinella fa lazzi ; sol-
tanto r indicazione è omessa negli Scenari dello Scala,
il quale , all' incontro , descrive V azione del comico,
senza mai scrivere la parola lazzo. Di rado è spie-
gato il lazzo negli altii. Nel Finto Principe degli Sce-
nari pubblicati da A. Bartoli abbiamo il lazzo della
circoncisione, il lazzo che Cola dà udienza , quello
— 144 —
della donna pregna, dell'asino, del creditore e della
piazza morta ; nello scenario dei Tappeti c'è il lazzo
della valigia; in altri quello del nuovo mondo, della
farina ecc., ecc.
Molti ne sono indicati negli Scenari del Luccatello,
della ^Njizionale di Napoli, della Comunale di Pe-
rugia. Ma tutti , o quasi , non ne portano la spiega-
zione, e quindi per noi restano perfettamente sibillini.
Il Ferrucci però ne spiega qualcuno , per esempio,
quello di " torna a bussare ". Nella commedia o sce-
nario la ^rappolaria, il Capitano vedendo Pulcinella
che gli viene ad aprire , sordido e straccione , non
crede che sia il mercante che egli cerca e non vuol
parlare con lui. Pulcinella per fargli capire che è pro-
prio il padrone, il mercante che egli cerca, gli dice:
" Torna a bussare " , e glielo ripete a sazietà ; allora
il Capitano comprende e riconosce in Pulcinella la
persona che cercava (1). Ma, ripetiamo, di molti
lazziy meno di quelli spiegati dall'Adriani e dei quali
diamo un saggio in una delle appendici di questo
lavoro, s' ignora il significato. Che vuol dire, difatti, il
lazzo del Pellegrino o quello deW Aquila a due teste,
o di (Sgli lo sa, o V altro d' Hermano, yo no te co-
nosco ? Spesso anche gli artisti medesimi non li cono-
scevano, ed allora, come scriveva il Ferrucci , il co-
rago o capo-comico li decifrava e spiegava (2). Però
(1) Op. cit. pag. 363.
(2) Op. cit., p. 354. Parecchi lazzi della commedia dell'arte, morta
questa, passarono nel teatro dialettale. Per esempio, la lettera del pa-
- 145 —
qualche volta, nello stesso scenario, il lazzo era con
abbastanza particolari spiegato. Nella 'trappolarla, che
Il Ferrucci pubblica in fine deWArte ecc. il lazzo de\~
V Acqua e indicato così» " Coviello vede la schiava sve-
nuta, ricorre per acqua col lazzo dell' acqua schietta
o di fiori ? Di cisterna o di fonte ? Calda o fredda ?
Alla fine cade colla pignatta e finge servirsi dell'uri-
na. Turchetta scopre esser stata venduta ; Fedelindo
tramortisce, grida : acqua ; Coviello coli' orina ritorna
ed alza il vaso dell' orina, e poi ascoltando i discorsi
dei due amanti, finge tramortire ; quegli gridano acqua,
drone che il servo ha aperto e letto e poi chiude con pane masticato.
Questo lazzo — una piccola azione comica — noi l'abbiamo visto eseguire
con una vis comica indiavolata da Salvatore Tomasino, l'ultima delle ma-
schere (Pasquino) del vecchio teatro siciliano. Pasquino riceve una let-
tera ; è pel suo padrone : la curiosità lo spinge a conoscerne il con-
tenuto ; volge, rivolge la lettera fra le mani. L'aprirà o non l'aprirà?
I suoi dubbi cessano ; apre la lettera : qui una lettura spropositata.
Poi richiude la lettera ; ma come sigillarla ? Non ha né ostie, né ce-
ralacca... Alla sua mente balena un'idea che gli sembra meravigliosa ;
e' é del pane nella credenza ; tira fuori un grosso pane e ne intacca un
pezzo coi denti. Senonché, il pane va giù ; ne stacca un altro pezzo, ma
questo va a raggiungere l'altro. Ecco subito un'altra idea : egli legherà
con una cordicella il pane, così questo, quando l'avrà masticato, non
andrà giù per la gola. Lega il pane, ne incomincia la masticazione fa-
cendo sforzi inauditi, mercè la cordicella, perché non prenda la via dello
stomaco. Infine, riesce a cavarne un grosso pezzo ridotto a poltiglia e
con esso chiude la lettera. Ma occorre un suggello, che cerca invano di
qua e di là ; gli viene una terza idea : mette la lettera sul tavolino e sul
pane che ha posto per chiuderla batte la fronte. Egli alza il capo ma la
lettera non é più sul tavolino : spaventato, corre a cercarla dappertutto ;
infine, scopre che gli é rimasta incollata sulla fronte.
•5Ve/ Regno delle JSCaschere. IO
— 146 -
egli vino". E un lazzo, come tanti altri, tri valissimo.
Ma spesso non erano soltanto triviali , erano addirit-
tura osceni. Il p. Ottonelli , uno scrittore seicentista,
osservava : " I Zanni, Covielli, Pantaloni, Gratiani (I)
et simili vogliono cavare il ridicolo dall'oscenità
L'anno 1635, io stavo nella clarissima Catania.... Un
giorno da un comico fu fatto, per far ridere notabil-
mente gli spettatori, un gesto di tanta indignità... cui
tutti , e tutti anche i più licenziosi , di modo si ver-
gognarono, che calarono unitamente gli occhi alla ter-
ra (2) ". E poiché abbiamo fatto il nome dell' Otto-
nelli, lo scrittore seicentista ci richiama alla mente una
grossa questione che fu vivamente dibattuta ai suoi
tempi ed anche dopo, non esclusi i nostri : quella, cioè,
della moralità negli spettacoli pubblici. Sebbene il
Concilio di Trento si fosse proposto di riformare non
solo la Chiesa Cattolica, ma anche i costumi, pure le
persone pie s'accorgevano con profondo dolore come
il demonio possedesse ancora la società : questa più
che aspirare al cielo, correva a precipizio verso l' in-
ferno. Lamentavano , sopra tutto , codeste anime pie,
r immoralità signoreggiante sulle scene con sconcie pro-
duzioni. Già, gli istrioni, come con parola di disprezzo
erano chiamati i comici dalle persone che camminavano
o credevano di camminare nelle vie del Signore (3),
( I ) Facevano lazzi — come allora si diceva — anche i Vecchi (Pan
tcJone, il Dottore, ecc.).
(2) Della Christiana moderatione del Theatro ; Fiorenza, 1646,1
voi, I, p. 29.
(3) La plebe, che sentiva chiamare istrioni i comici, riteneva che
— 147 —
erano stati, sotto le leggi di Roma pagana, bollati
per persone infami, e quindi messi al pari delle me-
retrici e dei lenoni ; ne , innalzato il Cristianesimo
a dignità di religione ufficiale, erano stati trattati me-
glio : le ingiurie più atroci erano state proferite contro
di loro dai Padri e dai Dottori della Chiesa, i quali
in ogni comico non vedevano che un predestinato a
fornir materia da cuocere alle caldaie di pece o d'olio
bollente. Ma il diavolo — allora molte cose si spie-
gavano col diavolo, specie quelle che si presentavano
di difficile soluzione — ci ficcava dentro non si sa bene
se la punta d' uno dei suoi corni o della sua coda,
e gli aborriti e maledetti istrioni , a malgrado delle
scomuniche, delle ingiurie e delia quotidiana prospet-
tiva di andare a finire arrostiti sulle graticole infernali,
continuavano sempre ad essere persone gradite non
solo al pubblico grosso, ma anche a quello fine, ari-
stocratico, e, quel che è peggio, ai principi , i quali
ultimi, certamente , prendendo a proteggere individui
così discreditati, venivano meno alla loro missione di
conduttori non solo di corpi, ma anche d'anime. Di qui,
quindi, il bisogno negli intransigenti , nei fanatici, di
promuovere, come essi la chiamavano, un Istanza per-
chè il pontefice, supremo ed indiscusso moderatore dei
costumi, regolasse la materia con una serie di precetti
ai quali i principi, come buoni e ferventi cattolici, fos-
<)uesti fossero stregoni: il che non accresceva, certamente, la stima che
il pubblico professava pei commedianti. V. Barbieri, La Supplica, cli-
icoTso familiare intorno alle commedie mercenarie.
— 148 —
sero tenuti d'ottemperare. S'intende che codesti ener-
gumeni, per difendere la morale, che essi ritenevano in
pericolo, proponevano quasi l'aboHzione degH spettacoli
teatrah, specie della commedia dell'arte, la quale, in
verità, di tutte le rappresentazioni sceniche del tempo
era la più sfacciata, la più sboccata. Ascolti il signor
lettore ; il padre Adamo Contzen , della Compagnia
di Gesù, il più arrabbiato di tutti i nemici del teatro,
fra l'altro, proponeva non solo che il sentimento amo-
roso, sotto qualsiasi forma, anche la più casta , fosse
bandito dalla scena, ma con esso ne fossero bandite
le donne. Il pio gesuita — un vero giannizzero della
morale — voleva inoltre che sulla scena nemmeno si
vedessero giovinetti vestiti da donna (1). Si vede che
il p. Contzen , nella sua qualità di predicatore , non
amava la concorrenza che faceva al pulpito il teatro.
Altri reazionari, però meno intransigenti di lui, propone-'
vano — e l'Ottonelli era fra costoro — che soltanto alle''
donne e ai giovinetti vestiti da donna, fosse proibito,
di salire sulla scena : le parti femminili, anche amo-f
rose, dicevano, s'affidassero ad uomini, s'intende, dalla
barba diligentemente rasa ; tutti , poi , concordavano!!
che non si rappresentassero fatti turpi , ne si usassel
linguaggio licenzioso. E il padre Ottonelli, salendo ì\\
pulpito dell' indignazione — parlandosi d'un seicentista'j
l'ardita metafora non è fuor di luogo — esclamava :
" Ma in quale di esse (delle commedie di flauto e'I
(1) Ottonelli, op. cit„ pp. 1 99-200. Negli Stati papali era proibii*
alle donne di mostrarsi sulla scena.
— 149 —
di Terenzio) si vide mai che sopra un palco si con-
ducessero un huomo e una donna involti in un len-
zuolo? Chi ardì mai fra gli antichi far comparire in
iscena un' Europa scoperta ? Quando si sopportò mai
anticamente che una femmina uscisse sul palco e sotto
le vesti sue tenesse nascosto un huomo ? (1) "• Qui il
p. Ottonelli aveva torto marcio, perchè il teatro co-
mico latino tanto da lui esaltato in ordine a castiga-
tezza di azione e di linguaggio , era forse più licen-
zioso di quello ch'egli criticava. Difatti, se il diavolo
avesse saputo il latino, egli avrebbe potuto dire a quel
buon'uomo di gesuita : " Piano , piano , p. Ottonelli;
si vede che lei, sebbene sapientissimo, non ha letto
Plauto e Terenzio che nelle edizioni espurgate che lei
dà in mano ai suoi allievi. Ma nel testo integro , in
quello che non si fa studiare ai giovinetti, quanta li-
cenziosità di azione e di linguaggio ! Senta qua e non
arrossisca : nella Casina, di Plauto, per esempio , un
vecchio crede di giacere in letto con una giovane bel-
loccia e appetittosa, e si trova con un villanzone fir-
mato... lei mi comprende ?... Nella Donna d'Andria,
di Terenzio (atto 2°) , il pubblico ode i lamenti di
elicerò assalita dalle doglie del parto , e nel éM!iles
Qloriosus del primo le donne vogliono , nientemeno,
tagliare i testicoli — proprio i testicoli — al soldato-
bravaccio !... "
Ma torniamo alle lamentazioni del p. Ottonelli ; il
quale narrava che avendo esaminato gli avvisi teatrali
I) Op. cit., p. 331.
— 150 —
d'una compagnia comica, che aveva recitato nel 1660
in una delle principali città d' Italia, fra l'altro, aveva
letto i seguenti :
a) " Signori, si recita V Amoroso sfortunato e Bertolino forrxaro
geloso e becco sventurato.
b) " Signori, si recita li Amanti favorevoli con la consolazione
del ruffianesimo.
e) " Signori, si recita Ogni aiuto in Amore è buono con Bertolino
cortigiana partoriente ( 1 ) ".
Naturalmente, non tutti la pensavano come il padre
Contzer o il padre Ottonelli : e' erano gli spiriti illu-
minati, e' erano i mondani , i comici , sopratutto, che
non solo non dividevano i sentimenti reazionari dei
nemici più o meno aperti del teatro comico, e segna-
tamente della commedia dell' arte , ma dei comici e
della produzione teatrale del tempo assumevano a viso
aperto la difesa. A costoro, in verità, il demonio non
incuteva soverchia paura. Ritenevano che si potesse
andare in paradiso anche se in terra si avesse avuto
un po' di dimestichezza con Satanasso. I comici, come
abbiamo detto , furono coloro che misero più calore
nella difesa; si trattava del loro pane quotidiano e di
quello delle loro famigliuole , e quindi impresero a
combattere i fanatici, gli ultra-moralisti, ma con garbo
ed accorgimento , con la mano guantata , perchè , al-
lora, a parlare un po' bene del diavolo, si correva il
rischio di cadere nelle mani del Santo Uffizio. Fra^'
cotesti comici apologisti, ma prudenti, del teatro co-
(I) Op. cit., p. 284.
— 151 —
mico, vanno in modo particolare ricordati Pier Maria
Cecchini e Niccolò Barbieri , quest' ultimo più cono-
sciuto sotto il nome di Beltrame, una maschera da
lui creata, come l'altro era conosciuto sotto il nome di
Frittellino. Il Barbieri, fra l'altro, scriveva: " La comme-
dia è lecitissima... I peccati che possono commettere i
comici recitando sono questi : lodare il vizio ; dir pa -
role fuor di modo oscene ; far gesti tanto lascivi che
possano muovere a libidine le persone; portar ragioni
hlosofìche contro la fede; deridere le cose sacre; rap-
presentare religiosi e religiose nella favola ; recitare
nella quaresima, fuor che per accidente; pronunziare
bestemmie; introdurre casi noti che possono disonorare
le famiglie ; far comparire donne con parte della vita
denudata, et altri simili... Levato questo, è levato il
peccato e lo scrupolo ai comici di peccare... ".
No, rispondeva il p. Ottonelli (1), perchè a mal-
grado dell' onesto linguaggio del Beltrame (2) , nelle
commedie d'oggi si pecca, " poiché in essa alle volte si
lodano le fornicazioni, i rubamenti, le vendette e tanti
peccati; si dicono spesso oscenità mortali; si fanno gesti
provocativi efficacemente alla libidine; si fanno com-
parir donne tal' bora troppo immodeste, e quasi sempre
s introducono innamoramenti scandalosi e con parti di
femminelle impudiche e parlanti lascivamente con gli
amici loro ". Tanto il Barbieri quanto il Cecchini mo-
stravano di aver pratica coi padri della Chiesa, di cui
(1) Op. cit., p. 41.
(2) Alludeva alla scrittura del Barbieri; La Supplica.
- 152 —
ripetevano sentenze, opinioni a favore dei comici, giac-
che alla letteratura patristica , tutti attingevano , e se
i reazionciri vi trovavano armi per combattere gli spet-
tacoli, i comici ve ne trovavano anche per difenderli.
Questi ultimi però la vinsero. Essi avevano dalla loro
non solo Sant'Agostino e San Tommaso, che citavano
a tutto spiano nelle loro dissertazioni come se fossero
tanti teologi, ma anche i principi e il pubblico : e a
loro, per far tacere gì' intransigenti, bastava.
Ma ritorniamo ai personaggi della commedia del-
l' arte , la cui licenziosità di parlale aveva posto per
un momento a repentaglio la vita della commedia
stessa.
Accanto ai personaggi dei due Vecchi, del Capi-
tano e dei due Zanni, ch'erano maschere , s' aggira-
vano altri ed altri personaggi , molti dei quali come
i precedenti, erano maschere. Fra queste ce n' erano
molte che non erano che doppioni, derivazioni delle
prime con mutazioni o correzioni non sempre profonde
o notevoli ; qualche volta non era mutato che il nome
e tal' altra il linguaggio o il dialetto che la maschera
parlava. Spesso un nome che aveva servito ad indi- 1
care un vecchio, o il capitano, passava ad indicare lo
Zanni. Giangurgolo, per esempio, fu Capitano Cala- |
brese, poi passò a rappresentare le parti di padre, di
oste o di Zanni: capricci di comici.
Del resto, parecchi di codesti nomi non fecero che
passare sulla scena ; alcuni , però , ebbero rinomanza
più duratura. I Pandolfì, gli Ubaldi, i Cola, i Burat-
tini e i Mezzettini, per esempio, ebbero giorni di gloria .
- 153 -
nel Seicento ; poi, dove più dove meno, scomparvero ;
ma non scampariva che il nome ; il tipo o carattere
restava. Fra codesti nomi , che rappresentavano tipi
derivati da altri, acquistò celebrità Scaramuccia, una
maschera creata o meglio rimaneggiata da Tiberio Fio-
rillo, comico napoletano, forse parente dell'altro Fio-
rillo, Silvio, creatore della maschera di Pulcinella (1).
Altre maschere, come quelle di Frittellino o Fritellino
e di Beltrame ebbero pure una certa celebrità dovuta
più all'arte dell' interprete che alla novità della ma-
schera stessa. L'una era stata creata dal Cecchini, co-
mico e commediografo, 1' altra da Niccolò Barbieri,
anche lui comico e commediografo, e, per giunta, co-
me teste abbiamo visto, difensore dei comici e del-
l'arte loro avanti al tribunale degli intransigenti in ma-
teria di moralità. Se non che, non si trattava , come
sopra abbiamo detto, di maschere o tipi assolutamente
nuovi, ma di rimaneggiamenti, quando non si trattava
che di un semplice cambiamento di nomi. Esagerava,
( 1 ) Parecchi hanno ritenuto che Tiberio Fiorillo , nato nel 1 608
e morto più che ottantenne, fosse il creatore della maschera dello Sca-
ramuccia : ma la maschera era più vecchia di lui. Difatti, in un qua-
; dro del pittore francese Porbus, dipinto nel 1572, e in cui l'artista
volle ritrarre i principali personaggi della Corte di Francia, compreso
il re Carlo IX, nei costumi della commedia italiana, il duca di Guisa,
lo Sfregiato, è rappresentato in quello di Scaramuccia, (Rasi, / Comici
Italiani; Torino, 1901, voi. I, pp. 888 e segg.). Del resto, lo Sca-
ramuccia del Fiorillo era una continuazione con ritocchi e modificazioni
del Capitano. Col Fiorillo non portò più la maschera; aveva il viso
1 infarinato. Continuò ad essere fanfarone, adoratore delle donne, pol-
trone. (Sand, op. cit. voi. Il, pp. 258-59).
— 154 —
quindi, il Camerini quando scriveva : " La creazione
dei tipi nella commedia a soggetto era continua (1) ".
Ed in appoggio al suo dire citava Iacopo Callot , il
quale nei suoi ^allì di Sfessania (2) ne riportava
quarantanove, non avvertendo, per esempio, che pa-
recchi di quei tipi non erano che delle sotto varietà
e forse qualche cosa di meno. Difatti , che diversità
di tipo poteva esistere fra Capitan Bellavita e Ca-
pitan Coccodrillo , fra Brighella e Mezzettino ? Era-
no variazioni sullo stesso tema. Di altri personaggi,
ricordiamo Tartaglia, il quale vive ancora, ma oscu-
ramente, sulle scene delle marionette di città e borghi
dell' Italia meridionale insieme a Pulcinella e Colom-
bina di cui quasi sempre è il padre. Fu maschera na-
poletana, o almeno ebbe la sua origine a Napoli. La
sua caratteristica era di essere balbuziente. D*ordina-
(1) / Precursori del Qoldoni , Milano, Sonzogno, 1872, p. 77.
(2) / ^alli di Sfessania del Callot contengono ventiquattro piccoli
quadri con 49 figurine di ballerini ; il primo ramo , che fa da fron-
tespizio, ne presenta tre; gli altri due. (Croce, op. cit. p. 210). La
Sfessania era un ballo popolare napoletano.
Esagerava, e molto, il Camerini anche quando a proposito della
commedia all' improvviso scriveva : " La commedia dell'arte non poteva
essere che italiama. Essa fioriva come le rose e gli aranci del nostro
molle e dilettoso suolo. Ma la sua stessa agevolezza non lasciava pensare
ai soccorsi dell' arte poetica come una semplice giovanetta, che sente
fiorire la sua bellezza, non va ad acconciarsi allo specchio.... L'artifizio
non si trovò sino al Goldoni ". (Profili Letterari; Firenze, Barbera,
p. 303). Nello stesso Ottocento lo Stendhal aveva scritto : " On joucit
au palais une comèdie deWarte, c'est-à-dire, où quelque personnage in-
vente le dialogue à misure qu'il se dit. Le pian de la comèdie est af-
fiché dans la coulisse ". La Chartreuse de Parme, Ch. XXV.
— 155 —
rio , rappresentava le parti di padre , ma faceva un
po' di tutto • l'usciere, il capo-birro, il farmacista, il
giudice, il notaio ; non potendo parlare che a stento,
egli andava in collera contro se stesso, o meglio con-
tro la sua lingua, la quale, con quegli scatti di rab-
bia, anziché sciogliersi, s' ingrovigliava di più e ren-
deva Tartaglia un parlatore disgraziato. Generalmente
quel suo muscolo s' impuntiva a ripetere all'infinito le
sillabe delle parole che offrivano materia ad interpre-
tazioni scurrili od oscene , per esempio, cu-cu-cu , o
cor-cor-cor, oppure fic-fic-fic. Il suo successo però era
sicuro, e quasi trionfale; quando rappresentava la parte
di giudice , r interrogatorio dell'imputato diventava un
capolavoro d' amenità. Da una scena riportata dal
Sand (1), togliamo uno spunto di dialogo tra lui e
Arlecchino. Il primo è notaio, l'altro gli detta il suo
testamento.
ArlEQ. Je laisse mon cabinet à mon cousin.
TaRT. ecrivant. Mon ca, ca, ca...
ArlEQ. Faites vite retirer ce notaire ; il va salir
tous les meubles.
Una maschera o carattere che ebbe nel Cinque-
cento molta voga non solo nel teatro comico erudito,
ma anche in quello a soggetto, fu il Pedante (2). Essa
restò a lungo nel primo, sicché noi possiamo riscon-
trare codesto personaggio nelle commedie del Fagiuo-
(l)Op. cit.. voi. II. pp. 326-27.
(2) Arturo Graf ; Attraverso il Cinquecento, Torino, 1 888, e Cd.-
merini, I Precursori di Goldoni, Milano, Sonzogno, 1872.
— 156
li : nella commedia dell'arte scomparve, dopo i primi
suoi successi, gradatamente sino a che non se ne trova
più traccia negli scenari della fine del Seicento e del
principio del Settecento. Forse perchè divenuta noiosa
a furia di ripetersi, o forse perchè non trovava più ri-
scontro nella vita ? Certamente , alla sua origine , fu
una satira, o meglio una caricatura dell'umanesimo, del-
l'erudito, dello studioso dei classici greci e latini. Essa
faceva mostra della sua erudizione, un'erudizione af-
fastellata all'impazzata, pappagallesca; più tardi, quando
gli umanisti vennero giù di moda e s'impancarono a
maestri i linguisti cruscanti, il pedante non sputò più
sentenze latine , ma toscaneggiò. Infine , il teatro a
braccia gli chiuse Tuscio sul viso e il pedante scom-
parve dal suo repertorio. La sua erudizione grottesca
restò al suo amico il Dottore.
Dopo le Maschere , venivano gli Innamorati e le
Innamorate, che recitavano sempre in " toscano " , poi-
ché allora la lingua comune letteraria d' Italia portava
quel nome, forse per provare che gl'italiani, anche non
toscani , avevano qualche abitudine col buratto della
famosa accademia della Crusca. Le Amorose porta-
vano, d'ordinario, il nome di Flaminia, d'Isabella, di
Lucinda, di Lavinia. Molte Amorose perdevano spesso
il nome della propria famiglia per assumere quello del
personaggio che rappresentavano, come oggi parecchi
attori, specie in Francia, entrando in arte , prendono
uno pseudonimo. Gli ^morosi si chiamavano Lelio,
od Orazio, o Flavio. Le Rosaure e i Florindi non ar-
rivarono che assai tardi sulla scena comica italiana.
— 157 —
Parti non meno importanti delle precedenti , seb-
bene ritenute secondarie, erano quelle delle servette^
che nel Cinquecento e in parte del Seicento si chia-
mavano fantesche. Erano fior di ragazze o di don-
nine che avevano tutta la spigliatezza e la furberia di
Coviello e di Brighella. Non erano mai sciocche come
Pulcinella o Arlecchino ; erano mezzane abilissime,
ombra dell'ombra delle loro padrone, delle quali se-
guivano sempre le sorti, come ne dividevano le sim-
patie e le antipatie : fatte per amare per tutti i tre atti
della commedia, amano disperatamente, s'intende. Bri-
ghella o Arlecchino, Coviello o Pulcinella, che alla
fine dell'azione scenica sposano come le loro padrone
sposano i Leli e gli Orazi. Sono bugiarde, e in que-
st'arte sono incomparabili, ma non adoperano la bugia
che a fin di bene , o , meglio , per coprire gli amori
delle loro padroncine sempre avversate da un padre
burbero o avaro. Maestre nel nascondere un biglietto
amoroso nel petto o sotto il grembiule, non sono meno
maestre nell' arte di farlo scivolare nelle mani della
padrona senza che se ne accorga un amante non gra-
dito o un genitore sospettoso. Precorrendo il telegrafo
elettrico e il telegrafo senza fili, si servono delle loro
mani come dei loro occhi per parlare un linguaggio
muto, cbe se non diceva nulla ad un marito ingan-
nato o ad un padre tagliato alla grossa, aveva il suo
eloquente significato per un innamorato : così esse sa-
pevano scongiurare a tempo un pericolo, far cambiare
opportunamente discorso, prevenire l'arrivo di una per-
sona molesta, far pigliare la via dell'uscio ad un a-
— 158 —
mante per non essere sorpreso in un colloquio intimo.
Ma delle mani non si servivano solo per parlare co-
desto loro muto linguaggio ; se ne servivano anche per
picchiare i loro amanti, se infedeli o ritenuti infedeli,
come anche le loro rivali con le quali spesso si az-
zuffavano come galletti. Si chiamavano Pasquette, Fran-
ceschine, Turchette, Diamantine, Riccioline, Coralli-
ne, Colombine. Sotto qualcuno di codesti nomi , più
d'una attrice divenne famosa. Tutta una generazione
di Colombine fornì la famiglia Biancolelli che recitava
a Parigi : Caterina e Teresa Biancolelli. La più ce-
lebre fu la seconda , figlia di Domenico , detto Do-
minique, famoso Arlecchino. Era piccola, bruna, di a-
spetto piacente; ma possedeva qualche cosa di più della
bellezza : aveva la iìsonomia intelligente, l'aria distinta, i
il gesto facile , svelto , la voce dolce , graziosa. Era
nata nel 1665, e si ritirò dalle scene nel 1697 (1). -
(I) Sand, op. cit. voi. I, pp. 213 e segg.
CAPITOLO QUINTO
Il Costume dei Personaggi della Commedia dell'Arte
Il costume dei personaggi della commedia del-
l'arte è troppo intimamente legato alle vicende della
stessa commedia perchè non se ne discorra, anche bre-
vemente, in questo nostro lavoro. Non diremo però
cose nuove, e, in generale, seguiremo quanto ne scrisse
Maurizio Sand nella sua opera : Masques et Buffons.
Il costume ha la sua importanza, sopratutto, perchè
con esso si volle, in un certo modo, ritrarre il carat-
tere del personaggio che lo indossava. Ne riassumeva
quasi le linee principali.
Fra tutti i costumi , quello di Pulcinella ha solle-
vato maggiori questioni che si riattaccano all' origine
o provenienza della maschera stessa. Parecchi scrit-
tori , difatti , vogliono far discendere Pulcinella dal
Maccus delle Atellane, il mimus albus, non solo per
certe rassomiglianze fra l'uno e l'altro personaggio, per
esempio, la maschera col naso ad uncino, ma anche
pel colore (bianco) dell'abito.
— 160 —
Ma Benedetto Croce, che non crede a siffatta discen-
denza per difetto di documentazione, pur riconoscendo
come più d'un tratto del personaggio sia comune alle
due maschere, dubita che Pulcinella abbia sempre in-
dossato Io stesso costume, dopo che Silvio Fiorillo gli |
diede celebrità sulle scene. S* ignora , per esempio,
quale fosse il costume preciso della stessa maschera
fìorilliana. Nei Balli di Sfessania, del Callot, al Pul-
cinella mancano alcuni tratti caratteristici: il coppolonty
cioè, il cappello di feltro a forma conica e senza tese
manca assolutamente ; non porta il suo bastone ridi-
colo, ma la daga, ed ha i baffi. Il camicione e i cal-
zoni sono presso a poco i medesimi che in seguito
sempre indossò, e la maschera , o , meglio, la mezza
maschera, è quella da tutti conosciuta, sebbene nulla
si possa dire sul suo colore. Sulla fine del Seicento,
il Perrucci ne fece la seguente descrizione : " Tutto
un pezzo , sgarbato di persona , con naso adunco e
lungo , sordido e melenso.... con un sacco a guisa
di villano (1) ". Il suo costume comincia a diventare
non dissimile da quello moderno nei primi anni del
Settecento, come si può vedere in una incisione del-
VHistoire du Thèàtre Italien, di Luigi Riccoboni.
Scrive il Sand che il comico Argieri, romano, nel f
Seicento , e dopo il Fiorillo , rappresentava a Parigi
la parte del Pulcinella col seguente costume : cami-
ciotto bianco assai largo ; calzoni larghi a grandi pie-
ghe ; scarpe di cuoio ; maschera nera con barba e
(l)Op. cit. p. 200.
— 161 —
lunghi baffi ; in testa, una berretta bianca e sopra un
enorme cappello largo con le tese rialzate quasi iden-
tico ai cappelli che si portarono sotto Luigi XI. Ma,
in Francia, Pulcinella cambiò quasi subito costume :
col Barban^ois (1645), comico della compagnia al ser-
vizio del cardinale Mazzarino, Pulcinella indossa giub-
ba e calzoni di due colori , giallo e rosso , orlati di
un gallone verde ; berretto e mantello corto all' ita-
liana ; ha sempre la maschera nera col naso ad un-
cino e porta i baffi. Sempre lo stesso Sand afferma
che allora in Italia il costume di Pulcinella si piegò
verso il modello francese ; il brioso personaggio par-
tenopeo fu rappresentato panciuto, serrato nel suo ca-
micione tutto abbottonato sul davanti , calzoni larghi
alquanto corti, la maschera nera, il naso protuberante
con in cima un grosso porro, un largo colletto bianco,
cappello grigio, alto e con le tese larghe, e bastone.
11 vestito è tutto in tela bianca. Infine, Carlo Magnin
citato dal Sand, verso la metà dell'Ottocento descri-
veva il Pulcinella del San Carlino di Napoli nel modo
seguente : " Le Pulcinella de Naples , grand gargon
aussi droit qu* un autre, bruyant, alert, au long nez
crochu, au demi-masque noir, au bonnet gris et pira-
' midal, à la camisole bianche, sans fraise, au large pan-
talon blanc plissé et serre à la cinture par une cor-
delière à la quelle pend une clochette... ". E il co-
stume che da quasi due secoli Pulcinella ha indos-
sato. Il Magnin dimenticò d'aggiungervi il bastone.
Arlecchino , diciamo così , il Pulcinella dell' Italia
superiore, come quest'ultimo è l'Arlecchino dell'Italia
0\Cel Regno delle JliCaschere 1 1
— 162 -
inferiore, ha un costume che per alcuni risale al teatro
comico latino. Secondo costoro esso prenderebbe ori-
gine da quello che indossava il mimus centunculus, il
mimo dall'abito rattoppato a vari colori. In una inci-
sione riportata dal Riccoboni nella sua opera, egli porta
una giubba aperta sul davanti ed allacciata con vec-
chi nastri ; i suoi calzoni sono stretti , tutti rattoppati
con stoffe di colori diversi, come ugualmente rattop-
pata con stoffe multicolori è la giubba. Ha la barba
corta, ispida, la mezza maschera nera e un berretto
alla foggia di quelli in uso sotto Francesco 1. Non ha
camicia sotto la giubba, porta alla cintura una spada di
legno e una borsa. Correva voce che la maschera de-
gli Arlecchini italiani che recitavano a Parigi, fosse
stata disegnata dal divino Michelangelo, il quale ne
avrebbe preso 1* idea dalla testa di un vecchio sa-
tiro. Nel Seicento, e propriamente dopo il celebre Do-
menico Biancolelli detto Dominique, il costume d'Ar-
lecchino, in Francia, subì alcune modificazioni: la giub-
ba, raccorciandosi, diventò giubbetto, i calzoni si fe-
cero più stretti , le toppe di vari colori diventarono
losanghe, e molto grandi; non mutò la maschera, ne il
cappello, il quale conservò sempre come segno carat-
teristico la coda di conigHo, ne la spada, ne il cin-
turino.
Il costume di Brighella, nel Cinquecento e nel Sei-v
cento, si componeva d'un giubbetto e di larghi cal-
zoni di tela bianca, d'un berretto con gallone verdi
e d'un mantello : i calzoni e il giubbetto erano filet-
tati d'un galloncino verde. Portava come Pulcinelh
— 163 —
ed Arlecchino la mezza maschera, ma non nera ; era
d'un color olivastro con barba. Più tardi il costume
subì parecchie modificazioni.
Il costume del Capitano mutò secondo i tempi, con-
servando però nel suo insieme una certa aria milita-
resca e da don Giovanni con una grossa punta di ca-
ricatura. Il vecchio capitano portò casco o morione,
s' intende, esuberantemente piumato, pettorale di pelle
di bufalo e spadone come quello dei guerrieri me-
dievali. Venuto poscia di moda il Capitano spa-
gnuolo , il suo costume fu la caricatura di quello
degli ufficiali dell' esercito di S. M. Cattolica. Un
Capitano Tagliacantoni, italiano , e rappresentato dal
Callot in abito stretto alla vita, con cappello piumato
e nastri annodati con galante pretenzione alle gambe,
pronto a sfoderare il suo terribile spadone per sbu-
dellare Arlecchino o Burattino. Sempre nelle inci-
sioni del Callot ; ecco il Capitano Bombardone : ha
gli abiti larghi, stivali dai gambali rovesciati , spada
al fianco, cappello piumato ; ecco Capitan Zerbino :
è enormemente impennacchiato , porta sul viso una
maschera con occhiali, mentre con la punta della sua
terribile durlindana minaccia il cielo alzando così in-
sieme al suo braccio destro una parte del mantello.
Ecco ancora due altri Capitani ; sono il Capitano Bel-
lavita e il Capitano Malagamba : portano al collo im-
mense gorgiere spagnuole fortemente insaldate e giar-
rettiere sgargianti, pompose.
Il Capitano Spavento (il celebre Francesco An-
dreini, l'autore delle Bravure), verso il 1 577, indos-
— 164 —
dossava : giustacuore e brache a strisce gialle e rosse, |
bottoni e laccetti dorati , mantello rosso scarlatto fo-
derato di stoffa gialla e filettato d'oro, giarrettiere
gialle con frangia d' oro , scarpe di cuoio giallo con
rosette gialle, calze rosse, cappello di feltro rosso orlato
d'un cordoncino d'oro con piume rosse e nastri gialli,
giubba color fragola e polsini a piccoli cannelli, duri.
11 pittore Bernardino Poccetti lo introdusse in una
lunetta (la ventesimaseconda) del Chiostro della SS.
Annunziata di Firenze : l' Andreini (una figura alta,
un po' stecchita, col capo un po' inclinato sulla spalla
destra) veste il costume spagnuolo e tiene ferme le*
mani sull'elsa del lungo spadone (1). Ha piuttosto
l'aria d'un nobile e malinconico gentiluomo che d'un
istrione.
Il Capitano Spezzaferro (Giuseppe Bianchi, morto
a Parigi nel 1680) portava il costume della Corte di
Enrico IV : cappello rotondo piumato, baffi e barba,
grande gorgiera , sottoveste e brache larghe. In se-
guito modificò il suo costume : portò legata la sua
spada ad un grosso cinturone di cuoio e la foggia
degli abiti fu quella dei gentiluomini dei tempi di
Luigi XII con un cappello di feltro grigio dalle lar-
ghe tese rialzate ed una piuma. Più tardi, in Fran-
cia, il costume del Capitano si foggiò su quello dei
soldati del tempo : tricorno in testa , capelli lunghi
trattenuti in una reticella da un nastro, abito a falde
rialzate.
(1) Rasi, / Comici Italiani, voi. I, p. 87.
- 165 —
Giangurgolo , che fu anche Capitano (il Capitano
Calabrese), portò un cappello di feltro a cono, presso
a poco come più tardi furono rappresentati i banditi
delle Calabrie, spadone, giustacuore, brache e calze
a liste gialle e rosse.
L.' Innamorato della commedia dell' arte corrispon-
deva all'amoroso e al primo attor giovane della com-
media moderna, come l' innamorata corrispondeva alle
nostre prime attrici giovani e alle nostre amorose. L' In-
namorato , che doveva essere sempre giovane e di
beli' aspetto , era 1' elegante , anzi l' elegantone della
compagnia e indossava abiti del miglior taglio possi-
bile e alla moda del giorno , salvo nei travestimenti
allora numerosi sulla scena della commedia a soggetto.
" Les portraits — scrive il Sand — qui nous sont par-
venus nous montrent des beaux hommes , habilés à
la dernière mode de leur temps " (1).
Essendovi sempre nella compagnia oltre Vlnnamo-
rato comico, quello serio, il costume del secondo era
più ricco, più decoroso , con una punta di dignitosa
I serietà, che non faceva venir meno la sua eleganza.
Uno dei più antichi Innamorati della commedia del-
l'arte fu certamente Flavio , nome teatrale di Flami-
nio Scala. Codesto nome d' amoroso non era nuovo
sulla scena italiana , poiché un giovane Flavio rap-
presenta la parte d'amoroso nella %Jaccaria, comme-
dia del Ruzzante (1533) ; ma questi non scrisse com-
medie a soggetto. Se non che , nessun ritratto dello
(I) Op. cit., p. 301.
— 166 —
Scala in costume di Lelio è pervenuto a noi ; d'un
altro Lelio, però dei primi anni del Settecento, dà il
ritratto Maurizio Sand : cappello di feltro nero filet-
tato d*un cordoncino d'oro con penne bianche, capelli
senza cipria trattenuti da un nastro nero , abito di
satin nero con rovesci ugualmente di satiny ma color
rosso ciliegia , sottoveste di satin bianco ricamato in
oro e con pagliuzze parimenti d'oro, colletto e polsini
bianchi a piccoli cannelli, brache nere, calze bianche,
scarpette nere con fibbie d'oro. Un costume d' Ora-
zio del 1645 : questi che è Marco Romagnesi , in-
dossa il costume dei tempi del Cardinale Mazzarino ;
ha maniere d'un perfetto gentiluomo : ha baffi e bcirba
à la rodale, taglio di barba inventato da Luigi XIII,
il quale impose ai gentiluomini della sua corte che
tutti portassero la barba tagliata a quel modo , cioè,
riducendola ai soli baffi e ad un moschettone sul mento;
per la qualcosa un poeta anonimo cantò :
" Hélas ! ma pauvre barbe,
Qu'est-ce qui t'a faite ainsi ?
C'est le grand roi Louis,
Treizième de ce nom
, Qui toute a ébarbé sa maison ".
Per completare il predetto costume aggiungiamo i
seguenti particolari : giustacuore color celeste tenero,
con rovesci di satin bianco , gallonato e ricamato in
oro ; nastri di seta azzurro-cielo ; colletto e polsini di
trina ; porta spada azzurro-cielo ed argento ; brache
di satin bianco gallonate in argento , calze bianche in
- 167 -
seta ; scarpe di pelle bianca ; cappello di feltro con
galloni d'argento e piume bianche ; spada con fodero
bianco ; bastone dal pomo d'argento ; guanti bianchi.
Il costume di Pantalone, sebbene in qualche parti-
colare abbia subito , attraverso i tempi , delle varia-
zioni, pure per parecchie generazioni d'artisti fu quello
dei vecchi mercanti veneziani : calzoni e calze tutti
d'un pezzo, stretti ed aderenti al corpo, di color rosso ;
giubbetto egualmente rosso serrato alla vita ; grande
zimarra che fu rossa sino alla perdita dell' isola di
Negroponte conquistata su Venezia dai Turchi , poi
in segno di lutto nazionale, nera; scarpette gialle, di
pelle, con la punta lunga e rialzata ; in testa un ber-
retto rosso a punta ricurva^ arieggiante un po' il corno
ducale. Maschera, o mezza maschera: nera, con naso
lungo, adunco : baffi e pappafico lunghi, bianchi ; ca-
pelli bianchi, spioventi sulle spalle.
Il costume del Dottore fu quasi sempre quello d'un
giureconsulto o d'un medico, o d' un professore uni-
versitario dei tempi in cui fiorì la commedia a sog-
getto : zimarra nera, brache nere, calze nere, cintura
di cuoio con borsa , cappello nero o berretta dello
stesso colore. In un disegno degli Scenari della Cor-
siniana di Roma, il Dottore porta nella destra un paio
di guanti neri, grandi; ma nel 1753, a Parigi, Ago-
stino Lelli lasciò il vecchio costume , prese i calzoni
corti, la sottoveste alla Luigi XIV, un cappello con
le tese più o meno stravagantemente appuntate , la-
sciando l'antica berretta dottorale.
— 168 -
Il costume delle Innamorate e delle servette era
quello dei tempi.
Infine , ecco come il Goldoni , nel cap. XXIV,
parte seconda, delle sue Memorie, descrive il costu-
me che portavano ai suoi tempi le quattro principali
maschere della commedia : Pantalone, il Dottore, Bri-
ghella ed Arlecchino. S' intende ch'egli parlava della
scena comica dell'Italia superiore.
Pantalone ; antico costume veneziano , cioè , veste
nera, berretto di lana , camiciola rossa e calzoni ta-
gliati a mutande con calze ugualmente di color rosso,
pianelle , barba tagliata con caricatura e quindi ri-
dicola.
Dottore ; abito a foggia di quello dell'antica curia
bolognese, maschera che copre la fronte e il naso con
macchia rossastra su d'una guancia, ricordo del viso
d'un vecchio giureconsulto bolognese che aveva pre- |
cisamente sulla guancia una voglia di vino.
Brighella ; livrea e maschera nerastra.
Arlecchino ; abito da straccione con toppe di di-
versi colori, cappello vecchio, gualcito con una coda
di lepre, alla foggia dei contadini del Bergamasco.
CAPITOLO SESTO
L'Arte nella Conimedia dell' Arte
Per " figli dell'arte " nel linguaggio del palcosce-
nico s'intendeva e s'intende : comici nati da comici,
nati quasi sulle scene e in queste educati nell' arte
dei loro genitori. La scena è così per loro scuola,
palestra d' educaziene artistica. L' arte , la respirano
quasi nascendo.
Tali erano i comici della commedia a soggetto ;
e forse quasi tutti, poiché, allora, per quella nota di
indegnità che colpiva il mondo comico , questo non
facilmente riceveva dal di fuori nuovi elementi : esso
era diviso dal resto della società da una specie di
muraglia ; viveva da se, per se. Le nuove forze non
le attingeva che dal basso, da una società non dissi-
mile dalla sua e non meno della sua disprezzata, il
piccolo ed oscuro mondo dei saltatori di corda, de-
gli istrioni da piazza, degli acrobati, ecc. ecc., i quali,
se forniti di buone attitudini, attingevano spesso, nel-
l'arte, la celebrità. Ciò nonostante non mancavano co-
— 170 —
loro — e chi ci legge deve essersene accorto — che
dettavano o raccoglievano precetti sul modo migliore
di recitare.
Uno di codesti precettisti fu Andrea Ferrucci , il
cui nome, in questo nostro lavoro, è stato spesso ci-
tato. Nato a Palermo nella prima metà del sec. XVII,
visse quasi sempre a Napoli e scrisse pel teatro.
Scrisse versi, commedie , pastorali ed anche drammi
sacri, uno dei quali, la Nascita del X)erho UmanatOy
entrò nel repertorio popolare e fu rappresentato a Na-
poli sino a pochi anni addietro, la notte di Natale ;
un dramma arieggiante i vecchi Misteri e dove, co-
me ricorda il Croce, la parte del napoletano era rap-
presentata da Razzullo, scrivano del tribunale. Oltre
deWylrte Rappresentativa premeditata ed improvvisa,
che mandò alle stampe , scrisse molto per quei tali
Zibaldoni di cui abbiamo spesso parlato, rendendosi
così utile a tanti comici, i quali, fìngendo d'improv-
visare, non facevano che ripetere la prosa del nostro
scrittore ; sembra, anzi, che il Ferrucci, come mani-
polatore e fornitore di ^rime Uscite , Saluti ecc.,
abbia goduto d'una certa celebrità, se egli , nel suo
libro, scrisse di se e dei suoi lovori come appresso :
" Tratto ancor io dalla corrente, avendo ritrovato in
uso i versi che allettano l'orecchio , mi sono indotto
a far tutte le sudette composizioni alle volte in versi,
ritrovandosi una gran quantità di mie prime uscite,
disperazioni, dialoghi di tal maniera , e con le rime
spesseggiate , e ne danno intorno tante , che hanno
infettato non solo le Accademie , ma anche i pub-
— 171 -
blici teatri , avendo alle volte dovuto con pazienza
ascoltare in bocca di stolti e d' ignoranti i parti del
mio povero ingegno, di maniera troppo stroppii... Oggi
mi par che non solo per Napoli e Sicilia, ma forse
per tutta la Lombardia , altro non si ascolta che la
T^rima Uscita del Pensiero che comincia : Lasciate-
mi , o pensieri ; della Speranza : CK io mi pasca di
speme; della Gelosia: Ardo, misero, e gelo; della
Bellezza della sua donna ; Oro che tratto dall'indica
miniera, amo... Che dissi? Adoro; deW Amante ta-
cito : Ove t'inoltri, o Luzio ; con le Disperazioni : A
che badi , a che pensi ? Occhio mio che vedesti ? ed
infinite altre composizioni , che per compiacere così
al proprio genio , come ad istanza d' altri mi sono
uscite o scappate dalla penna. Così i Dialoghi : Che
pensi ? Che risolvi ? Che vedo ? Che miro ? del Ri-
tratto, quello del Pastor Fido che comincia : Dimmi
mia vaga Dea (1). "
Di codesto scrittore, dunque, vogliamo qui presen-
tare una breve raccolta di precetti, i quali ci daranno
un' idea, molto approssimativa, s' intende, di ciò che
fosse un artista comico del secolo XVII , o meglio,
come si disegnasse la figura del perfetto artista co-
mico nella mente d* uno scrittore di regole sull' arte
di recitare nel secolo XVII.
Tralasciando tutta quella parte che nell'opera del
Ferrucci si riferisce ai diversi generi teatrali e alla
forma dei teatri, saltiamo subito alla regola sesta della
(1) Op. cit., pp. 237-38.
- 172 —
^arte prima del suo trattatello. Essa s' intitola : T)ello
scieglimento dei personaggi atti a rappresentare. Il
Ferrucci scrive : " Letta l'opera è di mestieri per la
scelta dei personaggi atti a rappresentarla, ed in ciò
è necessario che si sottomettano al parere di chi più
ne sa... il quale conosca in che riesca buono uno e
in che 1' altro... ]-! Antagonista o Protagonista... sarà
quella persona che avrà più parte nella faccenda, o
sopra cui cade tutta la catastrofe del negozio... giac-
che non sarà la parte principale il primo innamorato
o la prima dama ma quello che avrà più da fare e
che ha più luogo nell'intreccio, benché fosse vecchio
o buffone o ruffiano ; chi dunque avrà la voce altera
sarà buono per un Tiranno , purché 1' accompagni il
personaggio ; chi con voce flebile accompagnerà un
volto femminile, sarà atto per un amante appassio-
nato ; chi avrà la voce tenue e il personaggio gracile
può togliersi la parte d'un vecchio o d'una vecchia;
chi sarà bel giovane , grazioso ed intendente di ciò
che dice, si può prendere la prima parte degli Eroi
più graditi... A tutti però v'è d'uopo accompagnarsi
il sapere, altrimenti saranno tanti pappagalli o scimie...
Le parti graziose e ridicole non devono darsi ad altri
se non a coloro ai quali concesse il Cielo per spe-
ciale benefìcio la grazia ossia le pose ; perchè un
gesto fatto a tempo, un motto, un'atto accompagnato
dal garbo moverà infallibilmente al riso ; chi però non
è condito di questo sale, dica pure i motti più arguti,
le vivacità più belle , i refrassi (per servirmi d* un
— 173 —
termine spagnuolo) più reconditi, gli equivoci più mi-
rabili, sarà il gettarsi in un pozzo. "
Nella Regola Settima il Ferrucci si occupa " della
pronunzia più atta a rappresentare e quali difetti si
deggiano avvertire nei diversi idiomi ". Crede che
" nella nostra Italia non vi sia chi perfettamente parli...
1 fiorentini son tanto difettosi che nulla più , poiché
oltre che proferiscono nella gola dicendo invece di
cavallo xhavallo, per duca duxha... hanno ancora tanti
vocaboli astrusi e contesti che fanno un sentire molto
barbaro all'orecchio... Dunque , in loro non è buona
la lingua naturale se dallo studio non viene coltivata.
I Senesi , i Lucchesi e altri toscani , anche peccano
nella gola , benché i Senesi qualche poco meno dei
Fiorentini. I Lombardi come sono i Milanesi, i Vi-
centini , Modenesi , Mantovani , Cremonesi , Farmeg-
giani , Bergamaschi , Veneziani ed altri hanno i loro
difetti, non proferendo le lettere doppie... Al contrario
in alcuna parte , che richiede la lettera semplice , la
raddoppiano... I Napoletani non sono senza la loro
taccia, poiché oltre che proferiscono con gola aperta
facendo che molte lettere che vanno chiuse aperte,
e molte aperte chiuse con e largo, quando ha da
essere stretto... oltre che non proferiscono le parole
con nd, dicendo monno, profonno per... mondo, pro-
fondo... I Siciliani hanno più difficoltà degli altri a
proferire nette le psu^ole toscane... Hanno il medesimo
difetto dei Napoletani del nJ, i due nn, d' allungar
tutte le e in altero, guerriero, impero e Vo in mondo,
gonna... anzi con un'estimazione così grande che di-
— 174 —
cono proferirle bene, non accorgendosi dell'enfasi na-
tiva... I Bolognesi e Genovesi gli rilascio alla fatiga
del benigno lettore , che fatiga ci voglia a far che
sieno sane quelle lingue che sono mezze per natura ?
1 Romani... non v' ha dubbio che favellano bene, non
già la plebe... Quelli della Corte, studiano una lin-
gua pulita , colta e svelta , ma , per dirla, alle volte
affettata... La lingua dunque più tersa e buona per
rappresentare in buon linguaggio italiano sarà la Se-
nese per li vocaboli affinato nella Corte di Roma per
toglierli il difetto della gola "...
La Regola Ottava s' intitola T)ella S^emoria ed
uso di essa in apprender le parti. Ìl Ferrucci ci fa
conoscere come ai suoi tempi Fazione del suggeritore
non fosse continua anche nella recita della commedia
da lui chiamata " premeditata ". "E ben vero che
per esser la memoria abile vi è necessario chi sug-
gerisca o soffii, chiamati anche dagli antichi monito-
res ; però questi hanno da servire in caso di bisogno,
quando il rappresentante intoppasse o sbagliasse nel
rispondere o proponere. Per mandcire a memoria la
parte il miglior tempo sarà quello della sera e la mat-
tina sull'aurora ripeterla, perchè le fantasime s' impri-
mono con 1' ombre della sera e poi si ravvivano, ri-
trovandosi lo stomaco scarico di umori e la testa
sgombra , che esalando dai cibi ingombrano il cer-
vello... Deve chi manda a memoria ricordarsi con
discorso, e pensare contemplando la cosa ripassandola
con intelletto e considerazione, acciocché poi fìsso gli
resti ciò che bave appreso per poterlo ridire, onde
— 175 -
siamo consigliati a notare i luoghi e le imagini con
segno... V. gr. se si tratta di cose d'agricoltura,
guerra o navigazione, l'imagine loro saranno la zappa,
la spada, l'aurora... Se il discorso sarà lungo, il ri-
medio sarà dividerlo in particelle, perchè così non si
confonde nell' immensità la memoria... Il maggior ri-
medio però per far la memoria più facile, e pronta, è
r esercizio e la fatiga, perchè lasciandola stare oziosa,
appunto come il ferro s' arruginisce "...
La Regola Nona e dedicata a\V Azione, la quale
scrive il Ferrucci , seguendo Demostene citato da
Cicerone, è la voce, il giuoco degli occhi, quello del
viso e il gesto. Nella pegola Decima s'occupa della
Voce. " La buona voce è quella eh' è dolce, libera e
sonora, uguale al tintinno dell'argento o dell'acciaio,
ma che non faccia uno strepitoso suono, non sia vi-
trea a guisa di campane rotte e stuonate , che non
può in alcun modo accomodarsi all' orecchio anzi lo
offende. I suoi vizii sono l' esclamare urlando, innal-
zarsi senza tempo, oscurarsi all' improvviso, divenir
rauca... Non deve la voce sempre esser la stessa, ma
bisogna mutarla secondo i moti , le passioni dell'ani-
mo, sarà lucida quando si proferisce con tutte le pa-
role intiere, e deve stare attento il rappresentante né
a precipitarle , ne troncarle , né confonderle con le
seguenti , né darci molto spazio nel distinguerle ; far
che degli ultimi accenti se ne oda chiaro il suono,
ne che s' inghiottino, o si tronchino per mancanza di
fiato ; ed allora che il periodo sarà lungo, può ritro-
vare nel mezzo la pausa e riposarsi... La voce grande
— 176 -
è tacciata, e deve misurarsi con l'udienza e col luogo
per non esser troppo stridente, che stordisca, ne troppo
piana, che non s'intenda... Al contrario, la voce troppo
fragile rende inutile il rappresentante... Deve la voce
mutarsi secondo la opportunità del tempo, e l'occasione
variandosi la forma del parlare... Dovendo essere
spiacevole, ora alta, ora umile, or gioconda, or dura;
e per darne qualche distinzione o si parla con amore,
o per ira, o per commiserazione, o con riverenza, o
con contrasto, o con disperazione, ed essendo la voce
r interprete della mente, quanto saranno i moti di questa
tanto saranno le mutazioni ; così nell' amoroso la voce
deve portarsi dolce ed alquanto fievole ; nell' ira , a-
ti'oce , aspra ed interrotta da sospiri ; nella commise-
razione, patetica e grave ; nella paura, vergognosa e
tremula ; nella forza, veemente ; nel diletto, allegra ;
nell'arroganza, alta ; nel disprezzo, più distesa ; nella
riverenza, umile e piana ; nel contrasto, con tutta la
forza elevata, e nella disperazione confusa... Avanti ai
re si parli con rispetto, ne s' innalzi la voce ; e con
rispetto ancora si parli a dame, ai maggiori, ai padri,
ai vecchi, ai nobili , ai padroni ; con familiarità con
le donne amate, e con gli amici, con gli uguali; con
gravità con i servi e buffoni, cogli schiavi e sudditi,
e di questa maniera osservando il costume si trasformi
in quel personaggio che rappresenta... Nei dissensi
sul principio la voce sia tenue , nella narrativa più
pronta e nelle prove più agitata, nelle digressioni
rimesse, nella persuasione tenera, nel commuovere a
pietà flebile... Si fugga come la peste la cantilena sì
— 177 —
perchè offende V ascoltante, sì perchè ha dell' impro-
prio, dovendosi rappresentare appunto come si favella...
Si avverta ancora di cambiar sempre tuono... e se la
commedia non è altro che il decantato specchio della
vita, si rappresenti come la cosa succedesse e si parli
come comunemente si suole per la città ".
La Regola Decima è consacrata al gesto. " 11 ge-
stire accompagnando la voce... ed essendo un muto
parlare alle volte più esprime un atto muto ed un
gesto che la parola istessa... Deve alla voce susse-
guire il gesto, ma devono uscire ed essere così riuniti
a tempo, ed ubbidire alla voce il gesto, che niente
di superfluo vi sia... E poiché ogni parte del corpo
ha di mestieri di regola sarà necessario che di cia-
scuna di esse, si faccia menzione particolare... Si co-
minci dalla testa. Il levarsi del cappello deve f£U"si
con grazia e con nobiltà accompagnata con la rive-
renza all'uso però del personaggio che si rappresenta
di qual paese si sia, cioè lo spagnuolo col portare il
cappello al petto, con la concavità al di dentro, ac-
ciocché non paia che chieda 1' elemosina e facendo
riverenza coi piedi incrocicchiando le gambe, movendo
il piede destro in circolo al tallone sinistro , quando
si fa riverenza al cielo , e quando agli uomini dal
sinistro al destro, inchinandosi con star diritto il petto
e la testa. Alla Francese, stando fermo coi piedi, op-
pure, ritirandoli l'uno dopo l'altro un poco a dietro,
si cava il cappello portandosi al petto, ed incurvan-
dosi con la testa e vita verso a chi si fa riverenza.
All'Italiana si fa un misto dei due costumi... All' A-
S^el Regno delle S'iiCaschere. 12
— 178 —
siana senza togliersi il turbante si porta la mano al
petto inchinandosi con la testa "...
" lì volto si muta cogli affetti , a cui obbediscono
gli occhi, le palpebre, le guancie, le ciglia, la bocca;
la maggiore espressione però la faranno gli occhi. Le
ciglia sono viziose allora che stanno sempre immobili, M
e viziose quando troppo si muovono... incurvarle ed
incresparle si fa negli atti di meraviglia, ma con modo,
che non ecceda i limiti... Gli occhi sono le finestre
del cuore, gli specchi dell' anima, gli indici dei co-
stumi... Ci son prova gli occhi di ciò che è dentro
nascosto col mostrarsi o lieti o mesti o benigni o se-
veri o stupidi o lascivi... Sieno per tanto gli occhi
gravi, modesti nelle donne, brillanti negli innamorati,
arguti nei servi astuti , dimessi nei servi sciocchi ;
esprimano con vezzi gli amori , domandino colle la-
grime pietà "...
" Il naso e le labbra non si devono toccare, mun-
gere, ne mordere, ma tenerli sodi, e muoverli a tempo
e modo ; non si deve forbire il naso, od in caso di
necessità lo faccia con gentilezza nel fazzoletto, senza
strepito... Così non si permette lo sputo se non nel
moccichino; non si rutti, non si sbadigli... e se fosse
astretto a farlo. Io faccia, coprendosi la bocca con la
mano in modo che non si veda... e così dico delle
altre azioni immodeste e illecite , lasciando qualche
licenza ai buffoni... Stia la cervice retta, ne il collo
si distenda... Gli omeri non si innalzino e si abbas-
sino perchè è un'azione servile, ed un gesto da Zan-
ni. Il petto stia anche diritto e non incurvato, se non
— 179 —
quando rappresentasse un vecchio... Ma perchè l'arte
del gestire consiste sopratutto nei gesti delle mani
e delle dita, di questi alquanto più diffusamente bi-
sogna discorrere. Del muovere le braccia si abbia ri-
guardo a farlo con moto più violento nelle contese ,
con rimesso nel familiare... Non devono le mani in-
nalzarsi più degli occhi, ne scendendo passare il petto;
per traverso che la destra non trapassi V omero sini-
stro, la mano sinistra non gestisca mai senza la destra,
ma le sia come compagna e serva... Nel maneggiare
un bastone, dardo o altre armi, si faccia con leggia-
dria , appoggiandovisi , passandoli dall' una all' altra
mano, e vi si possono fare bellissime azioni... I gesti
con tutte due le mani si fanno quando s' innalzano
al cielo per adorarlo o quando s'abbassano per sup-
plicare... Batter le mani e ferir il petto è proprio
delle donne, e non degli uomini particolarmente saggi ;
mandar fuori il petto o la pancia è proprio dei stolti
come del JTO/es Qloriosus di Plauto buffone e pa-
rassito; quando il personaggio parla solo seco stesso o
esortandosi o commiserandosi , si faccia colla mano
curva toccandosi leggermente con le dita il petto...
Il mover le dita deve esser di questo modo, il medio
deve inchinarsi verso il pollice disteso, e gli altri tre
allora che si comincia a ragionare con un moto leg-
giero da una parte e dall'altra ; guardisi di contrarre
le dita di mezzo sopra il pollice facendo le corna ,
essendo un gran difetto. Le tre dita contratte verso
il pollice disteso, disteso l' indice, vogliono a ripren-
dere e giudicare ; l' indice riguardando la mano, l' o-
- 180 —
mero un pò* inclinato afferma , volto verso la terra
costringe. Nasconder la faccia con le dita leggermente
approssimandole alla bocca , o al petto , è gesto da
vergognoso, indi portandola prona, o non poco distesa
si rilascia "
" S'accompagni il gestire col verosimile, e nelle di-
mostrazioni volendo dire : quest' occhi ecc. s' accenni
e non l'affetti toccandoli, ma con un semplice moto
di dita... 1 piedi si muoveranno secondo 1' occasione
con chi si parla, non sempre come statue star collo-
cati nel medesimo posto. Si dispensano altresì molte
cose ai buffoni, come sarà torcere il naso o il collo,
digrignar i denti, contorcer le dita... Non debbono però
costoro allontanarsi di modo che annichilino le regole,
non dovendo appartarsi dal verosimile , ne far mal-
creanze al popolo, voltando sporcamente il tergo, far
certe azioni stomacose , come ammazzare gli animali
schifosi, e mangiarli, far atto di far le ventosità e sopra
tutto atti osceni ed impuri... Insomma, bisogna in tutto
esser modesto, e non far come coloro che recitando di-
menano il capo, gestiscono con tutto il corpo e paiono
morsicati dalla tarantola... Si deve stare in scena sodo,
e non muover le natiche, andar saltando pel palco e
far azioni da matto, ne i gesti esser superflui, ne man-
canti. Il portar le mani indietro è azione viziosa... Si
esprima ogni cosa con tanta espressione come se fosse
veramente successa... Nelle confabulazioni, chi ascolta
deve star immobile ed attento, ne divertirsi, quasi co-
lui che seco parla, seco non parlasse, ma all'udienza...
ne si devono mai volgere le spalle agli spettatori, ma
— 181 —
stando tutto al cospetto dell* udienza , declinare sola-
mente la testa al compagno favellando , volgendo un
poco il petto... Nell'entrare si procuri ancora entrar di
fianco... nel camminare non si affretti il corso , ne si
renda con tanta flemma misurando i passi... Neil' in-
ginocchiarsi, nello star da man destra, s'inginocchi col
ginocchio destro ed a sinistra col sinistro acciò che si
venga a star sempre col petto al popolo. La donna
nell'uscire in piazza non s'allontani dalla casa che un
passo parlando con altri , per osservar il decoro : re-
stando ella sola, è padrona del palco. Rappresentando
in camera trascorra a sua voglia ; ma si ricordi d'es-
sere donna ".
Nella Regola Decimaseconda, il Ferrucci parla di
Alcune azioni apparenti nel recitare, il qual titolo egli
spiega così : " Avviene bene spesso che alcune azioni
si fanno in scena che se non sono bene rappresentate
invece di muovere V udienza ad ammirazione , la so-
gliono muovere al riso... Occorre, quindi, che l'artista
conosca l'arte della scherma, perocché, occorrendo, se
ne mostri edotto, e in un duello sulla scena si com-
porti in modo da non far ridere gì' intendenti di cose
cavalleresche... Il cavar mano alla spada in ogni altra
occasione , o contro il servo , o per dividere , o per
altro, si faccia anche con garbo, avvertendo che una
azione di queste riuscendo sbagliata, o ridicola, fa per-
dere di corretto il rappresentante... Accade anche di
avere a cadere, e questo anche si faccia in modo che
non volga le spalle, il tergo o altro, cagione di riso;
in questo anche vi bisogna arte per far cadute con
— 182 —
tutta la vita, da fianco, indietro o sul volto e si è in-
ventato ai nostri tempi di chi fa la parte di Furia, cioè.
Amore, il cadere nella buca col capo basso , avanti
o indietro, cosa bellissima a vedersi, ma pericolosis-
sima... Così anche pericolose sono le cadute da un
monte, da un balcone, da scale, dal trono, cose che
piacciono molto quanto più e* è di pericolo...
" Gli svenimenti si facciano in modo che sembri il
rappresentante a poco a poco perdente i sensi e che
vi sia luogo di appoggiarsi se sarà in camera sedia,
e se in istrada qualche poggiuolo , ove con pie tre-
mante, con ambascia di fiato, con agitazione di petto,
pian piano, come per appoggiarsi, gli venga il deli-
quio, o pure che ci sia persona che lo sostenga...
" Deve il morire in iscena , quando s' ha da fare,
farsi nobilmente , ne mi dispiaceria V ultimo atto del
morire andarlo a terminar dentro ; quando però si fa-
cesse fuori, sia la morte dei tiranni accompagnata da
atti disperati e violenti, e negli ultimi palpiti stentata
e con dibattimenti , travolger di luci ed impazienza ;
e nella morte degli innocenti moderata... Nella morte
degli amanti, o persone indifferenti, s'accompagni con
li gesti , coi quali suole arretrar la morte un animo
commosso , o dalla sua volontà o dalla sua dispera-
zione o dalla forza dell'inimico ferro... ".
Rammenta il Ferrucci che gli antichi, nei pubblici
spettacoli, non conobbero " le metamorfosi di trasfor-
marsi in aquila, leone, serpente , ed altro... Oggi che
l'arte è giunta a tanta eccellenza che ci fa vedere ciò
che r occhio appena può vedere... queste belle stra-
— 183 —
vaganze non escluderei dai teatri, essendo atti usuali
e tanto comuni che fanno stupire lo stesso stupore...
e se si è conosciuto che dilettano , piacciono e rie-
scono, si accettino... ".
" Il pianto e il riso che devono farsi in iscena,
hanno da mostrarsi con arte. Negli eroi si deve sfug-
gire il pianto ; alle volte però è loro concesso... Ma
questo pianto... deve essere castigato dalla modestia...".
E quanto alle donne " non gli si deve vietare , ma
concedere il pianto , conforme la condizione della
donna, che non sia tumultuoso e stridulo nelle dame,
e concesso più alle donne vane e scaltrite , perchè
queste : Ut flerent oculos erudere suos (Ovidio). Si deve,
ne può, sfuggirsi il piangere, se l'amante, il padre, pa-
rente o amico è morto. Ma agli uomini specialmente
virtuosi il gridar come f emine si vieta... Il rider fuor
tempo in scena è difettoso, onde si dee star sodo in
tutte le parti, poiché se rappresenta persona grave è
disdicevole... Così anche nelle pau^ti ridicole lo star
sodo muove a riso l'udienza, e se pure qualche ghi-
gnetto si scappa, si sappia raffrenare.
" L' irrisione, o scherzo è diviso dai latini in irri-
sione e subsannazione ; la prima delle quali si fa con
l'arrugare il naso, storcere la bocca, dimostrare i denti...
e s* irride ancora distendendo il dito medio; tenendo
compressi gli altri è di molto improperio, come testi-
fica Suida, così oggi presso i Germani è fare un fico
e presso gì' Italiani far le corna con l'indice e l'anu-
lare eretti. Quando ciò avvenisse di farsi nel rappre-
sentare, si guardi a chi e da chi si faccia, perchè ai
— 184 —
buffoni sarà qualche volta lecito, ed illecito alle per-
sone gravi... Quando si sta parlando con un perso-
naggio avviene che uno deggia parlare a parte, e ben-
ché ciò non abbia del verosimile , ad ogni modo è
necessario, per chi non avendo altro modo d'intendere
gì* interni affetti e pensieri per palesar agli astanti, è
forza in scena di farlo a questo modo, servendosi co-
me di figura apostrofe, come se a caso e non ad arte
succedesse con voce ne tanto alta che paja che s'ascolti
il confabulare, ne tanto bassa che non l'ascoltino gli
spettatori, dovendo il compagno far mostra di star al-
lora divertito, ne ascoltar ciò che a parte dice il com-
pagno come se quello affatto non vi fasse nel discorso.
L'accennare , v. gr. : Ecco il tale , non si faccia di-
stendendo il dito , perchè è fanciullesco ; basta farlo
con un cenno di testa, o semplicemente di mano...
" Occorrendo di doversi mangiare in scena da per-
sone gravi... colui che ha da mangiare, abbia a me-
moria monsignor Galateo {sic) e non faccia da pcira-
sito e da Epulone, ma da persona grave; mostrando
di far queir azione per necessità di recita non per fame
che lo divora; permettendosi solo ai buffoni qualche
licenza, purché... non passi i limiti , poiché , benché
il fine della parte ridicola sia il far ridere , dice il
Minturno: benché al comico di cianciare liberamente
e di sfrenatamente motteggiare si conceda, non perciò
tanto che non abbia modo e natura...
" L'uscita in scena dee farsi col pie diritto avanti
e dalla scena o quinta un poco rimoto affinché par-
lando si venga a portarsi vicino al cospetto dell' u-
— 185 —
dienza , purché qualche necessità non richieda che
s' esca con violenza fuggendo , combattendo , pre-
cipitandosi... L' entrata sia nella quinta o scena più
prossima al prospetto, e di maniera che le ultime pa-
role non si dicano in mezzo alla scena , ma presso
all'entrare, perchè altrimenti si venirà a fare una scena
muta finche il personaggio non entri. Neil' entrare la
persona grave venga con gravità; chi entra disperato,
con furia; cosi chi esce con fretta; insomma, bisogna
ricordar sempre che si consideri l' imitazione del vero,
trasformandosi in tutto e per tutto al personaggio che
si rappresenta ".
" Nel far violenza come da un tiranno ad una donna,
sia con espressione decente, e non impudica. Nel far
dispetto, con ironia che dimostri l' interno dell' animo
alterato; nei dialoghi, con modo familiare e composto;
nel fuggire con un moto regolato e violento , essen-
doli lecito batter col piede la terra, rivolger gli occhi
al cielo, mordere il guanto con rabbia, batter legger-
mente una mano con l'altra ".
Nella pegola Decimaterza il Ferrucci nota i di-
fetti eh' egli rilevava nella recitazione; difetti eh' egli
distingue in naturali o derivanti da incuria. " Difetto
naturale è 1' esser bleso, insulso, che abbia cantilena
precipiti il parlare, sia sinistro nelle azioni, o contraf-
fatto di persona ; or se a costoro non si possono dal-
l'arte togliere i difetti con far che proferiscano bene...
quando i difetti non possono esser vinti dall'artifizio,
sarà meglio escluderli dal recitare. Essi sono quelli
che non arrivano a pronunziare come Demostene gio-
— 186 —
vinetto la R, il far C del P ecc. Gli insulsi sono certi
uomini che hanno una voce grossolana, un proferir
sciocco... La cantilena si può superare da chi ha giu-
dizio... Altri invece di parlare latrano... Vi sono di
quelli che affrettano la pronunzia... e questi devono
correggersi, perchè nel rappresentcìre si parla appunto
come si fa coi principi, con gli amici , coi familiari,
insegnando Andronico che la commedia sia Speculum
quotidianae vitae. Difetto è ancora il precipitare e con-
fondere i sensi... Difetti dell' incuria negh attori sa-
ranno o r ignoranza o la negligenza : l'ignoranza è il
non saper come si dicano le parole se brevi o lunghe,
negligenza intralascicue molte cose che richiedono le
regole sceniche... Le negligenze sono il far scena vuota,
restarvi muto , incontrarsi con personaggio che esce,:
far confusione nel parlar molti a un tempo, uscir dalla
parte, iai qualche solecismo con le mani, o qualche
mala creanza. Il far scena vuota e un grave difetto,
di modo che riduce l'udienza a gridare: fuora, fuora..<|
Il restar mutolo in scena è anche difetto grande, o
sia per mancanza di memoria, o per non rispondere
a tempo , ne altro rimedio si potrà ritrovcu^e se non
accompagnarlo con qualche azione di meraviglia o di
attenuarsi subito all'improvviso... L' incontro col per-
sonaggio che deve uscire è anche difettoso , perchè
alle volte s'incontra con taluno che si deve sfuggire..^]
e si viene a fare una terribile improprietà ; di più
volendo questi uscire e quegli entrare , si lascia la
scena vuota... La confusione nel parlare succede alle
volte nell'attaccarsi uno alla parte dell'altro, di modo
- 187 —
:he favellino a due, a tre, che fanno una Babilonia...
Jscir dalla parte è quando vi si aggiungono parole
)Itre quelle che ha fatto l'autore... Far solecismo con
e mani è mostrar cielo per terra... e contradirsi il
^esto con la parola... Far mala creanza al pubblico
ara volgerli il tergo, sputar sconciamente, far azioni
'ili, dovendo tutte esser decorose... "
Nella pegola Decimaquarta, il nostro scrittore s'oc-
upa dei personaggi dei diversi generi teatrali. La-
ciando in disparte ciò che scrive intorno ai perso-
laggi della tragedia , riportiamo con tagli opportuni
|uanto soltanto dice a proposito dei personaggi della
ommedia. " 1 personaggi in essa introdotti e che
ono oggi in pratica saranno : giovani innamorati dis-
ioluti, prodighi, rissosi, viziosi, o virtuosi; i vecchi la-
civi, avari o testardi, o accurati, o economi ; le madri
li famiglia virtuose, e alle volte lascive, ma occulte ^
icendo mostra d'onestà; donzelle vergini ed amanti,
lesiderose di marito, oneste , prudenti , alle volte ri-
essate ; meretrici lusinghiere , bugiarde , ingannatrici,
vide , volubili , perfide , ingorde e sentine di vizi...
)ervi astuti, mordaci e solleciti; oppure sciocchi, sem-
plici, ignoranti, codardi, timidi e poltroni; parasiti in-
ordi, voraci, seccanti, spie o traditori per un bicchier
i vino, o per una mangiata; pedanti affettati e sucidi,
inamorati, correttori dei vizi altrui, e non dei propri
gentaglia presuntuosa; bravi d'orrido volto, di gesti
orribili, tutti parole, di grandi promesse, millantatori,
la in verità timidi, pusillanimi, conigli ; ruffiani, ac-
orti, insidiatori, adulatori , rapaci ; serve , scherzanti,
1
~ 188
innamoraticcie, maliziose e vili. Costoro hanno da es-
sere o della sfera media, come sono semplici genti-
luomini, dei quali erano le commedie togate o prete-
state e tanto bene oggi praticano gli Spagnuoli chia-
mandole di cappa e spada... Così sono i Dottori ci-
caloni , i Magnifici o Pantaloni , mercadanti , artisti,
tavernarì ed altre persone plebee... o introducendovi
persone di contado... Nel rappresentarsi si osservi an-
che di costoro il costume, e non faccia il Vecchio il
Giovane, l'Innamorato il Dottore... I servi astuti non
diano nella sciocchezza, e i servi sciocchi nella sa-
gacità ed arguzie; i Parassiti non sieno tanto affettati,
ma naturali; i Pedanti non attillati e galanti nel ve-
stire... I Bravi sieno di persona confacente al vanto
ma poi neir azione pronti alla fuga... i Ruffiani nor
sieno melensi, ma dimostrino l'audacia... Le Serve nor
sieno sfacciate , senza vergogna e scandalose , ma h
loro vivacità sia accompagnata da una grazietta inci-
tativa, ma coverta. "
Nella seconda parte dell'opera, il Perrucci s'intrattiem
in modo diffuso della rappresentazione all' improvvise
o a soggetto. Già in un precedente capitolo, noi ab
biamo riportato più d'un precetto del Perrucci intorm
alla maniera di comporre e recitare una commedia im
provvisa ; in ogni modo , eccone ancora alcuni altri
" Studino (/ comici) di sapere la lingua perfetta ita
liana coi vocaboli toscani se non perfettamente, almen(
i ricevuti... Si sappiano ancora le figure e i tropi tutt
della Rettorica, perchè con questi si potran fare grand»
onore... Le metafore sieno temperate e non stralunate..
— !89 -
I concetti che si deve apparecchiare per servirsene
air occasione, devono essere raccolti in un libro con
titolo di Cihaldone Repertorio , o a suo beneplacito
;coi titoli d' Amor corrisposto , di Sprezzo , Priego,
Scaccia, Sdegno, Gelosia, Pene, Amicizia, Merito,
Partenza ecc. " Ha cura, però, il Ferrucci di ricor-
dare al comico che le composizioni meditate eh' egli
vorrà introdurre nel suo dire improvviso, non stonino,
molto con questo. " Non presentino esse tanto l'aria
d'intarsiature ; ma le une e l'altro abbiano una cert'aria
di famiglia. Diversamente, la disparità di stile offen-
derebbe l'orecchio delicato dello spettatore " (1).
E poiché nell'arte di ben roppresentare la comme-
dia a soggetto lo Zibaldone o Cihaldone di cui parla
il nostro Ferrucci, è una specie di forziere dal quale
r artista comico può a suo talento tirar fuori gemme
per incastonarle nel suo dire all' improvviso, come bril-
lanti o smeraldi in un anello o in una collana, affinchè
il suo porgere non riesca troppo povero o sciatto, noi
CI permettiamo d' aprire , piano pianino , codesto for-
ziere per mettere sotto gli occhi dei nostri lettori qual-
cuno dei tesori che racchiude.
Cominciamo dai Concetti che il Ferrucci definisce
con una sentenza di Torquato Tasso: " Le immagini
delle cose le quali non hanno soda e reale consistenza
in se stesse, come le cose, ma nell'animo nostro hanno
un certo loro essere imperfetto , e quasi dall' imma-
ginazione sono formate e figurate... "
(I) Op. cit. pp. 96-97.
— 190 —
CONCETTI
(Di Amore corrisposto)
" Corri tutto negli occhi miei, o cuore, per beati-
ficarti nella vista della tua cara, e s' egli è vero che
più vivi nell'oggetto amato che in te, anima mia gioi-
sci, rallegrati, brilla, scorgendo chi ti dà moto e vita".
(Di Priego)
" E da chi avesti il latte, già che sei così barba-
ra ? Forse come Paride che t'allattò un'orsa, mentre
crudele ti esperimento, o come Ciro ti die le poppe
una cagna, mentre sempre arrabbiata meco ti mostri;
o qual Clorinda suggesti le mamme di tigre ircana ,
se non posso colle lusinghe domesticarti ?
("Di Gelosia)
" Io son gelato, perchè sono amante ; o strana an-
tiperistasi ! Il foco d'amore è così al gelo della gelo-
sia congiunto, che fanno un misto a tormi la vita, e
la mia passione per questi due barbari e un'infermità
che fa che io geli nell'esterno, quando una violentis-
sima ed ardente febbre mi consuma le viscere ".
fT>i "Pace)
" E chi potrà risanare il mio cuore morsicato dalla
— 191 -
icrpe velenosa della gelosia altro che il balsamo del-
'amorosa corrispondenza ? E quanto fu più pericoloso
1 morbo tanta più cara mi è la restituita salute; onde
.ospenderò il core in voto al tempio della tua fede,
:he mi ha tolto alle fauci della morte ".
fT)i Partenza)
" Parto, o bella ; ma con qual core lo sa solo il
)io Cupido ; poiché se si svelle la pianta dal natio
erreno, cadono i fiori, illanguidiscono le frondi ed a-
ido rimane ; così il mio cuore svelto da quel seno da
ui esso riceve l'amoroso alimento e la vita, perde i
ori delle gioie, le frondi della speranza ed arido di-
iene ".
L'ottimo Ferrucci, l'abbiamo già ricordato, insegnava
i comici dei suoi tempi che incastrando qualcuno di
odesti preziosi Concetti nel suo dire , curasse bene
he la prosa meditata non riuscisse molto diversa da
uella improvvisa, quasi fosse opera possibile dare u-
ica veste al linguaggio da manicomio, ch'era quello
ei componimenti dello stesso Ferrucci, e a quello delle
ersone sane : e Io stesso nostro scrittore quasi ne con-
sniva ; poiché insegnava anche che ad un concetto
rampalato bisognava rispondere con un concetto non
eno strampalato. Insomma, codesti Concetti erano co-
e le ciliegie , 1' uno tirava l' altro. Se non che , le
Lione regole volevano che fra V una strampaleria e
iltra corresse un legame. " Ai Concetti — scriveva
Ferrucci — si deve rispondere a proposito ed aver
— 192 —
giudizio d'attaccarvi il suo per risposta, e non far come
certi tali che facendo il confabulatore il concetto, v.
gr. di paragonare l'amicizia al sole, gli risponda col
paragonarla ad una calamita e così vengono a fcu^e una
sconnessione così grande che stonata, navigando uno
per levante e 1' altro per ponente ; se uno , dunque,
così proponesse : " L'amicizia è un albero che produce
1 frutti d'un'amabile gratitudine " , si risponda : " E se
è albero, sarà d' alloro, che vanta per pregio essere
simbolo d'immortalità : giacche per fredda stagione fo-
glia non perde ; così l' amicizia per variar di fortuna
il suo vigore non lascia. Così avranno connessione i
due diversivi (1) ".
Tiriamo ancora fuori del forziere qualche altro
gioiello.
(T^rima uscita d'amante corrisposto)
" E da che nascono le passioni amorose in due cor
amanti e corrisposti ? Se giunge l'amante al suo fine
quiete non ritrova ? Se termina al suo centro, perchì
non sa della sua quiete godere ? Ah, sì , l' intendo
possono le anime amanti unirsi, perchè sono spirituali
i corpi desiderano anche come le anime medesimars
e perchè ciò dall' impossibile gli viene interdetto, ben
che corrisposti, si cruciano, si tormentano, si martiriz
zano. Felice, o Salmace, che potesti medesimarti co
(1) Op. cit. p. 201.
- 193 —
tuo caro Ermafrodito ; ed , o me felice , se di due
individui
Potesse fare Amore in una salma
Di due anime, e due cori, un corpo e un'alma I
(Prima uscita d' amante tacito)
" Pensiero, ove ne vai ? Cuore, dove voli ? Anima,
dove fuggi? Sì, pensiero, tu non conoscendo ad es-
sere abile a star più celato, vuoi palesar gli arcani più
occulti al tuo bene ; sì , cuore , tu non potendo più
soffrire la ferita che ti fece il pungentissimo strale di
un guardo, vuoi chiedere il rimedio ; sì, anima, tu di-
sperata vivendo in una schiavitudine sconosciuta, vuoi
ch'almeno sappia le tue catene chi ti carica di esse,
acciocché le compatisca. Fermati , o pensiero ; trat-
tienti, o core ; trattienti, anima mia. Che farai se essa
sdegneratti, o pensiero ? Che risolverai se maggiormente
inasprisce con disprezzcirti, la piaga, o core ? A che
t'appiglierai se riderà sulle tue catene, o anima sven-
turata ? Eh , no ; volate pure a quel bello che v' in-
namora ; scoprite gli arcani, palesate le ferite , dimo-
strate le catene, forse ritroverete pietà, balsami e cor-
tesia. Così mi dice Amore :
Che in quel bel seno in amorosa calma
Godranno il pensiero, il core e l'alma ".
(Soliloquio con tropi)
" O Amore, fuoco che l'anima divori, che il petto
t^Cel Regno delle C^aschere \ 3
— 194 -
mi consumi, tu con un crine mi legasti la mia libertà;
ma che stupore se domasti il domatore dei mostri ?
Sono brievi le mie forze per resistere alle tue vio-
lenze. Più volte ho veduto i prati fiorire, ne pur vedo
con essi fiorire le mie speranze. Ma se tu sei la ro-
vina del mondo, che potrò io spercire da un Dio bam-
bino } Sì, sì, non altro che una innocente ferita. Ah,
sia, tiranno,
Invecchiato è il tuo male, eterno è il danno ".
(Soliloquio con figure di parole)
" Non isperar pace, cuor mio ; sendo soggetto alla
tirannide del bello , t' abbarbagliò la luce d' un sole,
ne puoi temperare le tue pene. E chi giammai udìo
pene alle mie simili ? Alzai templi all' Idolo della
fede per trovcU*e un parallelo alla mia costanza ; ma
vedo che tu, allettando, mi tradisti; e quale speme
avrò mai io , se con V idolatria d' un bel sembiante
non spero mercede essendo ributtate le umili mie pre-
ghiere ? Più d*una fiata t' ho raccontato i miei dolori,
ne viene una volta la pietà a comparirti su gli occhi,
onde, giacche indarno a te, mi diedi in preda a di-
sperato Averno ".
(Rimprovero con figure ritrovate per aggiunger vaghezza)
" E questa è la fede, ingrata? Questa è la co-
stanza promessa ? Questa la perseveranza che osservi ?
Come dunque da te la fede è oltraggiata, la costanza
- 195 —
oltraggiata e la perseveranza anche miseramente oltrag-
giata ? Per ritrovare in te fede, io ti consacrai l'ani-
ma ; perchè fusse stata in te costanza, sì, 1' anima ti
offrii ; perchè perseverante ti ritrovassi , in olocausto
l'anima ti offrii , e tu dispietata , tu dispietata sì , mi
tradisti. Lascia, lascia d'esser bella, giacché sei infe-
dele, e se vuoi (mentre la mia morte brami), se vuoi
eh' io ti soddisfaccia, vieni a togliermi, per contentarti,
la vita. La vita, sì, che a te sì odiosa si rende. Sì,
sì, petto senza cuore, cuore senza anima e anima senza
fede... Se fiera è la tua bellezza, fiere le tue azioni e
il tuo procedere è fiero, ed io ti aborrirò e ti sdegnerò
per sempre : e tu tiranno, che m'invitasti a godimento,
a delizie, a gioie, a contenti, o nume lusinghiero, o
bambino dispietato, o inesorabile arciero ! Nume solo
di nome per cui più non spero... Forse il chiudere gli
occhi alla luce, perdere il fiato, restar senza moto ed
esalar l'anima dissolvendo del corpo gli elementi
Sarà un termine dare ai miei tormenti (1) ".
Dallo Zibaldone per le parti ridicole togliamo il
seguente sonetto :
" Recipe di malanni due trappesi,
Un oncia di catarro o tosse asmatica ;
D'ernia ventosa, sanguigna ed acquatica
Di cancari e di gotte ana due pesi.
(1) Op. cit. pag. 211.
- 196 —
" Misce con acqua di gomme francesi
Fior di descenzo e polvere lunatica.
Con scrupoli di colica e sciatica
Poni di male Pasque un par di mesi.
" Vi sien gocce sei di rabbia canina
Con lebbra buona e rogna che ti gratti
Con l'anticore e peste che sia fina.
" Sieno in rompiti il collo indi disfatti :
Credi, se piglierai tal medicina,
O che sani, o che crepi, o che ne schiatti " (1).
Ecco ora un esempio di parlare a sproposito :
" Fermatevi, siete un vulcano che con quella gamba
storta volete acchiappare alla rete quella sgualdrina di
vostra moglie ; mi date voi nuova se i grilli del Da-
nubio hanno mosso guerra ai monti Acrocerauni, per-
chè dicono i saggi del Circolo Equinoziale, che chi
pone i lumi nel cacio prende un granchio astrologico,
facendo che il mese di maggio s'affitti il governo delle
zanzare a quattro quattrini la botte e a trecento scru-
poli il moggio ? (2) " .
Passando a parlare (P. II, l^eg. terza) delle parti
di donne innamorate, il nostro Ferrucci scrive: "Tutte
le suddette composizioni (cioè, quelle di cui abbiamo
dato un saggio) possono essere comuni alle donne col
mutcìrle il genere. Si deve bensì avvertire coloro che
rappresenteranno da donne, o siano veramente donne,
o giovani che le fingano, d' osservar la modestia nei
(1) Loc. cit.
(2) Loc. cit.
— 197 —
gesti, quando parlano con altri a non dilungarsi dalla
casa, se non allora che sono sole per osservare il de-
coro donnesco ". Indi prosegue: " Oltre le sudette
comuni con le parti d'uomo, possono averne delle par-
ticolari toccanti a donne ". E qui lo scrittore porge
qualche esempio di quei certi discorsi preparati che
poi sulla scena dovevano aver V aria d' essere detti
air improvviso : il che allora era cosa molto comune,
come afferma lo stesso Ferrucci. " Ho conosciuto fa-
mosi comici aversi fatto fare libri (ed io gliene ho
fatto quantità) di cose adatte a tutte le occasioni, an-
che quali a dire : Oh, di casa ! ed aver tanta accu-
curatezza in accomodarle , che sembrava che uscisse
air improvviso ciò che s'avevano da molto tempo pre-
meditato. Qui sta tutta rcu*te, il nasconderla , perchè
ciò è quello che genera vaghezza e stupore , come
cantò il poeta Tasso :
E quel che il bello e il raro aggiunge all'opre,
L'arte che tutto fa, nulla si scopre.
D'ordinario, le Prime Uscite o Soliloqui di parti
d' innamorati finivano con una chiusetta composta di
due o tre versi rimati. " 11 portare qualche chiusetta,
scrive il Ferrucci, non lo stimo disdicevole ; servendo
queste come se f ussero sentenze... poiché s' è vero
che musicam docet Amor, ad ogni amante che piaccia
la poesia, portando le espressioni dei poeti nel dire,
sentesi sempre in bocca quell'appassionato distico del
Tasso :
— 198
O meraviglia I Amor, ch'appena nato,
Già grande vola, e già trionfa armato ( 1 ).
Esempi di chiusette offerte dal Ferrucci :
(Di Speranza)
Dolcissima Speranza,
Nelle guerre del cor tu sei mia Pace ;
Nelle tenebre mie tu sei mia face.
(Contro Fortuna)
Oh Dio, che l'alma al precipizio arreca
Una donna, eh' è pazza e sorda e cieca.
(Salutando la Donna)
In vedere, o mia cara, il Dio d'Amore,
Ti condurrà, in un guardo, e l'alma e il core.
(T)i Scaccia)
Gradir l'affetto tuo,
E non posso, e non voglio ;
E all' onda dei tuoi pianti, l' alma ho di scogHo.
(D'Amante felice)
Tariti fiumi di grazia Amor mi versa,
Che in un mar di gioir l'alma è sommersa.
(T)i Partenza)
Lasciando l'alma, il duol m'agita e ingombra.
Né porto di me stesso altro che un'ombra.
(1) Op. cit. p. 239.
— 199
("Di Sdegno)
Lungi il foco d'Amor, ch'io sol ricetto
Rabbia al cor, sdegno agli occhi e fìamma in petto.
(T>i Gelosia)
Per far letal la piaga, eh' ho nel seno,
Gelosia mi menava il suo veleno.
fDi Costanza)
Ai venti di sospir fermo e costante
Colonna io son di solido diamante (I).
Ma nei Repertori i comici all' improvviso non tro-
vavano soltanto degli a solo, ma anche dei dialoghi.
Evidentemente i repertori o zibaldoni del genere di
quello del Ferrucci dovevano essere affatto sconosciuti
a Maurizio Sand, che scrivendo VAvant^T^ropos che
si legge in fronte all'opera Masques et ^uffons (2)
riteneva che la commedia dell'arte fosse in tutte le sue
parti (meno lo scenario) improvvisata sulla scena, senza
concorso di parti scritte e di prove. E narrava, quasi a
provare che la cosa fosse facile, o, per lo meno, non
difficile , che in un inverno , una famiglia (probabil-
mente la propria) insieme ad alcuni amici immaginò
di rappresentare alcune scene a soggetto : e vi riuscì
non avendo per guida che il semplice scenario. Nes-
(1) Op. cit. p. 242.
(2) Paris, M. Levy, 1862, in due volumi.
— 200 —
suna preparazione accompagnava la recita; si stendeva
lo scenario e poi subito si passava alla rappresenta-
zione, " Per istinto, fra i personaggi, si sviluppava un
genere di dialogo, che sembrava una esumazione dei
primi saggi teatrali delFantichità... era il dialogo senza
regole delle Atellane... Erano scene briose che s'in-
catenavano le une alle altre senza premeditazione,
ciascun carattere sentendosi spinto ad agire secondo
la propria natura.., ". Questo primo saggio essendo
riuscito , si pensò di recitare , con lo stesso sistema,
delle vere commediole col semplice aiuto d'uno sce-
nario immaginato e scritto qualche ora prima della
rappresentazione. Più d'una volta si metteva anche da
parte il soggetto ; ed allora c'era del nuovo. " Gli in-
cidenti s'accumulavano, le scene si succedevano con
molto nesso fra loro... ". Se non che, Maurizio Sand,
col suo racconto, non è riuscito a provare che una
sola cosa , cioè , che al castello di Nohant (perchè,
certamente , quelle geniali riunioni di improvvisatori
dovettero aver luogo in quel castello e sotto la pro-
tezione del genio loci, Giorgio Sand) si riuniva una
società colta, piena di spirito e capace d' improvvi-
sare una commediola sulla semplice falsariga d'un sog-
getto. Ma, come abbiamo dimostrato, sui palcoscenici
della commedia dell'arte avveniva diversamente. Non
tutti i comici possedevano l'estro della improvvisazio-
ne, né la coltura necessaria. Anche la recita a sog-
getto era disciplinata e l' improvvisazione era preme-
ditata.
— 201
Ecco, intanto, un saggio di T)ialoghi, sempre tratti
dall'opera del Ferrucci:
(T)ialogo di Sdegno fra Huomo e Donna)
H.
Partiti.
D.
D.
Involati.
H.
Dadi occhi miei.
H.
D.
Dal mio cospetto.
D.
H.
Furia con volto di cielo.
H.
D.
Demone con maschera d'amore.
D.
H.
Ch'io maledico.
H.
D.
Ch'io detesto.
D.
H.
Il giorno che ti mirai.
H.
D.
Il punto che ti adorai.
D.
H.
Hai luci.
H.
D.
Hai fronte.
D.
H.
Da mirarmi ?
H.
D.
Da starmi presente ?
D.
H.
Non ti ricordi.
H.
D.
Non pensi.
D.
H.
I tuoi mancamenti ?
H.
D.
Le tue scelleraggini ?
D.
H.
Che ti credi.
H.
D.
Che pensi.
D.
H.
Ch'io mi fermi per rimirarti ?
H.
D.
Ch'io mi fermi per vagheggiarti?
D.
H.
Non posso negare che sei bella.
H.
D.
Troppo confesso che sei vago.
D.
H.
Ma a che vale la bellezza.
H.
D.
A che giova la leggiadria.
D.
H.
Se è deturpata dall'errore ?
D.
Se è accompagnata dall' in-
H.
ganno ?
D.
H.
Non me lo imaginava.
H.
Puoi morire, ma non l'aiscol-
terai.
T'amerei.
T'adorerei.
Se fussi fedele.
Se fussi costante.
Così fussi tu sincera.
Fussi così tu pure.
Com' è la mia fede.
Com'è l'amor mio.
M'inganni.
Mi tradisci.
Dunque parti.
Dunque vanne.
E che sì parto.
E che sì me ne rientro.
Quale incanto mi trattiene ?
Che ignota forza m' inceppa ?
Sei troppo ingannatrice.
Hai troppo potere negli occhi.
La speranza mi lusinga.
La bellezza m' incoraggia.
Che ti scopra fedele.
Che non ti trovi mancatore.
Menti, che tal non fui.
T' inganni, che sempre tal mi
vanto.
E l'amore d'altri ?
Non gradivi altra donna ?
T' ingannavi.
— 202
D.
Non me Io persuadeva.
D.
Fosti tradito.
H.
Che un cielo fosse un inferno.
H.
Te amo.
D.
Che un Cupido fosse menzo-
D.
Te gradisco.
gnero.
H.
Te adoro.
H.
Eppur l'esperimento.
D.
Te idolatro.
D.
Eppur r ho ritrovato.
H.
Mia spemo.
H.
Orsii, dileguati.
D.
Amor mio. j^
D.
Or via, disgombra.
H.
Mia vita.
H.
Io non voglio.
D.
Mio bene.
D.
Non posso.
H.
Mia luce.
H.
Non so chi mi trattiene!
D.
Mio respiro.
D.
Ignota forza mi trattiene!
H.
Mia dea!
H.
Ma non è amore, vedi.
D-
Idolo mio!
D.
Accertali che non è affetto.
H.
Ogni altro pensiero.
H.
E che ti arresta ?
D.
Ogni altro affetto.
D.
E che ti ferma ?
H.
Renunzio,
H.
Non voglio darti questo petto.
D.
Discaccio.
D.
Non avrai questo piacere.
H.
Detesto.
H.
Ch'io ti dica.
D.
Aborrisco.
D.
Ch' io ti palesi.
H.
Pace, o pupille care!
H.
Che ancora t'amo.
D.
Pace, bocca amorosa !
D.
Ch 'io di te non posbo dimen-
H.
Non più guerra, o cara destra !
ticarmi.
D.
Non più sdegni, o cari sguar-
H.
Oibò, non Io dirò mai.
di! (1).
Si direbbe il dialogo di due innamorati asmatici ;,i
ma dialoghi simili erano allora di moda sulla scena,i
perchè nelle diverse sfumature dei sentimenti (d*odio,
di gelosia, di dispetto, d'amore, ecc.) che presenta-
vano, porgevano occasione ai comici di far sfoggio di
tutta la virtuosità della loro arte.
(1) Op. cit. p. 233.
- 203 -
Ancora un Dialogo e non più :
(D'Amore corrisposto concettoso d* invenzione di parole)
La Donna sopra la fame ; T Homo sopra la sete :
H. Gli occhi miei idropici d'amore vengono al fonte della vostra bel-
lezza per bere l'acqua di quelle grazie che possono ravvivarmi.
D. II mio cuore digiuno da tanto tempo della vostra leggiadria, come
avvoltoio affamato vola alla mensa apprestatagli da Amore per
saziar le brame.
H. Ma che acque sono queste che quanto più ne bevono i lumi as-
setati, tanto più sento avanzarmi la sete ?
D. Ma che cibo è questo che quanto più Io gusta l'occhio innamo-
rato tanto più la fame s'aumenta ?
H. Un uomo assetato mai si scizia con gli sguardi.
D. Un affamato desio non si nutrisce col solo mirare.
H. Aprite dal duro sasso della vostra indeficiente vena di corrispon-
denza, perchè l'assetato cervo del mio ferito cuore ritrovi la bra-
mata abbondanza.
D. Non fate voi che il Tantalo veda fugar quei frutti che ponno ri-
storare il mio famelico affetto.
H. lo vorrei nuovo Prometeo pascere l'acqua del vostro desiderio col
i mio cuore.
D. Io vorrei trasformarmi nuova Aretusa in fonte per togliervi affatto
l'amorosa sete.
H. E che manca a saziarmi ?
D. Trovare i mezzi opportuni con parlare a mio padre.
H. Precipiterò gì' indugi perchè si consoli il mio febbricitante cuore.
D. Fra tanto pensa, o caro...
H. In questo mentre, vorrei che avessi in pensiero...
D. Che il mio desiderio è camaleonte...
H. Che l'amor mio è un augel di paradiso...
(1) Op. cit. p. 226.
- 204 -
D. Che si pasce d'aria...
H. Che vive della rugiada della speranza.
D. Spero di saziare il mio desio.
H. Voglio in te dissetarmi, o fonte mio.
Fin'ora abbiamo seguito il Ferrucci per penetrsu^e
nei misteri del dietro-quinte della scena comica; ma
l'arte del ben porgere, o meglio, i precetti che costi-
tuivano il modo di recitare e di condursi sulla scena
non avevano aspettato, in Italia, il Ferrucci per esse-
re disciplinati e riuniti in appositi trattatelli. Quasi un
secolo e mezzo prima di lui, un comico ed impresario
di spettacoli teatrali, un ebreo mantovano (allora Man-
tova dettava leggi in siffatta materia), Leone de Somi,
scrisse appunto tre Dialoghi sull'arte di ben recitare
in un italiano di gran lunga superiore a quello bar-
baro e secentista per giunta del Ferrucci. Qualcuno
dei suoi precetti si direbbe quasi copiato da questo
ultimo. Eccone un saggio estratto dal terzo Dialogo :
" ... M' ingegno di averli (/ comici) prima di buona pronuntia , et
questo più che altro importa, et poi cerco che sieno d'aspetto rap-
presentante quello stato che hanno da imitare più perfettamente che
sia possibile, come sarebbe, che un innamorato sia bello, un soldato
membruto, un parassita grasso, un servo svelto, et così tutti. Pongo poi
gran cura alle voci di questi perchè io la trovo una delle grandi e
principali importanze, che vi sieno, né darei (potendo far di meno) la
parte di vecchio ad uno che avesse la voce fanciullesca, né una parte
da donna (o da donzella maxime) ad uno che avesse la voce grossa.
E se io, poniam caso, avessi a far recitare un'ombra in una tragedia,
cercherei una voce squillante... De le fatture dei comici non mi cu-
rerei poi tanto potendosi agevolmente supplire con l'arte ove manca la
natura, col tingere una barba, segnare una cicatrice, far un viso pai-
— 205 —
lido o giallo, ovvero farlo parer più vigoroso , et rubicondo , o più
bianco, o più bruno... Ma non mai però in alcun caso mi servirei di
maschere (1), né di barbe posticce, perchè impediscono troppo il re-
citare, et se la necessità m'astringesse far fare a uno sbarbato la parte
d'un vecchio, io li dipingerei il mento sì che paresse raso, con una ca-
pigliatura (parrucca) canuta sotto la berretta, li darei due tocchi di
pennello su le guance, et su fa fronte talché non solo lo farei parere
attempato, ma decrepito... "
" ... é da avvertirsi a dir forte, senza però alzar la voce in modo
da gridare, ma alzarla tanto temperatamente quanto basti a farsi udire
comodamente... "
" Come vizio pestilente poi, li proibisco lo affrettarsi, anzi li co-
strmgo, potendo, a recitar molto adagio, et dico molto, facendoli espri-
mere con tardività solo le ultime sillabe senza lasciarsi mancare la voce
come molti fanno, onde spesso lo spettatore perde con gran dispiacere
la conclusione de'.la sentenza...
" Circa poi agli altri precetti o modi di recitare... diremo, presup-
posto che il recitante abbia bona pronunzia, bona voce ed appropriata
persona, naturale od artificiata che sia, bisogna ch'egli s'ingegni di va-
llar gli atti secondo le varietà nelle occasioni, et imitare non solamente
li personaggio ch'egli rappresenta, ma anche lo stato in che quel tale
SI mostra d' essere in quell' ora... Non basta che uno faccia la parte
(por.iam caso) d'un avaro, il tener sempre la mano sulla scarsella, in
tentar spesso se li é caduta la chiave dello scrigno, ma bisogna anco
che sappia, occorrendo, imitar la smania ch'egli avrà, verbigrazia, in-
tendendo che il fìgliuol li abbia involato il grano... Et se farà la parte
d'un servo, in oceasione d'una subita allegrezza, saper spiccare a tempo
un salto garbato , in occasione di dolore, stracciare un fazzoletto coi
denti, in caso di disperóizione, tirar via i capelli... Et se farà la parte
d uno sciocco, il rispondere mal a proposito... bisogna che certi tempi
sappia anche fare di più lo scimunito, pigliar delle mosche, cercar le
(1) Si vede che il De Somi scriveva piuttosto pel teatro erudito,
premeditato, come scriveva il Ferrucci, che per la commedia a sog-
setto.
- 206 —
pulci... Et se farà la parte d'una serva, nell'uscir di casa, saper scuotersi
la gonnella lascivamente, se l'occisiorie lo comporta, ovvero mordersi
un dito per isdegno... i
" ... il recitante dee portar sempre la persona svelta, le membra
sciolte, et non annodate ed intiere. Dee fermare i piedi con appro-
priata maniera quando parla, et muoverli con leggiadria quando gli oc-
corre J servar col capo un certo moto naturale, che non paja ch'egl
l'abbia affissato al collo coi chiodi, et le braccia e le mani (quando
non facci bisogno il gestir con essi), si deeno lassar andare ove la na-
tura li inchina, e non far come molti, che volendo gestir fuor di pro-
posito par che non sappiano che se ne fare. Servando però semprt
negli atti maggiore o minor gravità secondo lo stato del personaggic
richiede, e così nnche nel suono delle parole ora arrogante, ora pla-
cido, or con timidezza ed or con ardire esplicare... ed osservando i
naturale di quelle qualità di persone che si rappresentano. Et sopra
tutto fuggire come la mala ventura un certo modo di recitare dirò pe-
dantesco... simile al ripetere che fanno nella scuola i fanciulli (1) ".
(l) Rasi, I Comici italiani, voi. I, pp. 106 e segg. Il Rasi affcr
ma d'aver riprodotto il Dialogo da un manoscritto della R. Universit
di Parma. Anche il comico Cecchini scrisse un discorso sull'Ari
Comica, rimasto inedito. V. Rasi, op. cit. voi. I. p. 624.
CAPITOLO SETTIMO
Il pubblico della Commedia dell'Arte.
Generalmente gli storici del teatro, ed anche quelli
^", d'un solo genere di spettacolo teatrale , dimenticano
il pubblico; essi fanno la storia della scena, ma non
quella della platea. O meglio , essi si ricordano an-
che di questa, ma solo per prendere nota degli ap-
plausi o dei fischi, o, per lo meno, degli sbadigli (il
successo di stima dei moderni) coi quali fu accolta
dall' " udienza " come direbbe il Ferrucci, la trage-
dia o la commedia che dinanzi alla stessa si recitava.
Di rado, e fugacemente, quasi non fosse materia de-
gna d'attirare l'attenzione d'uno storico, è stata presa
ad esame la psiche degli spettatori ; quasi che sif-
fatto esame fosse perfettamente inutile a chi volesse
entrare davvero nello spirito dello spettatore. All' in-
contro , si sa , che questo, quasi sempre, non riflette
che i sentimenti del pubblico, il quale, in tal modo,
diventa inconsapevolmente un collaboratore del com-
mediografo, mentre, alla sua volta, questo oscuro ed
ignorato collaboratore, spesso, non foggia l'animo suo
208 —
I
che su sentimenti o idee che emanano dalla scena.
Ed in vero , dal giorno in cui il primo comico col
volto tinto di nero , da un carro da fiera , recitò al
suo pubblico ragunaticcio e cencioso a quello in cui
i suoi successori , calzando il coturno o il socco , o
semplicemente un par di scarpette di vitello o di co-
pale, parlarono ad uno scelto uditorio riunito in una
sala più o meno riccamente decorata , si stabilì , fra
scena e platea, una doppia corrente di sentimenti ed
impressioni, una delle quali partendosi da questa in-
vesti e pervase la scena , mentre V altra staccandosi
dalla stessa scena avvolse e conquistò la platea. Scena
e platea si suggestionarono scambievolmente. Così,
per citare qualche esempio antico , se le commedie
d'Aristofane ritraggono la vita d'Atene dei tempi del
commediografo , non è infondato il credere che le
^Njihi abbiano formato una corrente ostile ai filosofi
con a capo Socrate, e i Cavalieri un'altra contro i
democratici. E per non fermarci che all' azione che i
la platea esercita sullo spettacolo, possiamo affermare
ch'essa è di sua natura talmente irresistibile, che av- |
volge ed anche trascina gli scrittori più resti a subir-
la , compresi coloro i quali si rifugiano con la loro
opera fra tempi ed uomini scomparsi. In questo caso,
codesti scrittori, col sussidio della storia e dell'archeo-
logia, credono in buona fede d'aver dato forma sulla
scena ad una vita diversa da quella da essi stessi ei
dal loro pubblico vissuta; ma non è che una illusione :
raschiate la vernice storica ed archeologica che copre)
la loro opera , e sotto troverete , più o meno vital-
— 209 —
mente riprodotti, gli uomini fra i quali vive l'autore,
con tutte le loro idee, con tutte le loro passioni.
Plauto , sebbene molte sue commedie non fossero
che riduzioni dal greco, e in parecchie espressamente
indicasse come luogo dell' azione città greche, è nel-
l'opera sua sempre romano : egli scriveva per la plebe
di Roma e 1' anima di questa trasfondeva nelle sue
commedie.
Il Racine, sebbene cavasse gli argomenti delle sue
tragedie dalla storia di Grecia e di Roma o dal Vec-
chio Testamento, è, nel suo teatro, prettamente fran-
cese ; così gli eroi e le eroine delle sue tragedie, a
malgrado dei loro nomi classici o biblici , hanno i
sentimenti delle gentildonne e dei gentiluomini della
corte di Luigi XIV. Anche 1' Alfieri, che volle coi
personaggi delle sue tragedie respirare V aria dei li-
beri fóri della vecchia Roma e delle libere agore
della vecchia Grecia, quando fa parlare i suoi odia-
tori di tiranni , non mette loro sulle labbra che pa-
role o frasi che gli spettatori già conoscevano per
averle lette nei libri del Voltaire, del Rousseau, del
D'Alembert e del Diderot. Più recentemente il tea-
tro storico di Vittor Hugo , a malgrado della esat-
tezza dei particolari della scena e degli abiti , non
rispecchia Tanima delle generazioni che videro Car-
lo V, Francesco I, Luigi XII, il cardinale Richelieu,
Cromwell, Maria Tudor, ma sibbene I' anima roman-
tica francese dei tempi di Ccirlo X e di Luigi Fi-
lippo. Ruy Blas, Hernani, Angelo, donna Sol, Ma-
rion de Lorme, non sono che romantici.
C^Cel Regno delle ^aichere 14
— 210
Air incontro , se noi analizzassimo certi atteggia-
menti d'animo, certe idee prevalenti in un dato tempo
presso una società, troveremmo la loro origine negli
spettacoli pubblici , in certe correnti spirituali ema-
nanti dalla scena. A rendere m.eno ostili le anime
nostre alla cortigiana e a credere alla sua redenzione
mediante l' amore , è valso più il dramma di Ales-
sandro Dumas figlio, la Signora dalle Camelie , che
il perdono di Gesù a Maddalena.
Laonde lo studio del pubblico, per valutare il va-
lore d'un teatro, per spiegarne il trionfo o la deca-
denza, s'impone: in questi casi, anzi, il suo studio è
una necessità.
Uno dei nostri pregiudizi meglio radicati è quello
di credere che la società italiana della metà del se-
colo XVI (fu allora che cominciò a fiorire la com-
media dell'arte) fosse una società completamente evo-
luta, una società in cui il sentimento dell' arte cam-
minasse di pari passo con quello morale, la genialità
spesso creatrice dei poeti, dei pittori e degli scultori
con la raffinatezza dei costumi e la mitezza delle
passioni. Abituati a studiare il Cinquecento attraverso
gli splendori della Corte di Leone X, di quelle mi-
nori dei duchi di Urbino , di Mantova , di Ferrara,
attraverso i poemi di Ludovico Ariosto e di Tor-
quato Tasso , le tele di Raffaello e di Tiziano , le
statue di Michelangelo , le oreficerie di Benvenuto
Cellini, la prosa del Machiavelli, del Castiglione, del
Guicciardini, del Bembo, del Caro, noi non ci siamo
fatta che un'idea assai incompleta di quei tempi. Ora
— 211 -
noi pensiamo che giammai società presentò, nella sua
vita, tanto contrasto di bene e di male, di luce e di
ombra , quanto quella del Cinquecento. Il grandioso
quadro in cui quest'ultimo ha scritto la sua storia, si
direbbe quasi dipinto da due pittori di stile affatto
diverso ; da un lato Paolo Veronese con tutta la ma-
gnificenza del suo colorito, dall'altro il Rembrandt con
tutto il contrasto dei suoi chiaroscuri. C'è luce e te-
nebre insieme ; Cesare Borgia sta a fianco di Raf-
faello , che ne fa il ritratto ; Michelangelo , austero,
accanto a Pietro Aretino , scrittore turpe ; si creano
nuovi santi, ma si onorano anche cortigiane.
Difatti, Vittoria Colonna, donna d'altissimo ingegno,
ma pia , non ebbe meno onoranze d' Imperia e di
Tullia d'Aragona, prostitute , che per via d' infamia,
acquistarono celebrità.
Di codesto quadro, noi non vediamo che il primo
lato, quello pieno di luce ; Y altro , lo trascuriamo
completamente. E appunto in quest' ultimo lato che
noi possiamo trovare la ragione d' essere , la ragione
dei subiti trionfi d'uno spettacolo teatrale qual'era la
commedia dell'arte, che se muoveva 1* ilarità del pub-
blico, era spesso, se non quasi sempre, triviale, gros-
solano.
In verità, il Cinquecento conservava in se parec-
chi di quei germi di grossolanità , di rozzezza , che
aveva ereditato dal Medio Evo. Sotto una brillante
superfìcie conservava ancora gusti ignobili , una mo-
ralità molto rilassata , passioni terribili. C'era ancora
della barbarie in quella società. Accanto ai grandi
— 212 —
artisti , ai grandi poeti , ai filosofi imbevuti di filoso-
fia greca , e' erano dei grandi malfattori, non coperti
di cenci, sperduti fra la plebe delle grandi città o
randagi per le campagne, ma indossanti abiti di seta
e di velluto, tutta gente temuta ed anche rispettata
ed adulata da poeti, da artisti, da una folla, che, alla
sua volta, vestiva anche di seta e di velluto. S'ingan-
nerebbe, per esempio, chi ritenesse 1' alta società di
quei tempi tutta modellata sul Cortegiano di Baldas-
sarre Castiglione. Questo libro che pur acquistò tanta
fama non appena vide la luce (nel 1528, a Vene-
zia) , più che a rappresentare il gentiluomo italiano
dei tempi dell'autore, si direbbe che fosse scritto piut-
tosto per farne la satira. Il " cortegiano " italiano di
quei tempi era assai diverso da quello che il Casti-
glione volle dipingere nel suo libro. Per altro, l'au-
tore stesso comprendeva che più che un gentiluomo
reale, vivente, non creava che un gentiluomo ideale.
Egli voleva che questo suo perfetto " cortegiano "
fosse nato nobile e di generosa famiglia "perchè molta
men si disdice ad un ignobile mancar di far opera-
zioni virtuose, che ad un nobile , il quale se desvia
dal cammino dei suoi antecessori, macula il nome della
famiglia"; voleva che da natura avesse "non solamente
lo ingegno, e bella forma di persona e di volto, ma
anche una certa grazia, e, come si dice , un sangue f
che lo faccia a primo aspetto a chiunque lo vede grato
ed amabile ", ma " non così molle e f eminile come
si sforzano d'aver molti che non solamente si crespano !
i capelli e spelano le ciglia, ma si strisciano con tuttii
— 213 —
•quei modi che si faccian le più lascive e disoneste
femine del mondo "; che conoscesse tutti gli esercizi
elei corpo, compresa la lotta, " perchè questa accom-
pagna molto tutte l'arme da piedi... " Ed aggiungeva:
^ Conveniente è ancor saper nuotare, saltare, correre,
gittar pietre... perchè... s' acquista bona estimazione,
massimamente nella moltitudine... " Doveva il perfetto
cortegiano ", inoltre, possedere in tutti i suoi atti, come
in tutta la persona, la " grazia ", la quale non deve
essere affettata, ma naturale, e pensando alle doti della
mente , voleva il Castiglione che il suo gentiluomo
parlasse bene, in buono italiano, che conoscesse il la-
tino e il greco, la musica e il disegno, senza che per
questo cessasse la sua principale occupazione, quella,
cioè, delle armi. Infine occorreva che questo suo ca-
valiere ideale fosse " come si dice, omo da bene in-
tiero che in questo si comprende la prudenzia, bontà,
fortezza e temperanzia d'animo, e tutte le altre con-
dizioni che a così onorato nome si convengono ( 1 ) " .
Ma codesto ritratto d'un cavaliere perfetto non era, co-
me abbiamo detto, che quello d'un cavaliere ideale. La
realtà era diversa, anche perchè delle doti richieste dal
Castiglione per formare un perfetto cavaliere, talune s'a-
dottavano a meraviglia anche ad un cattivo cavaliere,
anzi a tutti quei capitani di ventura che infestavano
1 Italia, e parecchie altre erano così vaghe , come
r " omo da bene ed intiero " , che con un pò di li-
bertà di fantasia, si sarebbero potute applicare anche
(I) // Cortegiano; Lib. I.
— 214 -
a Cesare Borgia. Un altro libro, all'incontro, il Pr/n-
cipe , il cui autore , Niccolò Machiavelli , morì un
anno prima (1527) che il Cortegiano vedesse la luce,
sebbene non sia che il manuale d'un uomo di Stato,
e quindi essenzialmente politico, pure occupandosi del
modo di acquistare e mantenere gli Stati , ci rivela
la vera indole di quella società , anzi di quella so-
cietà in cui il perfetto gentiluomo ideato dal Casti-
glione avrebbe dovuto fare sfoggio dalle sue belle
qualità: e codesta società ci si mostra inquinata di
tutte le più ributtanti passioni erompenti in inaudite
scelleratezze, che la politica battezzava come neces-
sità o ragione di Stato. Non bisogna dimenticare che
erano i tempi di Alessandro VI , di Cesare Borgia,
di Ludovico il Moro ed anche di qualcuno di quei
duchi d'Urbino nel cui castello ricco di meraviglie
artistiche, ospitale ricovero di filosofi , di eruditi , di
poeti e d' artisti, il Castiglione immaginò che si riu-
nissero insieme alla duchessa Eleonora Gonzaga, Ga-
spar Pallavicino, Cesare Gonzaga, fra' Serafino Aide-
rigo, Ottaviano Fregoso, Giuliano de' Medici, Pietro
Bembo, Lodovico da Canossa, Lodovico Pio, l'Unico
Aretino ed altri cavalieri ed uomini di lettere per ra-
gionare intorno alle qualità necessarie per formare un
perfetto cortegiano. Sebbene nella seconda metà del
Cinquecento, e più propriamente verso la fine, l'anima
italiana avesse subito una grave crisi spogliandosi, in
seguito alla reazione cattolica o contro-riforma avve-
nuta per opera del Concilio di Trento, di molte sco-
rie, e r arte (e questa intesa nel senso più largo) si
— 215 -
fosse informata al nuovo indirizzo , pure la società ,
nelle sue linee generali, rimase la stessa con molta
bacchettoneria di più per giunta.
La gentilezza dei modi, la mitezza d'animo, lo spi-
rito di tolleranza, l'odio della violenza e della prepo-
tenza, l'orrore pel sangue, tutte queste virtù delle so-
cietà veramente civili, non formavano allora che il pa-
trimonio di pochi solitari. I delitti, anche i più atroci,
non si consumavano dalle plebi delle città e delle cam-
pagne; n'era inquinata l'alta società. Nell'anima italiana
ribollivano ancora i germi della vita, tutta prepotenza,
tutta barbarie , del Medio Evo. Certamente non è
questo il luogo di scrivere la storia della vita italia-
na di quei tempi ; ma un breve saggio d'analisi della
stessa vita , o meglio , della psiche collettiva italiana
di quei tempi, ch'erano ancora quelli dei grandi poeti,
dei grandi prosatori, dei grandi artisti , e pur neces-
sario per conoscere, e non superficialmente, il pubblico
che assisteva alle rappresentazioni della commedia a
soggetto.
Diremo dunque che codesta psiche , compresa
quella delle classi più elevate , delle classi che oggi
si chiamerebbero dirigenti , presentava delle sorpren-
denti deficienze , delle profonde lacune. Mentre si
compiaceva della correttezza del disegno d'una tela
o del felice sviluppo delle linee d'un edificio, o della
freschezza d'immagini d'un sonetto o d'una canzone,
o andava in estasi alla recita d' un' azione modellata
sullo stile di monsignor Giovanni della Casa o di
Pietro Bembo , conservava tutta la violenza propria
- 216
della barbarie dalla quale era di recente uscita. Senza
parlare del divino , del maraviglioso Pietro Aretino,
il più laido di tutti i più laidi scrittori del cinque-
cento, che ride a sentir raccontare certe oscene avven-
ture delle proprie sorelle, già, uno degli artisti più
geniali, Benvenuto Cellini, che aveva dato splendida
prova della vigoria del suo ingegno nel Perseo e della
fine squisita raffinatezza del suo gusto in minuscoli
capo-lavori d'oreficeria, è un delinquente. Egli non
ha senso morale; tira colpi di spada o di pistola, è ac-
cusato di pederastia. Monsignor della Casa , autore
d'un famoso trattato di buone usanze, è anche un laido
narratore di cose oscene, ne men disonesto narratore
d'avventure non caste è un altro vescovo, Matteo Ban-
dello. Anche il Castiglione, che sognava un cavalier
perfetto, nelle prime redazioni del suo Cortegiano
introdusse cose che avrebbero fatto arrossire non il
suo immaginario cavaliere, ma il suo valletto. L' im-
moralità , anzi , non faceva allora arrossire ne genti-
luomini, ne dame. Anche coloro che non commette-
vano azioni turpi, se ne sentivano parlare, rimanevano
indifferenti , quando loro non era motivo di riso : il
narrare cose disoneste , brutte e sconcie avventure
d'alcova, anche per le persone più gravi , era argo-
mento di conversazione lecita, quando non serviva di
riposo ad una seria occupazione. Il Machiavelli, che
scrisse i T)iscorsi , le Storie , e il Principe , scrisse
pure la non casta Mandragora. Le dame più colte,
le principesse più illustri, leggevano, e non di nascosto,
novelle e poemi licenziosi; nessuno riteneva che simili
— 217 —
letture offendessero la moralità o il decoro d'una dama
o, peggio, che fossero segno di propria scostumatezza.
E la licenziosità non era velata, sottintesa ; lo scrittore
le cose sue, anche le più triviali, le spiattellava come
gli venivan giù dalla penna, coi loro nomi, sicuro che
non avrebbero fatto arrossire ne cavalieri , ne dame.
11 Bandello , in una sua novella , narra d' un curioso
appuntamento intimo che una donna maritata aveva
dato al suo amante: il luogo dello stesso, oggi, dalle
classi elavate, si chiamerebbe con una doppia parola
inglese, ma allora si chiamava con un nome che com-
prendeva anche la plebe, perchè, anche essa, non ne
adoperava uno diverso. All'ora convenuta, la donna,
che già si trovava a letto col marito , chiede a co-
stui il permesso di recarsi in quel certo posto per
soddisfare una sua necessità corporale ; e il marito,
che nulla sa degli intrighi della moglie, l' accorda.
Tosto egli udì dei rumori, che certamente non ave-
vano nulla di comune con la necessità corporale ac-
cusata dalla moglie ; ma il buon' uomo riteneva che
fossero una conseguenza di quella tale necessità. Tutto
ciò è narrato senza circonlocuzioni ; una vera trivia-
lità, non è vero ? Ma nessuno ne restava stomacato.
Vittoria Colonna, marchesana di Pescara, poetessa il-
lustre, donna di costumi esemplari, lesse , prima che
fosse dato alle stampe, il Cortegiano del Castiglione,
e, certamente, in una versione non ancora dal suo
autore espurgata di parecchie laidezze: ebbene, l'il-
lustre e pia dama trovò l'opera perfetta e non ebbe
nessuna parola per protestare contro la licenziosità
— 218 - 1
del linguaggio. Così portavano i tempi: non solo fra
i gentiluomini non erano rari coloro che sapevano il
latino e il greco, ma anche parecchie donne posse-
devano in sommo grado la coltura classica; se non che,
questa non era arrivata a far detestare tanto dagli uni
quanto dalle altre la trivialità e V immoralità.
Come dicemmo, a metà inoltrata del Cinquecento
la reazione cattolica frenò molti abusi , smussò molti
caratteri angolosi; certa licenziosità di linguaggio scom-
parve o scemò dai libri già sottoposti a censura. Il
nuovo ordine religioso , la compagnia di Gesù, s'era
costituita in gendarme dello spirito pubblico e privato.
Quella specie di quiete in cui s'adagiò l'Italia dopo
la prevalenza assoluta della Spagna nelle terre e nelle
faccende d'Italia, imbavagliò molte audacie, rese im-
possibili certe ribellioni, educò al giogo , tanto stra-
niero quanto interno, le plebi e con queste anche le
classi superiori. Ma la vecchia anima italiana, attra-
verso quella quiete che qualcuno chiamò da cimitero,
continuò a pulsare, sebbene in un ritmo meno sensi-
bile. La delinquenza, a base barbarica, di violenza,
continuò ad infestare in modo spaventevole la intiera
penisola. Al Nord non si stava, sotto questo aspetto,
meglio che al Centro; ne al Sud peggio del Nord e
del Centro. Erompeva il delitto anche spaventevol-
mente dalle classi superiori, dirigenti. Quella società,
che le vecchie violenze ora copriva con un velo d'ipo-
crisia, assai di frequente era funestata da delitti ter-
ribili. Tra la fine del Cinquecento e il principio del
Seicento, due nobili famiglie romane, quella dei Cenci
- 219 ~
e l'altra dei Santa Croce, vedono parecchi dei loro com-
ponenti salire il patibolo per parricidio; sempre a Roma,
sede del papato, e quasi nello stesso tempo, un Troilo
Savelli , nobile , sale il patibolo per assassinio ; due
fratelli Massimi (ed anche questi nobili) uccidono la
matrigna, e uno di loro, il minore , avvelena il pri-
mogenito capo di casa; nel 1 383, perchè i birri ave-
vano arrestato presso gli Orsini, in luogo d'asilo, un
bandito, i vassalli della potente famiglia patrizia s'ar-
mano, danno la caccia ai birri, e ne ammazzano pa-
recchi , anche dentro il palazzo del papa. Codesti
Orsini, che ebbero tanta parte coi Colonna nella storia
di Roma medievale, anche cessata la barbarie, con-
tinuarono ad essere qualche cosa fra il masnadiero e
l'assassino: nel 1336, Vulpio Orsini, signore di Li-
cenza, strozza la propria moglie Porzia; Paolo Orsini,
scoperta rea la moglie Isabella, figlia di Cosimo dei
Medici, tra gli abbracci coniugali , la strangola ; lo
stesso Paolo innamoratosi di Vittoria Accoramboni
moglie d'un Peretti nipote di Sisto V, fa assassinare
il marito per sposarla; e difatti la sposò , ma morto
lui, la vedova, a Padova, per cupidigia, è strangolata
da un altro Orsini. Ne minori esempi di delinquenza
offre la famiglia rivale, quella dei Colonna : Pompeo
Colonna uccide una propria parente, Livia Colonna;
un altro, Sciarra Colonna, nel 1 339, strangolò Isabella
duchessa di Paliano ; sempre nelle famiglie patrizie
di Roma, Giovanni Savelli, nel 1362, uccide la pro-
pria moglie ; nel 1 390 una Massimo è uccisa dal
proprio figlio. Altrove, discendenti d' illustri famiglie
— 220 —
si sporcano le mani di sangue o si buttano alla cam-
pagna facendo i masnadieri all'ingrande non potendo
fare, perchè cambiati i tempi , i capitani di ventura.
A Firenze, Iacopo Salviati ha per ganza una popo-
lana, una Canacci; la moglie. Veronica Cybo, guada-
gna col denaro un cOstei fìghastro, il quale uccide la
matrigna e ne porta la testa alla moglie gelosa ; a
Ravenna, una fanciulla della nobile famiglia dei Ra-
sponi è violata da un tale, che poi sposò; ma il fra-
tello di lei, per vendicare il nome della famiglia, rac-
coglie cento banditi — una merce che nel mercato
della delinquenza d'allora non faceva difetto — assalta
e scala le mura della città, aggredisce la casa degli
sposi che trucida, e con loro un fratello, una sorella,
il padre e i servi dello sposo: poi , esula. Alfonso
Piccolomini, duca di Montemarciano, assolda banditi
e diventa il terrore dell* Umbria; assalito , ripiega in
Toscana, e per mezzo del granduca , come se fosse
una potenza, patteggia la pace col papa, Gregorio XIII:
venuto a Roma per V assoluzione, presenta tal lista
d'assassini, di stupri, di rubamenti, d'incendi, che il
pontefice ne inorridisce. Di codesti nobili, fattisi ma-i,
snadieri, qui potremmo fare molti e molti nomi, non
escluso quello di quel signorotto lombardo che al
Manzoni servì per creare il personaggio dell' Innomi-
nato; ma tale esposizione ci trarrebbe assai lungi dal
nostro argomento. Solo diremo che in Lombardia le
famose grida contro i banditi riboccavano di nomi
appartenenti a illustri famighe : i Martinenghi di Val-
sesia, i Visconti di Bregnano, i Benzoni di Crema, i
- 221 -
Vimercati, i Balbiano di Belgiojoso, un marchese Ma-
laspina, i conti di Paico, i Torelli, i Thiene, i Lam-
pugnani ed altri : tutto o quasi tutto il patriziato aveva
sulla strada maestra i suoi rappresentanti. Altri nobili,
senza darsi alla campagna, commettevano gravi delitti
in città, quasi sempre rimanendo impuniti. Spesso co-
desti reati assumevano forma singolare per non dire
addirittura pazzesca. A Roma, un giorno, un Caffa-
relli con altri gentiluomini , si pone a rotolare dalla
lunga scalinata d'Ara Coeli, una botte piena di sassi,
la quale, scendendo giù a precipizio, ammazza pa-
recchi popolani, che ivi stavano a dormire. S'ammaz-
zava o si concorreva negli ammazzamenti per ispirito
di solidarietà di classe: un Vitelli, sempre a Roma,
mentre rincasa, è assalito da sette persone ed ucciso;
nello stesso tempo, circa altri trenta individui , tutti
armati, quasi si trattasse d'uno spettacolo, presenziano
la strage. Il brigantaggio, intanto, assumeva propor-
zioni epiche. Vi furono briganti che la leggenda in-
nalzò a dignità d'eroi, eroi da strada maestra, s'intende,
ma eroi. Marco Sciarra, a capo di seicento masnadieri,
regnò indisturbato , per sette anni , fra la campagna
romana e gli Abruzzi: un giorno gli capitò fra i piedi
un viaggiatore, che rilasciò subito, e con molte scuse
pel caso toccatogli e molte frasi landative pel suo in-
gegno divino, quando seppe che quel viaggiatore era,
nientemeno, Torquato Tasso, 1' autore della Gerusa-
lemme Liberata, eh' egli, l' intellettuale bandito , leg-
geva nei suoi momenti d' ozio. Alla morte di Gre-
gorio XIII, i banditi s'impossessarono quasi di Roma;
— 222 —
svaligiarono la chiesa di Santa Maria del Popolo e
quella della Minerva ; furono ugualmente svaligiate
cinque case di cardinali; alcuni nobili con bande di
malfattori correvano per la città rubando, stuprando,
assassinando. Alla loro volta, i governatori, i vice-de-
legati ne approfittarono per scarcerare i delinquenti,
vendere la giustizia, e spogliare i cittadini. Sotto il se-
vero governo di Sisto V, un prete Quercia si dà alla
campagna e diventa padrone della Comarca; fra l'altro
deve render conto di quattordici omicidi, si pente ed
è assolto del terribile pontefice. Ma subito uccide
due suoi amici, fugge, ma Sisto gli mette una grossa
taglia, è ucciso, se ne porta la testa al papa, il quale
la fa esporre a Ponte Sant'Angelo (1). A Napoli,
verso il 1 660, un abate , Cesare Rinaldi , uccide il
duca di San Paolo, scappa, si mette alla testa d'una
banda di malfattori, svaligia procacci ed impedisce il
trasporto della neve in città non che quello del grano
per ottenere il perdono. I banditi, per altro, non de-
stavano quell'orrore che poi destarono e che tuttavia
destano : in caso di bisogno ne assoldavano il papa, il
granduca di Toscana, i viceré spagnuoli per farsi danno
fra loro. Il Cantù (2) trovò un bando che in una sola
volta ne poneva fuori legge milletrecento. Un curioso
gruppo di delitti commessi in occasione di rappre-
(') Per la delinquenza italiana dei secoli XVI e XVIII, si veda
C. Cantù nella Storia degli italiani e nel suo commento ai Promessi
Sposi.
(2) Nel commento ai Promessi Sposi, Gap, 1.
- 223 -
sentazioni teatrali presenta Corrado Ricci nel suo li-
bro: Storia dei teatri di Bologna nei secoli XVII
e XVIII (1): per aver ricevuto un urto in teatro,
Aurelio Ercolani sfida il méirchese Angelelli e lo uc-
cide (p. 37); un comico litiga con uno spettatore che
vuol godersi di frodo lo spettacolo, ma , nella notte,
il povero commediante e aggredito ed ha tagliato la
faccia (p. 25); nel 1604 una certa Vittoria è ammaz-
zata dal fratello perchè, di nascosto, andava a teatro
con due gentiluomini (p. 21); nel 1667, nel palco
d'un certo Pellegrini, la corte sequestrò dieci libbre
di polvere da schioppo con canne cariche a palla
oltre una scritta con minaccie e si ritenne che tutta
quella roba fosse stata posta lì per far saltare in ciria
il bargello, che aveva il palco sotto quello del Pel-
legrini (p. 37). Altri delitti narra il Ricci , il quale
esclama : " Si potrebbe chiedere se questa è una
storia del vecchio teatro o non piuttosto una storia di
delitti e di sciagure. Le cronache bolognesi del sei-
cento non presentano in proposito che tali aneddoti"
(pp. 22-23).
Anche la vita dei dotti, dei letterati e degli artisti
fu contaminata da delitti : il poeta Chiabrera uccise
un gentiluomo ; lo storico Davila un altro ; come a
tutti è noto, Torquato Tasso con la stessa facilità con
che scriveva versi tirava colpi di spada; un altro poeta,
il Murtola, s'accapiglia col Marini e corre fra loro
qualche colpo di fucile; un poeta siciliano, Giuseppe
(I) Bologna, Successori Monti editori. 1888.
— 224 —
Artale, per la sua vita delittuosa, è detto il cavalier
sanguignario ; un Panigarola, divenuto in seguito pre-
dicatore famoso, trovandosi a studiare all'università di
Pavia , volle scrivere la sua vita, e di se , studente,
narrò cose da malfattore provetto; un Domenico Moni,
che fu certosino, filosofo, giureconsulto ed infine pit-
tore d'una certa rinomanza a Ferrara, uccise un abate
perchè inavvertitamente, in istrada, l'aveva urtato. Ma
anche ingegni insigni furono vittime dell'altrui malva-
gità. Paolo Sarpi teologo e storico, e preso a colpi di
stile, e si disse, per mandato della Curia Romana;
Tra] ano Boccalini è battuto a morte con sacchetti di
sabbia perchè l'azione delittuosa non lasci segni die-
tro di sé; Alessandro Stradella , insigne compositore
di musica, napoletano, fu pugnalato a Torino, e poi
ucciso a Genova ; Elisabetta Sirani , pittrice, allieva
di Guido, fu avvelenata.
Con tale spirito sovversivo e violento, con tali cor-
renti di delinquenza in alto ed in basso , i costumi
anche senza essere qualche volta in aperto contrasto
col codice penale, non potevano esser che grossolani,
sebbene pochi solitari con le loro concezioni filosofiche,
letterarie ed artistiche la grossolanità stessa caprissero
con la luce che si sprigionava dalle loro opere. Si ri-
deva allora, e molto; ma quel riso era volgare, come
volgari, triviali, se non scurrili, erano le facezie o le
burle che lo stesso Castiglione riteneva che potessero
prender posto in un cenacolo principesco o intellet-
tuale. La frase fine, leggermente mordente, l'allusione
sapiente, riguardosa, il fatterello di cronaca scandalosa
— 225 -
prudentemente velato , erano cose allora sconosciute.
Misser Giovanni Boccaccio con tutta la sua salacità
di novellatore del Trecento continuava a regnare e
ad imporsi.
Ne in Francia, dove la commedia delF arte, tutta
cosa italiana, mise subito radici profonde , la società
era più evoluta della italiana. Questa a paragone di
quella era più raffinata ; essa era tutta pervesa dai
nuovi sentimenti che la Rinascenza, assai prima che
in Francia, aveva fatto germogliare negli animi. 1 fran-
cesi erano più soldati di noi nell'animo e nei modi;
il che significava che le forme grossolane come i sen-
timenti triviali, il linguaggio scurrile dovevano abbon-
dare più da loro che da noi. E tali appunto erano
apparsi i francesi sin dalla loro infausta calata in
Italia con Carlo Vili. Uno dei loro più grandi scrit-
tori, sagace ed intelligente osservatore, il Montaigne,
Io riconosceva, sebbene indirettamente , quando scri-
veva: " Quand notre Roy Chcirles Vili, quasi sans
tirer l'épée du fourreau se vit maìstre du royaume de
Naples , et d' une bonne partie de la Toscane , les
seigneurs de la suite attribuérent cette inespérée fa-
cilité de conqueste à ce que les prences et la no-
blesse d'Italie s'amusaient plus à se rendre ingénieux
et s^avant que vigoreux et guerriers (I) ". E il Ca-
stiglione, per quanto riguardava gli italiani, ribadiva:
0) Essais; liv. I, eh. 24. Si consulti pure Burckhandt. {La Ci-
viltà nel T^inascimento ; Firenze, Sansoni, 1 899) per ciò che riguarda
la morale e i costumi del secolo XV e di parte del secolo XVI.
5V"e/ Regno delle ^^aschere. 15
- 226 - i
" Non vorrei già che qualche avversario mi adducesse
gH effetti contrari per rifiutar la mia opinione {cioè, la
necessità che un perfetto cavaliere fosse molto versato
nelle lettere e nelle arti), allegandomi che gli italiani
col lor saper lettere aver mostrato poco valor nel-
l'arme da un tempo in qua: il che pur troppo è più
che vero ; ma certo ben si porla dir, la colpa d'alcuni
pochi aver dato, oltre al grave danno, perpetuo biasmo
a tutti gli altri ; e la vera causa delle nostre ruine e
della virtù prostrata, se non morta, negli animi nostri,
esser da quelli proceduta ; ma assai più a noi saria
vergognoso il pubblicarla, che ai Francesi il non saper
lettere (1) ".
Con Francesco 1, che amò le arti , e con queste
gli artisti italiani, la Francia cominciò a dirozzarsi; ma
lenti ne furono i progressi se anche sotto Enrico II
i gentiluomini della corte si asciugavano ancora il naso
sulla manica dei loro vestiti di seta o di velluto. Fu
assai più tardi, e non prima del regno di Luigi XIV,
che la rozzezza francese si cambiò in quella genti-
lezza d'animo, in quella cortesia di modi di cui la
stessa Francia fu maestra e modello a tutta l'Europa.
Ma durante quel travagliato periodo della storia dei
nostri vicini d'oltre Varo, che va dalla strage di san
Bartolommeo ai torbidi della Lega e da questa al-
l'uccisione di Enrico IV e alla Fronda (1 572-1648),
la società francese in genere e la Corte in particolare
erano ancora grossolane. In quest'ultima, soprattutto, dove
(1) // CorUgiano, !ib. I.
— 227 —
gli avventurieri italiani della peggior specie rappre-
sentavano le parti più losche e criminose , dove le
principesse fiorentine con l'amore per la poesia , per
le belle tele, per le belle statue, per l'antichità clas-
sica avevano anche portato l'arte sapiente degli in-
trighi, la politica del Principe del Machiavelli e la mi-
steriosa preparazione di veleni sottili , la commedia
dell'arte con le sue grosse facezie, col suo osceno
linguaggio, coi suoi lazzi spesso d' una trivialità sto-
machevole (ricordiamo quello che consisteva nell' ac-
chiappare, a volo, una mosca, e trangugiarla come se
fosse un confetto), non poteva avere che accoglienza
amica e festosa. I sovrani della Francia di quel tempo
non solo applaudivano gli artisti venuti dall'Italia, ma
non sdegnavano d'entrare con loro in una certa intima
familiarità. Ne questi, nella libertà del loro costume,
si preoccupavano di trattarli in modo più riguardoso
che non facessero coi re e con le regine del palco-
scenico. Tristano Martinelli , il famoso Arlecchino,
scrivendo alla regina Maria de' Medici (moglie di
Enrico IV) la chiamava buffonescamente : Mia Co-
mare ; ne alla regina sembrava irrispettoso quello
scherzo, giacche rispondeva al comico suo compatriotta
chiamandolo, alla sua volta: Jlrlecchino mio compare(\).
Tallemant des Réaux descrive la visita che lo stesso
Martinelli fece ad Enrico IV: " Harlequin et sa troupe
vinrent à Paris en ce tems là et quand il alla saluer
le Roy , il prit si bien son tems , car il estait fort
(1) Baschet, op. cit. p. 194.
— 228 —
dispos, que sa Majestè s'estant leve de son siége, il
s' en empara, et comme si le Roy eust été Harlequin:
Eh bien, Harlequin, luy dit-il, vous éstes venu icy
avec votre troupe pour me divertir , j' en suis bien
aise, je vous promets de vous protéger, de vous don-
ner tant de pension etc. etc. Le Roy ne Tosa desdire
de rien, mais luy dist: Holà, il y assés longstems que
vous faictes mon personage; lassez le moy faire à ceste
heure (1). " Ne le burle, Arlecchino, le faceva sol-
tanto, in iscena, ai suoi compagni ; le faceva anche
al re. Un giorno egli fece ad Enrico IV omaggio
d*una sua opera intitolata: Compositions de Rhétorique
scritte da Monsieur Harlequin, comicorum de Civitatis
NovalensiSy corregidor de la bona langua francese et
latina condufier ae comédiens, connestahle de messieurs
les badauxs de Paris, capital ennemi de tous les la-
quais... " II volume era di settanta pagine, di formato
elegante, in quarto, delle quali cinquantanove bianche
inquadrate in doppi filetti neri. La parte stampata
consisteva nel titolo dell'opera e nella seguente de-
dica : " Au magnanime Mgr. Mr Henry de Bourbon,
premier bourgeois de Paris, chef de tous les Messieurs
de Lyon, amirai de la mer de Marseilles, maistre de
la moitié du pont d'Avignon et bon ami du maistre
de Tautre moitié, depensier liberal de cournades, ter-
reur du Savoyard, épavent des Espagnols, secrétaire
secret du plus secret gabinet de madame Maria de*
Medici, grand Tresorier des comédiens italiens et
(1) Baschet, op. cit. p. 199.
— 229 —
prince plus que tout autre digne d* estre engravé en
medaille. " Spirito, come si vede, abbastanza grosso-
lano, ed anche licenzioso, uguale a quello dei lazzi
spacciati sulla scena. Eppure, quel secrétaire secret
du plus secret gahinet de M. Maria de' Medici, se
non deve aver fatto ridere quest' ultima , deve aver
divertito abbastanza il marito ! Ma nella stessa Francia
qualche spirito eletto già trovava abbastanza scurrile
codesto spirito. 11 Malherbe, uno dei poeti della Pleiade
francese, non divideva l'entusiasmo dei suoi compa-
triotti pei comici italiani. Già i comici spagnuoli non
lo divertivano; quanto agli italiani, ritornava a casa,
dopo una recita, col dolor di capo. Togliamo dal suo
diario i seguenti appunti :
" 6 sept. 1613. Les coméndiens italiens sont arrivés; nardi ils joue-
ront au Louvre; l'on n* en dit rien à personne, à fin que ce il soit en
petite compagnie à cause du lieu, qui est petit et que la saison estant
chaude Leurs Majestéz pourroient estre incomodez... ".
" Arlequin est certaiment bien different de ce qu' il a été, et aussi
Petrolino: il premier a cinquante six ans et ledernier quatre-cinq et sept;
ce ne sont plus àgés propries du théàtre... Ils jouent la comédie qu' ils
appellont Dui Simili qu' est les Menecmi de Plaute. le ne sais se les
sauces ètaient mauvaises en mon goùt corrompu, mais j' en sortis sans
autre contentement que l'honneur que la Reine me fit de vouloir que
j' y futz (1) ".
Ma non tutto il pubblico francese , che assisteva
alle rappresentazioni dei comici italiani , era del pa-
rere del Malherbe. Gli uomini di spada , gli stessi
(I) Baschet, op. cit. pp. 242-44.
— 230 —
gentiluomini della Corte , non esclusi i prelati , non
avevano che un gusto grossolano , come grossolane
erano le loro maniere. Parecchi di loro erano anche
violenti , conservavano sotto una certa vernice , che
pretendeva d'essere pura Rinascenza, tutte le asperità,
tutti i cattivi gusti di personaggi medievali. Ad ogni
momento codesta rozzezza si rivelava in incidenti di-
sgustosi, talvolta anche di sangue. Trajano Guiscardi,
ministro del duca di Mantova presso la corte di Fran-
cia, in un dispaccio al suo signore, narrava che una
sera, alla porta del teatro (teatro di Corte !), si pre-
sentò un gentiluomo, s'intende, francese: uno dei co-
mici italiani, Battistino, l'invitò a presentare il biglietto
d'ingresso, ma l'altro come un teppista o un mafioso
dei nostri giorni, volendosi godere lo spettacolo senza
metter fuori il becco d'un quattrino, gli rispose con
uno schiaffo. Il comico, di buona razza, afferrò però
collo il gentiluomo; quindi tutti e due si picchiarono
ben bene rotolandosi sulla terra; infine, furono divisi.
Battistino tornò a chiedere il biglietto d'ingresso, ma
l'altro, testardo come un gentiluomo d'allora, rispose:
" Te l'ho dato insieme allo schiaffo ! " Ma Battistino
(il suo casato era Austoni) non sapeva soltanto far
ridere dal palcoscenico le Loro Maestà il re e la
regina di Francia e di Navarra, sapeva anche menar
dei buoni pugni, e ne appioppò uno, e poderoso, sul
naso del gentiluomo. Questi, per un momento, restò
disorientato, il sangue gli veniva giù dalle narici spor-
candogli i merletti e il velluto del giustamore , ma
tosto si rimise e cavò fuori la spada: altri gentiluo-
— 231 —
mini, presenti, la cavarono pure. Battistino non ne ebbe
sgomento ; aiutato da Pedrolino , da Frittellino , da
Arlecchino, da Mezzettino, tutto il sesso forte della
compagnia , tenne per un pezzo fronte a tutti quei
gentiluomini; poi, sopraffatto da questi, scappò. Al-
cuni giorni dopo, i gentiluomini andarono, di sera, ad
aggredirlo in casa; ma Battistino si asserragliò nella
sua stanza, indi, dalla finestra, si mise a tirare schiop-
pettate sugli aggressori. Fortunatamente non ci furono
ne morti ne feriti, e il re accomodò ogni cosa (I).
Soltanto in siffatta società di gentiluomini maneschi e
soverchiatori , di gusti e maniere che rasentavavano
la piazza e la stalla, poteva, per esempio, accadere il
fatto seguente. Correva il 1610, ed era ambasciatore
di Venezia in Francia Antonio Foscarini , il quale
avendo assistito a San Dionigi insieme al nunzio pon-
tifìcio airincoronazione di Maria de' Medici, presentò
i suoi ossequi a don Pietro di Toledo ambasciatore
di Spagna. Se non che, a quei tempi , sembra che
gli ambasciatori di potenze straniere accreditati presso
la stessa Corte potessero esercitare il loro ufficio senza
conoscersi l'un V altro. 11 Toledo , che appunto non
conosceva il Foscarini , gli domandò dell' esser suo,
ed avendo appreso eh' era l'ambasciatore di Venezia
gli rise sul muso esclamando con tono sprezzante: Ah
l'ambasciatore di Pantalone! 11 rappresentante della
terra del Cid non poteva essere più villano ; non è
vero } Ma la risposta del compatriotta di Pantalone,
(I) Baschet, op. cit. p. 170.
— 232 —
se fu anch'essa villana, fu però calzante. 11 Fosccirini
alzò il piede ed assestò una formidabile pedata a
don Pietro di Toledo e precisamente in un posto che
il galateo vieta di nominare. Il Nunzio s'adoperò per
mettere fine a quel disgraziato incidente (Ì).
Senza pretendere di voler far la storia, anche in
succinto, della grossolanità del caratteae francese di
quei tempi, e segnatamente del linguaggio abbastanza
sboccato e plebeo che si adoperava non solo dalle
classi medie, ma anche nei circoli di Corte, riportia-
mo qui alcuni aneddoti, che uno scrittore francese re-
cente ricavò da diari e cronache dei tempi di Luigi
XIII e della giovinezza di Luigi XIV.
Ecco un dialogo fra un gentiluomo e Luigi XIII,
quasi fanciullo, ma già fidanzato ad una infante di
Spagna.
" Monsieur, aimez-vous V Infante} lui demande un
jour M.r de Vendelot. — Non. — Monsieur, pourquoi ?
Parcequ' elle est espagnolle — Monsieur, elle vous
fera roi d' Espagne et vous la farez reine de France.
Il répond en sourient, comme de chose oìi il eùt
plaisir : Elle couchera donc avec moi et je le lui
farai un petit enfant. — Monsieur, comment le ferez-
vous ?
— Avec mon guillery, dit-il bas et avec honte. Mon-
sieur, la baiserez vous bien ? Ouì, comme cela dit-il
en se jetant à corps perdu la face contre le traver-
ei) Molmenti, Studi e Ricerche di Storia e d'Arte; Torino — Roma,
Roux, 1892; p. 183.
— 233 —
sin (1). " S'ignora se codesto M.r de Vendelot fosse
il precettore o governatore o sotto governatore del re
minorenne.
Ancora Luigi XIII. " Le jour 20 janvier 1619,
eut lieu la cerimonie du mariage du due d'Elboeuf
avec m.Ile de Vendome. La nuit arrivée le roi si fit
introduire dans la chambre nutiale. Bien mieux, il vou-
lutétre prèsent sur le propre lit des deux époux , à
fin de voir se consommer le mariage, acte qui fut
reiteré plus d' une fois au grand applaudissement et
au goùt de Sa Majestè... On afferme que m.lle de
Vendome... aurait méme dit à cette occasion : Sire,
faitez vous aussi la méme chose avec la Reine (//
re per ritrosia non aveva ancora potuto consumare il
matrimonio) et bien vous ferez (2) " . Evidentemente
codesti personaggi dovevano essere sforniti di senso
morale. Più che un fatto di cronaca, si direbbe una
lubrica concezione di Pietro Aretino.
Passiamo alla giovinezza di Luigi XIV. " Chate-
rine, veuve de sieur de Brevais, première femme de
chambre de la mere reine, était fort lubrique, et
payoit grassement ses amants. Car, com' elle étoit
vieille, laide, borgneuse, ses charmes ne les attiroient
pas, il est certain qu' elle avoit en néammoins le
ipoucellage du roi Louis XIV, affreuse qu'elle ètoit,
car le prime était fort jeune elle lui mit un jour la
( I ) Cabanès , Cabinet secret de la Histore ; Prem. serie ; Paris,
Albin Michel. 1905. p. 97.
(2) Id. id. p. 125.
— 234 —
main dans les chausses l'avant trouvé seul à 1* ecart
dans le Louvre, oìi, pour ensi dire elle le viola (1) ".
Se non che, verso la seconda metà del secolo XVII,
prima sotto l'energico ed intelligente governo del car-
dinale di Richelieu , poi sotto lo stesso Luigi XIV,
la Francia cominciò a subire una rapida trasforma-
zione. 11 suo linguaggio cominciò a dirozzarsi, forse
troppo a dirozzarsi tanto che si cadde nel " prezio-
sismo ", un linguaggio affettato, leccato, pieno di ve-
recondie anche per cose che non ne avevano bisogno,
e flagellato dai poeti satirici e dai commediografi con
a capo il Molière. Fu nei salotti parigini del tempo
del Richelieu , e più propriamente nelle conversa-
zioni del palazzo Rambouillet che la lingua francese
cominciò a perdere ogni sua grossolanità diventando
così uno dei più fini e stupendi strumenti per esprimere
le proprie idee. La Francia, intanto, con le sue vit-
torie stabiliva il suo primato su tutta 1' Europa cen-
trale e meridionale. Incominciava il secolo che fu detto,
e si dirà sempre , di Luigi XIV. La luce veniva
dalle sponde della Senna. Parigi era la città- /um/ère
anche prima che fosse designata con tal nome. L'e-
loquenza toccava la perfezione col Bossuet, col MaS-
sillon, col Bourdaloue, col Fléchier; la lingua, già così
limpida, così lucida, nella prosa di cotesti scrittori, di-
ventava la lingua diplomatica prendendo il posto della
latina, che l' aveva occupato sin' allora. Il Corneille,
il Racine creavano il teatro tragico, come il Molière I
1
i
(I) Id. id. p. 129.
- 235 —
creava quello comico ; la filosofìa usciva dalla pastoie
scolastiche col Cartesio ; il Rameux riformava la mu-
sica ; il Poussin e Claudio di Lorena illustravano la
pittura, il Puget e il Legros la scultura, il Mansard
e il Perrault 1' architettura. Molti romanzieri , alcuni
dei quali godettero allora d' una grande celebrità, in-
dirizzavano le anime verso amori ideali , più che
amori, veri idilli : si riabilitava la natura poetizzando-
la , si creavano pastorelli sentimentali e pastorelle
non meno sentimentali mettendo nel loro cuore affetti
d* una estrema delicatezza , sulle loro labbra un lin-
guaggio molto elevato. Aprì il fuoco il D' Urfè con
YAstrée, un romanzo ch'ebbe uno strepitoso successo,
che la posterità non confermò , come non confermò
quello ottenuto dai romanzi che seguirono l' Jlstrée.
Fra tutti , quelli di madamigella Scudery si sparsero
per ogni angolo della Francia ; essi furono i libri di
lettura preferiti dalle dame e dai cavalieri, dalle mo-
deste borghesi come dai commessi di negozio, dagli
scrivani degli studi degli avvocati, dei procuratori e dei
notai. Per più d'una generazione gli innamorati e le
innamorate di Francia non parlarono che col linguaggio
dolciastro dei romanzi della Scudery. Non si diceva:
quei due giovani s'amano, ma sibbene : navigano sul
fiume Tenero. Oggi quel linguaggio farebbe ridere
o ci addormenterebbe ; ma allora era un fattore di
raffinamento , di civiltà. A codesta raffinatezza di
linguaggio aveva, soprattutto, contribuito il vocabo-
lario dell' Accademia istituita dal Richelieu. Come
scrive il Taine , il vocabolario si alleggerì di parole
— 235 —
ed espressioni crude e grasse non che d'una infinità
di frasi familiari brusche , di tutta la metafore arri-
schiate e pungenti, in omaggio, certamente, a quanto
diceva il Vaugelas , cioè, che basta una sola parola
per far disprezzare una persona in una compagnia (1).
In una conversazione di dame distinte e di cavalieri
nessuno avrebbe più ardito infiorare il proprio discorso
con una delle cento esclamazioni pittoresche, ma anche
crude, che il buon re Enrico IV, a malgrado della
sua galanteria, amava tanto. Per fermo, cotesta evo-
luzione della psiche francese, tanto individuale quanto
collettiva, non si compiva tutta d'un tratto, dalla sera alla [
mattina, ma a grado a grado, quasi insensibilmente. Qua
e là, soprattutto nel teatro comico, compreso quello del
Molière, si sente ancora lo spirito della vecchia Gal-
lia, che non era quello di Atene. Le grossolanità,
che tanto piacevano sotto i regni di Carlo IX e di *
Luigi XII , di Luigi XIII e di Enrico IV, fanno i
ancora capolino e fan ridere anche duchesse e cava- '
lieri. Era del vecchio spirito paesano , e un po' di
buona accoglienza gli si doveva pur fare.
Dinanzi a codesto quadro delle due società (ita-
liana e francese) in cui la commedia dell' arte rac-
colse i suoi maggiori applausi , si comprende come
essa, durante la sua lunga vita, potesse ottenere tanti
trionfi : essa non faceva che rispecchiare quelle due
società; era la riproduzione spirituale dello stato d'a-
nimo dei suoi spettatori. La scena non era che una
(1) Taine, Aden 7^eg/me, liv, III eh. II.
— 237 -
succursale della platea , se non n' era addirittura la
continuazione. La stessa ingenuità d' intreccio predi-
letta dagli autori dei " soggetti ", non poteva riuscire
fastidiosa o deficiente ad un uditorio che del teatro
comico, in Italia, non conosceva che la commedia
letteraria abbastanza noiosa e calcata sulla falsariga
del teatro classico e, in Francia, le povere e magre
farse dell' antica letteratura paesana. Quegli inganni
spesso sciocchi , infantili , quei travestimenti inverosi-
mili, quegli incontri non meno inverosimili, quelle finte
pazzie, quelle continue agnizioni che risolvevano le
situazioni critiche più disperate , quel linguaggio che
sentiva il fango della strada, l'odore dell' osteria e il
lezzo del lupanare, quella risata grassa, larga, briosa,
che mostrava tutti i denti della bocca o congestio-
nava il viso dello spettatore, quei lazzi che correvano
pazzamente dall' oscenità alla scurrilità , da questa a
quella , insomma, tutto ciò che costituiva il bagaglio
del teatro comico dell'arte, o improvviso, era ritenuto
verosimile, pien d' interesse, faceto, ed anche corretto,
perchè in esso si rispecchiava l' anima del pubblico.
Comici e spettatori , durante la rappresentazione, an-
davano a braccetto. Nulla veniva dalla scena che
non fosse accolto come cosa propria, naturale dalla
platea, come nulla si diceva da questa che non fosse
ritenuta una legittima espressione dei sentimenti del-
l'altra.
La commedia dell'arte non cominciò, dunque, a de-
cadere che quando si manifestò un dissidio fra la scena
e la platea, e precisamente quando per le cambiate con-
— 238 -
dizioni sociali, l'anima dello spettacolo non battè più
all' unisono con quella del pubblico. In Francia, co-
desto dissidio, fu composto dal Molière. Il suo teatro,
sebbene in parecchie parti risentisse 1' influenza di
quello dell'arte, seppe rispecchiare la nuova società; ^
in Italia, dove la commedia dell'arte nacque, quando
la società cominciò a svecchiarsi, a raffinarsi, e l'anima ;
del pubblico ad assumere nuovi atteggiamenti sotto
r influenza francese, eh' era pur quella del secolo di ;
Luigi XIV, il dissidio perdurò più a lungo. Essa non
ebbe che più tardi il suo Molière nella persona di
Carlo Goldoni. Con costui, l'accordo fra scena e pub-
blico, già rotto, si ristabilì. La commedia dell'arte,
come un detrito del passato, scomparve. Essa aveva
fatto il suo tempo.
Parecchi scrittori hanno voluto indagare le ragioni :
del tramonto e della morte della commedia dell'arte; '
e ne son venuti fuori pareri diversi. Qualcuno ha rite-
nuto che lo spettacolo all' improvviso fosse morto di
morte violenta, e 1' omicida sarebbe stato il Goldoni,
il quale l'avrebbe meditato lì per li, tra le qumte del
palcoscenico del teatro Sant'Angelo, a Venezia, dopo ,
la caduta d' una sua commedia; e a questo concetto 1
evidentemente s'ispirò Paolo Ferrari scrivendo la sua
bella commedia, anzi il suo capolavoro, Carlo Goldoni
e le sue sedici commedie nuove; altri scrittori hanno
ritenuto che si fosse spenta per mancanze di forze,
per esaurimento senile, quasi che un teatro a cui con-
corrono sempre nuove forze col succedersi delle gene-
razioni possa paragonarsi ad un organismo umano; e
— 239 —
in questo caso, il Goldoni non avrebbe occupato (ed
anche senza fatica) che un posto lasciato vuoto. Er-
nesto Masi, dopo d' aver detto che i comici furono
sempre veduti dalla Chiesa per gente immorale e degna
dei suoi fulmini spirituali e quindi, per un pregiudizio
religioso, tenuti dalla società lungi dal suo seno — quasi
che codesto stato d'abbiezione in cui i comici erano
tenuti avesse impedito che la commedia dell'arte per
tanto tempo non avesse avuto i suoi trionfi — aggiunge :
" È per questa via d' umiliazione e di anatema che
la commedia dell'arte ridiscende a poco a poco dalla
luce nelle tenebre... Fondata sul burlesco, non vinco-
lata da nessun antecedente letterario, obbligata ad ac-
, Gettare il favore d' un pubblico vario di gusto e di
j condizioni, non tenuto in freno dalla presenza delle
donne (?), che cosa può impedire la sua decadenza ?
Nulla, ed essa torna via via ai suoi cenci " (1).
L* inglese Addington Symonds (2) scrive : " Affidata
tutta al genio degli attori, la commedia dell'cu-te morì
di languore, quando questo genio fu incaminato per
altre vie". Il Baschet (1), all'incontro, quasi non può
credere alla scomparsa della commedia dell'arte e nel
ricordare i comici all' improvviso s'abbandona ad un
lirismo perfettamente inopportuno :
(1) Studi sul Teatro Italiano nel sec. XVIII; Firenze, Sansoni,
1891, p. 232.
(2) Citato dal Masi nell'op. cit. p, 230. Il Symonds è autoie di : The
Memoirs of count Carlo Gozzi translaied info english, Sendon, 1 890.
— 240 —
" N'avaient-ils pas, en effet, les qualités premiéres qui faisaient un
acteur excellent dans les comédies jouées à l'improntu ? L'esprit le plus
enjouè, le tour le plus piquant, le nature! admirable, la précision par-
faite, pour les réparties et répliques, la gràce et le nerf dans la satire,
et tous les motifs de rire le plus entrainant, trouvés à la fois dans les
propos courants du gros bon sens et dans les inventions buffonnes de
la fantaisie plus libre ? (I) ".
No ; la commedia dall'arte moriva perchè intorno
a se s'era fatto il vuoto ; essa non trovava più la sua
ripercussione nell'anima del pubblico. Nata nel Cin-
quecento innamorato di tutte le belle cose ma anche
innamorato di tutte le grossolanità d'una vita troppo
legata alla materia , paganeggiante sotto torme cri-
stiane, epicureo, evidentemente portato alla grossa ri-
sata, alla risata schietta, piena, rumerosa; cresciuta in
mezzo ad una società che stentatamente si svolgeva
per vie che dovevano condurla ad un modo di vivere
più raffinato, più nobile, ad una concezione della stessa
vita assai diversa da quella che negli splendori della
Rinascenza ne eveva avuto colui che al secolo aveva
dato il suo nome (2), essa non trovò più abbastanza os-
sigeno per respirare nella nuova società. Verso la metà
del secolo XVIII, e precisamente quando Carlo Goldoni
aveva già cominciato a fare i suoi primi passi nella car-
riera teatrale, il distacco fra lo spettacolo comico ed il
pubblico era divenuto sensibilissimo. L' Italia, che du-
ci) Op. cit. p. 336.
(2) Corse fama che il cardinale Giovanni de' Medici (Leone X),
innalzato alla dignità suprema della Chiesa avesse detto: " Godiamoci
il Papato ; Iddio ce 1' ha mandato ".
- 241 —
rante il Seicento s'era posta a camminare sulle orme
della Spagna, ora camminava su quelle della Francia.
In quel cambio essa, senza dubbio, vi guadagnava, so-
prattutto dal lato del teatro. Il Molière non solo aveva
creato un teatro comico ma aveva anche avuto dei
felici e geniali continuatori, il Regnard e il Marivaux
soprattutto; il primo dei quali su un vecchio tema, /
Menecmi , seppe infondere uno spirito comico tutto
nuovo, che non aveva nulla da fare con quello gros-
solano e spesso scurrile della vecchia commedia a
soggetto. In codesti scrittori il linguaggio dei personaggi
è già quello della " commedia moderna ", esso è an-
che depurato di quelle salacità improntata al vecchio
sale galois dal quale lo stesso Molière non era andato
del tutto esente. Ecco uno spunto di dialogo tolto dal
Bai del Regnard, dove lo spirito più arguto, più cau-
stico sa mantenersi nei limiti della più stretta decenza :
LlSETTE
J' ai fait voeu d' étre vevue ; et je veut tenir.
Merlin
Ouì-dà ; l'état de veuve est une douce chose :
On a plessieurs maris sans que personne en giose ;
Et Fon fait justement, du soir jusq* au matin,
Gomme ces fins gurmets qui vont goùter le vin.
Sans acheter d'aucun, à chaque piece on tate :
On laisse celui-ci, de peur qu' il ne se gate :
On ne veut pas de l'un, parce qu' il est trop couvert ;
D'un tal vin le couloir est malade e bizarre ;
Cet autre, dans le chaud, pieut tourner à la barre ;
^"e/ Regno delle ^^aszhere 16
— 242 —
L'un est trop plat au goùt, l'autre trop petilant;
Et cet dernier enfin a trop peu de montant;
Ainsi, sans rien choisir, de tout en fait éprouve :
Et voilà justement comme fait une veuve,
Un altro spunto di dialogo , sempre del Regnard
{Les Folies Amoureuses) :
CRISPIN
Il faut savoir d'abord si dans la forteresse
Nou s nous introduirons force ou par adresse ;
S' il est plus à propos, pour nos desseins con^us,
De faire un siège ouvert, ou former un blocus.
. En tenter les affaires,
La téle doit toujours agir avant le bras.
Quand on veut, voyez-vous, qu' un siège réusisse,
11 faut, primièrement, s'empaver des approches,
Connoltre les entroits, les faibles et les forts.
On ouvre la trancheé, on canonne la place,
On renverse un rempart, on fait bréche: aussitot
On avance en bon ordre. et s'ordonne Tassaut.
C'est le méme à peu prés quand on prend une fìlle.
(Atto I, se. 8.)
Crispino non è che un servo ; ma qual differenza
fra il suo linguaggio e quello dei servi-mezzani della
commedia dell' arte ! Tutto nei suoi consigli è fine-
mente espresso. Quel Crispino si direbbe un servi-
tore d'una casa aristocratica moderna, in abito nero e
cravatta bianca.
Dal Regnard passiamo al Marivaux. In qualcuna
delle commedie di costui abbiamo ancora Arlecchi-
— 243 -
no; ma quale Arlecchino ! Egli non è il servo sciocco,
che tutti prendono a colpi di bastone o di piede, coi
suoi lazzi volgari e il suo linguaggio non meno vol-
gare dei suoi lazzi ; ma, col Marivaux, Arlecchino e
divenuto un innamorato sentimentale, che sa esprimere
i suoi sentimenti in una forma appassionata ed anche
elegante. Nella T)ouble Incostance, una commedia la-
vorata su un canovaccio che risente ancora la sem-
plicità dei soggetti del teatro a braccia, il principe ha
posto gli occhi su Silvia amante di Arlecchino e vuol
farla sua. Un cortigiano cerca di persuadere quest'ul-
timo di non opporsi alla volontà del principe, il quale
lo avrebbe generosamente ricompensato non solo con
denaro, ma anche con una casa in città e una villa
in campagna.
ARLEQUIN
Ah, que cela est beau ! il n' y a qu' une chose, qui m'embarasse;
<ju'est-ce qui habitera ma maison de ville, quand je serai à ma mai-
son de campagne ?
TRIVELIN (/•/ Cortigiano)
Parbleu ! Tes valets !
ARLEQUIN
Mes valets ? Qu' ai-je besoin de faire fortune par ces cainalles ?...
Dites-moi, fait-on autre chose dans sa maison que 'asseoir, prendre ses
rcpas, se coucher ? En bien I Mon bon lit, ma bonne table, ma dou-
zaine de chaises de paille, ne suis-je pas bien meublé ?... Oh, moi n' ai
point de carrosse ! (en montrant ses jamhes). Ne voilà-t-il pas un équi-
page que ma mère m'a donne ? Alerte, alerte, paresseux, laissez vos che-
— 244 -
veaux à tant de honnèts laboureurs qui n'en point ; ce là vous fera
fair e du pain ",
(Atto I, Se. IV)
La letteratura francese, non esclusa la teatrale, con-
tava già in Italia ammiratori e seguaci. Si traduceva
dal teatro francese. Il Gigli, come vedremo nella se-
conda pcirte di questo nostro lavoro, scriveva il sua
Don Pilone, che non è che il tartufo del Molière»
meno poche scene. Morta d'assideramento la comme-
dia erudita, o letteraria, classica, non rispecchiando più
quella dell'cirte la società del tempo, l'avvento della
nuova commedia non poteva essere che vicino. E il
suo creatore non tardò a fcU'e la sua compcu^sa sulla
scena comica.
Era Carlo Goldoni.
FINE DELLA PARTE PRIMA
CAPITOLO PRIMO
I tempi di Carlo Goldoni.
Quando il 25 febbraio 1 707, in Venezia, " in una
grande e bella abitazione situata fra il ponte di Nomboli
e quello di Donna -Onesta, al canto di via di Cà Cen-
t'anni, nella parrocchia di San Tommaso " (1), nacque
Carlo Goldoni, la grande repubblica veneta, la " Sere-
nissima " come comunemente era chiamata, era in piena
decadenza. La sua agonia, che doveva trascinarsi per
quasi tutto quel secolo, era già incominciata. Se non
che, la gloriosa vincitrice di Lepanto rassomigliava al-
quanto a quelle belle donne, le quali, sebbene stieno per
varcare la quarantina, pure un po' per l'incipiente pin-
guedine che stirando la pelle dà a loro una specie di
seconda giovinezza, un po' per i cosmetici sapiente-
mente adoperati, si conservano fresche ad anche ap-
petitose: così Venezia, la quale, sebbene dell'antica
gloria, e, soprattutto, dell' antica potenza non conser-
vasse che i rimasugli, pure nella sua vita esteriore,
(1) C. Goldoni, t5^emor/e, Par. 1, Cap. I.
— 246 —
nei suoi rapporti con gli altri Stati, nelle sue feste,
nei suoi tripudi, nei suoi costumi, conservava un sa-
pore di giovinezza, che la collocava fra le città più
caratteristiche dell'Europa del secolo XVIII. Giammai
un organismo politico, come quello veneto, seppe meglio
nascondere sotto le apparenze della più rigogliosa, più j
esuberante vita i germi della sua dissoluzione. Gli am-
basciatori della " Serenissima " prendevano ancora pos-
sesso con pompa del loro ufficio presso i sovrani dei
grandi Stati d'Europa : erano i nomi gloriosi dei Mo-
cenigo, dei Correr, dei Guerini, dei Zeno, dei Conta-
rini che risuonavano, pronunziati dai maestri di ceri-
monie, nelle corti di Sua Maestà Cattolica, di Sua
Maestà Cristianissima o di Sua Maestà Imperiale Reale
Apostolica, o in quelle d' Inghilterra o di Costanti- '[
nopoli. Le flotte, sebbene scarse ed invecchiate, pure
veleggiavano nell'Adriatico, mare tutto veneto, esclusi-
vamente veneto, e nei mari di Levante, dove il leone
di San Marco, nell'orifìamma di seta, sventolava dalle
mure delle città e dagli spalti dei forti. Nelle sue co-
lonie lungo le coste della Dalmazia e nelle isole del
mare Jonio, Venezia sentiva ancora fremere la sua
vita : dappertutto si sentiva risuonare il suo dolce e
molle dialetto ; sui frontoni dei palazzi, sugli archi,
sui torrioni, dal fondo bianco del marmo, occhieggiava
l'alato leone col vangelo di San Marco spiegato da-
vanti, grave, sereno, non sospettando la non lontana
ruina. Le cerimonie pubbliche, le feste religiose con- [
servavano ancora la loro antica pompa, l' antico loro
fasto; quelle popolari continuavano ad essere impron-
- 247 -
tate all'antica gaiezza. Ogni anno, il Bucintoro, ricco di
dorature, di stendardi, di velluti, trasportava il Doge
sulla laguna per sposare, col simbolico anello, il mare ;
codesto doge, nello stesso suo splendido paludamento,
che ricordava l'an.xo Oriente, teatro di glorie per la
repubblica, continuava ad essere il prigioniero volon-
tà! io d' una oligarchia, che adorava il passato come
un selvaggio del Centro d'Affrica un feticcio; imembii
del Senato, i componenti del terribile tribunale dei
Dieci, i pregadi, il procuratore di San Marco, conti-
nuavano a salire e scendere gravemente, con solen-
nità ieratica, la scala dei Giganti, tutta marmo ed oro,
a radunarsi in consiglio, a discutere di pace e di
guerra, ad ascoltare la lettura delle relazioni che gli
oratori della repubblica mandavano da Roma, da Pa-
rigi, da Madrid, da Londra, da Vienna, da Costan-
tinopoli. Il potere, sebbene in poche mani, pure era
esercitato paternamente; i misteri dei Pozzi, le ter-
ribili segrete di Stato, non trovavano più posto che
nella fantasia dei denigratori della repubblica : mas-
sima precipua di governo era di occuparsi poco di
Dio e nulla del principe ; e le popolazioni, alle quali,
per altro, si lasciava ampia libertà di divertirsi, non
s occupavano affatto di quest'ultimo, ed assai poco del-
1 altro. Così esse, da un lato, scansavano la forca, e
dall'altro, se non il rogo, che a Venezia non si innal-
zava, le carceri degli Inquisitori di Stato. La loro fede
religiosa era abbastanza tiepida e l'aver visto, ai tempi
di fra Paolo Sarpi, le classi dirigenti del loro paese
sollevarsi contro il pontefice e sfidare serenamente i
— 248 -
sul berretto e il bastoncino in mano per contenere
una folla che oggi un nugolo di carabinieri difficil-
suoi fulmini, aveva infuso nelle loro coscienze una
punta d'amabile scetticismo, che senza rasentare la ir-
religiosità, rendeva i veneziani assai tolleranti delle
altrui opinioni : il che rendeva ai forestieri più gradita
la vita di Venezia. Non è quindi da meravigliarsi del
loro frequente accorrere sulle lagune.
Quella specie di serenità che regnava nella vita
pubblica, aveva la sua eco in quella privata. Nelle
famiglie, la podestà paterna era rispettata, ma si eser-
citava blandemente, con quella bonomia, che formò
sempre la caratteristica principale del padre di famiglia
veneziano. Non monacazioni forzate, non fughe di fan-
ciulle per sottrarsi ai rigori paterni : la storia delle
famiglie veneziane non presenta ne monache di Monza,
ne Beatrici Cenci. Le fanciulle crescevano nel rispetto
dei genitori ; amoreggiavano, di sicuro, ma con la dolce
timidezza delle giovinette : non scale di seta per ratti
romantici, non disperazioni profonde da finire col sui-
cidio. Una certa indolenza, una certa fiacchezza, aveva
tutto smussato, tutto appiattito. Si camminava sui tap-
peti ed anche coi piedi infilati nelle babbucce. Il ca-
rattere, tanto in alto quanto in basso, aveva perduto
parecchie angolosità: s'intende, non grandi passioni, non
grandi ribellioni. Tutti navigavano in un mare di giu-
lebbe. La stessa plebe nascondeva la sua rozzezza
sotto una vernice di bontà che in altre città si sarebbe
cercata invano. Nelle grandi feste, in piazza San Marco,
bastavano quattro donzelli coi colori della repubblic
— 249 —
mente saprebbe tenere a freno. Venezia, allora, non
pensava che a divertirsi; e si divertiva. Era la città
più ricca di divertimenti di quei tempi. Le villeggiature
erano lunghe ; le sue ville signorili, splendide, ricche
di pitture, di stucchi, di specchi, di dorature, sorge-
vano sulle sponde della Brenta, a Mestre, sui colli
trevigiani. La sua vita era un lungo tripudio. Le feste
mondane prendevano il passo alle religiose ; il che
non accadeva ne a Roma, ne a Napoli, ne a Milano.
Già quasi sei mesi su dodici , si poteva andare, in
bautta per la città, nei caffè, nei ridotti, nei teatii.
La bautta (1), si prestava a meraviglia agli intrighi,
alle scappatelle, alle sorprese ; agevolava la maldi-
cenza, acuiva lo spirito rendendolo ingegnoso, giacche
di sotto alla bautta non era vietato l'ammonire garba-
tamente anche persone di classe elevata o ricoprenti
alti uffici, e il serbare l'anonimo era quindi divenuto,
con la necessità, arte raffinata non solo d'attacco, ma
anche di difesa. Le feste, per altro, costituivano un'arte
di Stato; d'inverno i teatri, le maschere, i ridotti, dove
si giuocava a tutto spiano; d'estate, le feste religiose,
quella del Redentore, soprattutto, era una meraviglia,
di giorno, di luce, di colori, di gondole imbandierate,
strascicanti sulle acque tappeti di seta e di velluto, di
notte, una visione fantastica di lumi d' ogni forma e
colore riflettenti la loro luce sulle acque oscure, oulle
linee architettoniche dei palazzi, sugli archi dei ponti,
( 1 1 Era la maschera ordinaria veneziana e si componeva à' un
mantello, d' un cappello e di mezza maschera nera sul volto.
— 250 —
sui marmi delle chiese. Nelle grendi feste, la repub-
blica (allora si diceva il " Principe ") invitava il po-
polo a banchetti pubblici : erano pasti singolarissimi
in cui il popolano, arsenalotto od operaio, era servito
in piatti d'argento con lo stemma della " Serenissima "
e da camerieri i quali non erano che scudieri e ca-
valieri della repubblica. Una affettuosa domestichezza
regnava fra popolo e governanti. Nella festa delle
Marie qualsiasi popolano poteva baciare sulla guancia
il doge. Venezia, poi, era la città d' Italia meglio
dotata di teatri; ai tempi della prima giovinezza del
Goldoni, essa ne teneva aperti, per una buona parte
dell' anno, sino a sette. Il teatro principale (oggi si
direbbe il " Massimo ") era quello di San Giovanni
Grisostomo, poiché allora i teatri, come le navi da
battaglia, le corsie degli ospedali , quasi tutte le vie
delle città, gli alberghi, prendevano nome dai santi, j
e vi si dava opera seria. Più tardi prese il primo
posto quello di San Benedetto; venivano dopo il teatro
di San Samuele, quello di San Luca, infine, quello
di San Cassiano e 1' altro di San Moisè. Di codesti
cinque teatri, due si aprivano all'opera buffa, tre alla ,
commedia. I patrizi non sdegnavano di farsene gl'im- I
presari quando non si costituivano protettori delle com-
pagnie che vi recitavano. A Roma, quasi nello stesso
tempo, non c'erano che tre teatri, quello di Tor di Nona,
il Capranica e il d' Alibert ; più a Milano e a NapoH,
ma meno di Venezia. Apostolo Zeno, un veneziano,
aveva fatto assurgere a dignità d'opera d'cirte il me-
lodramma spogliandolo di tutte le sconcezze e le bar-
— 251 —
barie di cui V aveva rivestito il Seicento. Lo stesso
Zeno, col fratello Caterino, pubblicava il miglior gior-
nale letterario che allora vedesse la luce in Italia. Le
tipografie veneziane, sebbene in quei tempi fossero
già superate dalle francesi per la bellezza e nitidezza
dei caratteri, pure erano ritenute le migliori della pe-
nisola e da esse uscivano opere d'erudizione diligen-
temente curate ed illustrate da patrizi dotti o amanti
degli studi, come il Foscari e i due Foscarini. Ricche
biblioteche possedevano famiglie private ; la pittura,
la gloriosa pittura veneta dal maraviglioso colorito, get-
tava il suo ultimo lampo con Giambattista Tiepolo,
l'ultimo dei grandi artisti veneziani, mentre col Longhi
riproduceva interni di case e costumi e col Canaletto
vedute di palazzi, di ponti, di viuzze, di lagune, insomma
tutta la città di San Marco sfilante sulla tela ora nelle
sue albe vaporose, ora nei suoi pomeriggi d'oro, tal'altra
nella chiara luminosità dei suoi giorni estivi. La mu-
sica era rappresentata da Benedetto Marcello, allora
detto " il principe della musica " ; e tale e rimasto. Se
l'architettura sbadigliava nelle accademie, l'ingegneria
iniziava un' opera meravigliosa, diretta a sottrarre la
città alla furia delle onde iniziando, nel 1 744 per
compierla nel 1781, 1' opera dei Murazzi (ausu ro-
mano, aere veneto). L'industria dei vetri non che quella
dei merletti, vivevano ancora, sebbene meno celebrate
di prima. Ma la letteratura, se ne togli Apostolo Zeno,
il Conti, che aveva cercato di dare all' Italia la sua
tragedia, come il Corneille e il Racine l'avevano dato
alla Francia, Scipione Maffei a Verona, autore della
- 252 —
Merope, saggio di buona tragedia, e qualchedun'altro,
non dava che poveri fiori : discorsi d'occasione, sonetti,
odi, canzoni per monacazioni, per elezioni a dignità
pubbliche, per lauree, infine, per cantare, sulla cetra
d'Arcadia, amori senza passione, pastorellerie senza
ingenuità. Era ancora il Seicento, ma senza le sue
gonfiezze, le sue ampollosità, le sue stravaganze.
Sebbene Venezia fosse la città più teatrale d'Italia,
pure nella letteratura comica non contava, prima del
Goldoni , uno solo scrittore di qualche riputazione;
lo stesso Goldoni narra come, nella sua infanzia, il
commediografo più conosciuto ed apprezzato fosse il
Cicognini : non dice chi fosse codesto Cicognini, se
ii padre, Jacopo o il figlio Giacinto Andrea, entrambi
toscani ed autori di drammi e commedie. Probabil-
mente sarà stato il secondo, perchè Jacopo, nel primo
ventennio del Settecento, per le sue stravaganze spa-
gnolesche, dopo d'essere stato tanto in auge, ed aver
ricevuto le lodi di Lope de Vega, coi quale carteg-
giava, era caduto in un completo oblio ; all' incontro,
l'altro. Giacinto Andrea, senza raggiungere la celebrità
che aveva circondato una volta il nome dei padre,
s' era fatto un po' di strada nel mondo comico con
lavori la cui caratteristica era di mantenere l'attenzione
del pubblico sempre sospesa sino allo scioglimento.
Difatti, ecco come scriveva il Goldoni. " Questo autore
fiorentino, pochissimo conosciuto nella repubblica delle
lettere, aveva fatto parecchie commedie d' intreccio,
sparsi di sentimenti noiosi, patetici e di facezie tri-
viali: vi si trovava nulladimeno molto diletto ed aveva
— 253 —
l'arte di mantenere la sospensione e di piacere con
lo scioglimento " (1). Aggiungiamo che quasi tutta
la sua produzione drammatica è un rifacimento o una
imitazione di drammi e commedie spagnuoli (2). Un
altro commediografo toscano, di cui il Goldoni ebbe
conoscenza nella sua giovinezza fu Girolamo Gigli.
Di costui, in verità, non trovansi a stampa che due
sole commedie. Don Pilone, ovvero, il Falso Bacchet-
tone e La Sorellina di Don Pilone. Il Giudice Impaz-
zito, imitazione d'una commedia del Racine, e qualche
altra sua commediola giacciono, nei loro originali, negli
archivi toscani. Il Don Pilone, ai suoi tempi, ebbe
molta voga in Italia ; ma errano coloro (e sono molti)
i quali credono che sia una commedia originale. Don
Pilone non e che una traduzione del Tartufo del
MoHère; il Gigli soltanto condensò i cinque atti del
commediografo francese in tre ed aggiunse di suo una
lunga scena al secondo atto (1' ottava fra Valerio e
Sapino) e sette (la nona, decima, undecima, dodice-
sima, decimaterza, decimoquarta e decimoquinta) al
terzo atto: scene che nulla hanno aggiunto alla india-
volata vis comica di messer Poquelin. Il Gigli cambiò
non solo il titolo, ma anche i nomi di alcuni perso-
naggi; Tartufo divenne Don Pilone; Orgone, Buona-
fede ; Damide, Sapino ; Leale, il servo di Tartufo,
cambiò anche sesso e divenne Dorina. La chiusa della
{]) Mem. Par. I, Cap. I.
(2) Ved. su G. A. Cicognini un recente lavoro di R. Vere: G.
A. Cicognini; Catania, Giemnotta, 1912.
— 254 -
commedia, alquanto modificata, rivela che il Gigli scri-
veva sotto un governo che in materia di bacchetto-
neria era un po' parente di Tartufo, poiché, a dissi-
pare gli scrupoli delle coscienze timorate, forse troppo
scandolezzate di veder bistrattato sulla scena un servi-
tor di Dio, sebbene falso, ci fa sapere che Don Pi-
lone non è che un ebreo passato fintamente alla reli- [
gione cattolica. Poveri ebrei ! Uno di loro soltanto
poteva essere un finto bacchettone ! La Sorellina di
Don Pilone, all' incontro, e quasi tutta farina del Gi-
gli, ma è anche una derivazione del Tartufo. Il Gigli '
inorgoglito del successo riportato dal Don Pilone, volle
continuarlo in una seconda edizione parecchio ritoc-
cata e modificata. C' è un bacchettone, ma non si t
chiama ne Tartufo, ne Don Pilone ; si chiama Don
Pilorgio, il quale, come gli altri due falsi devoti, alla
fine della commedia, resta scorbacchiato insieme alla
moglie di Geronio, anch' essa fior di bacchettona e
nella quale il pubblico volle vedere riprodotta (e forse
a ragione) la moglie dello stesso Gigli. Se non che,
sebbene quest'ultima commedia dello scrittore toscano
ricordi quella del Molière, pure non manca d' una
certa vis comica, che non s' incontra mai, o quasi mai,
nelle commedie letterarie del tempo, e contiene una
macchietta, quella della vecchia serva Credenza, che
a ogni costo vuol trovare marito, eh' è veramente
deliziosa. Nella sua prima giovinezza, a Perugia, il
Goldoni recitò appunto in Sorellina (1).
(1) Mem. Par. I, Gap. VII.
— 255 —
Fama di valente commediogrr^o ebbe l a la fine
del seicento e i primi anni del settecento , un altro
toscano, Giambattista Fagiuoli, che la leggenda poi
trasformò anche iu buffone di Corte. I suoi contem-
poranei, soprattutto in Toscana, lo chiamarono 'Terenzio
redivivo, o Terenzio toscano. La posterità non con-
fermò tale titolo. Il Goldoni, nelle sue Memorie, non
lo ricorda; ma ciò non vuol dire che non l' abbia co-
nosciuto, anche perchè, in quei tempi, la fama del
commediografo toscano era molto diffusa nella peni-
sola e più d' una sua commedia scritta era servita di
canovaccio per soggetto della commedia dell' arte. Di-
fatti, il soggetto della raccolta del p. Adriani : ^on
essere, ovvero. La Donna può ciò che vuole, non è,
meno poche soppressioni e qualche piccolo cambia-
mento, che una commedia del Fagiuoli : Aver cura
di donne è pazzia , ossia , il cavaliere Parigino ( 1 ).
Un merito però ebbe il Fagiuoli, quello, cioè, d'aver
caputo ritrarre con certa arguzia qualche vizio della
società che fu sua: prima ancora del Goldoni e del
arini, egli seppe mettere in caricatura il cicisbeismo.
Fra i precursori del Goldoni, costoro furono cer-
amente i principali, ma non crearono nulla. Il crea-
ore della commedia italiana doveva venire da Ve-
ìezia.
D
(1) V. in: Rivista d'Italia, agosto 191 1, un nostro studio: Un
^ommediografo dimenticato.
CAPITOLO SECONDO
Carlo Goldoni e la Commedia dell' arte.
Secondo una leggenda, Carlo Goldoni, il domani
dell' insuccesso d' una sua commedia (/' Erede Fortu-
nata), avrebbe di punto in bianco, colle sue sedici
commedie nuove scritte e recitate in un anno, rifor-
mato il teatro comico italiano, creando la nuova com-
media. Codesta leggenda è stata accreditata anche da
buoni scrittori; ma non è così. Leggenda, e nient'al-
rro. E vero che dopo la caduta della commedia VE-
rede Fortunata con la quale si chiudeva la stagione
teatrale, il Goldoni per impedire cha il pubbblico ab-
bandonasse col nuovo anno il teatro , anche perchè
uno dei migliori artisti della compagnia, anzi il suo
principale sostegno , il celebre Darbes , insuperabile
nelle parti di Pantalone, aveva lasciato Venezia per
entrare ai servizi del re di Polonia, promise che per
la nuova stagione comica avrebbe fatto recitare se-
dici sue nuove commedie (I); è vero, che egli con
M) Mem. Par. II; Gap. VII. "^ S
— 257 —
uno sforzo prodigioso d' ingegno e con un non mi-
nore sforzo prodigioso di volontà mantenne la donchi-
sciottesca promessa, ma è anche vero, ch'egU aveva, as-
sai prima della caduta dell' Erede Fortunata, mrnato
con r opera sua le fondamenta del vecchio edifìcio
della commedia dell' arte. De! resto, le grandi rifor-
me non si fanno che per gradi ; nulla procede per
salti o per momentanea ispirazione. Una riforma com-
prende sempre un lavoro di preparazione.
Il genio del Goldoni fu per eccellenza riformato-
re; esso non s' adagiava che a stento e di malavoglia
nelle forme teatrali preparategli e trasmessegli dai suoi
predecessori. Anche dando i suoi primi passi nella
via teatrale, egli mostrò di stare a disagio nell' orga-
nismo già fossilizzato della commedia dell' arte. La
riforma del teatro comico, gli balenò alla mente an-
che prima che con pensiero maturo ritenesse che
fosse possibile. Come tutti i geni , egli era nato a
creare, e non peteva creare che riformando , o me-
glio, distruggendo ciò che allora costituiva la forma
e il contenuto dello spettacolo comico italiano. Nel
Belisario, che fu il suo primo lavoro dopo Y Ama-
lasunta consegnata alle fiamme e che precedette di
quindici anni la caduta dell' Erede Fortunata , trat-
tando un argomento già sfruttato dalla commedia a
soggetto, ebbe cura di tenersi lontano dalle scurrilità
dei commediografi del suo tempo. Finalmente il pub-
blico poteva vedere venir innanzi sulla scena Belisario
senza la compagnia d' Arlecchino che, fra un lazzo
e r altro, lo bastonava. " Gli intendenti non poterono
y^Jel Regno delle r^aschere 1 7
— 258 —
astenersi dall' applaudire quest'opera, benché ne rile-
vassero le imperfezioni. Vedendo essi la superiorità
della mia composizione sulle farse, sulle solite pue-
rilità dei comici, presagivano da questo primo passo
un seguito capace di svegliare l'emulazione, spianare la
via alla riforma del teatro italiano (1)". Nel Don Gio-
vanni Tenorio o il T)issoluto, egli che già conosceva
nel Molière uno dei più grandi scrittori comici mo-
derni, cercò di rendersi il meno possibile pedissequo
di quest' ultimo, che aveva scritto sullo stesso argo-
mento una commedia , come ugualmente cercò d' e-
vitare tutte le buffonate della commedia dell' arte.
Questa, manco a dirlo, s' era già impadronita da un
pezzo dell' argomento, il quale, come narra lo stesso
Goldoni, faceva le delizie del pubblico chiamandolo
in folla al teatro. " N' erano meravigliati i comici
stessi, e, o per burla, o per ignoranza, alcuni di loro
dicevano che 1' autore del Convitato di Pietra aveva
fatto il patto tacito col diavolo perchè lo sostenes-
se (2). " Nella commedia a braccio la statua del
commendatore parla, cammina ; Arlecchino si salva
dal naufragio mediante due vesciche gonfie , e il
protagonista , don Giovanni , esce fuori dalle acque
senza che i suoi abiti e i suoi capelli sieno bagnati.
Neil' atto quarto, al momento del convito al quale
era stato invitato il commendatore (di pietra), i lazzi ^
d'Arlecchino si moltiplicano all'infinito; un vero fuoco
(l)Mem. Part. I; Gap. XXXVL
(2) Moland, op. cit. Gap. XI,
— 259 -
d' artificio. Mentre stanno per mettersi a tavola, Ar-
lecchino grida al fuoco ; tutti s' alzano, si precipitano
fuori della sala; Arlecchino ne approfitta, rimasto solo,
per vuotare affrettatamente i piatti e le bottiglie. Ri-
torna Don Giovanni, ma il suo servitore non si dà
per vinto; sotto pretesto di cacciar via dal naso del
padrone una mosca, gli ruba un pollo; prende a schiaffi
i camerieri, i quali non trovano conette le sue beffe.
Don Giovanni, infine, lo fa sedere a tavola con lui.
Arlecchino prende posto accanto al padrone e grida
ai camerieri : " Serviteci. " Il suo cappello V imba-
razza e lo mette in testa a don Giovanni, che lo getta;
quindi condisce a modo suo V insalata versandovi so-
pra una bottiglia d' aceto e tutto il sale e il pepe che
che può trovare sulla tavola non che V olio delle lam-
pade, rimescolando il tutto col suo bastone. Ma l'ora
tragica s' avvicina; s' ode bussare alla porta; un val-
letto corre ad aprire, ma subito rincula sbigottito :
anche Arlecchino corre alla porta, ma preso dalla
paura indietreggia buttando a terra, V uno dopo l'altro,
quattro camerieri. Se non che , a malgrado del suo
sbigottimento, balbettando, può dire a don Giovanni
che la persona (la statua del commendatore) che a-
aveva accettato l' invito a pranzo, è fuori e va a na-
scondersi. Don Giovanni, senza punto commuoversi,
introduce la statua e la invita a sedere a tavola, poi
prende per un orecchio Arlecchino e lo fa pure se-
dere. La statua, con immenso stupore d'Arlecchino,
imangia e beve: la maschera fa un mondo di lazzi,
compreso quello del bicchiere del vino consistente
— 260 -
in uno sveltissimo salto all' indietro senza che si versi
una sola goccia del vino contenuto nel bicchiere che
si tiene in mano. Neil' ultima scena dell' atto quinto,
mentre il pavimento della stanza sprofonda e don Gio-
vanni precipita giù, tra le fiamme dell' inferno, Arlec-
chino gli corre dietro e gli grida : " Per carità , e i
miei salari ? Vorreste eh' io vi seguissi all' inferno per
farmi pagare ? (1). "
Ma il Goldoni, se sentiva la necessità della riforma
del teatro comico, sentiva pure che i tempi non e-
rano ancora maturi e ritornò alla vecchia commedia
col cM^omolo Cortesan; ma non vi tornò che in parte,
poiché se le parti secondarie di questa sua commedia
sono , come in quelle del teatro a soggetto , appena
indicate , è scritta invece , quella del protagonista.
Anche a questo conservò la mezza maschera ; ma
quanta differenza fra il Pantalone , che recitava la
parte del Cortesan, e il Pantalone dei vecchi scenari
della commedia dell' arte !
In questi Pantalone è sempre un vecchio, ora pa-
dre, ora marito ingannato, tal' altra consigliere ridicolo
o innamorato non meno ridicolo, un impasto di buf-
fonate e di trivialità, gareggiante, nei lazzi, con Ar-
lecchino o con Pulcinella ; nel Cortesan e un carat-
tere, un carattere umano, non un tipo irrigidito nelle
forme consacrate dalla tradizione teatrale. Il Goldoni
nel suo personaggio volle dipmgere un uomo di mondo,
tipo di probità, capace di rendere servizi e cortese;
(1) Moland, op. cit. Gap. XI.
- 261 —
è un uomo generoso senza essere prodigo , allegro
senza esser leggiero, corteggia le donne ma modera-
tamente, senza che il suo decoro ne resti offuscato;
prende parte a tutti gli affari, non per malsana infram-
mettenza, ma pel bene altrui: ama la tranquillità, de-
testa la sopraffazione. Qui non e' è più il personaggio
stereotipato della vecchia commedia; è la persona viva.
Il Goldoni sin dai primi passi della sua carriera
teatrale, non solo sentiva il bisogno d* una riforma,
ma aveva già fissato il suo sguardo sull' uomo le cui
orme, più tardi, avrebbe calcato per lasciare alla po-
sterità un monumento letterario non meno glorioso di
quello di quest' ultimo. Noi abbiamo pronunziato il
nome del Molière.
Il nostro lettore non creda che noi si voglia man-
care di rispetto all' illustre memoria del riformatore
della commedia italiana, se diamo a costui il Molière
come guida e il suo teatro come punto di partenza
della riforma stessa. Le grandi riforme, come abbiamo
già detto , non si compiono tutte in una volta e senza
che attraverso le stesse riforme non si ritrovi, qua e là,
il vecchio. Non e' è opera letteraria e artistica, anche
la più originale, che non abbia il suo addentellato in
un' opera o in altre opere precedenti. Nulla in arte è
slegato, indipendente. Lo stesso Molière, a malgrado
della sua grande originalità, in parecchie parti dell'opera
sua, non è che un continuatore del teatro spagnuolo o
italiano; senza venir meno all' originalità, egli saccheg-
giava allegramente questi due ultimi teatri e non lo
nascondeva, anzi ne menava vanto e diceva che il
— 262 —
bello non ha padrone, ed è preda di chiunque ; pro-
prio, res mullius. Se non che, il fatto bottino egli sa-
peva trasformare in cosa tutta sua, portante l'impronta
della propria individualità : il che non avviene ai vol-
gari saccheggiatori.
Ma per ritornare al Goldoni, l'opera da lui ini-
ziata e compiuta in Italia fu presso a poco simile a
quella iniziata e compiuta dal Molière in Francia ;
però l'italiano, scrivendo quasi tre quarti di secolo
dopo il francese, potè trarre profitto non solo dell'o-
pera di questo, ma anche di quella dei suoi fortunati
successori, come il Regnard, il Le Sage, il Panard, il
Marivaux ed altri, sbarazzandosi con maggior facilità
di molti detriti del passato, che il Molière non seppe
o non volle respingere. Questi, ai suoi tempi, aveva
trovato che la commedia dell'arte regnante in Francia
non rispondeva più ai gusti raffinati dell' alta società;
le dame e i gentiluomini che si commovevano alle tra-
gedie del Corneille e del Racine, andando al teatro
della commedia con I' orecchio ancora risonante de-
gli alessandrini del Cid o di Fedra, non potevano
accettare come spirito di buona lega le trivialità d'Ar-
lecchino o di Brighella o le pagliacciate delle farces
paesane. Se, sotto il regno di Luigi XIII, i Malherbe
che ritornavano a casa dal teatro italiano stomacati
dalle grossolanità dei comici della Corte di Mantova
o di Firenze, si contavano sulla punta delle dita, sotto
Luigi XIV, in mezzo a tanta fioritura di galanteria,
di raffinatezza, di buon gusto, erano diventati legione.
Il Molière comprese che il gusto del pubblico non era
— 263 —
più quello di prima e che da Plauto bisognava saltare
a Terenzio, dalla commedia sboccata alla commedia
corretta, fine. Lo spettacolo comico più che un in-
trigo rallegrato da lazzi, da buffonate, intramezzato da
situazioni strane, inverosimili, doveva essere sincera
rappresentazione della vita; i personaggi dovevano es-
sere non maschere, non tipi fossilizzati tramandati nella
loro rigida immobilità da una generazione all' altra
di comici, ma veri esseri umani , non dissimili per
nulla da quelli che vivono e si muovono nelle piazze,
nelle vie, nelle case del popolo come nei palazzi dei
signori. La commedia di costume o d' ambiente o di
carattere doveva definitivamente sostituire quella del-
l'arte. In quest' ultima, la vita artificiale era oramai tutto;
essa doveva rientrare ad ogni costo in quella reale.
Di qui , Tartufo , Arpagone , Giorgio Dandin , Ar-
nolfo e Crisaldo della Scuola dei mariti, Alceste del
S^isantropo, Argante dell* Jlmmalato immaginar io.
Lena e Caterina delle T^reziose Ridicole. In tutti co-
desti personaggi, si sente il calore della vita; non e' è
più il tipo fissato dalla tradizione. Il Goldoni sapeva
tutto ciò, e nelle sue Memorie, a più riprese, mani-
festa la sua grande ammirazione pel genio del com-
mediografo francese. Quando compose il Momolo
Cortesan pel comico Golinelli , egli già fantasticava
sulla riforma del teatro comico italiano: "Eccomi...
nella migliore condizione ; abbastanza ho lavorato su
temi rancidi, ora bisogna creare, bisogna inventare. Ho
tra mani attori che promettono molto ; ma per impie-
garli utilmente, è necessario rifarsi dallo studiarli; eia-
- 264 —
scuno ha il suo carattere naturale e se 1' autore ne
assegna al comico uno che sia appunto analogo al suo
proprio, la riuscita è sicura. Su via (continuavo nelle
mie tante riflessioni) ecco forse il momento di tentare
quella riforma avuta in mira da sì luogo tempo. Sì,
bisogna trattare soggetti di caratteri; sono essi la sor-
gente della buona commedia; da questo appunto in-
cominciò la sua professione il gran Molière e felice-
mente giunse a quel grado di perfezione dagli antichi
solamente indicatoci e non eguagliato ancor dai mo-
derni: facevo io male ad incoraggiarmi così? (1) ".
" Riprodurre caratteri, " oppure " riprodurre la na-
tura ", cioè, la vita quale essa realmente si svolge
intorno al commediografo ; ecco il segreto del teatro
comico, ecco la meta a cui mira sempre il Goldoni,
saltuariamente per un pezzo, nella prima parte della
sua carriera teatrale, quasi costantemente nella secon-
da, dopo la caduta dell'-EreJe.
La commedia a cui egli voleva dar vita, era, dun-
que, diversa, radicalmente diversa da quella che al-
lora dominava sulle scene italiane, la commedia del-
l'arte.
Già, non occorre più osservare dopo quanto scri-
vemmo nella prima parte di questo lavoro , come il
carattere essenziale della commedia a soggetto più che
nella improvvisazione del dialogo stèsse nel contenuto.
D* ordinario, quest' ultimo s' imperniava nelle masche-
re, le quali, ai tempi del Goldoni , almeno nell'Alta
(1) Mem. Part. I, Gap. XL.
— 265 —
Italia, erano quattro: Pantalone, il Dottore, Arlecchino
e Brighella ; altrove, qualche nome cambiava, ma, in
sostanza , erano due vecchi e due servi , ed anche
questi due ultimi pur quando perdevano momenta-
neamente la loro qualità di servitori, le linee princi-
pali del loro carattere rimanevano le stesse. Ma non
erano persone, erano tipi, come abbiamo detto, tipi
convenzionali, consacrati dalla tradizione, la quale, im-
mobilizzandoli, aveva loro tolto financo la parvenza
della vita. Gli scrittori di commedie a soggetto e i
loro interpreti, i comici, per quanto V ingegno dei primi
fosse fertile e l'arte dei secondi versatile, non uscivano
quasi mai dai confini loro segnati dalla tradizione.
Pantalone non poteva essere che Pantalone, cioè,
un vecchio più o meno sciocco, più o meno corbel-
lato dalle donne, più o meno ingannato dai servi, più
o meno disobbedito dai figli ; il Dottore non poteva
essere che il Dottore, cioè, un giureconsulto o un me-
dico ignorante, parolaio, sputa-sentenze, espettoratore
di sproloqui recitati con la velocità del lampo ; così
si dica delle altre maschere. Rappresentavano nell'arte
comica ciò che in quella della pittura bizantina fu-
rono i tipi jeratici. Quei certi Cristi , quelle certe
Madonne, quei certi Santi che popolavano le pareti
I delle chiese bizantine, erano figure allampanate, orri-
bilmente irrigidite nelle loro linee , che ricordavano
piuttosto lo scheletro anziché una persona di carne ed
ossa; esse erano passate attraverso le generazioni senza
che nessuno artista avesse potuto svegliarle dal loro
sonno più volte secolare. Così la commedia dell'arte :
— 266 -
qualche scrittore poteva creare una "invenzione" felice,
una maschera poteva creare un nuovo lazzo , ma in
fondo lo spettacolo rimaneva lo stesso. Pel pubblico
erano sempre le stesse commedie d' intreccio amoroso,
le stesse maschere. Erano sempre le vecchie cono-
scenze d' ieri, d' ieri l'altro, della precedente genera-
zione. Rendiamo la vita a codesti tipi invecchiati, fos-
sili , pensò il Goldoni : alla vecchia ed eterna com-
media d' intreccio facciamo seguire quella di carattere
o d'ambiente ; sia sempre la natura la nostra guida,
il nostro modello.
Per " natura " il Goldoni intendeva " vita " . Cer-
tamente tutti coloro che creano un'opera d'arte hanno
o hanno avuto di mira il vero. Nessuno di proposito
deliberato si fa riproduttore del falso, di qualche cosa
che non creda che sia il vero. Anche i più strampa- i
lati scrittori seicentisti , a malgrado della loro grotte-
sca gonfiezza, delle loro stravaganti metafore, ritene-
vano di riprodurre il vero, d' imitare la natura. Ma
non era che un' illusione. Anziché imitare la natura,
essi non riproducevano che certi atteggiamenti del loro
spirito smanioso di novità, certi stati della loro anima
guidati da una fantasia che si spingeva fino allo stra-
vagante, nemica d'ogni freno. Fra loro e la natura si
interponevano codesti atteggiamenti di spirito, codesti
stati d'animo che impedivano loro di vederla nel suo
aspetto genuino.
11 genio del Goldoni era eminentemente equilibrato;
le esuberanze di fantasia, la ricerca rabbiosa del nuo-
vo, del complicato, dell' involuto, del diffìcile ch'era
- Idi —
stata la caratteristica dell* età che precedette quella
che fu la sua, aveva fatto, per altro , il suo tempo ;
il pubblico n' era stufo. Al suo spirito, quindi, man-
cavano le spinte o le occasioni per uscire dalle vie
diritte , regolari e prendere quelle di traverso. Era,
inoltre, dotato d'uno spirito d'osservazione straordina-
rio; nelle cose vedeva di là dal loro esteriore, nelle per-
sone vedeva di là dalla loro forma. Sapeva acutamente
penetrare nel fondo delle anime ed analizzarne i senti-
menti. 11 suo sguardo si spingeva là dove altri non sa-
peva spingere il proprio : il che, anziché tarpargli la
fantasia, che aveva abbondante, rendeva questa pru-
dente, calcolatrice. Insomma, egli aveva tutte le qua-
lità per studiare la natura e d'esserne l'interprete fe-
dele, sincero. " La commedia — egli scriveva — altro
non è che una imitazione della natura ( I ) " . E seri
veva pure : " Cercavo di tenere dietro alla natura per
tutto, trovandola sempre bella... quando in ispecial
modo mi somministrava modelli virtuosi e sentimenti
della più sana morale (2) ". Imperocché, il Goldoni,
sempre ispirandosi al vero, nella natura non amava,
come si diceva allora, che il bello : il triviale, l'osce-
no. Io metteva volentieri da parte o presentava con velo
pudico, quale eccezione alla regola, anche perchè un
certo indirizzo moralizzatore cominciava a prevalere
nella letteratura : ma il primo ne esagerava, ne altri-
menti falsificava. Lo rendeva nel suo vero aspetto.
(1) JUCem., Par. II. Gap. III.
(2) A/em.. Par. II. Gap. IV.
— 268 -
Non diciamo ch'egli sempre cogliesse codesto vero;
no : ma quasi sempre imberciava nel segno come lo
mostra chiaramente tanta parte dell'opera sua, la quale,
se si ragge ancora sulle scene, è appunto perchè con-
tiene ciò che il suo autore cercava con tanto studio :
la vita. Laonde, non poteva egli unirsi al gregge dei
laudatori dei tempi antichi per ritenere che le " ma-
schere u esprimessero ancora la vita contemporanea
italiana. Egli, del resto, giudicava severamente lo spet-
tacolo comico dei suoi tempi , che si componeva
" di farse triviali e abbiette e di produzioni gigan-
tesche " (1). Egli, come già abbiamo notato, aveva
voluto porvi riparo sin dal suo esordire sulla scena. '^■
Abbiamo accennato al Momolo Cortesan, dove la
maschera del Pantalone è trasformata in un carattere ; \
ecco il Prodigo in cui la stessa maschera, che sino I
allora era stata fonte d' infrenabile riso, ha accenti
umani e nulla ha più di comune col vecchio Panta-
lone della commedia a soggetto. Il Goldoni ricavò
codesto nuovo carattere — come poi scrisse egli
stesso (2) — non dalla classe dei viziosi, ma da quella
dei ridicoli. " Il mio Prodigo non compariva gioca-
tore, dissoluto, splendido. La sua prodigalità altro non
era che debolezza ; dava pel solo piacere di dare, ed
aveva un fondo di cuore eccellente. La sua dabbe-
naggine unitamente alla sua credulità lo esponevano
al disordine e alla derisione. Questo carattere era af- •
(i) Mem. Par. II. Gap. IH.
(2j Mem. Par. I. Gap. XLI.
— 269 -
[atto nuovo, ma ne conoscevo gli originali, e li avevo
veduti e studiati in riva alia Brenta, fra gli abitanti
di quelle deliziose e magnifiche ville, ove spicca l'opu-
lenza e si rovina la mediocrità „. Lo stesso Panta-
lone umanizzato, tolto al gelido amplesso della tradi-
zione teatrale, egli ci mostra nell' Uomo Prudente,
commedia in prosa, scritta pel Darbes , che, avendo
fatto fiasco nel Tonin Bella-grazia dove aveva voluto
recitare senza maschera, questa volle riprendere nella
nuova commedia ; nella quale sebbene Pantalone si
mostri col viso coperto, pure è un carattere per ec-
cellenza umano ed affatto diverso da quello conven-
zionale degli Scenari. Come in questi ultimi, egli è
un negoziante veneziano, rimaritato con Beatrice e della
prima moglie ha due figli, Ottavio e Rosaura. Bea-
trice è civetta, il figlio è libertino, la figlia sebbene
sciocca, pure coltiva un intrigo amoroso. Pantalone
con la sua bontà e la sua prudenza cerca di metterli
sulla via del bene ; ma è tempo perso. Prova con la
severità, ma non fa che inasprirli. La moglie pensa
di disfarsi del marito col veleno e trova un complice
nel figliastro ; !a giustizia interviene ed arresta Bea-
trice ed Ottavio ; ma Pantalone nasconde il corpo del
reato (la zuppa cosparsa d'arsenico a lui destinata) e
■>! la energico difensore dei due colpevoli; questi sono
osoluti : ravveduti, piangenti, si gettano nelle braccia
del loro salvatore. Dov'è più il Pantalone della com-
media dell'arte ?
Uomo d'animo nobile e prudente è ancora Panta-
lone nella Putta Onorata., commedia in prosa ; ne di-
— 270 —
verso è Pantalone dell'altra commedia, ugualmente in
prosa, la Buona Moglie, seguito della prima. Panta-
lone, il quale ha ritrovato un suo figlio smarrito in Pa-
squalino, che ha sposato Bettina, una bella ed onesta
popolana, resta profondamente addolorato quando ap-
prende che il suo figliuolo forma l' infelicità della
moglie: è dissoluto, giuocatore, ha dato fondo a tutto
il suo. Pantalone, invece di sgridarlo, ricorre alle buone
maniere ; gli dipinge al vivo il carattere dei cattivi
amici che lo circondano, il torto che fa al suo nome,
a quello del padre, all'affetto della moglie virtuosa e
prudente; Pasqualino dapprima fa il sordo, poi la dolce ,
eloquenza del padre comincia a penetrargli nell'animo, P
ne e pienamente investito, si getta ai piedi di Panta-
lone e chiede perdono, che, s' intende, ottiene tanto
dal padre quanto dalla moglie. Non è più un Panta-
lone ritoccato, rimaneggiato ; è un nuovo personaggio :
col vecchio non ha comune che il solo nome.
Laonde, non è esatto il dire che il Goldoni riformò
tutto in una volta il teatro comico italiano, iniziando la
riforma arditamente con le sue sedici commedie nuove
annunziate nella stessa sera in cui al teatro di Sant'An-
gelo cadeva la sua Erede Fortunata. A tale riforma egli
s' era già preparato gradatamente in precedenza, con
parecchie commedie tutte scritte o in parte scritte.
Con le sue sedici commedie nuove egli proseguì con
più ardore, con più sicurezza, con più unità di con-
cetto la sua riforma percorrendo la sua via senza soste,
senza ritorni, senza pentimenti. Certamente egli con-
servò, in questo suo secondo periodo d'attività comica,
— 271 —
se non sempre ma quasi sempre i nomi delle vecchie
maschere, ma soltanto i nomi. Sotto, non c'erano più
i vecchi personaggi.
Abbiamo già parlato della maschera del Pantalone
di alcune commedie goldoniane che precedettero la
così detta " riforma ". Con questa, Pantalone assume
un carattere sempre più umano, più vero.
Nel Teatro Comico, la prima delle sedici commedie
nuove. Pantalone recita nella commediola : // padre
rivale di suo figlio, che si dà in prova ; sebbene anche
qui Pantalone porti la maschera, pure non è più il
personaggio ridicolo degli Scenari dello Scala e d'altri
scrittori di soggetti ; egli fa ancora ridere, ma quando
s'accorge che il proprio figliuolo ama la donna da lui
adorata, sagrifica senza lazzi, senza boccacce, ma no-
bilmente, l'amor suo a quello del giovane. Il pubblico
non ride più ; egli resta commosso dinanzi a quel sa-
grificio. -''
In molte delle sue successive commedie, il Goldoni
soppresse anche il nome del Senex dei vecchi Sce-
nari; per esempio, se nel Padre di Famiglia, rappre-
sentato a Venezia nel 1751, si chiama Pancrazio, nel
Burbero Bene^co, rappresentato a Parigi nel 1771, si
chiama Geronte. Fra queste due date, quante volte
Pantalone, nell' opera del Goldoni, non portò più il
suo vecchio nome ! Ma ripetiamolo : poco importa il
nome; il " Vecchio " di Plauto e di Terenzio, quello
della commedia dell' arte, col Goldoni si trasforma
completamente e diventa multiforme. Esso rappresenta
r uomo maturo in tutte le posizioni sociali, con tutte
- 272 -
le sue passioni, i suoi vizi, e spesso anche con tutte
le sue virtù ; non è più una figura rigidamente disegnata
sulla carta e poi accuratamente ritigliata con le forbici,!
ma è persona viva. Ride, piange, si commuove, ha
debolezze, ha vizi, ma sa correggersi, è capace di com-
piere sagrifici , atti virtuosi. A.nche nel riso è cor-
retto. L'artista che in lui s'impersona ne risente l'in-
flusso benefico ; sotto il suo abito, si comprende che
non c'è più l'antico istrione, l'antico saltatore di corda,
l'antico suonatore di tromba o di tamburo delle piazze
e delle fiere. E come è vario questo nuovo Panta-
Ione goldoniano ! E avaro nel Vero Amico, nell'Alvaro
e neW Avaro Fastoso; e pieno di giusto rigore nel
Padre di Famiglia ; è cattivo, sebbene in fine si rav-
veda, e burbero, nel Fodero Brontolon ; è burbero,
ma dal cuore d' oro, nel Burbero Benefico ; è padre
debole nella Serva Amorosa; è credulo nella Finta
Ammalata; è zimbello dei capricci della moglie nella
Sposa Sagace ; e cerimonioso sino al ridicolo negli
Innamorati ; e credulo e buono nel Bugiardo , dove
conserva insieme alla maschera e al vecchio vestito
il suo nome tradizionale ; nel Poeta Fanatico e ta-
gliato all'antica, non ama le raffinatezze moderne , tra-
scura gli affari di casa per le Muse, che ama alla
follia, sebbene egli stesso non sia poeta ; nella Casa
Nova, è custode geloso del principio dell'obbedienza
passiva dei figli verso i genitori ; nella Figlia Ubbi-
diente e credulo, fatuo ; nel Curioso Accidente, e vit-
tima d'un inganno ordito da lui stesso.
Soprattutto egli è il rappresentante del buon senso,
— 273 -
anzi, questo è incarnato in lui. Gli altri personaggi
della commedia possono, chi più, chi meno, fare uno
strappo a quest' ultimo, ma lui s'aggrappa ad esso e
non falla, o quasi mai. Ne la parola " aggrappare "
sarebbe veramente propria nei suoi riguardi, perchè
parrebbe, con l'idea di sforzo che esprime la parola
medesima, eh' egli temesse di perdere il buon senso ;
ma Pantalone questo timore non 1' ha mai. Il buon
senso e lui sembrano nati ad un parto. E il vero tipo
del veneziano, o almeno, del vecchio veneziano per-
vaso di buon senso dalla testa ai piedi. Ecco un
saggio del buon senso del Pantalone goldoniano. ^
(Panialqne a Florindo).
" Amar !a muger xè cossa bona, ma non bisogna amarla a costo
della propria rovina. Un marìo, che ama troppo la muger, e che per
Ito troppo amor se lassa tor la man, se lassa orbar ; el xè a pezo condi-
zion d' un omo perso per una morosa. Perchè dalla morosa, illumina
eh' el sia, el se ne poi liberar, ma la muger bisogna co el 1' ha segondada
a principio, eh* el la sopporta per necessità, e se la morosa per conservar
la grazia dell' amigo, qualche volta la cede, la muger cognossendo aver
dominio sul cuor d'^1 marìo, la comanda, la voi, la pretende, e el po-
ver'omo xè obligà accnodarghe per forza quello che troppo facilmente
el gh'à accorda per amor " (I).
Dell'altro Senex dell'antica commedia, del dottor
Graziano Ballazon, nel teatro goldoniano non è rimasta
traccia alcuna. C'è ancora un secondo vecchio, d'or-
dinario, padre di Lelio o di Florindo, oppure di Ro-
0) La Donna Prudente, Atto li, Se. 1.
!ACel Regno delle SìiCaachere. 18
— 274 —
saura; ma non assorda o addormenta il pubblico coi
suoi sproloqui infarciti di pseudo-sentenze, di citazioni
latine, di ricordi classici e mitologici. Era quest'ultimo
personaggio una maschera perfettamente sconclusionata,
che se nella sua prima giovinezza poteva essere una
geniale caricatura del giureconsulto o del medico di
quei tempi, nella sua tarda vecchiezza era divenuta
triviale e noiosa. Nel teatro del Goldoni, il Dottore
è un personaggio secondario, è un Pantalone (nuova
edizione) assai ridotto, una parte che non decide
mai del successo o della caduta d'una commedia del
grande veneziano. Questi, come aveva fatto per Panta-
lone, dal campo delle maschere, dei tipi consacrati
dalla tradizione, la fece rientrare nel campo delle per-
sone viventi. Se spesso è giureconsulto o medico, non
è più consigliere di re o imperatori immaginari di non
meno immaginari regni o imperi ; non e più battuto
da Arlecchino o da Brighella, e se qualche volta spro-
posita, lo fa con garbo ed anche con spirito. S'intende,
non fa più lazzi ne da solo, ne con Pantalone, ne
tanto meno coi servi.
Le maschere dei servi (Arlecchino e Brighella, ge-
neralmente) subiscono nelle commedie del Goldoni
le medesime sorti delle altre due maschere. Esse,
dalla riforma goldoniana, vengono fuori completamente
trasformate, anche perchè cessano di essere entrambe
parti principali della commedia.
Coi servitori del Goldoni s'inizia la serie dei servi-
tori moderni; non sono più tipi convenzionali, e con-'
servando qualche volta la maschera, non conservano
— 275 —
affatto il grossolano e rumoroso spirito d' una volta.
Non bastonano più i padroni, e nemmeno essi sono
bastonati. Non sono più l'uno (Arlecchino) eternamente
sciocco, e l'altro (Brighella) eternamente furbo. Il primo,
è vero, conserva ancora un po' dell'antica sua inge-
nuità, ma è ingenuità umana, non inverosimile ; il se-
condo conserva sempre la sua vecchia furberia, ma
questa è anche umana, cioè, non la fa a calci, non
diremo col buon senso, ma col senso comune, soprat-
tutto che sparendo dalla scena i personaggi perfetta-
mente stupidi, certe " invenzioni " che potevano met-
tere in imbarazzo soltanto gli sciocchi, sono anche
scomparse. I servi goldoniani quasi sempre non sono
che macchiette ; sono i servi quali ognuno li può ve-
dere nelle anticamere, nei servigi che rendono ai loro
padroni, nei loro convegni, nei loro intrighi di cucina
o di portineria. C'è ancora il servo che fa da mez-
zano al padroncino o che si fa gabbare dal suo com-
pagno meno sciocco o più furbo di lui; ma è il servo
che s'incontra dappertutto. Se non che, non s'addor-
menta più sulla strada mentre il padrone parla con
l'amante, né, svegliatosi, torna a riaddormentarsi, anche
se preso a pedate o per un orecchio; non gli si dà
più a credere che le viti si legano con le salsiccie,
né che i fiumi portano al mare non acqua, ma vino;
del resto, se è chiamato a portar dell'acqua per ispruz-
zarla sul viso della padrona svenuta, egli non porta
più dell'orina ; se ne guarderebbe bene. Con ciò non
vogliamo dire che di tanto in tanto il vecchio servo
coi suoi lazzi non faccia capolino ; no ; ma è una
— 276 —
breve e timida apparizione. Ma, quasi sempre, in lui
si disegna perfettamente il nuovo servitore.
Uno di codesti servi è certamente Trastullo , nel
Padre di Famiglia. Ecco una scena fra servo e pa-
drone (Pancrazio) che non rassomiglia affatto a nes-
suna delle scene fra servi e padroni della vecchia
commedia a braccia :
TRAST. Illustrissimo...
PANC. Zitto con questo illustrissimo ; non mi stare a lustrare, che
non voglio.
TRAST. La mi perdoni ; sono avvezzo di parlar così e mi pare di
mancar al mio debito, se non Io fo.
PANC. Avete servito dei conti e dei marchesi , ma io sono mer-
cante e non voglio titoli.
TRAST. Ho servito delle persone titolate, ma ho servito anche gente
che sta a bottega, fra i quali un pizzicagnolo, un macellaio...
PANC. E a questi davate dell' illustrissimo ?
TRAST. Sicuro , particolarmente la festa ; sempre illustrissimo.
PANC. Oh questa è graziosa ! Ed essi se lo bevevano il titolo senza
difficoltà, eh ?
TRAST. E come ! Il pizzicagnolo particolarmente dopo d'aver fatto
addottorare un suo figlio , gli pareva li' esser diventato un
gran signore.
PANC. Se tanto rigonfiava il padre, figuratevi il figlio 1
TRA.ST. L' illustrissimo signor Dottore ? Consideri ! In casa si faceva
il pane ordinario, ma per lui bianco e fresco ogni mattina.
Per la famiglia si cucinava carne di manzo e qualche volta
un capponcello; per lui c'era sempre un piccion grosso, una
beccaccia, o una quaglia. Quando egli parlava, il padre, la
madre, i fratelli tutti stavano ad ascoltarlo a bocca aperta.
Quando volevano autenticare qualche cosa dicevano : 1' ha
detto il Dottore ; il Dottore 1' ha detto , e tanto basta. Io
sentivo dire dalla gente che il Dottore ne sapeva pochino ;
— 277 —
ma però hanno speso bene i loro denari, perchè con l'ac-
casione della laura dottorale sono diventati illustrissimi anche
il padre e la madre, e se io stavo con loro un poco più,
diventavo illustrissimo anch' io.
(Atto I, Scena VI)
Trastullo è proprio il servo moderno, che, lasciato
il servizio, dice male del padrone.
Il servo del teatro goldoniano non conduce più l'a-
zione, non è più il Deus ex machina dell' intreccio,
non mette tutto capo a lui, ne lo svolgimento della
commedia sta nelle mani di lui. E' sempre un per-
sonaggio secondario, a meno che non si tratti di serve,
poiché in questi casi il Goldoni non ritenne che la
sua riforma si dovesse spinger sin là: e ci diede la
Serva ylmorosa, per non citare che il suo capolavoro
nel genere predetto. Del resto, le serve, nel teatro del
grande veneziano, hanno conservato, anche senza es-
sere il pernio dell' azione comica , tutta l' importanza
che avevano nel teatro dell'arte ; soltanto , non sono
sempre civette, sempre mezzane, sempre volgari come
in quest' ultimo. Egli ha saputo creare il tipo della
serva am.orosa, della serva di spirito, della serva one-
sta. Abbiamo già citato la Serva Amorosa ed ora ad
essa possiamo aggiungere la Cameriera grillante e
la Castalda. Nella prima è una serva che col suo af-
fetto, la sua devozione e la sua prudenza rimette la
tranquillità nella famiglia del suo antico padrone; nella
seconda. Argentina, cameriera di Pantalone, col suo
spinto inesauribile costiinge costui a dare alle due
- 278 —
figlie per mariti due giovanotti che le amavano ar-
dentemente ; nella terza, infine, una serva con le sue
buone maniere e la sua buona condotta arriva a farsi
§posare dal padrone.
La maschera che il Goldoni abolì completamente
nel suo teatro fu quella del Capitano. Questi che col
suo cappello piumato e il suo spadone aveva glorio-
samente calcato le scene per parecchie generazioni,
riempiendo l'orecchio degli spettatori con l'eco dei suoi
bellicosi sproloqui, fu sostituito dal Goldoni con l'uf-
fiziale leggermente scapato com' è Don Garzia nello
Amante (Militare, o tenero ed innamorato come è don
Alonzo nella stessa commedia, o il signor De La Cot-
terie nel Curioso Accidente. Capitan Coccodrillo e
Capitan Spavento di Valle d' Inferno si umanizzavano,
dal campo della caricatura e del grottesco passavano
in quello della realtà, della vita.
Come già notammo nella prima parte di questo stu-
dio, la commedia dell'arte fu sempre una commedia
d' intreccio, sempre o quasi sempre amoroso. Il Gol-
doni riformatore accordò tutte le sue preferenze alle
commedie di carattere , e quando la sua commedia
seguì altra via, fu d'ambiente, di costumi.
Abbiamo già visto che cosa fosse un " intreccio "
nella commedia dell'arte ; un'avventura quasi sempre
d'una semplicità infantile , ma spesso sovraccarica di
incidenti 1' uno più strano o inverosimile dell' altro ;
un'azione che mai si distingueva per la sua origina-
lità, ma ritardata o sospesa, nel suo svolgimento , da
" invenzioni ", cioè, da intrighi che ne ingarbugliava-
— 279 —
no le file, il tutto con copioso condimento di buffo-
nate, di trivialità, di lazzi. Il Goldoni passò un frego
su tutto ciò, e non volle riprodurre che caratteri , o
dipingere la vita reale nel modo come a lui si pre-
sentava. La commedia di carattere tanto da lui curata
e accarezzata, era da lui ritenuta come il non plus
ultra dell'arte comica, forse spinto a questa sua con-
cezione dell'arte dall'esempio del Molière ; il quale,
nelle sue migliori commedie, non fu che il riprodut-
tore di caratteri. Anche quando il disegno d'una ri-
forma del teatro comico italiano non si presentava alla
sua mente che come una visione confusa ed indeter-
minanta, egli amava la commedia di carattere. Ab-
biamo già tenuto parola di ^M^omolo Cortesan^ del
Prodigo, dell' Uomo Prudente ; ecco ancora altre com-
medie di carattere : la T)onna di Qarbo, Tonin Bella
Qrazia , la Vedova Scaltra , la Putta Onorata , la
^uona moglie, il Cavaliere e la T)ama, tutte scritte,
come le tre precedenti, prima che il nostro autore
si mettesse risolutamente sulla via della riforma. Nel-
l'ultima, il Goldoni mette in iscena e punzecchia il
cicisbeismo con più arguzia, con più vis comica del
fiacco e slavato Fagiuoli. Proclamata arditamente la
riforma, egli alternò le commedie di carattere con quelle
di costumi o d'ambiente.
Ciò che la commedia dell' arte ignorò completa-
mente fu la vita reale. Lo spettacolo comico , che
aveva per base le maschere ; coi suoi tipi dove l' in-
verosimile prevaleva sul vero, il grottesco sul comico,
la caricatura sulla satira , non poteva avere il senso
— 280 —
della vita qual' è ; la vita non era da esso compresa
che attraverso le maschere stesse, cioè, attraverso un
prisma fatto di tradizioni, di pregiudizi teatrali, di ca-
pricci o fantasie di comici , di rimaneggiamenti fatti
alla luce falsa della ribalta. Sfuggiva così ad esso il
senso di ciò che di palpitante , di vivo si svolgeva
intorno al pubblico e agli attori stessi ; all' incontro,
il Goldoni portò il suo osservatorio in mezzo al pub-
blico medesimo, nella strada, nella casa come nel pa-
lazzo. Volle vedere con gli occhi propri e non con
quelli degli altri, studiare da se sul corpo vivo e non
sul corpo morto, o peggio, sui libri. Nelle sue com-
medie di costumi e d' ambiente, cioè, di vita reale,
quasi sempre popolare o borghese, come nei Quattro
Rusteghi , nelle baruffe Chiozzotte , nel Campielo ,
nella Casa Nova, nella trilogia le Smanie della X)il'
leggiatura, le avventure della Villeggiatura e Ritorrìo
dalla Villeggiatura, nella Bottega del Caffè, nel Veti-
taglio, nel Burbero benefico ed in tant'altre gli uomini
e le donne sono persone viventi, non trapiantate sulla
scena da vecchi soggetti o peggio dal campo della
fantasia ; egli, tutte codeste persone , non solo le ha
veduto , ma le ha udito discorrere , ha assistito allo
svolgersi delle loro passioni, ne ha studiato l' animo.
Sono persone che l'autore, il giorno prima di mettersi
a tavolino per scrivere la sua commedia, ha avvicinato
al caffè, all'albergo, in piazza, in villa, in una botte-
ga, nello studio d'un avvocato, al ridotto, in una con-
versazione tenuta da una dama, o al canto d' una via
dove alcune popolane parlavano delle loro piccole fac-
— 281 —
cende di famiglia o tagliavano i panni addosso alle
vicine. Delle classi popolari egli ha studiato insieme
ai costumi il linguaggio. Nelle sue commedie ve neziane
o nelle "parti" veneziane delle sue commedie italiane,
la Venezia del popolo vi si specchia con tutto il brio,
con tutta l'arguzia del suo dolce ed un po' effeminato
dialetto. Il Goldoni completa il Canaletto e il Longhi;
la commedia iategra la pittura, quando non ne e il
migliore commento. Date un'occhiata alle tele di codesti
due pittori, leggete il teatro " veneziano " dell' altro
e voi vedrete sorgere dinanzi alla vostra mente Ve-
nezia del Settecento.
Si scostò il Goldoni dalla commedia dell'arte an-
che pel luogo dell'azione. Già sappiamo quale fosse,
generalmente, quest'ultimo (1). Il Ferrucci, che s'i-
spirava alla regola ordinaria, eh' era la classica, de-
rivata dai precetti aristotelici ed oraziani, insegnava :
" Che nella commedia deggia la scena regolarsi a
modo di strada di città con case particolari... concor-
do col Minturno... Che vi debba essere la piazza per
passeggiarvi i recitanti è necessario e larga quanto si
possa per avervi spazio di camminarvi, e vi aggiungo
le diverse uscite, come strade, acciocché non si fac-
ciano incontrature di scena tanto aborrite e contrarie
( 1 ) La commedia dell' arte, oltre la commedia propriamente detta,
abbracciò anche altre forme di composizioni sceniche sia comiche sia
tragico-comiche, o di natura pastorale, o mitologica, o spettacolosa. Vi
entrò anche la drammatica spagnuola o spagnoleggiante con le sue com-
medie di cappa e spada ecc. In tutte codeste composizioni la stabilità
della scena scomparve.
/"
- 282 —
al verosimile... Nelle case della commedia sono ne-
cessarie le finestre e le porte per diversi accidenti che
sogliono nascere nella tessitura della favola " (1). Eb-|
bene, a malgrado dell'amore del " verosimile " tanto
da riuscire abborrite le " incontrature di scena " , pure
ai commediografi del teatro dell'arte, mai, o quasi mai,
era apparsa come cosa inverosimile per luogo d'azione
d'una commedia una pubblica piazza con case e stra-
de. Ne diversamente pensavano i letterati scrittori di
commedie sostenute. Essi si erano tenacemente attac- •
cati alla tradizione classica, ne vollero mai abbando- I
narla, anche quando altri scrittori spagnoleggianti, non
avversati dal pubblico, avevano messo a dormire i vec- |
chi precetti. Di codesta disposizione classica della
scena (piazza con case particolari e strade) già no-;
tammo i difetti, ch'erano soprattutto d'inverosimiglianza
e ai quali il commediografo cercava di sfuggire con
ripieghi diremmo quasi fanciulleschi ; il che non sol-
levava ne critiche , ne proteste , poiché il pubblico,
che s'era abituato a quella disposizione di scena, non
sapeva più distinguere il verosimile dall' inverosimile.
Il Goldoni , all' incontro , rimettendo la commedia
nella realtà, volle che il luogo dell'azione non fosse
più stabile, o meglio, volle che la disposizione della
scena non fosse sempre quella che insegnava il Fer-
rucci ai commediografi del suo tempo. Al suo buon
senso ripugnava che le azioni più intime della vita,
le scene di famiglia, avessero luogo sulla piazza, sulla
(I) Op. cit., p. 28.
— 283 —
strada, davanti alla porta d'una casa. Che valeva ci-
tare Plauto che nella (^Costellarla (Atto II, Scena 1)
presenta una cortigiana che fa la sua " toilette " di-
nanzi l'uscio della propria casa, quasi che quel tratto
di marciapiede fosse il suo " boudoir " ? La " dispo-
sizione di scena " perrucciana si prestava a troppi in-
convenienti perchè potesse ancora resistere alla critica.
Già, in Francia, prima col Molière, poi coi continua-
tori dell* opera sua , la scena stabile , la scena con
piazze, case e strade, aveva perduto, in parte, la sua
riputazione d'una volta ; vi si contravveniva facilmente.
Anche in Italia, col Gigli, col Fagiuoli, con altri, essa
aveva perduto il suo prestigio di dogma. Il Goldoni
diede ad essa l'ultimo colpo. L'azione della comme-
dia goldoniana si svolge, quindi, quasi sempre in casa,
in famiglia. Le signore dell'aristocrazia non tengono
conversazione, non ricevono i loro cicisbei che nei sa-
lotti ; le fanciulle, se hanno da parlare coi loro inna-
morati, non vengono alla finestra o non escono fuori
dell'uscio, senza troppo discostarsi da questo, come
prescriveva il Ferrucci, per non farsi pigliare per
donne da trivio. Anche nelle commedie popolari non
sempre l'azione si svolge sulla strada. Vero è che
qualche volta la scena si svolge nella piazza, e più di
una volta Rosaura o Beatrice, oppure semplicemente
la serva. Corallina, fanno conversazione coi loro in-
namorati dalla finestra ; ma è già in linea d'eccezione
e quando accade il commediografo ne ha le sue
buone ragioni ; il che rende verosimile la scena.
Citiamo a caso: la bottega del Caffè, dove l'azione
— 284 ^
si svolge con la massima naturalezza sulla piazza
tra la bottega del cafiettiere, la casa del biscazziere
e r albergo dove va ad alloggiare Placida , la mo-
glie di Flaminio, e la casa della ballerina Lisausa ;
le baruffe Chiozzotte, dove V azione, in gran parte,
ha luogo sulla strada fra barcaiuoli , mogli e figlie
di barcaiuoli ed altra simile gente , che , meno la
notte, vive quasi sempre all'aria aperta; il Ventaglio,
in cui l'azione si svolge sulla piazza, fra le case e le
botteghe dei principali personaggi della commedia; il
Campkloy dove la piazzetta col suo vario movimento,
con le sue ciarle, coi piccoli intrighi della gente umile,
è la vera protagonista della favola. La vita popolare
italiana, che nella bella stagione pulsa all' aperto,
in piena aria, su codeste scene non vi si sente a di-i
sagio ; vi scorre naturalmente, come nel proprio am-'
biente, senza che il commediografo, per rendere ve-
rosimile l'entrata o l'uscita dei personaggi, il loro in-
contro o i loro discorsi, abbia bisogno di ricorrere a
mezzucci, a spedienti, a spiegazioni qualche volta di
una ingenuità fenomenale , come , pur troppo , prima
del Goldoni, facevano i compilatori di Scenari e prima
di costoro i cinquecentisti eruditi con le loro comme-
die calcate con cura religiosa su quelle del teatro co-
mico latino.
Ebbene, come già notammo, col dilagare in Italia
del teatro spagnuolo o spagnoleggiante i nostri pub-
blici sebbene fossero già abituati a vedere trasportare il
luogo dell'azione da una città all'altra, dalla città alla
campagna, o svolgersi quest'ultima in un tempo mag-
— 285 —
giore di ventiquatt'ore, pure i rigidi custodi dei pre-
cetti classici non mancarono di criticare severamente il
Goldoni pel poco conto in cui teneva le classiche re-
gole dell' arte. Nelle (Memorie il nostro scrittore ne
parla così : " Riguardo ali' unità dell' azione e a quella
del tempo, nulla avevano da rimproverarmi... preten-
devano bensì che avessi mancato solamente all'unità
del luogo. L' azione delle mie commedie però suc-
cedeva sempre nella città medesima, o i personaggi
non uscivano mai da essa ; scorrevano, è vero, diversi
luoghi, ma costantemente dentro la cerchia delle stesse
mura; credetti per ciò, come tutt'ora credo, che così
l'unità del luogo fosse mantenuta bastantemente (1) ".
Ma le differenze fra la commedia dell' arte e quella
del Goldoni non si fermavano qui. Abbiamo già detto
come la prima non solo fosse triviale, grossolana, ma
anche immorale. Sebbene la gente di chiesa e le
anime timorate invocassero i fulmini del cielo ed una
più accurata e severa censura da parte dei governi
sugli spettacoli comici, questi continuavano , quando
più quando meno, ad essere in generale in guerra se
non con la morale, certamente con la decenza. Gli
Zanni, soprattutto, usavano un linguaggio che oggi fa-
rebbe arrossire uno stallino. Il Goldoni tagliò corto,
e air immoralità dell'argomento e alla trivialità e scon-
cezza del dialogo sostituì la moralità e la decenza.
Volle assolutamente che il teatro fosse scuola edu-
catrice, o per lo meno, non fosse complice compia-
ci) Par. II; Gap. Ili,
u
— 286 —
cente d'immoralità o di rilassatezza di costumi. Nel
dipingere il vizio o il ridicolo, egli sempre si pro-
pose il precetto d' Orazio, di castigare ridendo, ne
perchè la sua sferza cadesse meglio sulle spalle dei
dei colpiti e ne arrossasse la pelle volle che la lubri-
cità d'argomento o di dire gli venisse in aiuto. Egli en-
trava così arditamente in quella corrente settecentesca,
educatrice di tutta una generazione, che verso la metà
del secolo XVIII intraprese la rigenerazione dell* a-
nima italiana, precedendo o aiutando con l'opera
sua quella del Parini, dell'Alfieri e di tanti altri scrit-
tori di quel tempo. Nessuna delle sue commedie può
dirsi che sia estranea ad un insegnamento morale, e
tutto il suo teatro può recitarsi senza che una sola
signora sia costretta ad abbasscire gli occhi o a farsi
schermo al viso col ventaglio. Gli stessi sensi doppi
che formavano la delizia delle vecchie platee, non vi
trovano che scarso, anzi scarsissimo seguito; quelli ar-
ditissimi, sconcissimi degli Scenari di Flaminio Scala
non sono per lui che cose sepolte da un pezzo ; egli
voleva sì che il pubbHco ridesse, ma senza che lo
scherzo fosse cosparso di sale grossolano. La salacità
di Giovanni Boccaccio, dell'Aretino, o quella del suo
contemporaneo e conterraneo Baffo (un poeta dialet-
tale veneto di fama più che lubrica) non aveva per
lui nessuno allettamento.
La moralità del suo teatro fu ampiamente ricono-
sciuta dai suoi stessi comtemporanei. Clemente Van-
netti scrisse che il Goldoni, inferiore a Terenzio per
l'intreccio (?) e a Plauto pel brio comico, vinceva
— 287 -
Tuno e l'altro per la moralità (I). Pietro Verri tro-
vava nelle commedie del veneziano un fondo di vir-
tù vera, di umanità, di benevolenza, d'amor del do-
vere che riscalda gli animi di quella pura fiamma che
si comunica per tutto ove trova esca (2); infine, il
Roberti, gesuita, che non nutriva pel teatro l'odio
del p. Contzen, ne quello meno feroce del p. Otto-
nelli, in un poemetto : La Commedia, indirizzato allo
stesso Goldoni, cantava non senza eleganza :
" So che la tua mercè, oggi non debbe
Santa onestà lanciare il suo turbato
Candido vai sopra del volto tinto
Di vermiglia vergogna : e so, che giusto,
Quasi a donzella di pregiata fama
Ornò con bende la modesta fronte
Alla Commedia tua, quel grave e illustre
Per saper vero, per canuto senno
E per religione intatta e pura
Maffei (3) ".
Qualche volta, è vero, i suoi personaggi commet-
tevano cose disoneste; ma egli subito ne para i tristi
effetti con apportune spiegazioni. E vero anche che
qualcuno, in questo caso, potrebbe dire : la buona in-
tenzione, nell'autore, di non deviare dal retto, e' è, e
bisogna tenergliene conto. Così nella Sposa Sagace
(1) Operette It. e Lat. Venezia, 1831; voi. Vili; p. 191.
(2) Nel Caffk; Venezia, 1760; I. p. 53.
(3) Opere; Bassano, 1797; voi. IX, p. 210. Vedi pure Guido
Mazzoni in: Prefazione all'opera di E. Caprin, Goldoni ecc.
— 288 —
(atto 111, scena ultima), Barbara, che malvista dalla
matrigna, ne abbastanza protetta dal padre debole e
zimbello della moglie, s' è segretamente fidanzata al
giovane che ama , chiede perdono del suo malfatto :
" La mia sagacitade so che non merla lode.
L' onestà, la prudenza è nemica della frode.
Delle mie debolezze, degli error miei mi pento.
Domando al padre mio, novel compatimento;
E lo domando a tutti, e con umil rispetto
Del pubblico perdono un contrassegno aspetto. "
' Nella Bottega del Caffè, don Marzio, il maldi-
cente riuscito a tutti inviso e da tutti cacciato via,
esclama: " Sono avvilito... tutti m' insultano, tutti mi
vilipendono, ninno mi consola, ognuno mi scaccia e
mi ammonisce ; ah, sì, hanno ragione, la mia lingua
o presto o tardi mi doveva condurre a qualche pre-
cipio ". Nel Curioso Accidente, Giannina che ottiene
di sposare il giovane da lei amato mediante una frode,
a cui, per altro, il padre, inconsapevolmente, concorse,
ne domanda perdono al pubblico : così tutti i tipi
viziosi, tutti i frodatori della morale sui quali, al ter-
z* atto, cade il sipario. Oggi riuscirebbe noioso e sa-
prebbe parecchio di sagrestia; ma ai tempi del Gol-
doni non era così. Si usciva dalle sconcezze e dal
cinismo della commedia dell' arte , e quella ventata
di moralità che veniva dalla scena, faceva bene al
pubblico. Questo la respirava a pieni polmoni.
Fin qui abbiamo considerato la riforma introdotta
dal Goldoni nella commedia nella parte in cui lo
/
— 289 —
scrittore veneziano con 1* opera sua batteva una via
diversa da quella seguita dalla commedia dell* arte;
ci si permetta ora di considerare V opera stessa in
quei punti — e, fortunatamente, sono pochi — in cui,
quasi sopravvivenza del vecchio, essa rispecchia tut-
tavia, in certo modo, gli scenéiri dello Scala, del Loc-
catelli, del Riccoboni e d' altri.
Si badi ; noi , qui, intendiamo parlare di quella
péute dell' opera goldoniana che lo stesso suo au-
tore ritenne informata alle idee di riforma da lui
professate; poiché, come si sa, il Goldoni, nei primi
tempi della sua Ccu-riera teatrale, pur aspirando a
nuove forme e in qualche parte attuandole, seguì le
traccie dei suoi predecessori.
Di codeste sopravvivenze della vecchia commedia
a soggetto anche nella parte più corretta ed evoluta
dall'opera goldoniana , parecchie riguardano i carat-
teri, altre l'argomento, altre, infine, il dialogo. Ec-
cone un saggio.
Nella commedia : Gli Innamorati, Succianespole,
servo di Fabrizio, è ancora un po' il servo della
commedia antica ; e un po' Arlecchino, un po' Bri-
ghella, cioè, ora sciocco, tal' altra astuto. Lo stesso
suo padrone, Fabrizio, uno spiantato che vuol fare la
figura del gran signore, rassomiglia troppo al vecchio
tipo di Pantalone corto a quattrini ma dalle idee
grandiose, perchè non se ne scorga subito la deriva-
zione. Ecco un dialogo tra padrone e servo che
sembra scritto sotto la dettatura d' un comico del-
l'arte del secolo XVII.
3\rel Regno delle Maschere 19
— 290 —
Per r intelligenza delio stesso dialogo è da pre-
mettere che Fabrizio, il quale non ha denari ma vuole
mostrarsi e farsi credere un signorone, ha invitato a
pranzo un forestiere, un gentiluomo, che nella sua
smania di tutto ingrandire, uomini e cose, proclama
d'essere il primo gentiluomo d' Europa. Chiama il
servo per ordinare il pranzo.
FAB. Succianespole !
SUCC. Signore,
FAB. Come stiamo in cucina?
SUCC. Bene.
FAB. E' acceso?
SUCC. Gnor no,
FAB. Perchè non è acceso ?
SUCC. Perchè non e' è legna.
FAB. Non mi stare a far lo scimiotto, che oggi devo dare un pranzo
ad un' Eccellenza.
SUCC. Ci ho gusto.
FAB. Succianespole, che cosa daremo da pranzo a Sua Eccellenza ?
SUCC. (ridendo con confidenza) Tutto quello che comanda Vostra
Eccellenza.
FAB. Qualche volta mi faresti arrabbiare con questa tua flemmaccia
maledetta.
SUCC. Io son lesto.
FAB. Lo sai fare il pasticcio di maccheroni ?
SUCC. Gnorsì.
FAB. Una zuppa con V erbuccie ?
SUCC. Gnorsì.
FAB. Con le polpettine ?
SUCC. Gnorsì,
FAB. E coi fegatelli?
SUCC. Gnorsì.
FAB. Hai danaro per spenderlo ?
SUCC. Gnornò.
— 291 —
FAB. T* ho pur dato un zecchino.
SUCC. Quanti giorni sono ?
FAB. L' hai speso ?
SUGC. Gnorsì,
FAB. E non hai più un quattrino ?
SUCC. Gnornò.
FAB. Maledetto sia il gnorsì e il gnornò I Non si sente altro da te,
SUCC. Insegnatemi che cosa ho da dire.
FAB. Bisogna pensare a trovar danari.
SUCC. Gnorsì.
FAB. Quante posate ci sono ?
SUCC. Sei, mi pare.
FAB, Si, erano dodici; sei l'hai impegnato; restano sei. Siamo in quat-
tro; impegnane due.
SUCC. Gnorsì.
FAB. Va al Monte, spicciati.
SUCG. Gnorsì.
FAB. Non mi fare aspettare due ore.
SUCC' Gnornò,
FAB. C è vino ?
SUCC. Gnomo.
FAB. C* è pane ?
SUCC. Gnornò.
FAB. Che sii maledetto! "
(Atto I; Scena VII).
Nella Figlia ubbidiente, il conte Ottavio, carattere
di gentiluomo stravagante, s' abbandona ad atti d' una
eccentricità singolare. Egli fa la corte ad Olivetta,
ballerina, figlia di Brighella, già suo servitore, ora pa-
dre fortunato e troppo compiacente d'una discepola di
Tersicore, la quale non ha che un difetto , quello,
cioè di farsi profumatamente pagare i suoi vezzi. Il
conte che si è installato nelle stesse stanze mobigliate
- 292 —
dove alloggia Olivetta col padre, volendo fare un atto
di generosità verso il suo antico servitore, si cava
r abito e lo butta addosso a Brighella ; questi fa le
sue meraviglie, perchè non crede eh* egli possa ser-
vire da attaccapanni al suo antico padrone. Il conte
lo fa subito ricredere.
"CON. Ve lo dono.
BRIG. (riflettendo) Non so cossa dir. L'è un affronto, ma el se pò
sopportar sto abito ; ma cussi ricco, lo possio portar ? Sior
sì, sono padre d'una vertuosa. " (Atto I; Scena XVIII)
Nella stessa commedia, il conte si fa portare dal
cameriere la pipa, e fuma; poi chiama il suo servi-
tore, Arlecchino, il quale avendo visto che il pa-
drone aveva dato un zecchino al cameriere che gli
aveva portato l'occorrente per fumare, spera di ca-
vargli qualche cosa per se.
^ CON. Arlecchino?
ARL. Signor.
CON. Senti.
ARL. La comandi. {S' arresta)
CON' Qli getta una boccata di fumo sul viso.
ARL. Ai altri la ghe dà dei danari e a mi la me fa sti affronti ?
Cossa songio mi ?
CON. (gti tira forte la barba)
ARL. {da se) El vien.
CON. Va in collera.
ARL. Corponon, sanguessonl
CON. Va in collera.
ARL. Son in furia, sono in bestia I
CON. Non sai andare in collera (vuol riporre la borsa).
- 293 —
ARL. La aspetta... A mi sti affronti ? Razza maledetta ! Fiol d' un
becco cornù I
CON. {ride e gli dà una moneta)
ARL. Porco, aseno, carogna!
CON. {gli dà un' altra moneta)
ARL. Ladro, spion !
CON. {gli rompe la pipa sulla faccia)
ARL, Eh, non voglio altro... Basta cussi.
CON. Cameriere!
CAM. Comandi.
CON. Un'altra pipa.
CAM. Subito {via)
ARL. Comanda altro ?
CON. Vien qua.
ARL. {con paura) Signor...
CON. {con collera) Accostati.
ARL. Son qua.
CON. {gli dà un calcio e lo fa saltare)
ARL. Grazie.
CON. {gli dà una moneta) Un'altra volta.
ARL. Un'altra volta.
CON. {gli dà ancora un calcio)
ARL. {dopo d' aver sostato) Ghè niente?
CON. Un'altra volta {senza tirare la borsa)
ARL. Basta cussi. "
In un altra scena, Arlecchino ritenta il giuoco,
ma questa volta i! conte lo sputa in viso senza met-
ter mano alla borsa, ed egli, asciugandosi la faccia,
riflette : " Se non ho avuto sta volta el zecchin, l'ho
incaparrà per un'altra (atto I ; scena X).
Codeste scene dove lo spirito non aveva per base
che la più sconcia trivialità, erano per se stesse trop-
po plebee perchè il Goldoni non se ne accorgesse e
- 294 —
non le mettesse a dormire insieme a tutto i! bacato
bagaglio della commedia a soggetto.
Nelle Donne Puntigliose, Arlecchino è ancora la
maschera della vecchia commedia. Egli è sempre ser-
vitore, ma moro. Ecco uno spunto di dialogo:
" ROS. Chi è di là ?
SCENA VII.
Arlecchino e detti.
ARL. Comandar.
ROS. Porta la cioccolata.
BEAT. Che grazioso moretto !
ARL. Mi star grazioso moretto, e ti star graziosa bianchetta.
BEAT. Come ti chiami ?
ARL. Mi chiamar con bocca.
ROS. Via di qua, impertinente.
LEL. Lasciatelo dire... E' il più caro moro del mondo.
ARL. (a Lelio) Per ti star caro.
LEL. Per me sei caro ? Perchè ?
ARL. Perchè non aver quattrini per mi comprar.
BEAT. Bravo moretto, bravo !
ARL. (a beatrice) O quanto ti star bella! Mi volerti bene. Mi ti
voler far razza mezza bianca e mezza mora.
ROS. Va via, briccone !
(Atto I; Scene VI e VII)
Qui (chi non lo vede ?) il vecchio Arlecchino^
sciocco e spiritoso, insolente e salace, è tuttavia vivo.
Soltanto non fa uno o due salti all' indietro, o non
acchiappa una mosca per distaccarle delicatamente
le ali....
CAPITOLO TERZO
La Nuova Commedia
La " nuova commedia " quella, cioè, che prese il
posto della " commedia dell' arte " o " a soggetto " ,
si sa , è la commedia di Carlo Goldoni , la quale,
dopo una lotta che soltanto l' intervento d*un ingegno
più che poderoso , bizzarro — abbiamo già fatto il
nome di Carlo Gozzi — potè per poco far sembrare
piena di vitalità, finì con 1* adagiarsi tranquillamente
sulle rovine dell'altra, senza che questa potesse mai
più rialzarsi dalla sua caduta.
In che consisteva questa " nuova commedia '? " Quale
n'era lo spirito, quale era l'anima che l'informava'/
Quali erano i suoi caratteri sostanziali, quelli che dif-
ferenziandola da ogni altro precedente spettacolo co-
mico, le davano una fisionomia propria?
Esiste nel nostro linguaggio teatrale o letterario più
d' una parola o frase, che pur volendo indicare i ca-
ratteri o qualcuno dei caratteri della riforma goldo-
niana, attesta la profondità del solco che lasciò il pas-
— 29b —
saggio del grande veneziano attraverso il campo del-
l'arte comica italiana. Si dice ancora " commedia
goldoniana ", oppure " personaggi o caratteri goldo-
niani ", o anche " scene goldoniane. " Ma per fer-
marci alla " commedia goldoniana " in che essa con-
siste ?
Il Guerzoni, nel Teatro Italiano nel secolo XVIII (\)
si propose la stessa domanda e ritenne di aver dato
una risposta esauriente con la seguente definizione :
" Essa non è la commedia greco-latina, ne la imi-
tata del Cinquecento, ne tompoco, sebbene più ras-
somigliante, quella di Molière, ne quella dell'arte, seb-
bene sua nepote; molto mene quella di Scribe o di
Dumas figlio. Il primo giudizio che si dà della com-
media goldoniana è che essa non imita nessuna altra
e che è per se stessa un tipo originale. E il primo
e più visibile segno di questa sua originalità è la sua
indipendenza assoluta da tutte le forme più accettate
della commedia antecedente italiana ed anco princi-
palmente della così detta commedia erudita del Cin-
quecento... ".
In sostanza, il Guerzoni nulla definì, e la sua do-
manda resta ancora senza risposta; dappoiché , come
di leggieri può ognuno accorgersene, la definizione guer-
zoniana è semplicemente negativa: da essa, in vero,
s'apprende più d'una cosa; ma che s'apprende? Ecco,
che la commedia goldoniana non è quella d'Atene e
di Roma antiche, ne la la cortigiana ed erudita del se-
(1) Pag. 209; ediz. di Milano; Fr. Treves.
— 297 —
colo di Leone X, ne quella del Molière, ne quella
dell'arte, ne quella di Guglielmo Shakspeare, ne, in-
fine, quella, che ai tempi del Goldoni era nella mente
di Dio, dello Scribe, o di Alessandro Dumas figlio.
S'apprende, inoltre, eh' essa non è derivata , ne imi-
tata, ma costituisce un tipo a se, originale : ma quando
si è saputo tutto questo , non e sempre il caso di
domandare : che cosa è la " commedia goldoniana " ?
Noi, certamente, non siamo tanto presuntuosi da ri-
tenerci in grado di dare l'esatta definizione; ma poiché
l'argomento da noi trattato e' impone l'obbligo di darne
una, noi la compendiamo nei termini seguenti, salvo
a svilupparla in seguito.
La " commedia goldoniana " è la rappresentazione
scenica del lato comico della vita italiana, e in modo
particolare veneziana, del secolo XVIII. Codesta rap-
presentazione essendo poggiata sull'osservazione viva,
diretta — è questo il carattere principale del teatro
goldoniano — e non di seconda mano , in base alla
tradizione teatrale o al documento letterario, s'esplica
mediante tipi perfettamente umani, presentati in tutte
le loro sfaccettature, in tutte le loro gradazioni o sfu-
mature, oppure, mediante quadri di vita vissuta tra-
piantati dalla piazza, dalla strada, dalla casa del po-
polano come da quella della borghesia e del patriziato
sulla scena.
La " commedia goldoniana " fu ai suoi tempi un
vero specchio riflettente la vita d'allora, soprattutto ve-
neziana, e trattandosi di commedia, s'intende che co-
desta vita non poteva rispecchiarsi che dal lato co-
— 298 —
mico , intimo , famigliare. Su questo carattere della
commedia del Goldoni bisogna insistere , sempre in- 1
sistere, in quanto che esso costituiscala sua fisionomia, I
e con questa la sua originalità. Quando si dice che
la commedia del Goldoni non rassomiglia a quella di
Pluto, o dell'Ariosto, o del Molière , o agli scenari
della commedia dell'arte, si è detto nulla, poiché la
sua originalità sta in quello eh' essa realmente è, in |
quello che essa rappresenta. Dunque, rappresenta-
zione della vita italiana, ed in ispecie veneziana, del
secolo XVIII. Oggi parrebbe cosa quasi da nulla lo
studio dal vero, che dal vero procede o si crede prò- \
cedere ogni nostro studio. Chi dei nostri commedio-
grafi, dei nostri novellieri , dei nostri romanzieri non
crede di riprodurre uomini e cose dal vero? Eppure»,
ai tempi del Goldoni, era la cosa più difficile , di-^
remmo quasi impossibile. Sebbene tutti i compilatori
di rettoriche, copiandosi l'un 1' altro, dicessero, ripe-,
tendo a sazietà un precetto d'Aristotile, l'arte non.
essere che una imitazione della natura , pure il pre-,
cetto del filosofo greco per tutti gli scrittori rimaneva
lettera morta, anche perchè i signori retori, dopo d'aver
spiegato il precetto, chiudevano il loro commento con
invitare gli scrittori tanto di prosa quanto di poesia,
a seguire, a imitare i maestri, i classici. Di qui , la
venerazione spinta sino al feticismo verso gli antichi;
di qui, la fossilizzazione delle foime letterarie; di qui,
quella certa " imitazione della natura " che non era
che riproduzione di forme vecchie, cristallizzate, dietro
le quali, da un pezzo, forse da secoli , non pulsava
- 299 —
più la vita. Se non fosse stato questo esagerato ri-
spetto verso gli antichi, l' Italia avrebbe avuto la sua
commedia, originale, nazionale, sin dal Cinquecento,
con la riproduzione di quella sua vita così varia, così
esuberante, di cui diedero un saggio i suoi novellieri,
il Bandello soprattutto ; ma no, Plauto e Terenzio ,
quest'ultimo segnatamente imperavano nelle scuole, e
la commedia non fu che una povera riproduzione di
persone e di cose scomparse. Il pubblico, come si sa,
l'abbandonò ed andò a ridere alle facezie della com-
media dell' arte. Il Grazzini , detto il Lasca , vissuto
nella seconda metà del secolo XVI, nel Prologo della
commedia: La Gelosia , scriveva: " E' gran cosa....
che in quante commedie nuove dell' assedio (di Fi-
renze) in qua... si sono recitate... in tutte quante in-
tervengano ritrovi , tutte finiscano in ritrovamenti : la
qual cosa è tanto venuta a noia e in fastidio ai po-
poli che come sentano nell' argomento dire che nella
presa di alcuna città o nel sacco d'un castello ven-
nero smarrite o perdute bambine o fanciulle , fanno
conto d'averle udite , e volentieri , se potessero con
loro onore, se ne partirebbero. E di qui si può co-
noscere quanto questi cotali manchino di concetti e
d'invenzione... e peggio ancora che essi accozzano
il vecchio col nuovo, e l'antico col moderno... e fa-
cendo la scena città moderne, e rappresentando i tempi
d'oggi, v'introducono usanze passate e vecchie... e si
scusano col dire : così fece Plauto ( 1 ) " Ma il Graz-
(1) Teatro Comico Fiorentino, voi. Ili, Firenze, 1750.
- 300 —
zini se predicava bene, razzolava male, precisamente
come il padre Zappata; e le sue commedie non sono
meno prive di vita e di vis comica di quelle dei suoi '
contemporanei eruditi ed ammiratori di Plauto.
Il Goldoni, intelletto superiore, dotato d'uno spirito
osservatore d'una finezza straordinaria , opinò saggia-
mente che la nuova commedia perchè cacciasse dalla
scena la vecchia, quella a soggetto , dovesse soprat- '
tutto fare assegnamento sull' osservazione diretta. La
commedia dell'arte cascava nello stesso difetto della
commedia erudita, letteraria: s'era fossilizzata ; l' intrec- ;
ciò dell'una, su per giù, era l' intreccio dell'altra, i per- '
sonaggi non potevano comparire in iscena senza che
il pubblico non ne indovinasse immediatamente i di-'
scorsi, i lazzi. La natura è per eccellenza varia; qua- '
sto pensò il Goldoni e volle ad essa, e ad essa sol-
tanto, ispirarsi. Il suo occhio non doveva fissare per-/'
sone e cose che spoglio d* ogni ricordo classico, o
tradizionale, denudato d' ogni pregiudizio di scuola
o di scena. Che cosa erano le maschere? Finzioni,
tipi di persone forse vive in origine, ma sopra i quali
l'arte, la tradizione o il capriccio e l'ignoranza degli
autori e dei comici, caricando esageratamente le linee,
avevano sparso una specie d' intonaco che finì col ren-
derli immobili, irrigiditi. Via, dunque, le maschere dal
teatro, esclamò il Goldoni; spalanchiamo le porte della
scena all'aria pura, fresca, alla vita; salgano la scena
non più personaggi convenzionali, ma vivi; non è vero
che la società non offra più nulla di nuovo da ripro-
durre sulla scena: l'uomo, sebbene vecchio, e così
- 301 —
vario che non occorre sempre un grande intelletto, un
genio, per afferrarlo in qualche suo aspetto , se non
perfettamente nuovo, non frusto, non comune. Come
non c'è fisionomia d* uomo che trovi il suo riscontro
perfetto in quella d' un altro , così non e' è carattere
:he si riscontri in modo perfetto con un altro. Basta
saper cogliere questo carattere in un dato momento,
sotto un certo punto di luce, perchè ci appaia disc-
ente da uno simile , ma studiato in circostanze di-
verse. Gli stessi vizi si prestano a codesto studio vario;
dappoiché, sebbene a farne il catalogo non occorra
Tiolto (Dante allogò tutti i viziosi in due cantiche del
5U0 poema), pure lo stesso vizio può prestarsi a pit-
ure diverse, senza che chi venga dopo sia costretto
i calcare le orme del suo predecessore^^ 11 vizio del-
'avarizia, per esempio, fu riprodotto da Plauto nel
:arattere di Euclione , neW A ulularla ; i comici del
Cinquecento, come quelli del Seicento , riprodussero
juel carattere battendo chi più chi meno la via aperta
lai commediografo latino. Era necessario? Era forse
saurito quel tipo dell'avaro con la riproduzione plau-
ina? Ma no, no; bastava dimenticare Plauto e stu-
iare dal vero perchè ne saltasse fuori una figura d'a-
aro non imitata, né derivata. Ce ne porge uno spìen-
ido esempio lo stesso Goldoni, il quale trattando per
en tre volte lo stesso tema, non seguì le orme né
i Plauto, né del Molière, che, con iscarsa origina-
ta, aveva dato alle scene l'avaro. E' noto l'argomento
e\Y A ulular ia\ Euclione non rappresenta l'avarizia che
elle sue linee comuni, volgari e precisamente come
- 302 - ,
H
poteva intenderla un poeta in uno stato d' arte poco
evoluto. C è la cassetta col tesoro posta dal suo pos-
sessore in un nascondiglio ; ma 1* avaro teme sempre
per essa; teme di tutti, anche di quelli della sua fa-
miglia. In certi momenti le sue smanie toccano il cul-
mine; ha una figlia da maritare, ma non le vuol dar la
dote per paura che mettendo fuori il danaro, non lo cre-
dano ricco; e i ladri non frugano che nei fortieri dei
ricchi. Il MoHère riprodusse la figura di Euclione nel
suo Arpagone; ma il Goldoni se ne scostò in modo as-
soluto. La prima volta che egli trattò quell'argomento
fu nel 1733 con V Avaro Geloso. Come quasi sempre,
egli ritrasse dal vero il protagonista della sua com-,1
media. " Mi riuscì — egh scrisse (1) — di dipingerei
il protagonista nella vera sua natura. Fu appunto in
Firenze ove a scorno dell'umanità viveva quest'uomo, 1
e me ne fu fatta la genuina storia e il ritratto. Costui
era dominato da due vizi ugualmente odiosi, e per il
contrasto delle sue passioni si trovava spesso in con-
dizioni veramente comiche. E* una cosa ben bizzarra
il vedere un marito eccessivamente geloso ricevere
egli medesimo un vassoio d' argento con cioccolata,
una boccetta d'oro piena d'acqua odorosa, e poi tor-
mentar la moglie dicendole, aver essa dato motivo ai
suoi adoratori di farle simili donativi. " La seconda volta
fu con V Avaro, commedia in un atto, che faceva parte
d'un teatro di conversazione, e precisamente per quello
del marchese Albergati Capacelli, di Bologna. Il Gol-
(1) Mem. Part. II. Gap. XVII.
— 303 -
doni ne narra Targomento così: " Apre la scena don
Ambrogio, facendo da solo a solo alcune considera-
zioni sul proprio stato. Ha di recente perduto il pro-
prio figlio ucciso; sente al cuore la voce della natura,
ma siccome il mantenimento di questo figlio gli co-
stava caro , gli riesce meno difficile il consolarsene.
Si trova nell'impaccio di dover pensare alla nuora,
ch'è tuttavia in casa di lui, e riguarda questa spesa
come insopportabile; vorrebbe disfarsene; ma siccome
bisogna restituire la dote , non può determinarvisi.
Questa vedova è giovane, ne le mancano partiti. L'a-
varo li accetta tutti, ma venuto al proposito della dote,
non ne manda avanti alcuno. Sostiene inoltre d'aver
più speso per la nuora di quello che abbia ricevuto
dal contratto matrimoniale di lei ; mostra a tutti la
nota delle spese fatte per lei ; la porta sempre ad-
dosso; la legge tre o quattro volte al giorno, la tiene
sotto il capezzale... Un amante però più accorto de-
gli altri, offre a don Ambrogio di sposare sua nuora
senza sborso di dote , purché il suocero si obblighi
di dargliela dopo la sua morte. L'avaro vi acconsente,
Tia a condizione che il marito pensi ad alimentarla.
L amante trova la proposta ridicola , ma siccome è
innamorato teme di perdere l'occasione di sposare la
iua bella. Ha anche timore dell'uomo sordido perchè
o minaccia di una lite , onde accorda tutto , e così
segue il matrimonio (1)." Trattò il Goldoni per la terza
'cita lo stesso argomento durante il suo soggiorno di
(1) Mem. Part. Il, Gap. XLV.
— 304 ~
Parigi, dopo V esito felice del Burbero Benefico, ed
intitolò la sua commedia Y^varo Fastoso. " Un ca-
rattere simile — egli scrisse (1) — è tanto in natura^
che non mi dava fastidio se non per la quantità
troppo grande di originali, onde credetti bene di ri-
cavare il mio protagonista dalla classe delle persone
divenute facoltose per guadagni a fine d'evitare cosi
il rischio d'offendere i grandi ". Il signor di Castel-
doro, difatti, e un parvenu, è ricco, ma le ricchezze
non gli hanno fatto perdere il brutto vizio che lo tra-
vaglia sin dalla giovinezza , 1' avarizia. Se non che,
quest'ultimo sentimento è nell' animo suo insieme al
desiderio di grandezza; vuol mostrarsi fastoso , come
un ricco autentico , ma ha paura di metter fuori il
denaro. Vuol prender moglie , ma la spesa lo spa- i
venta; e' è però un partito che potrebbe convenirgli:
è la figlia della signora Araminta che ha una dote
di centomila scudi. Il signor di Casteldoro fa il sa-
grifìcio di dare un pranzo sontuoso alla sposa a patto
che Frontino, suo cameriere, suo agente, suo factotum,
faccia economia: ordina, quindi, degli abiti sfarzosi,
ma a condizione che i ricami d'oro si possano stac-
care e vendere, che gli abiti sieno restituiti al sarto
pagandone il nolo. Compra , ma realmente prende a
prestito, una ricchissima fornitura di brillanti per la
sposa, ed acquista subito fama di fastoso, di prodigo;
ma le sue arti sono scoperte, la sua avarizia lo rende
indegno della stima della buona società, che lo cir-i
(I) Mem.; Part. Ili, Gap. XX.
— 305 —
conda, compresa la sposa, la quale finisce per pian-
tarlo.
Certamente, nessun delle tre predette commedie
goldoniane va annoverata tra i capo-lavori dello scrit-
tore veneziano, e se ci siamo alquanto indugiati sulle
stesse, è stato per dimostrare come il Goldoni anche
trattando un argomento vieto, frusto, sapesse far da
se. Come già dicemmo, il Molière che trattò lo stesso
tema, non seppe che assai leggermente discostarsi dal
suo originale : Arpagone è una evidente derivazione
di Euclione , V avaro plautino ; qualche scena della
commedia molièriana più che una derivazione, è una
pura imitazione. Per esempio; alla scena terza dell'atto
quinto dell' J^varo del Molière, Arpagone , il quale
crede che Valerio , amante segreto della figlia , gli
abbia rubato il tesoro, lo rimprovera del suo delitto.
Valerio, che nulla sa del tesoro, crede che il vecchio
lo rimproveri per l'amore, che porta alla fanciulla. E'
una scena così detta d'equivoco, molto comune nella
commedia dell'arte, e che come tanti altri elementi
che formavano il contenuto di quest' ultima, risale al
teatro comico latino. Difatti, Plauto , nell' Aulularia
(Atto IV, Se. Vili), ha una scena perfettamente si-
mile : Licoride, che ha sedotto la figlia di Euclione
r avaro, confessa a quest' ultimo che ha commesso un
fallo; Euclione il quale crede che l'altro gli parli del
furto del suo tesoro, l' investe, l' ingiuria; Licoride ri-
sponde che è pronto a riparare il fallo commesso e
chiede il consenso di lui per farla sua. Il vecchio
crede che si tratti dell'olla, dove stava racchiuso il
^tl Regno delle Maschere 20
— 306 -
tesoro, e non della figlia, e l'equivoco continua per
un pezzo.
«
L'esempio da noi citato del carattere dell'avaro, che
sebbene trattato dal Goldoni per ben tre volte, pure
fu sempre da lui presentato in modo diverso, ci mostra
anche come il commediografo veneziano s'allontanasse
già di molto da quella rappresentazione generica di
caratteri viziosi o ridicoli che costituiva il fulcro del
teatro latino e di quello italiano venuto su con la
Rinascenza e continuato con quello improvviso o a
soggetto sino ai tempi del Goldoni stesso. L'avarizia
— per spiegarci con un esempio — non era rappre-
sentata che nei suoi caratteri principali ed anche più
grossolani, in modo che l'avrebbe pure potuto rilevare
la persona meno fornita di spirito di osservazione.
Euclione — o dopo di lui Arpagone — non è che
l'avaro quale può essere rappresentato in una società
grossolana, primitiva, poiché l'avarizia del personaggio
plautino non si mostra che sotto l'aspetto più comune:
Euclione ha un tesoro, lo tiene nascosto ed ha sem-
pre paura che glielo rubino ; esso lo preoccupa da
mane a sera, di notte lo sogna, negli amici non vede
che degli insidiatori del suo tesoro. E spilorcio, veste
male, si lascia morire di fame pur di non metter fuori
il becco d' un quattrino. 11 Goldoni, pur venuto dopo
Plauto e Molière, ha saputo trovare altri tipi d'avaro:
l'avaro geloso, V avaro ^fastoso, infine, l'avaro sempli-
cemente avaro, senza l'indispensabile olla d'Euclione,
di Plauto, o la non meno indispensabile cassetta d'Ar-
11
~ 307 -
pagone del Molière. E questo accadeva perchè il
Goldoni, come già dicemmo, era uno studioso della
natura. I caratteri egli non li cercava nei libri, ma
intorno a sé, sapendone rilevare non solo le linee prin-
cipali, visibili ad occhio nudo, ma anche le non ap-
pariscenti. In tutta la sua vita egli non fece che creare.
Le sue Memorie ce lo mostrano sempre alla ricerca
di Ccu^atteri vissuti, di personaggi, non di tipi dive-
nuti convenzionali, o manechini. Già abbiamo parlato
di Momolo Cortesan e del Prodigo, ì cui caratteri
furono riprodotti dal vero ; in ^onin ^ellagrazia è
riprodotto il paroncino veneziano (petit maitre fran-
cese) del secolo XVIII ; nella Donna di Garbo è il
carattere d' una donna che con le sue arti sa raggiun-
gere un fine onesto ; nell' Uomo Prudente è quello di
un padre il quale attraverso varie peripezie, che ad
altri avrebbero fatto perdere la testa, sa conservare la
ragione e mercè la sua prudenza salva 1' onore della
famiglia; nella %)edova Scaltra è una donna che prima
di riprender marito mette alla prova i suoi preten-
denti per assicurarsi della sincerità dei loro sentimenti;
nella 'Putta Onorata, il carattere di Bettina, la pro-
tagonista, è quello di una fanciulla, che a malgrado
delle traversie della vita, sa mantenersi virtuosa, ri-
cevendone un giusto premio ; nella Buona Moglie,
continvazione della commedia precedente, il Goldoni
ci conduce presso una di quelle vecchie famiglie dove
tutte le virtù adornano la padrona di casa; nel Ca-
valiere e la T)ama, e imbattiamo in quelle macchiette
così caratteristiche del secolo XVIII che rispondono
- 308 -
al nome di cicisbei ; nelle Donne 'T^untigliose, la se-
conda delle sedici commedie nuove, ci troviamo di-
nanzi a due Cciratteri di donne, Rosaura, moglie d*un
ricco negoziante, e l' altra, contessa, di vecchia no-
biltà, ma povera, che portano nell'azione l'una insieme
ali* inesperienza della gioventù e della vita della pro-
vincia l'aspirazione ad uno stato sociale più elevato,
r altra i suoi intrighi, i suoi ripieghi ed anche le sue
arti losche per cavar danaro dalla vanità altrui; nella
bottega del Caffé, il caratterere di Don Marzio, il
maldicente, è divenuto leggendario come il Miles
Qloriosus di Plauto, o ^artuffo del Molière; nel (Bu-
giardo, Lelio, il protagonista, con le sue spiritose in-
venzioni, è un carattere divenuto non meno leggen-
dario del precedente; un altro carattere che non ha
nulla di comune col vecchio e classico tipo del pa-
rassita, è quello del protagonista àeX\' Adulatore ; nel
Vero Amico è il carattere d'un giovane virtuoso che
sagrifìca all' amicizia un dolce e tenero affetto. Nella
Finta Jlmmalata la protagonista è la stessa prima at-
trice della compagnia comica con la quale erasi scrittu-
rato il Goldoni, la signora Medebac "attrice eccellen-
te... ma sottoposta a fisime; era spesso ammalata o cre-
deva d'esser tale, qualche volta non avendo altro in
sostanza che alcune volontarie ipocondrie : in questo
ultimo caso, l'unico rimedio era quello di dare a recitare
una bella parte ad una attrice subalterna; allora l'am-
malata guariva all'istante. (1)" Nella Donna Prudente
(1) Mem., Parte II; Gap. X.
- 309 -
donna Eularia è un tipo di moglie saggia e giudi-
ziosa, e come scrisse lo stesso Goldoni " il soggetto
gli fu somministrato da quelle medesime società dalle
quali prese quello del Cavaliere e la 'Dama , cioè,
dalla classe dei cicisbei ( 1 ). " Neil' jìvventuriere O-
norato l'autore dipinge, in gran parte, se stesso ; un'al-
tra attiice della compagnia Medebac ritrae nella pro-
tagonista della Donna Volubile, intorno alla quale egli
scrisse: " Avevamo appunto nella nostra compagnia
un' attrice, che era la donna più capricciosa del mondo,
non feci altro che farne la copia... Un carattere di
tal sorta per se stesso è molto comico, ma potrebbe
bensì facilmente divenire noioso , quando non fosse
sostenuto da scene e tratti piacevoli. La continua mu-
tazione delle mode, dalle voglie, dei divertimenti può,
e vero, fornir materie di ridicolezze, ma per rendere
la donna volubile un soggetto veramente da comme-
dia, bisogna che ne somministrino il ridicolo i ca-
pricci dell'animo. Una donna poco fa amante , che
un' ora dopo non vuol più amore , e che nel tempo
stesso in cui spaccia massime rigide, si accende d'una
passione del tutto contraria alla sua maniera di pen-
sare, ecco il personaggio comico (2) ". E questo stu-
dio di caratteri umani , viventi , che nulla avessero
della rigididità, dell' immobilità e del convenzionali-
smo delle maschere o tipi della commedia dell' arte,
nel Goldoni è assiduo, pertinace e lo accompagna per
(1) Mem , Parte II; Cap. X.
(2) Idem; Parte II; Cap. XI.
— 310 —
tutta la sua non breve vita. Commedie dirette a met-
tere in evidenza un carattere sono altresì : la Madre
Amorosa, la Donna Forte, la Buona Figlia, il Me-
dico Olandese, il T^icco Insidiato, Toderv Brontolon ,
/' Uomo di Spirito, V Jlpatista, la T)onna di Spirito,
infine, // Burbero benefico. Ma di caratteri o di mac-
chiette sono piene tutte le commedie dello scrittore
veneziano. Chi non ricorda il Florindo e la Rosaura
degli Innamorati, due amanti ai quali per ogni più indif-
ferente pcuola offre occasione di bisticciarsi per poscia
subito rappattumarsi ? E il Brighella della Figlia Ub-
bidiente , padre d' una ballerina , che esalta i pregi
della figlia, anche quelli che meno dovrebbero esal-
tarsi? E i tre gentiluomini che spasimano per Miran-
dolina , la furba locandiera, che li tiene tutti e tre
a bada? E i vecchi dei Quattro ^usteghi? E le
donne delle baruffe Chiozzotte ? E Ottavio, il vec-
chio avaro del Vero Amico, che accetta soltanto dal
suo vecchio servo Trappola le uova che non passano
da un certo anello e rifiuta le altre ? E l'altro Otta-
vio, non avaro, ma ridicolo fondatore dell'accademia
dei Novelli nel Poeta Fanatico ? Ma chi potrebbe
ricordare tutte le macchiette gustose che popolano le
commedie del nostro grande veneziano ?
11 Goldoni non è soltanto un creatore di caratteri,
di macchiette ; e anche un riproduttore d' ambienti :
nelle sue commedie V Italia , e soprattutto Venezia,
della metà del secolo XVIII vi si riflette come in
uno specchio. S'ingannerebbe a partito chi, senza
- 311 —
tener presente il profondo mutamento politico e so-
ciale che si è verificato da quel tempo in qua ,
ritenesse di maniera la vita italiana riprodotta nel suo
teatro comico dal Goldoni. Per comprendere la vita
italiana di quei tempi, sia nelle sue grandi linee,
sia nelle sue più leggiere sfumature, occorre che i
lettori si trasportino con 1' aiuto delle memorie, dei
diari , dei ricordi dei contemporanei , tanto italiani
che stranieri, sino a quell' età. L' Italia della metà
del secolo XVIII aveva una fisionomia tutta pro-
pria e con questa un' anima speciale , assai diversa
non solo da quella del principio del secolo stesso,
ma anche da quella che assunse col chiudersi di que-
st'ultimo. Spesso codesta distinzione, sebbene tanto
importante, si dimentica ed è causa di errati giudizi.
Molti credono che tutto il nostro Settecento sia tutto
d' un p ezzo, d' un sol colore, senza variazioni e sfu-
mature, quasi sinonimo di rococò, di merletti, di nei,
di falbalà, di belletto, di cicisbei e di arcadi. Ma
non è così; esso è vario. Se il teatro è più di qualsiasi
altro ramo della letteratura quello che meglio rispec-
chia la società, possiamo dire che i nostri tre grandi
maggiori scrittori teatrali di quel tempo fanno fede di
quanto affermiamo. Il Metastasio, il Goldoni e l'Al-
fieri, tutti e tre figli e rappresentanti del Settecento
italiano, sono indici di tre società diverse. Ciascnno
di loro non riproduce che l' età propria, l' ambiente
in cui visse, senza che nessuno di loro abbia punti
importanti di contatto con gli altri. Basta per com-
prenderlo che si ponga mente al tempo in cui ciascuno
— 312 —
di loro cominciò a scrivere ed attinse la maturità del
proprio ingegno; poiché soltanto in questo momento
può dirsi eh' essi sieno i rappresentanti della soci età
in mezzo alla quale vissero e pensarono. Si consi-
deri un pò* : il Metastasio fece rappresentare la sua
Didone jlbhandonata nel 1 723 e quando fu chia-
mato a Vienna, nel 1 730, a sostituire nel posto di
poeta dei reali ed imperiali teatri Apostolo Zeno,
r ingegno di lui era nel suo pieno sviluppo. 11 Gol-
doni scrisse le sue famose sedici commedie per la
compagnia del Medebac nell'anno comico 1 730-5 1 ,
mentre l'Alfieri mandò alle stampe il primo volume
delle sue tragedie nel 1 783. Ebbene, non s' inganne-
rebbe chi non volesse vedere nessuna diversità fra l'a-
nima italiana del terzo decennio del Settecento con
quella della metà del secolo e, peggio, con quella della
fine del secolo stesso ? Una grande evoluzione nello
spirito pubblico italiano s' era fatta dall' anno in cui
fu rappresentata la Didone Abbandonata del Meta-
stasio a quello in cui l'Alfieri stampava la Virginia;
evoluzione che soltanto in parte s' era compiuta quando
il Goldoni con propositi fermi ed idee precise s' ac-
cinse alla riforma del teatro comico nostrano. Come
si sa, il principale fattore di codesta evoluzione fu la
filosofia francese , eh' ebbe per principali interpreti il
Voltaire, il Rousseau, il d'Alembert, il Diderot, l'Hol-
bach, il Volney ed altri. Fu codesta una vera corrente
d' idee nuove che passando attraverso le Alpi sull'ani-
ma italiana, la modificò e con essa gli usi, i costumi, le
credenze, le opinioni. Laonde possiamo affermare che
— 313 —
alla metà del secolo XVIII , al momento della ri-
forma goldoniana , 1' ambiente italiano non era più
quello della giovinezza del Metastasio , sebbene an-
cora non fosse quello dell' Alfieri. Le nuove idee non
avevano fatto breccia che in pochi intelletti, in pochi
studiosi, i quali se formavano V élite , non potevano
certamente costituire non diremo la maggioranza, ma
nemmeno un gruppo importante della società italiana
di quel tempo. Erano codesti apostoli di riforme, di
rinnovamenti, scarsi ma coraggiosi bersaglieri lanciati
air assalto del vecchio edificio italiano uscito dal Con-
cilio di Trento e consolidato dalla lunga pace go-
duta dalla penisola: con gli anni , certamente , quei
pochi bersaglieri si sarebbero fatti battaglioni, legione;
ma allora non formavano che un'avanguardia; o se il
paragone militare non piace, diciamo eh' erano dei
seminatori d' idee : altri, più tardi, avrebbero raccolto.
L'alito delle riforme scaldava, dunque, parecchi petti;
ma, sostanzialmente, nulla s' era cambiato. L'interno
della famiglia presentava ancora tutta l' aria patriarcale
d' una volta, specie nella borghesia. Il padre n' era
sempre il capo non solo secondo la parola della
legge, ma anche secondo lo spirito : era rispettato ,
venerato ; i suoi ordini non erano discussi e i casi
di ribellione erano rarissimi. I matrimoni si com-
binavano in famiglia, e quasi sempre la sposa o lo
sposo era designato dal genitore. Questi non discu-
teva dell' importante argomento che dal lato della con-
venienza economica, del decoro della famiglia, dei co-
stumi della sposa e dello sposo. Anche nei casi di
— 314 -
ribellione, il padre sapeva mantenere fermi i suoi di-
ritti. Eccone uno veramente tipico, che togliamo dal
Bugiardo (Atto li, Scena XII). Sono in iscena Pan-
talone (padre) e Lelio (figlio).
PANT. Fio mio, sappi che za t'ho maridà, e giusto stamattina ho
stabilito el contratto delle to nozze.
LELIO Come! Senza di me!
PANT. L'occasion non poteva esser maggio. Una buona putta da
casa, e da qualcossa, con una bona dote, fia d' un uomo civil
bolognese... Te dirò anca a to consolazion, bella e spiritosa..
Cossa vostù de più ?
LELIO Signor padre, perdonatemi, è vero che i padri pensano bene
per i figliuoli, ma i figliuoli devono star essi colla moglie,
ed è giusto ohe si soddisfacciano.
PANT. Sior fio, questi no xe quei sentimenti de rassegnazion coi
quali me ave fin adesso parla. Finalmeute son pare, e se
per esser sta arlevà lontan da mi, no ave impara a rispet-
tarmi, sono ancora a tempo per insegnarve.
Le giovinette, se di nascosto potevano disporre del
loro cuore , non potevano mai liberamente disporre
della loro mano: quando non trovavano marito, o era
difficile trovarne per mancanza di dote, entravano in
convento. Giammai , come in quel tempo , caddero
tante lucide chiome di fanciulle sotto le forbici clau-
strali ; ma giammai come in quel tempo si credette ,
o si finse di creder volontario quel sagrificio di gio-
vani vite, quello spegnersi, dentro melanconiche celle,
di tante speranze, di tanti ardori. II sagrificio di quasi
tutte quelle giovinette, era evidente, ma nessuno pen-
sava a protestare , nemmeno le vittime. Era un por-
tato del tempo , e si taceva. Ne i giovani avevano
I
— 315 —
maggior scelta d' elezione : il loro avvenire era pre-
disposto dai genitori ; nelle classi borghesi e popo-
lane, la professione , 1' arte o il mestiere esercitato
dal padre era quello del figlio ; nelle classi dirigenti,
la scelta era bella e fatta ; il primogenito continuava
il nome della famiglia con un matrimonio di conve-
nienza, pei cadetti e' era 1* esercito , le cariche dello
Stato , il convento o V ordine di Malta o quello di
Santo Stefano o altro simile , quando non si restava
a casa col modesto assegnamento fissato dal fratello
maggiore. Le opinioni, poi, erano infrenate dalla reli-
gione e dalla consuetudine. Già di politica non si
discuteva affatto: a Venezia, Stato repubblicano, co-
me a Roma, Stato teocratico, come a Napoli, Stato
monarchico, era assolutamente proibito ai cittadini di
occup2a"si delle faccende pubbliche , a meno che la
legge oppure il principe non chiamasse il cittadino
ad occuparsene. Del resto , il divieto era inutile ; i
cittadini avevano tutt' altra voglia che di mettere il
naso nei negozi di Stato ; se ne era perduta 1' abi-
tudine e s' amava meglio d' occuparsi d' una pau^tita
a tarocchi, dell' ultimo matrimonio aristocratico , del-
l' ultima monacazione , dell' ultima pubblicazione di
versi che di questioni riflettenti la cosa pubblica. 11
cittadino, la mattina, svegliandosi, non sentiva affatto
il bisogno di leggere 1* articolo di fondo d' una gaz-
zetta per farsi un' opinione più o meno chiara sulla
questione del giorno ; ma se era un signore, ed an-
che galante , pensava alla dama che nel corso della
giornata avrebbe visitato , o servito nella sua qualità
— 3!6 -
di bracciere o cavalier servente alla passeggiata, alla
chiesa, al teatro; se scapestrato e giuocatore, pensava
alle donnine allegre insieme alle quali avrebbe fatto
una partita alle carte e poi cenato ; se popolano , si
risparmiava la fatica d'occuparsi di quello che avrebbe
fatto lungo la giornata : sapeva già d' avanzo , che
avrebbe lavorato come una bestia. Certa libertà di
costumi, che a noi ora fa arricciare il naso, quasi che
la nostra morale sia superiore a quella degli italiani
del secolo XVIII, per esempio, il cicisbeismo^ in fondo
non era la più brutta casa di questa terra : non sem-
pre sotto il cicisbeo si nascondeva 1' amante ; era un
uso, che spesso serviva di paracadute, o di paraven-
to. L* amore in tre, come e' è adesso , e' era anche
allora ; ma sotto questo aspetto oggi non si sta me-
glio di quei tempi, che noi chiamiamo immorali.
Il c/c/sèeo-amante si chiama oggi amico di casa ,
amico di famiglia , o diversamente ; non porta anche
nome, poiché non si fa vedere nemmeno in famiglia,
e il marito spesso non lo conosce. La libertà cui oggi
godono le signore è certamente superiore a quella che
godevano ai tempi del Goldoni ; i gabinetti partico-
lari, i quartierini mobigliati, oggi così frequenti nelle
grandi città , ed anche nelle piccole , sono testimoni
di drammi che se potessero essere interrogati da un
Pantalone dei Bisognosi o da un dottor Graziano Ba-
lanzon del 1 750, farebbero gridare allo scandalo quelle
due povere maschere. Le mogli d' allora , per altro ,
erano , nella grande maggioranza , meno capricciose ,
meno fantastiche e meno libertine d'ora : sicuro meno
- 317 —
libertine, poiché se l'adulterio si coltivava nelle classi
superiori, le madame Bovary erano scarse, anzi, scar-
sissime nella borghesia. Così se e vero che il teatro
riproduce la vita di un popolo, egli è anche vero che
parecchie scene goldoniane, dove la moglie spinge la
sua obbedienza verso il marito sino al sagrifìcio, con-
tengono la prova del nostro dire, mentre esse non sa-
rebbero state ne apprezzate, ne applaudite se non aves-
sero trovato il loro riscontro nella realtà, o, per lo meno,
nelle idee e negli animi degli spettatori. Certe rassegna-
zioni di mogli dinanzi all'abbandono del marito, oggi
forse parrebbero troppo ingenue , improntate ad una
I visione della vita troppo ottimista ; ma allora passa-
mano lisce. Gli spettatori nulla vi riscontravano di
falso o di convenzionale. Nella bottega del Caffè
(Atto I, Se. XX), Eugenio non si è ritirato a casa,
idove la sua buona moglie. Vittoria, l'aspetta invano :
jegli passa la notte in una casa da giuoco dove perde
jcento zecchini, che teneva addosso, e trenta sulla pa-
frola ; la moglie lo raggiunge ; egli la sgrida ; quella
l;erca di rabbonirlo, ma l'altro la scaccia via. Ecco
Ila risposta della moglie :
i " Vado, vi obbedisco , perchè una moglie onesta
|jeve obbedire anche un marito indiscreto. Ma forse
I orse sospirerete d avermi quando non mi potrete ve-
pere. Chiamerete forse per nome la vostra cara con-
jiorte quando ella non sarà in grado di rispondervi e
t il* aiutarvi. Non vi potete dolere dell' amor mio. Ho
[atto quanto far poteva una moglie innamorata di suo
I ^narito. Mi avete con ingratitudine corrisposto ; pa-
— 318 — .
zienza. Piangerò da voi lontano ; ma non saprò così
spesso i torti che mi fate. V amerò sempre, ma non
• 1 • • % ti ^
mi vedrete mai più " . - ■
Del resto , la generazione per la quale scrisse il
Goldoni si apparecchiava alla così detta " sensible-
rie ", uno stato d'animo, che potrebbe anche appel-
larsi il precursore del futuro romanticismo della prima
metà del secolo XIX; quella " sensiblerie " come la
indica la stessa parola , era un' importazione francese
portante la marca di Gian Giacomo Rousseau. Questi
aveva scoperto che 1' uomo , sebbene con la civiltà
avesse dato un addio a quello stato idillico di natu-
ra, che egli aveva scoperto, e quindi fosse divenuto
meno buono e sincero, anzi, fosse divenuto addirit-
tura cattivo , pure del suo vecchio stato aveva con-
servato il " sentimento ", una specie di tenerezza più
o meno profonda per le cose belle ed oneste, soprat-
tutto pei casi pietosi, compassionevoli. Siffatto " sen-
timento " si coltivò a tutto spiano; si volle essere od
apparire " sensible " a ogni costo ; " sensible " al-
l' arte , alla letteratura , alla natura ; " sensible " in
società, specie verso il prossimo se giovane , bello e
di sesso diverso dal proprio. Paolo e Virginia, creati
da Bernardin de Saint- Pierre , diremmo quasi un
vice-pontefice della religione della natura (il ponte-
fice , l'abbiamo detto , era il Rousseau) diventarono
persone vere, viventi, mentre la No avelie Eloise di-
venne il codice di tutte le anime " sensibles " ed
innamorate. In verità , 1' Inghilterra aveva preceduto
la Francia in codesta via mercè i romanzi di Richar-
— 319 -
donson e di qualchedun' altro , come V aveva prece-
duto col Lok^, con V Hume ed altri, nel rinnovamento
filosofico ; ma in Italia le novità non arrivavano che
dalla Francia e soltanto con V impronta o il suggello
di questa. Era, per altro, codesta " sensiblerie " una
mania garbata , onesta ed anche innocente , poiché
spingendo gli animi ad amare , ad impietosirsi facil-
mente, ad aver lagrime per tutto e per tutti, rendeva
gli uomini migliori. Trasportato questo " stato d'ani-
mo " in Germania , si arrivò col Goethe al suicidio
del povero \\ erther, e in Italia, col Foscolo, al sui-
cidio di Jacopo Ortis ; ma nella sua forma genuina
o francese, la " sensiblerie " non andava sino al pu-
gnale o alla pistola : gì' innamorati infelici si conso-
lavano più o meno presto , mentre i leggitori delle
loro avventure si limitavano a spargere sulle pagine
del libro lagrime abbondanti. La " sensiblerie " non
invase e pervase l' Italia che quando già il Goldoni
s' era messo risolutamente per la via della riforma ;
pur egli non seppe andarne esente. Per altro, code-
sta tendenza al tenero, al sentimentale, alle facili la-
grime — in teatro le commedie che s' ispirarono a
siffatta tendenza si chiamarono appunto lagrimose —
imprimeva alla società del tempo un' aria di sempli-
cità, un sapore di latte e miele che smussava, levigava
: caratteri , levava ogni agrume ai temperamenti. La
vita scorreva placidamente fra una tazza di cioccolata
) di caffè e un minuetto, tra un giro in piazza e una
visita golante , fra la lettura d' un romanzo e la re-
cita d'una commedia, fra una seduta d'Arcadia e la
_ 320 —
rappresentazione a un' opera dell' Hesse o del Por-
pora.
Il " pessimismo " dello Schopenhauer e il " do-
lore universale " di Giacomo Leopardi non erano
stati ancora scoperti ; i ragazzi non si suicidavano per
una bocciatura presa agli esami di greco o di mate-
matica e due amanti infelici non andavano aa avve-
lenarsi in un albergo dopo una copiosa cena inaffiata
da una bottiglia di Champagne più o meno autenti-
co. 11 sistema nervoso, segnatamente, non si mostrava
così malconcio, immiserito, sconquassato come poi si
mostrò : gli uomini e le donne se facilmente sorride-
vano , anche facilmente si rassegnavano ai dolori. Il
cervello, in tutta codesta gente, se non lavorava mol-
to, funzionava regolarmente , a velocità normale ; ma
che importava ? Lavorava il cuore ; questo si nutriva
di " sensiblerie ".
Il Goldoni tutta codesta vita ritrasse nelle sue com-
medie, anche in quelle che oggi hanno perduto ogni
valore artistico, per esempio, nella Trilogia Persiana,
per usare l'espressione del Caprin (1). Che cosa sono
tutti quei personaggi persiani (il Montesquieu con le
Lettres Persannes aveva reso popolare la Persia) se
non un' eco della vita d'allora a base di " sensible-
rie " ? Parecchi hanno detto che in quelle tre com-
medie d'argomento persiano, che pur tanto entusiasmo
suscitarono quando furono recitate, manca il " color
locale " , come vi mancava affatto la Persia. Sicuro ;
1) Op. cit.; pag. 294.
I
— 321 —
ma chi degli spettatori del tempo vi cercava 1* uno
o r altra ? C era la " sensiblerie " e bastava. Ma
ripetiamo ; il Goldoni, il Goldoni tuttavia vivente nelle
sue opere, è il Goldoni delle commedie di carattere
e d' ambiente.
Abbiamo già studiato — di fretta , s' intende — le
commedie di carattere ; quelle d' ambiente avevano
bisogno delle considerazioni che sin* ora abbiamo e-
sposto perchè sieno comprese. Chi può negare che sif-
fatto ambiente , che noi ci siamo indugiati a descri-
vere, non si rispecchi in decine e decine di comme-
die del grande scrittore comico veneziano ?
E per non stare sulle generali, esaminiamone bre-
vemente qualcuna.
Diversi ambienti rispecchia la commedia goldonia-
na, l'aristocratico, il borghese, ed infine un terzo pret-
tamente popolare. A quest' ultimo appartengono la
Trutta Onorata, le Donne Gelose, le Baruffe Chioz-
zolle, i Qualtro Rusleghi , la Massere , la Donna di
casa soa, i T^ellegolezzi, il Campielo, per non citare
che le più note, alle quali si potrebbe aggiungere il
Venlaglìo, se l'elemento borghese ed aristocratico che
ne fa parte , non togliesse alla commedia la fisiono-
mia schiettamente popolare. Più numerose sono quelle
che rispecchiano l' ambiente aristocratico o borghese,
o tutti e due insieme riuniti ; citiamo , per esempio ,
come riproduzione di vita aristocratica : il Cavaliere
e la T)ama, il Cavalier Giocondo, il Cavaliere di Spi-
rilo , e come riproduzione d' ambiente borghese , il
bugiardo, la Collega del Caffè , la Casa Nova , la
!^Cel Regno delle Maschere. 21
— 322 —
Cameriera Amorosa, VUomo Prudente, il Vero Ami-
co, V Avventuriere Onorato, X Jlwocato Veneziano,
la trilogia della X)illeggiatura, e d'ambiente misto, le
T)onne Puntigliose , la Sposa Sagace , la Cameriera
Brillante, Y Avaro, la Moglie Saggia.
In verità, codeste divisioni non sono perfettamente
esatte; poiché spesso le commedie del Goldoni sono
insieme di carattere e d'ambiente. La favola è spesso
sottile, sottile ; ma il tocco con che è riprodotta la
vita che s'aggira intorno a quel debol filo è così ma-
gico da far stare inchiodati gli spettatori sulla sedia,
o il lettore al tavolino per tutti e tre gli atti. Ecco
le Baruffe Chiozzotte; è la vita semplice , senza in-
cidenti d' importanza della popolazione marinara di
Chioggia; i personaggi sono dei pescatori con le loro
mogli, le loro figliuole ; due soli, cioè, il Canocchia,
eh' è un venditore ambulante di zucca arrostita , ed
Isidoro, che è il coadiutore del cancelliere criminale,
fra tutti quei personaggi non appartengono alla gente
di mcire. Delle famiglinole di marinai , aspettando il
ritorno dei padri e dei figli dalla pesca , attendono
alle loro ordinarie occupazioni dinanzi alle loro ca-
sette : il Canocchia , il venditore di zucca , coi suoi
modi familiari, getta la fiaccola della gelosia in quel
cantuccio tranquillo ; con la gelosia viene innanzi la
maldicenza ; le donne s* ingiuriano , si picchiano ; si
va in criminale. Ecco una querela da una parte, alla
quale se ne oppone un' altra ; Isidoro , il coadiutore,
che si sente rinascere fra le donne, s'intromette, cerca
di calmare tanto le vecchie quanto le giovani ; s' in-
1
— 323 -
tromettono anche gli uomini , e quando la matassa ,
fra le ire, i ripicchi, i malintesi femminili, è bene ar-
ruffata , ecco che essa comincia a dipanarsi e tutte
quelle baruffe terminano con le nozze. Nel Ventaglio
la trama della favola non è meno sottile ; ma V at-
tenzione dello spettatore per tutti e tre gli atti è sem-
pre desta. 11 sig, Evaristo ama Candida , la nipote
della signora Geltrude ; in un colloquio eh' egli ha
con la giovine, a questa, che sta sulla terrazza, cade
il ventaglio, che si rompe; il sig. Evaristo lo racco-
glie e vuol farne avere alla giovane uno nuovo senza
che ne sappia nulla la zia. Ne compra uno, difatti,
ne inccirica Giannina , le cui grazie sono disputate
dall'oste Coronato e dal calzolaio Crespino, per con-
segnarlo a Candida. Di qui, come un filo sottile, sot-
tile, si svolge tutta la trama della commedia; ma in-
torno a quel filo , che serve all' autore per spingersi
sino alla fine, sorgono i più imprevisti , i più curiosi
incidenti ; la trama per quanto trasparente , pure in-
teressa, e il successo e ottenuto.
Ma non sempre la trama della commedia goldo-
niana e sottile; il nostro commediografo sa addensare
gli avvenimenti senza rendere pesante la favola. Ecco
l'argomento della elogile Saggia, che Paolo Ferrari
con senso di modernità rifece sotto il titolo di Amore
senza stima. La contessa Rosaura, una giovane dama
d' una inesprimibile dolcezza d' animo , ha sposato ,
come ha scritto lo stesso Goldoni nell' analisi della
commedia che si legge nelle Memorie (I), un uomo
(1) Parte li; Gap. XIV.
— 324 —
brutale, disprezzatore della dolcezza di sua moglie ,
e cicisbeo della marchesa Beatrice, di carattere cat-
tivo quanto lui... La contessa Rosaura faceva tutto il
possibile per guadagnare il cuore del suo consorte ,
ma quest' uomo, duro e senza senno , preferiva piut-
tosto alle carezze d'una moglie amabile il pazzo or-
goglio d' un' amante imperiosa e piena di capricci.
Un giorno Rosaura prende il partito d' andeu"e ella
stessa a fcu*e una visita alla marchesa, a cui pone sotto
gli occhi , con tutta la possibile decenza , i disgusti
eh' era forzata a soffrire , pregandola di compiacersi
d'adoperare tutto il suo credito presso il conte a fine
d'impegnarlo a renderle un poco più di giustizia. Bea-
trice , punto balorda , comprende subito la maniera
d* agire della contessa , onde se la cava con espres-
sioni vaghe e complimentose. Essa però spiega al conte
tutto il suo furore e malanimo, e Io istiga a tal segno
cbe finalmente lo determina a disfarsi della moglie.
Questo mEu^ito crudele concepisce pertanto il barbaro
disegno d' avvelenarla : per buona sorte la contessa
ne è avvertita e lo inganna, facendogli credere d'aver
trangugiato la micidiale bevanda; onde parla al me-
desimo come una vittima spirante, che sempre più lo
ama e lo perdona. Il conte penetrato e pentito, con-
fessa i suoi falli e grida aiuto per richiamare in vita
la moglie: comparisce allora la cameriera che si ac-
cusa di aver saputo il segreto , di aver barattato la
fiala, e d' aver così , a dispetto del padrone , salvato
la vita alla contessa. A questo dire egli resta rapito
dalla gioia, abbraccia di cuore la moglie, ricompensa
I
- 325 —
la cameriera , detesta la marchesa , e da essa imme-
diatamente prende congedo ".
Un' altra trama di commedia , quella dei Pettego-
lezzi. Cediamo ancora la parola al Goldoni. " Chec-
china passa per figlia d'un marinaio veneziano, a cui
essa era stata affidata fin dalla sua infanzia. Venuta
all' età nubile, le si trova un convenevole partito; ma
nascono pettegolezzi, che guastano tutto. Una donna
ammessa al segreto, confida ad una delle sue amiche
che Checchina non è altrimenti figlia del marinaio ;
costei rifa il discorso ad un' altra , e così di bocca
in bocca , d' orecchio in orecchio (sempre però col
patto della circospezione) si disvela 1' arcano. Ecco
pertanto riguardata la giovine promessa in matrimonio
come bastarda , ed ecco per tali ragioni interrotte le
nozze. Giunge a Venezia il vero padre della fan-
ciulla che torna dalla schiavitù e sembra alla maniera
un levantino ; trovatosi egli per caso con 1' armeno
mercante Ababigi (l), vengono presi in iscambio l'uno
per r altro , e per questo solo motivo Checchina si
crede figlia del brutto barbone. Ecco nuovi pettego-
lezzi. Checchina, dunque, e disprezzata, le si ride in
faccia, si chiama signorina Ababigi, ed è ridotta alla
disperazione. Finalmente il padre putativo ed il vero
un giorno s' incontrano ; si viene in chiaro di tutto ;
Checchina ritorna al suo stato, sposa il suo preten-
( I ) Personaggio preso dal vero. Era un vecchio con una grande
barba, vestito alla levantina, che girava per Venezia vendendo frutta
secca. Era assai noto e volendo burlarsi d' una giovane , che non
avesse ancora trovato marito, le si proponeva Ababigi.
— 326 —
dente , mutan tono i pettegolezzi e così termina la
commedia molto allegramente (1)." Si direbbe quasi
una commedia d' intreccio del teatro improvviso o a
soggetto quanto alla trama ; ma il Goldoni vi seppe
ritrarre il cicaleccio maldicente, maligno delle don-
nicciuole veneziane, e il suo quadretto, sebbene porti
addosso la bellezza d*un secolo e mezzo, pure sembra
fatto non più tardi d' ieri o di ieri 1' altro.
Intorno a codeste trame, così semplici, nelle com-
medie d'ambiente, si svolge la vita italiana , soprat-
tutto veneziana, del tempo. Il " cicisbeismo, che in-
sieme alle parrucche, ai ricci, ai guardinfanti, ai nei, al
minuetto, agli abiti ricamati e ai tacchetti rossi, co-
stituì la nota più caratteristica dell' haute del seco-
lo XVIII, trovò nel Goldoni un arguto censore. La sua
satira però deriva da Orazio, e non da Giovenale,
sia perchè il temperamento di lui non era fatto per
r attacco impetuoso, a fondo, per la critica acre, bi-
liosa, sia anche perchè, sulla scena d'allora, la libertà
di linguaggio, e in modo particolare di critica, era
assai limitata. La nobiltà, allora, dopo il trono o il
capo dello Stato, era tutto, anche a Venezia, e Piombi
nella capitale della Serenissima, e altrove le Vicarie o
le Grandi Prigioni, o altre case decorate con nomi più
o meno di mal'augurio, avrebbero rinchiuso nelle loro
non allegre celle l'impertinente che avesse osato mor-
dere con forza una casta o un ordine di cittadini che
formava la pietra angolare dell' edificio sociale di quel
(1) Mem. Parte II; Gap. XI.
il
— 327 —
tempo. Ma il riso caustico decente del poeta vene-
sino, il castigai ridendo mores era ammesso e il Gol-
doni ne approfittò ed anche largamente. Se non che
il " cicisbeismo " come già accennammo , non era,
in fondo in fondo, quella cosa tanto brutta, soprattutto
immorale, che certuni hanno creduto che fosse in
base alle satire e alle caricature che da esso presero
origine. Non sempre il " cavalier servente " era un
amante; se fosse stato diversamente, i mariti di que
tempi avrebbero dato dei punti anche a re Menelao
buon' anima : essi non amavano che la loro proprietà
coniugale divenisse collettiva; però non sempre im-
berciavano nel segno, e il " cicisbeo " o il " cava-
lier servente " o il " bracciere " diventava l'amante
della moglie; ma non di rado egli era un personag-
gio innocuo, scelto con molta cura dal marito fra i
gentiluomini stagionati ; e in questo caso, se la si-
gnora voleva distrarsi fuori del campo legittimo, ma-
ritale, il " cicisbeo " serviva di scudo all'amante (1).
Così, nella Sposa Sagace, del Goldoni, donna Petro
nilla, la matrigna di Barbara, non ha ritegno di dire
in pubblico al conte d'Altomare, uno dei frequenta-
tori della sua " conversazione " e che vorrebbe in-
nalzare alla dignità di suo " bracciere " titolare :
" Conte, alfin lo confesso, a sostener m' ingegno.
Che voi siete fra tutti il cavalier più degno.
So che vi feci torto dando la preferenza
A chi non ha guadagnato con l' arte e l' insistenza.
(1) C. Cantò; St. degli Italiani, Lib. XV; Cap. CLXXI, Ved.
V. Alfieri; Satire. " 11 Cavalier Servente ".
— 328 —
Conosco or più che mai le vostre qualità,
Venero il vostro sangue, la vostra nobiltà,
E se di me vi cale, come vi calse in prima
Vi protesto, signore, venerazione e stima.
Non offrisco amori; tanto non si concede
A femmina onorata che altrui giurò la fede;
Ma se dell' amicizia pago di me sarete.
Ad esclusion d'ogni altro, mio cavalier sarete.
(Atto II. Se. XII)
Una satira fine, pieno di spirito, del " cicisbeismo "
contiene la commedia il Cavalier e la Dama. Per
non destare suscettibilità, il Goldoni non l' intitolò i
Cicisbei, " quest'esseri strani... martiri della galanteria
e schiavi dei capricci del bel sesso (1). " Però; con
prudenza tutta veneziana, seppe mettere accanto alle
signore servite da " cicisbei ", una donna che i ser-
vizi del cavaliere, sebbeno ispirati da un fine one-
sto e delicato, respinge. Siffatto contrasto, artistica-
mente, dà pregio alla commedia e ne rende le situa-
zioni più curiose e divertenti. I " cicisbei " che fanno
alle signore da vice-mariti, che sono consultati sulla
scelta del colore d'un abito o d'un nastro , che as-
sistono alla toletta della donna che servono e danno
consigli al parrucchiere sul modo di disporre una
treccia o di fare un ricciolo, non comprendono come
una signora (è la protagonista della commedia) possa
far senza un " bracciere " e la burlano e le danno
della provinciale a tutto spiano. Essi medesimi e le
loro dame per paura che un tale esempio non inizi
(I) Mem. Parte II, Gap. IV.
I
- 329 —
un'era di decadenza per la buona e legittima galan-
teria riuniscono i loro sforzi allo scopo che la signora,
quintessenza del puritanismo, prenda anche lei un ca-
valier servente ". Il Goldoni, prima della rappresen-
tazione della sua commedia, credeva raccoglierne cri-
tiche, e forse fischi , ma le signore e i loro " cici-
sbei " non si ritennero offesi dalla satira, anzi, risero
di cuore e chiamarono " villani e selvaggi " i " ci-
cisbei " della commedia, che volevano dare a quella
povera signora un " cavalier servente " per forza (1).
Il Goldoni trattò più d' una volta il tema del " ci-
cisbeismo " ; e come non tornarvi su se quell'usanza
costituiva, per cosi dire, lo sfondo dell' alta società
italiana del Settecento? Ampiamente trattò tale ar-
gomento nella Dama Prudente, sebbene in questa
sua commedia non avesse voluto presentare che un
" carattere ", quello di don Roberto, un gentiluomo
innamorato della propria moglie, e per giunta geloso,
il quale per non rendersi ridicolo, tollera, adenti stretti,
che i " cicisbei " farfalleggino intorno alla sua signora.
Anche nelle Femmine Puntigliose ì " cicisbei " sono
posti in ridicolo ; ma in quest' ultima commedia il
( I ) Il Goldoni (scrive Ernesto Masi in Commedie Scelte di Qol-
doni; Firenze, Sansoni, 1897; voi. I, p. 3) nel pigliare in giro il
" cicisbeismo ", fu un precursore ; la commedia : // Cavaliere e la
Dama è del 1 749, mentre il lattino del Parini è del 1 763. In
verità, il " cicisbeismo" non fu posto per la prima volta in ridicolo dal
Goldoni; questi ebbe, a sua volta, un precursore nel Fagiuoli con la
commedia (e noi già lo notammo): Ciò che pare non è. Anche una
satira del " cicisbeo " contiene l'altra commedia del Fagiuoli : // cO'
Veliere Parigino.
- 330
Goldoni ha avuto uno scopo di gran lunga superiore
a quello di sferzare una ridicola usanza. Egli, sebbene
con molta cautela, ha voluto mirare ad un fine altis-
simo, eminentemente sociale, e se col Cavaliere e la
Dama precorse il Parini nel rimettere in ridicolo il
Giovine Signore, con le Femmine Puntigliose precorse
il Beaumarchais, l'autore del Mariage de Figaro, nel
dare battaglia alla casta temuta ed assorbente del
tempo, la nobiltà. Ma non tutti, però, hanno saputo
scorgere V importanza sociale , ed anche politica ,
delle Femmine ^Puntigliose, forse perchè lo stesso
Goldoni cercò di dissimularla affibbiando alla com-
media un tìtolo che non le va che sino ad certo punto.
La contessa Beatrice , la contessa Eleonora e la
contessa Clarice, le tre donne di nobile lingnaggio
che figurano nella commedia, sono certamente punti-
gliose ; nessuno può metterlo in dubbio come sia
estremamente puntigliosa tutta la società che quelle
signore praticano ; ma se il puntiglio è la nota do-
minante del carattere di quelle dame, V argomento
della commedia è tutt* altro : è la scalata all'Olimpo,
è lo sforzo che fa una casta inferione, condannata a
rimanere in seconda linea, nell'ombra , per prenetcìre
nelle file della classe superiore. Donna Rosaura, mo-
glie d* un ricco mercante, aspira a prender posto fra
le dame della nobiltà; le usanze e gli ordinamenti del
tempo non gliene danno il diritto, ma essa cerca di
prenetarvi mercè la compiacenza della contessa Bea-
trice a cui sotto forma di perdita d' una scommessa
paga cento doppie di Spagna, e del conte Lelio, che
- 331 -
mette dalla sua mediante il regalo d' un ricco orolo-
gio. Le altre dame, donna Eleonora e donna Cla-
rice, difendono tenacemente i loro privilegi e respingono
indietro donna Rosaura, la quale, finalmente, comprende
come la società modesta, lavoratrice, ma sana, dalla
quale ella proviene, sia da preferirsi a quella incivile,
corrotta, a cui con tanto ardore aspirava. Il Beaumar-
chais, più tcu^di, non disse cose peggiori della no-
biltà del suo tempo. Il Goldoni con donna Beatrice
e il conte Lelio metteva alla gogna tutta Taristocrazia
della seconda metà del Settecento (1). Altro che Esaù
che vende per un piatto di lenti il suo diritto di primo-
genitura ! Per un centinaio di doppie di Spagna ed un
orologio, una dama e un gentiluomo facevano mercato
insieme alla loro dignità della loro coscienza !
Molto audace quel Goldoni ! dirà qualche nostro
lettore. Forse; il certo s'è che la sua audacia il no-
stro commediografo sapeva nascondere così bene che
(1) Il Caprin, Op. cit. pag. 289, scrive parlando delle Femmine
'Puntigliose e di qualche altra commedia del Goldoni ; " Nessuna sa-
tira dunque contro l' aristocrazia, non ostante qualche apparenza in
contrario. " Parole che il Caprin ha scritto perchè il Goldoni, fra
r altro, nelle Femmine Puntigliose fa dire al conte Ottavio : " Conser-
vare illibato il nostro decoro, questo è il vero puntiglio della nobiltà ".
Se non che, non è detto che il Goldoni, mettendo quelle parole in
bocca di un nobile, abbia voluto parlare per proprio conto. La sa-
tira stava nei due ritratti di donna Beatrice e del conte Lelio, due
losche Bgure d'aristocratici, senza tener conto del marito di donna Bea-
trice, il conte Onofrio, scroccone I Le parole del conte Ottavio, di sopra
riportate, non devono quindi intendersi che come un ripiego a cui il
Goldoni era costretto ricorrere per non destar di troppo le suscettibilità
dei nobili.
— 332 —
anche oggi, un secolo e più dopo la sua morte, sten- \
tiamo a rappresentarci un Goldoni ribelle ; gli è ap- 1
pena se lo riteniamo malizioso. Ma la malizia ha le i
sue audacie, e queste il Goldoni seppe avere senza
che nessuno se ne accorgesse di troppo. Egli sapeva
nasconderle, sapeva farle passare senza che gli spet-
tatori ne rimanessero offesi. Nelle Femmine Punti-
gliose, difatti, qual' è il titolo? E un titolo innocuo;
esso deriva da un vizio, da un difetto femminile. E
la scena dove ha luogo ? Forse a Venezia, a Padova,
a Bergamo, o in qualche altra città del dominio della
Serenissima ? Ma no ; egli mette la scena, nientemeno,
a Palermo, città mezzo spnaguola e mezzo italiana,
e dove egli non è stato, e forse dove non porrà mai
il piede. Se non che, fatta una tale concessione, egli
senza smettere quella sua aria bonaria, pone in bocca
al conte Ottavio le seguenti parole, che più tardi il
Beaumarchais avrebbe volentieri fatto sue : " Oimè !
Che orribili cose ci tocca ai giorni nostri a sentire !
Una dama vende la sua protezione, mercanteggia sul-
r onore della nobiltà, mette a repentaglio il decoro
della città, della nazione, dell' ordine nostro, del no-
stro sangue ! Un cavaliere non solo tollera e permette
che si profanino i diritti della nostre adunanze, ma
si coopera e vi presta mano e ne promuove gli scan-
dali ! (1)" Parole nobilissime, piene di sdegno gran-
dissimo, pronunzia quel conte Ottavio, specie di pa-
ladino della nobiltà e della dignitè del ceto aristo-
(1) Atto III; Se. XIII.
— 333 —
:ratico ! Ma quanto disprezzo non versa sui membri
ji codesto ceto!
Non meno coraggio ebbe certamente il Goldoni
lel rompere una lancia contro il duello. Sebbene
questo da un pezzo sia entrato nei nostri costumi,
Dure è anche da un pezzo che moralisti e filosofi lo
:ombattono. Appunto nelle Femmine Puntigliose ,
Pantalone , il quale apprende che Florindo per ven-
dicare un affronro fatto alla propria moglie vuol
sfidare il conte Onofrio, dice : " Anca eia è xe de
quei crede, che un duello possa resarcir ogni offesa?
Che una sfida sia bastante a render la reputation a chi
l'ha persa? Pregiudizi, errori, pazzie! (1) ". Ma qual-
che tempo prima che facesse rappresentare le Fem-
mine Puntigliose, il Goldoni, nel Cavaliere e la Dama,
aveva avuto il coraggio — e questa volta si trattava
di avere un coraggio non ordinairio — non di fcu' par-
Icire contro il duello un pacifico mercante, qual' è
Pantalone, e quindi un plebeo che nulla s' intendeva
d'onore e di leggi cavalleresche, ma di far rifiutare
da un nobile una sfida senza che questo rifiuto fosse
preso per vigliaccheria. Don Flaminio, non riuscendo
a farsi amare da Eleonora, la quale nutriva un pro-
fondo ciffetto per don Rodrigo, sfida costui; ma don
Rodrigo, un gentiluomo serio, onesto, non accetta il
cartello, e un altro gentiluomo, don Alonzo, trova co-
desto rifiuto onorevolissimo (2). 11 pubblico applaudì;
(1) Alto III; Se. V.
(2) Atto III; Se. III.
— 334 — j
segno, questo, che la commedia dell'arte, nella quale i
il così detto punto d'onore era elevato a dignità d'i-
stituzione, aveva fatto il suo tempo, e che una con-
cezione della vita più sana di quella che aveva im-
perato sotto r influenza della letteratura e dei costumi
di Spagna s' era fatta strada a poco a poco nella
mente e nell' animo del pubblico.
L'educazione delle fanciulle, quasi sempre fatta in
un chiostro, con intendimenti angusti , ascetici, piena
di pregiudizi e di falsi pudori, sarebbe stato un ottimo
bersaglio per un commediografo di quei tempi: ne al
Goldoni, fine osservatore , sfuggì ; se non che , com-
prendendo bene le difficoltà che presentava la satira
d'un sistema educativo che aveva per se quasi i quattro
quinti della società d' allora , e quel che è di più, i
poteri pubbhci, si limitò ad una semplice ricognizione
e questa fece nel Padre di famiglia , dove mise in
iscena due sorelle, l' una educata in famiglia , anima
retta, virtuosa, l'altra educata — i tempi non gli per-
mettevano di dire in convento ( 1 ) — da una zia bac-
chettona fra le pratiche religiose e di pietà. Quest'ul-
tima sorella, in apparenza buona, tutta timor di Dio,
in fondo è leggiera , civetta , un piccolo Tartuffo in
gonnella, e mentre la sorella educata liberamente re-
siste alle tentazioni, l'altra s'innamora d'un pilastro di
prigione sotto forma di collotorto che le hanno posto
attorno come educatore, e col quale scappa di casa.
L' evocazione di quest' ultima macchietta goldo-
(1) Mem. Part. II, Gap. XII.
- 335 -
niana — quella dell' ipocrita — ci ricorda quella di
Pirlone, altra macchietta goldoniana. Pirlone è uno
dei personaggi del Molière che il nostro commedio-
grafo scrisse appositamente per un teatro di Torino,
dove, le commedie dell'avvocato veneziano, sebbene
trovassero buona accoglienza, pure, dopo ciascuna re-
cita delle medesime , si diceva : C'est hon , mais ce
nest de Molière (1). Nella sua nuova commedia, il
Goldoni introdusse un ipocrita , precisamente Pir-
lone. Certo la figura di quest'ultimo non oscurò quella
di Tartuffo del grande commediografo francese ; però
l'aver posto in iscena un ipocrita e di tartassarlo ben
bene in un tempo in cui l'ipocrisia, per non offendere
la virtù, era tenuta in pregio quasi quanto quest'ul-
tima, fu da parte del Goldoni un atto di coraggio,
che smentisce quella leggenda di timidità , e di ri-
guardi e compiacenze verso le istituzioni esistenti ai
suoi tempi e che da un pezzo s' è andata formando
intorno al nome dello scrittore veneziano. Questi, al-
l'occasione, sapeva porre in luce, e mettere in ridicolo
i difetti e i vizi della società, anche se protetti dallo
Stato e dalla Chiesa; se non che, in codesti casi, la
sua satira era piìi riguardosa , meno aperta , ma non
meno pungente. Nessun vizio del suo tempo risparmiò
compreso quello dell'ipocrisia ch'era uno dei maggiori
e che inquinava la società forse più del " cicisbei-
smo " , o dell' ozio in cui beatamente poltrivano le
classi dirigenti d'allora. Alla fama della commedia
(1) Mem. Par. II; Cap. XII.
— 336 —
del Molière giovò in Francia soprattutto la guerra che
gli ipocriti in sottana nera o in abito corto le mossero
cinche prima che essa fosse posta in iscena; ma non
bisogna dimenticare, come anche i più sinceri ammi-
ratori dello scrittore francese sono costretti ad ammet-
tere, che l'ultimo atto di Tartuffo è assai povera cosa
e che il Ccirattere d* Orgone , il marito credenzone,
rasenta l'inverosimile. Del resto, si sa, che Molière,
pur dando al carattere di Tartuffo una vita da ren-
derlo scultorio, adoperò per metter su la sua commedia
molto materiale italiano. Il carattere dell'ipocrita non
era ciffatto nuovo nel teatro, non in quello francese,
dove certi ardimenti per lunga pezza parvero impos-
sibiH , ma in quello itaHano. Difatti, il Moland (1)
osserva che il Molière pel '^artuffe attinse, e larga-
mente, dalla commedia l' Ipocrito di Pietro Aretino :
" Les analogies... entre Toeuvre de l'Aretin et 1' oevre
de Molière sont trés sensibles. Le personnage prin-
cipal de la comédie lo Ipocrito a de comun avec
Tartuffe non seulement 1' hypocrisie , mais encore la
gourmandise et la sensualité. Il employe les mémes
moyens pour conquérir son prestige et son influence:
simagrèes pieuses, humilté feinte, jargon de la devotion.
Il est place dans un milieu pareil, au sein de la fa-
mille , ou il exer-ce une autorité dangereuse. Une
égale débilitè d' esprit caractérise les deux chefs de
maison et les valets de Liseo (2) n' ont pas 1' oeil
(1) Op. citata; p. 222.
(2) Carattere di vecchio credenzone che si fa infinocchiare dall' ipo-
crita e corrispondente a quello d'Orgone nella commedia del Molière.
— 337 —
moins clairvoyant ni la parole moins impertinente que la
servante de Dorine ". Il Moland seguita facendo giu-
stamente rilevare l'abisso che dal punto puramente
artistico separa la creazione dell'italiano da quella del
francese ; ma non possiamo ritenere con lui che lo
scioglimento dell' azione immaginato dal commedio-
grafo francese sia migliore di quello dell'italiano. L'A-
retino con una finezza di spirito degna d'uno scrittore
che visse ai tempi della Rinascenza, immagina che il
suo protagonista componga tutte le divergenze, allon-
tani tutti i sospetti e resti tranquillo e rispettato in
seno alla famiglia dove egli ha portata tutta la bava
schifosa dei suoi vizi ; il Molière all' incontro, vivendo
n pieno gesuitismo, fa scoprire le marachelle di Tar-
luffo e lo fa chiudere in prigione.
Uno dei vizi contro il quale maggiormente si eser-
:itò la vena comica del Goldoni fu certamente il giuoco.
3i giuocava, allora, nelle classi elevate, arrabbiata-
nente, forse perchè non si giuocava alla borsa come
)ggi. Giuocavano non meno arrabbiatamente degli
lomini , le signore ; il che oggi non è lo stesso. A
V^enezia ( 1 ) il giuoco era una frenesia , una febbre
(1) Si giuocava allora sfrenatamente iu tutte le grandi città. La Du-
hessa d'Orléans scriveva da Parigi il 14 maggio 1695: " On joue
:i des sommes affrayantes, et les joeurs sont comme des insensés; l'un
urie, l'autre frappe si fort la table du poing que toute la salle en
etentit; le troisiéme blasphème d'une fagon qui fait dreisserles cheveux
iir la téte; tous pàrassient hors d'eux mémes et sont effrayssants à
oir ". Revue des Deux Mondes, 16 dee. 1907 {Madame, mere du
\egent, di Arvcde Barine): Probabilmente, un mezzo secolo dopo, ai
empi del Goldoni, i gentiluomini si saranno condotti meno villanamente.
3\Cel 'Regno delle ^^aschere 22
338
J
furiosa, come scrive il Caprin (op. cit. p. 1 0). La " co
versazione " che all'uso francese penetrava nelle città
d'Italia, non si teneva soltanto di sera; si teneva an-
che di giorno, di mattina. Le signore ricevevano fra
le dieci e il mezzogiorno, come oggi si fa in qualche
minuscola città del mezzogiorno d' Italia, e la " con-
versazione " sarebbe riuscita poco interessante, se non
fosse stata accompagnata dal giuoco. In ogni salotto
erano sempre pronti due tavolini per la bassetta e il
faraone. Si giuocava anche più semplicemente , per
esempio, a primiera. Quest'ultimo giuoco era preferito
dalle signore, le quali, giuocando, non volevano smet-
tere dal conversare. Nella Dama Prudente, (Atto II,
Se. XIX), donna Redegonda che sta insieme ad altre
dame, dice a don Roberto: " Noi vogliamo giuocare ".
Don Roberto risponde: " Servitevi, siete padrone: a
che giuoco, signora, volete divertirvi ? " Donna Rede-
gonda: " A un giuoco facile. Giuochiamo a primiera ".
DONNA EULARIA. Primiera è un giuoco d'invito. Perdonatemi,
non mi par giuoco da conversazione.
DONNA REDEG. A me piace giuocare a quei giuochi, che non
impegnano l'attenzione. Voglio nello stesso
tempo giuocare e discorrere.
DONNA EMILIA Dite bene; è un giuoco facile ".
Era obbligo , per chi volesse aver fama di vita
elegante, possedere nelle vicinanze di San Marco un
appartamentino, dove accogliere gli amici e le amiche
"a conversazione", vale a dire a giuocare: altre volte
questi ritrovi assumevano tutte le apparenze di quelli
— 339 —
che ai nostri giorni sono i clubs; avevano i socii fissi,
le cariche e servivano, oltre che al giuoco, a pranzi
e cene; altri erano quasi pubblici , accoglievano in-
sieme ai nobili tutta la feccia dei trivi... Anche le
dame tenevano case da giuoco (1) " II governo, cre-
dendo di riparare con la pubblicità, che secondo lui,
avrebbe tolto gl'inconvenienti lamentati nelle case pri-
vate, acconsentì che si aprisse in calle Vallaressa, il
famoso Ridotto dove si continuò a giuocare con la
stessa frenesia di prima, sino a che nel 1774 il go-
verno stesso non stimò prudente di chiuderlo. Il Goldoni
scrisse appositamente contro la passione del giuoco
imperante a Venezia il Qiuocatore, una commedia che
non ebbe esito felice; ma in altre commedie non tia-
scurò di flagellare più o meno aspramente quel vizio.
Tutti ricordano, nella bottega del Caffé, il giuoca-
tore Eugenio non che Patrizio, il losco tenitore della
bisca.
Andremmo per le lunghe se noi qui volessimo pas-
sare in rassegna tutti i vizi, tutte le debolezze, tutte
le manie più o meno ridicole che il Goldoni prese
di mira nel suo teatro comico. Nessun vizio nascose,
nessuna classe di cittadini risparmiò. Dei nobili punse
e spesso sferzò la crassa ignoranza; nel Raggiratore,
il conte Eraclio è un perfetto asino , ed essendogli
stati presentati due brutti quadri come spera di Raf-
faello, egli lo crede ed aggiunge :
" E vero, sono di Raffaello da Pesaro.
(I) Caprln; op. clt. p. 10-11.
— 340 ^
Il suo interlocutore osserva:
" D'Urbino vuol dire .. "
Ed il conte:
" Da Pesaro ad Urbino non ci sono che poche miglia ""
Un altro nobile ignorante è il conte Ottavio, fon-
datore dell'Accademia dei Novelli , nella commedia
il Poeta Fanatico, come ugualmente ignorante è, nel
Torquato Tasso, il conte del Fiocco, che toscaneggia;
ne meno ignorante con l'aggiunta del ridicolo è, nella
Fomiglia dell' Antiquario y il conte Anselmo. Sempli-
cemente ridicoli sono poi altri nobili, per esempio, il
cavaliere di Ripafratta, il marchese di Forlimpopoli e
il conte d* Albafiorita nella Locandiera. Anche la mania
del viaggiare infecondo , incosciente , come se viag-
giassero non persone, ma bauli, dà occasione al Gol-
doni di dare una tiratina d'orecchie ai nobili, i quali
in quei tempi, a preferenza dei borghesi , potevano
prendersi quel gusto. Il Cavalier Giocondo e la pa-
rodia di codesti viaggiatori, compreso il protagonista,
il quale, tutto sommato, non ha visitato che qualche
città o bicocca della provincia in cui è nato. Nella
Pamela Nubile, sebbene i personaggi sieno inglesi,
pure attraverso i nomi stranieri , il contenuto è roba ;
paesana. Neil' atto I, e' è una scena (la XVI) che
anche oggi, mediante qualche piccola modificazione,
potrebbe essere d'attualità. Vi è dipinto un giovine
— 341 —
signore che nei suoi viaggi non ha saputo osservare
che il solo lato futile delle cose vedute. Entra in
iscena il cavaliere Ernold; già vi sono milord Bonfil
e milord Artur:
ERN. Milord Bonfil, milord Artur, cari amici.
BON. Amico, siate il ben venuto. Accomodatevi.
ART. Mi rallegro vedervi ritornato alla patria.
ERN. Mi ci vedrete per poco.
ART. Per qual causa ?
ERN. In Londra non ci posso più stare. Oh, bella cosa il viaggiare!...
Oggi qua, domani là. Vedere i magnifici trattamenti, le splen-
dide corti, l'abbondanza delle merci, la quantità del popolo,
la sontuosità delle fabbriche ! Che volete eh' io faccia a Londra?
ART. Londra non è città che ceda facilmente il posto ad un* altra.
ERN. Eh, perdonatemi, non sapete nulla. Non avete veduto Parigi,
Madrid, Lisbona, Vienna, Roma, Firenze, Milano, Venezia.
Credetemi, non sapete nulla.
ART. Un viaggiatore prudente non disprezza mai il suo paese. Ca-
valiere, volete il thè?
ERN. Vi ringrazio, ho bevuto la cioccolata. In Ispagna si beve della
cioccolata preziosa. Anche in Italia comunemente si usa.... A
Venezia si beve il caffè squisito. Caffè d' Alessand ria vero e
lo fanno a meraviglia; a Napoli, poi convien cedere la mano
per i sorbetti. Hanno dei sapori squisiti. Ogni città ha la sua
prerogativa. Vienna per i trattamenti, e Parigi, oh il mio caro
Parigi poi, per la galanteria, per l'amore. Bel conversar senza
sospetti. Che bell'amarsi senza larve di gelosia , sempre feste,
sempre giardini, sempre allegrie, passatempi, tripudi. Oh, che
bel mondo...
BON. (chiamando) Ehi?
ISAC. Signore (entrando)
BON. Porta un bicchier d'acqua al cavaliere,
ERN. Perchè mi volete far portare dell'acqua ?
BON. Temo che il parlar tanto v'abbia disseccato la gola.
- 342 —
ERN. No, no, risparmiatevi questa briga. Dacché son partito da Londra
ho imparato a parlare.
BON. S'impara più facilmente a parlare che a tacere.
ERN. A parlar bene non s'impara così facilmente.
BON. Ma chi parla troppo non può parlar sempre bene.
ERN. Caro milord, voi non avete viaggiato.
BON. E voi mi fate perdere il desio di viaggiare.
ERN. Perchè?
BON. Perchè temerei anch'io d'acquistare dei pregiudizii.
Se la mania dei viaggi affliggeva i nobili, quella
della villeggiatura affliggeva tutti, comprese le modeste
famiglie della borghesia, le quali per sfoggiare abiti e
darsi aria di ricchi, s* indebitavano maledettamente.
Codesta mania che aveva i suoi lati ridicoli, il Gol-
doni ritrasse in tre commedie : le Smanie per la Vii-
leggiatura, la Villeggiatura e il Ritorno dalla Villeg-
giatura, che sono certamente fra le sue migliori pro-
duzioni.
11 teatro del Goldoni, dove sfilano , come nota il
Caprin (1), quasi duemila personaggi, non è sfuggito
alla sorte che tocca pur troppo a tanta parte della
produzione letteraria: una parte di esso è morta sen-
za speranza di resurrezione. Ma ciò non costituisce
un demerito pel fecondo commediografo veneziano.
Altri scrittori di commedie , sebbene collocati dalla
pubblica opinione in un posto non meno alto di quello
assegnato al Goldoni, hanno visto perire, anche prima
della loro morte, una parte della loro opera senza
(1) Op. cit. p. 291.
— 343 —
che per questo la loro fama ne soffrisse ; altri non
sono passati alla posterità che con uno o due lavori
dei dieci o venti o più da loro messi alla luce. Per
cominciare da Plauto o da Terenzio, quando il loro
culto fu ripristinato col trionfo dell'umanesimo, appena
tie o quattro delle loro commedie ressero in certo
modo alla luce della ribalta; di Guglielmo Shakspeare
non si recitano, in Inghilterra, più di mezza dozzina
di lavori, e assai meno fuori, e del Molière nessuno
potrà sostenere che il Mariage Force o V jlmour Me-
dicin , o, peggio. Don Garda de Navarre sia cono-
sciuto come il Tartuffe o il Mìsantrophe. Non par-
Hamo ne di Lope de Vega , ne del Calderon dei
quali appena, a titolo di saggio, si recita, qua e là,
qualche dramma. Ne le ragioni di queste obblivioni,
di questo dissolversi di glorie che sembravano ai con-
temporanei eterne, sono da ricercarsi — parliamo sem-
pre di teatro — nella povertà organica dei lavori caduti
m dimenticanza; no. Il teatro, che è la rappresenta-
zione della vita, non può fare a meno d' ispirarsi a
sentimenti, a idee, a usi, o a mettere in ridicolo vizi
o debolezze umane, che pel loro carattere di conti-
genza non possono in gran parte interessare che una
generazione, e qualche volta nemmeno ; passato il mo-
mento dell' attualità, il lavoro diventa irriconoscibile,
assume T aria d* un fossile ; e se qualche volta per
l'eccellenza della forma resiste alla lettura, non resiste
mai all'esperimento della scena. Vi manca la vita che
prima vi alitava dentro.
Della produzione teatrale del Goldoni, certamente
— 344 —
una parte è morta: è morta senza speranza d'essere
esumata dal sepolcro in cui giace , quella parte che
sente troppo da vicino la presenza della commedia
dell' arte ; è anche morta quell'altra che chiameremo
storica, sebbene molto impropriamente, come il Mo-
lière, il Torquato ^asso, il 'Terenzio per difetto asso-
luto di senso storico ; è morta ugualmente quella parte
che chiameremo esotica, come la Sposa Peruviana,
le tre Ir cane, perchè nulla hanno di esotico, meno il
titolo; è morta, infine, quella parte che sebbene in-
formata ai nuovi criteri di riforma dell' autore , pure,
a parte la povertà dell' intreccio, o la fiacchezza dei
caratteri o della vis comica, se rappresentata, non de-
sterebbe più l'interesse del pubblico. Ma di fronte
a siffatte produzioni morte, quante non ne rimangono
tuttavia vive! Già, tutte, o quasi tutte le commedie
in dialetto veneziano sono piene di vita e bestemmie-
rebbe chi dicesse che le Baruffe Chiozzote, i Quattro
^usteghi e il Campielo non sono più rappresentabili.
E ugualmente bestemmierebbe chi non ritenesse più
degne della ribalta il Bugiardo , la Bottega del
Caffè, un Curioso Accidente, la Locandiera, il Ven-
taglio, gli Innamorati e il Burbero Benefico. Altre
quattro o sei commedie meriterebbero tale onore, e
così si vedrebbe come del nostro Goldoni, sommato
tutto, sarebbe ancora vivo un numero di commedie
rappresentabili assai maggiore di quello che non s'abbia
in Francia pel Molière, senza tener conto che a man-
tener vivo il culto per quest' ultimo , presso i suoi
connazionali, ha potentemente contribuito la istituzione
— 345 —
d*un teatro stabile (1) con repertorio, in parte, clas-
sico ; il che non è avvenuto fra noi pel Goldoni.
A ripristinare , o se questa pcuola non sembrasse
esatta, a rinverdire il culto pel sommo veneziano ,
gioverebbe certamente la istituzione in Italia d' un
teatro stabile, di Stato, o sovvenzionato dallo Stato,
una Casa di Qoldoni , la quale , a somiglianza della
Maison de ^Jì^olière, dovrebbe recitare non solo i ca-
polavori del teatro italiano, ma conservarne le tradi-
zioni, specie intorno alla interpretazione. Con ciò non
intendiamo dire che l'artista odierno interpretando una
commedia del Goldoni , dovrebbe recitare al modo
d' uno dei comici della compagnia del Medebac ;
sarebbe un anacronismo confinante col grottesco : ma
se la commedia goldoniana è cosa tutta settecentesca,
egli è certo che la sua interpretazione, nello spirito,
debba essere anche cosa tutta settecentesca. La sua
esecuzione , secondo noi , non dovrebbe essere che
una visione dell' Italia dei tempi del Goldoni. Del
resto, i " personaggi goldoniani " sono così immede-
simati ai tempi e alla società in cui l'ha posto il loro
autore, che basterebbe spostarli anche un pò dal loro
ambiente naturale perchè perdano ogni loro sapore
ed originalità. Ne queste Cciratteristiche si riscontie-
rebbero in loro anche se gli uomini fossero in pcir-
Tucca , in abito gallonato e in iscarpette con fìbbie ,
je le donne in guEu-dinfante ed avessero la cipria sui
capelli e i nei sul viso ; poiché tutto ciò non darebbe
(1) La Comedie Frangaise.
— 346 —
loro che la parvenza — e sola la parvenza — di perso-
naggi settecenteschi, non lo spirito, 1* anima del tem-
po. In questo futuro ed ideale nostro teatro goldo-
niano, noi vorremmo che i personaggi non solo par-
lassero e vestissero come i contemporanei del Gol-
doni, ma vorremmo pure che i loro modi , compresi
i meno appariscenti, fossero quelli dei tempi rappre-
sentati e non quelli del moderno galateo ; che le da-
me, per esempio, non ricevessero i cavalieri nel modo
stesso come lo farebbe una signora d' oggi di ritorno
da una gita a Parigi o a Londra ; vorremmo , par-
lando sempre di dame, che al saluto cerimonioso d*un
cavaliere rispondessero con quelF arte che le Grade-
nigo , le Foscari , le Mocenigo di cento e cinquanta
anni fa mettevano in tutta la loro persona. Come tutti
sanno, il modo di salutare, di parlare, di passeggiare,
di ricevere, d* entrare in un salotto e d' uscirne, era
per una dama del Settecento tutto un poema sapien-
tissimo di cose , di delicatezze , di riguardi , di ele-
ganza. Già la riverenza per se stessa era un poema;
c'erano riverenze d'ogni specie, per le dame anziane
e per quelle giovani , per un cavaliere , e per una
persona di riguardo : l' impararle ed eseguirle a tem-
po, secondo le circostanze, richiedeva tempo non breve
e quel " savoir faire " che non s' acquista in venti-
quattro ne in quarant' otto ore. La Francia non im-
poneva allora soltanto il suo figurino di mode (1),
( 1 ) A Venezia si esponeva, nelle botteghe di mode, in piazza San
Marco, un fantoccio che indossava V abito di moda, ed era chiamato
la piavola.
— 347 —
ma anche il suo galateo, il suo modo di stare in con-
versazione. Le dame italiane della seconda metà del
Settecento imitavano insieme alle mode, gli usi e le
maniere delle dame della corte di Francia, una corte
modello , dove , sovrani , regnavano il buon gusto e
r eleganza. Una signora francese dell' haute di quel
tempo salutava — scriveva un testimonio de visu —
dieci persone piegandosi una sola volta e dando con
la testa e con lo sguardo a ciascuno quello che gli
spettava, cioè, la sfumatura di riguardi appropriata ad
ogni varietà di stato, di considerazione e di nascita.
Essa , aggiungeva quello scrittore , ha sempre a fare
con degli amor propri facili a irritcìrsi, di modo che
il più leggiero sbaglio di misura sarebbe prontamente
afferrato. Ma essa non s' ingannava mai ; essa aveva
tatto e destrezza incomparabili, e da buon pilota sa-
peva cavarsi con onore da tutti quei bassifondi , da
tutti quegli scogli più o meno traditori. Nel ricevere,
la sua accoglienza aveva dei gradi infiniti. " Ne ha
una per le donne di qualità, una per le donne della
Corte , una per le donne titolate , una per le donne
che hanno un nome storico , un' altra per le donne
d' una grande nascita personale , ma unite ad un
marito inferiore a loro , un' altra per le donne che
hanno cambiato col matrimonio il loro nome comune
in un nome distinto, un'altra ancora per le donne che
hanno un buon nome nella magistratura , un' altra fi-
nalmente per quelle il cui lustro principale e una casa
dispendiosa e di buone cene (1). " Sempre quel te-
(1) Taine, Antico Regime; Voi. I, lib. II, Cap. 2.
— 348 —
stimonio de visu : " Essa {la dama) sa esprimere tutto
con la maniera delle sue riverenze, maniera varia che
si estende, per sfumature impercettibili , dall' accom-
pagnamento di una sola spalla , che è quasi un' im-
pertinenza, fino a quella riverenza nobile e rispettosa
che poche dame , anche a corte , sanno fare bene ,
quella piegatura lenta, cogli occhi chini, il busto di-
ritto, ed il modo di rialzarsi guardando allora mode-
stamente la persona e gettando con grazia tutto il corpo
all' indietro ( 1 ). "La ineleganza delle signore della
borghesia, anzi la loro inettitudine a piegarsi alla si-
gnorilità dell* haute, ecco come è punzecchiata in un
Vaudeville del tempo. E il maestro di ballo che dà
la sua lezione ad una signorina :
" Fi, donc, mademoiselle, vous saluez des genoux
comme une bourgeoise. Une femme de condition salue
de la banche, de méme que un petit-maitre salue de
r epaule, un jeune conseiller de la chevèlure, un fi-
nancier de la main et du ventre, un abbé de la téte
et des jeux. C'est le salut qui nous distingue (2) ".
Tutto in quella società del secolo XVIII armoniz-
zava; non era soltanto rococò il mobilio dei salotti e
dei houdoirs ; era anche rococò la gente che frequen-
tava quest' ultimi. Ne soltanto la parte eletta della
società aveva il suo carattere particolare, e nella in-
terpretazione della commedia goldoniana si trascure-
rebbe uno dei caratteri di quel tempo , se 1' artista
(1) Taine; loc. clt.
(2) Favart, S*^' ^ourgeois.
— 349 —
riproducendo un personaggio anche della borghesia
non tenesse conto del così detto " ambiente ". Certi
tipi, come quelli di Pantalone o del Dottore Balanzon,
perderebbero ogni sapore goldoniano se fossero ripro-
dotti con la " tecnica " con la quale recita un padre
nobile o un generico primario moderno. Così Corallina
del Goldoni non sarebbe più 1* erede della " ser-
vetta " o " fantesca " della commedia dell* arte se
fosse riprodotta con la " tecnica " d* una " femme de
chambre " del secolo XX ; Arlecchino, Brighella e
qualche altra maschera, che sebbene con profonde
modificazioni pur furono conservate dal Goldoni nelle
sue commedie appartenenti al ciclo della riforma, per-
derebbero ogni loro originalità se si facessero rivivere
sotto r abito del servitore moderno. Ed ora si dica :
recitandosi in tal modo le commedie del Goldoni ,
non acquisterebbero esse una vera attrattiva, evocando
con la precisa, esatta riproduzione dei costumi, tante
deliziose scene d'un mondo, che sebbene scomparso,
pur per quello che il genio di Carlo Goldoni seppe
trarne, si rannoda in tanta parte al mondo in cui vi-
viamo ?
CAPITOLO QUARTO
L' Originalità della Commedia Goldoniana.
j
Giuseppe Martucci, in un articolo stampato parec- !
chi anni fa sulla Nuova Jlntologia (1), scriveva che •
se ad imitazione di quanto aveva fatto in Francia il
Moland pel Molière, qualcuno, in Italia, avesse potuto
pazientemente mettere in confronto il teatro del Gol-
doni col materiale della commedia dell'Arte, che gia-
ceva inedito nelle nostre biblioteche, avrebbe trovato
parecchie attinenze fra il primo e quest'ultimo. In altri
termini, 1' esame avrebbe rivelato più d' un plagio e
il Goldoni avrebbe dovuto restituire più d' una sua
commedia a qualche suo modesto ed oscuro prede-
cessore.
Il Martucci s' ingannava. A sua scusa diremo che
ai suoi tempi il materiale della commedia dell' arte
era poco noto e soltanto dagli studiosi erano conosciute
(1) Uno Scenario Inedito della Commedia dell' jl rie (N. A. 15
maggio 1885).
— 351 —
due raccolte di soggetti, quella, cioè, dello Scala, di-
venuta, per altro, una rarità bibliografica, e l'altra
fiorentina edita da Adolfo Bartoli. Se non che, quasi
contemporaneamente alla pubblicazione dell' articolo
del Martucci sulla Nuova Jlntologia, Albino Zanatti,
sulla l^wista Critica della Letteratura Italiana (II, 1 56,
maggio 1 885) annunziava il ritrovamento , nella bi-
bliateca Corsiniana di Roma, di cento Scenari del se-
colo XVII ; più tardi , il De Simone Brouwer , sul
Giornale Storico della Letteratura italiana (1891 ,
voi. XVIII, p. 277-90) stampava due di codesti sce-
narii , Li Due Fratelli Rivali e La Tr appaiar ia;
Valeri (Carletta), nella ^Njiova Rassegna di Roma
(secondo semestre del 1 894) stampava uno studio su-
gli scenari di Basilio Loccatello esistenti nella Biblio-
teca Casanatense e dei quali, sino allora, non si co-
noscevano che i soli titoli, e non tutti esattamente ri-
prodotti, mercè l'opera di Leone Allacci : T)ramma'
turgia (1). Inoltre, due grossi volumi di Scenari do-
nava Benedetto Croce alla Biblioteca Nazionale di
Napoli e lo stesso Croce richiamava l'attenzione de-
gli studiosi sopra un'altra raccolta di Soggetti esistente
nella Biblioteca Comunale di Perugia. Non riuscirà
poi inutile avvertire che gli scenari corsiniani, in gran
pcirte , per non dire quasi tutti , non sono che ridu-
(1) A completare quanto abbiamo detto nel testo, aggiungiamo che
due Scenari furono pubblicati dallo Stoppato nel suo studio sulla Com-
media Popolare in Italia (Padova, 1 887) ; che uno scenario {Fla-
minio disperato) si legge nel sopra ricordato articolo del Martucci
stampato sulla Nuova jlntologia.
— 352 —
zioni degli Scenari del Loccatello. Per esempio , le
Due '^urchesche della raccolta corsiniana non sono che
due scenarii del Loccatello; si dica lo stesso dei T)ue
Fratelli Rivali e deW j^cconcia-SerVe. Per quest' ul-
timo scenario vedasi lo studio dello stesso Valeri
(Carletta).
Ebbene, noi abbiamo potuto esaminare tutto code-
sto materiale ( 1 ) e possiamo affermare che dall'esame
da noi fatto l' originalità dell' opera goldoniana esce
senza macchia.
Pel Molière era tutt' altro; già si sapeva come il
guande commediografo francese , in materia di pro-
prietà letteraria, non avesse scrupoli. Egli rubava —
la parola è cruda, ma esatta — a man salva, a destra
e a sinistra, senza farne mistero , da vero comico o
capo-comico, abituato, per ragion di mestiere, a ri-
fare i lavori che si recitano , a sopprimere scene o
atti, ad adattarli più o meno alle esigenze della scena
o del pubblico. Era un commediografo che quasi sem-
pre non si decideva mai a scrivere un lavoro senza che
ne prendesse l' idea da un altro. Uno studio compeirato
era per ciò facile. Il Molière, certamente, fu un genio,
le sue creazioni portano tutte V impronta del suo spi-
( 1 ) A Venezia esiste una raccolta di commedie dell' arte, quella
Correr, {Qior. St. della Letterat. It. XXIX), ed abbraccia 51 sog-
getti. Il Valeri nello studio da noi citato accenna ad altri soggetti del
teatro a braccia, nove d' un manoscritto della Vaticano (fondo Bar-
berini) che noi non abbiamo potuto esaminare perchè il manoscritto (giu-
gno 1913) era in riparazione, ed uno della stessa Vaticano, fondo Otto-
boni. Esaminammo quest'ultimo, ma si trattava d'una selva di commedia
erudita o sostenuta e non d'un vero scenario.
— 353 —
rito creatore; ma quasi sempre egli per scrivere una
commedia doveva tener presente quella di un altro.
" Molière — scrive il Moland ( 1 ) — dut principalent
aux Italiens le mouvement de son théàtre. L'action dra-
matique ne pairait pas avoir été très-naturelle à l'esprit
fran^ais qui a toujours été fort enclin aux discours... En
Italie, au contraire, le mouvement, V action règne sou-
verainement sur le théatre... Aussi quelle source abon-
dante de jeux de scène, de combinations ingenieuses,
de brusques et saissantes expositions ils nous offrenti...
Molière n'eut garde de dédaigner les lecons de ces
excellents praticiéns." Egli imitò non solo gl'italiani, ma
il suo bene — come egli stesso confessava — lo prendeva
un po' dappertutto! Il suo capolavoro, Tartuffe, deriva
dall' Ipocrita di Pietro Aretino. E anche una deri-
vazione il T)on Juan; il Molière, scrivendo la sua
commedia, ebbe dinanzi a sé il Convitato di Pietra,
una commedia italiana dell' arte , derivata alla sua
volta dal teatro spagnuolo e recitata per la prima
volta a Parigi, nel 1667; V Etour di ou les Contre-
temps è una imitazione dell' /naver/r7o del comico Bel-
trame, cioè di Niccolò Barbieri, e quella parte che
vi aggiunse, e che apparve farina del suo sacco , la
prese da altre due commedie italiane, l' Emilia, di
Luigi Groto, e V j^ngelica, di Fabrizio de Fornaris.
" 11 lui restait en propre l'art avec lequel il avait
su fondre ces elements divers, en conservant la verve
la plus franche, le trait le plus net et le style le plus
(I) Op. cit. pp. 5-6.
Nel Regno delle Maschere 23
- 354 —
vif (1) ". Il Dèpit Amoreux e la riduzione d*un'al-
tra commedia italiana, V Interesse, di Niccolò Secchi,
il Medecin Volani è il Medico Volante, commedia a
braccia, e la Jalousie de Barbouìllè non è che una
riduzione o un rifacimento d*una farsa italiana, come
il Coca Imaginaire trova la sua origine nel Ritratto,
ovvero Arlecchino cornuto per opinione, e Don Qar-
eie de Navarre è una riduzione un po' libera delle
Gelosie Fortunate del principe Rodrigo , di Giacinto |
Andrea Cicognini. Fortunatamente, il Molière non sa-
peva soltanto appropriarsi la roba altrui, sapeva anche
crccire. U Ecole des Maris, le Précièuses T^idicules,
il Misanthrope : V Ecole des femmes, le Femmes sa-
vantes non hanno precedenti negli altri teatri.
Il nostro Goldoni, all' incontro, non ebbe bisogno
deir aiuto degli altri per far la sua strada. 1 suoi plagi ,
o prestiti sono quasi insensibili; la Sposa Sagace, per
esempio, è derivata dal ^hilosophe marie, del De- ^
stouches, il bugiardo trova qualche somiglianza con
una commedia del Corneille e dell' Alarcon, il Padre
per Amore ricorda Cénie, della signora De Graffìgny,
la ^eraviana discende dalle Lettres d' une Perw
Vienne della stessa signora De Graffigny, la Dalma' ,
tino dalle Amazzoni del Du Boccage (2); ma sono j
eccezioni rarissime in una produzione varia , nume- ,
rosa, e non paragonabile a quella del Molière, che
fu ristretta.
(1) Moland; op. clt. pag. 226-27.
(2) Caprln; op. cit. 292-93.
— 355 —
Generalmente il Goldoni, creando, non ricavava la
la sua ispirazione che dal vero, dalle cose che lo cir-
condavano, dalla società in cui viveva. Il suo studio
dal vero era di prima mano, diretto non riflesso, non
rispecchio d'altri studi. Del resto, il suo modo di com-
porre non gli permetteva le scorrerie nel campo de-
gli altri. D' ordinario, era un carattere, al momento
che cominciava a scrivere una commedia, che richia-
mava la sua attenzione ; si studiava, soprattutto, di e-
saminarlo da un nuovo punto di vista , specie se il
carattere da lui preso in esame era già stato trattato
da altri. Guardi il signor lettore il carattere dell' a-
varo. Il Goldoni era stato preceduto nella riprodu-
zione di codesto carattere da molti e molti commedio-
grafi con Plauto e il Molière alla testa; le commedie
dell' arte non avevano, generalmente, che vecchi a-
vari; vecchi avari avevano le commedie sostenute o
scritte, comprese quelle del Fagiuoli che nella prima
giovinezza del Goldoni ebbero in Italia molta noto-
rietà; ma era sempre l' a vsu'o comune, volgare, custode
sospettoso del tesoro, come in Plauto , della cassetta
preziosa come in Molière, spilorcio, sudicio, che vi-
veva d' aria e d' acqua fresca, sempre contrario al ma-
matrimonio della figlia per non metter fuori i danari
della dote : ma ecco il Goldoni ; egli prende l' avaro
a protagonista di ben sue tre commedie, e mai ricalca
le orme degli altri. Se qualche volta, nella riprodu-
zione del carattere dell'avaro, si ricorda di Plauto e
del Molière, fu in qualche macchietta, come nell'O/-
iavio del Vero Jlmico.
— 356 -
Con siffatto metodo le imitazioni o i rifacimenti non
erano possibili. Il Goldoni cercava del nuovo, sempre
del nuovo; ne il ritrovarlo gli era diffìcile : bastava
cercarlo intorno a se, poiché soltanto coloro che non
si vogliono dare questa briga sono costretti a cercarlo
nei libri degli altri e a spacciare per nuovo ciò che
è vecchio. S'aggiunga, che il Goldoni, così innamo-
rato della commedia di carattere, in quella a soggetto
nulla o quasi poteva rinvenire che potesse fare al suo
caso: il teatro comico improvviso non aveva caratteri nel
vero significato della parola, ma tipi fìssi, cristallizzati
nelle maschere, ed egli per popolare la scena cercava
persone vive, di sangue e carne, non mummie o ma-
nechini.
Si sa che quando il grande commediografo vene-
ziano non prendeva un carattere per protagonista del
suo lavoro, riproduceva un ambiente. Commedie d'am-
biente, prima di lui, non esistevano, o per lo meno
il teatro comico a soggetto non ne conosceva. La
commedia dell'arte, come in gran parte quella soste-
nuta, non riproduceva che una società convenzionale,
che un po' alla volta s' era andata formando sulla
scena: gli usi, i costumi non erano che usi e costumi f
di convenzione, come di convenzione era fin' anco il
luogo dell' azione. Erano fiorentini, o romani i perso-
naggi che si presentavano sulla scena? Spesse volte^
certamente, lo erano pel linguaggio che adoperavano;
ma non lo erano affatto per tutto il resto ; e la prova
si ricava da questo ; più d' una volta lo scrittore o il
comico cambiava il luo^o dell' azione, si sostituiva^
— 357 -
per esempio , Milano a Roma o a Firenze , senza
che siffatto cambiamento influisse per nulla suH' anda-
mento dell'azione. Si potrebbe aggiungere che tutto
o quasi tutto il teatro comico improvviso non rappre-
sentava che una società perfettamente ideale non ri-
levando da quella reale che poche linee schematiche,
generali. Tutti quei Lelii , tutti quegli Orazi , tutte
quelle Isabelle, tutte quelle Flaminie potevano essere
ugualmente cresciute a Milano o a Bologna; di carat-
teristico, di particolare, non avevano nulla.
C è una commedia del Goldoni, la Putta Ono-
rata, la quale prova come anche scegliendo per punto
di partenza una commedia a soggetto, il nostro scrit-
tore sapesse dare all' opera sua l'impronta dell'origi-
nalità. La Putta Onorata, come egli ricorda nella Memo-
rie, gli fu ispirata da una commedia a soggetto molto
triviale, e il cui fondo è passato in quella del vene-
ziano e si tratta, come in centinaia di commedie del-
l' arte, dello scombio di due bambini; ma nella Putta
del Goldoni lo scambio del figlio di Pantalone con
quello del gondoliere Menego Cainello se serve ad
alimentare l'azione, non è la commedia. Questa, seb-
bene sia di carattere nei rapporti di Bettina, la pro-
tagonista, è d' ambiente : il Goldoni volle ritrarvi la
vita dei barcaiuoli veneziani così caretteristica , così
vivace, così pittoresca. Non la studiò punto nella com-
media degli altri, ma dal vero , e la riprodusse con
tale esattezza, con tale brio, che quelle scene pos-
sono prender posto accanto a quelle famose delle Ba-
ruffe Chiozzotte.
— 358 -
Nella stessa commedia noi troviamo una di quelle
rare sopravvivenze della commedia dell'arte , che il
Goldoni, prima di mettersi arditamente sulla via della
riforma, sino ad un certo punto rispettò : vogliamo
parlare delle chiusette; ma anche qui volle essere lui,
Goldoni, e non uno dei soliti autori del teatro a sog-
getto. La chiusetta, nella commedia dell' arte, non era
che una specie di coda in versi ad un discorso, come
le cabalatte nei melodrammi di vecchio stampo ; al-
l' incontro, nella Putta Onorata^ essa s' immedesima al
discorso. Bettina amoreggia, dalla finestra , con Pa-
squalino; questi però si stanca a scambiar parole d'a-
more dalla strada e vorrebbe salire in casa della gio-
vane; ma Bettina, che è onesta, non acconsente; sarebbe
troppo presto ; prima un impegno formale, poi si ve-
drebbe.
BETTINA. Vegnirè co sarà so tempo. No vogio far come ha fata
tante altre. Le ha tira in casa i morosi, i morosi s'ha de-
sgustà e eie le ha perso el credito. Me aricordo, che
me diseva mia mare povereta:
Pute da maridar, prudenza e inzegno ;
No stè a tirar i moroseti in casa.
Perchè i ve impianta al fin con bela rasa,
E pò i ve lassa qualche bruto segno.
Nella stessa commedia, Bettina riceve una proposta
disonesta dal marchese Ottavio e risponde :
BETTINA. El ghe ha muggier, e el vien in casa d' una puta da ben,
e onorata ? Chi credelo che fia ? Qualchieduna de quel
del tempo ? Semo a Venezia, sala. A Venezia gha xé del
— 359 -
bagolo {passatempo) per chi Io voi, ma se va sul Liston
in Piazza , sé va dove ghe xè le zelosie e i cussini sul
balcon, o veramente, da quele, che sta su la porte; ma
inte le case onorate a Venezia no se va a bater da le
pute co sta facilitae... Le pute veneziane le xè vistose,
e matazze , ma in materia d'onor dirò come dise quelo :
Le pute veneziane xe un tesoro,
Che no, se acquista cusì facilmente.
Perchè le xè onorate come l' oro ;
E chi le voi far zoso non fa gnente,
Roma vanta per gloria una Lugrezia.
Chi voi prova d'onore venga a Venezia.
In tal modo il Goldoni , anche tenendo gli occhi
al passato, sapeva mantenersi originale. Che di più?
Anche quando nello stesso soggetto preso da lui a
trattare avrebbe potuto trovare una scusa per seguire
una via già battuta, si tenne lontano dall* imitazione.
Il D. Giovanni Tenario, sebbene scritto quando egli an-
cora non era che alle sue prime armi, e la sua mente
ondeggiava tra il vecchio repertorio e le idee di ri-
forma, ce ne porge un esempio. Come si sa, tutti i
commediografi che avevano trattato quel soggetto ave-
vano fatto del famoso convito la scena principale dei
loro lavori : il Goldoni, pur sapendo che la sua com-
media avrebbe perduta una grande attrattiva, rinunziò
al banchetto lasciando la statua del Commendatore al
suo posto.
Vogliamo ripeterlo anche a costo di riuscir noiosi:
il Goldoni, meno pochissime volte, fu originale, sem-
pre originale; caratteri, macchiette, intrecci, situazioni,
— 360 —
tutto nel suo teatro porta Y impronta dell' originalità,
dello studio diretto dal vero. Egli, nella riproduzione
dei caratteri, non arrivò forse al fare scultorio del Mo-
lière; ma nessuno lo potrà mai collocare fra i pla-
giari, non importa se anche di genio.
CAPITOLO QUINTO
Un risveglio della Commedia dell'arte
Il Goldoni aveva insediato la " nuova commedia "
sulle scene senza combattere grosse battaglie. Le " se-
dici commedie nuove " da lui promesse al pubblico
veneziano nel febbraio del 1 750 furono quasi tutte
accolte trionfalmente. Se non che, quando la riforma
così arditamente iniziata sembrava già entrata in porto
e la vecchia commedia a soggetto sembrava scesa nel
sepolcro, ecco che dalla stessa città in cui la riforma
aveva fatto i suoi primi passi, sorgere una voce per
protestare contro V affrettata tumulazione della com-
media improvvisa. Si diceva che si fosse tumulato
non un cadavere, ma una persona viva, poiché la com-
media a braccia, o improvvisa, non era mai morta,
ne aveva mai avuto voglia di morire. Si mettono forse
nel cataletto e s' aspergono d'acqua benedetta le per-
sone sane, fiorenti di giovinezza?
Quel grido si sarebbe prestamente disperso fra gli
applausi che si prodigavano dai veneziani al loro con-
— 362 —
cittadino, al quale già si dava il titolo di " Molière
redivivo ", se fosse stato emesso dai soliti critici di
corto intelletto; esso però era stato emesso da un uomo
dotato d*un ingegno poderoso, sebbene strano, biz-
zarro. Abbiamo fatto il nome di Carlo Gozzi; e per
un istante la riforma goldoniona vacillò. Le maschere
ritornarono a godere la simpatia del pubblico.
Di codesto episodio della riforma del teatro comico
italiano s* è voluto fare un grosso avvenimento, specie
in questi ultimi tempi in cui la storia divenendo sem- [
pre più anedottica, un semplice fatto di cronaca as-
sume tutta r importanza d* una pagina d* epopea. Forse
nemmeno oggi avrebbe oltrepassato i limiti d'un in-
crescioso episodio della vita del Goldoni, se all'alba
del romanticismo, che doveva imperare in Italia per
oltre mezzo secolo, due tedeschi , i fratelli Federico
e Guglielmo Schlegel, che di quel movimento let-
terario furono in Germania i pontefici massimi, non
avessero rilasciato a Carlo Gozzi le patenti non ri-
chieste di genio (I). Certamente il teatro fiabesco del
Gozzi racchiude dei pregi, segnatamente in ordine alla
fantasia; ma le soverchie lodi prodigategli dai critici
(1) In Germania il Gozzi ebbe fortuna. Laggiù, forse perchè gl'in-
gegni cercavano di liberarsi dall'imitazione della letteratura francese, tutta
accademica, trovavano originale ciò che era fantastico, ingenuo ciò che
era rozzo, primitivo, e quindi il teatro fiabesco del conte veneziano
ebbe ammiratori, anche dopo che in Italia non ne aveva più alcuno. [
Le fiabe del Gozzi apparvero tradotte in tedesco dal 1777 al 1 779, !
a Berna. Federico Schlegel, nel 1 797, poneva il Gozzi accanto a Shak- {
speare; Lodovico Tieck lo imitava in una sua fiaba; lo Schiller ridu*- j
— 363 —
tedeschi e la traduzione che lo Schiller fece della Tw
randoty sebbene abbiano messo gl'italiani sulla via di
rileggerlo e di studiarlo, pure non hanno invogliato
quest'ultimi a collocare il Gozzi fra i grandi uomini.
Per loro resta sempre uno scrittore pieno di fantasia,
bizzarro, battagliero, e nulla più. Quelle sue Fiabe non
costituiscono che un genere letterario, che se può sino
a un certo punto stuzzicare la curiosità dello studioso,
non può giungere all'altezza del capolavoro. Se non
che, a noi sembra che discorrendo i critici della guerra
fatta dal Gozzi al Goldoni si sieno scambiati i ter-
mini della questione : ed invero non si tratta di co-
noscere se Carlo Gozzi sia stato uomo d'ingegno
straordinario oppure comune, se le sue Fiabe meritino
r oblio o r ammirazione degli italiani, ma sibbene se
la guerra mossa dal conte veneziano al suo fortunato
rivale corrisponda al programma che lo stesso Gozzi
tracciò nello scendere nell'cu^ena, cioè, se realmente
la commedia dell' arte, di cui il Gozzi sposò la causa,
conservasse ancora con la rappresentcìzione delle Fiabe
tali elementi di vitalità da farla ritenere, dopo la ri-
forma goldoniana, anziché morta, viva.
Posta così la questione, essa si riduce a cosa assai
meschina; imperocché, basta mettere le Fiabe del Gozzi
a riscontro del vecchio repertorio della commedia del-
ceva Turandot pel teatro di Weimar; infine, F. G. Schlegel nel suo
Corso di Letteratura Drammatica, dando 1* imbeccata ai romantici te-
deschi ed italiani, collocò il Gozzi in un posto dove tedeschi ed italiani,
oggi, difficilmente lo riporrebbero. Ved. per maggiori notizie : Le Fiabe
di Carlo Gozzi procedute da uno studio di E. Masi. Bologna, 1885.
— 364 —
l'arte per persuadersi come si tratti non di un ritorno
air antico, come voleva Niccolò Machiavelli si facesse
per le vecchie istituzioni deviate dalle loro origini ,
ma d' un nuovo genere di spettacolo, sebbene a com-
porre quest* ultimo concorressero parecchi ingredienti
dell' antica commedia , specie le maschere. L' opera
del Gozzi, si sa, ebbe dapprima intendimenti più di
battaglia e di satira che d' cu-te : il conte veneziano
volle provare contro 1' avvocato-commediografo suo
avversario che bastava anche la favola più sciocca ,
più infantile, ma fantasiosamente svolta, perchè il pub-
blico corresse a teatro e fosse prodigo di quegli stessi
applausi , che sino allora avevano accolto il Goldoni
per la sua riforma. Egli seppe abilmente approfittare
del malcontento che la stessa riforma aveva gettato ,
con l'abolizione delle maschere e del dire improv-
viso, nelle file dei comici, per far concorrere codesti
frondeurs all' opera sua ; ed ottenne realmente un
grande successo. Ma 1' Amore delle tre melarance ,
che fu la prima fiaba fatta recitare dal Gozzi, se nella
sua struttura è una commedia deli' arte, poiché l'au-
tore non scrisse che il solo Scenario, e qualche cosa
di simile ad una narrazione del soggetto, nel suo con-
tenuto si discosta in modo assoluto dalla vecchia com-
media a braccia quale fu consacrata dalla tradizione
italiana. Non si tratta più della nipote o pronipote del
teatro di Plauto e di Terenzio che un successo di
oltre due secoli aveva reso celebre sui teatri d'Italia
e d'oltralpi, ma d' un genere teatrale che quasi nulla
aveva di comune col vecchio spettacolo. La fantasia
— 3Ó5 —
più sfrenata, sorella d' quella dell'Ariosto, vi regnava.
Altro che vita reale nelle fiabe de! Gozzi ! Sicuro, e' e
Pantalone, e' e Brighella, e' è Tartaglia, e' è Truffal-
dino, tutte maschere della commedia improvvisa, che
parlano veneziano o bergamasco, ma l'argomento è una
fiaba, una féerie. La satira personale, come nelle com-
medie d' Aristofane , scoppietta qua e là investendo
in pieno petto, insieme ad altri, il Goldoni, il grande
trionfatore di quel tempo ; ma se questo poteva ren-
dere più gustosa la commedia e procurare lo straor-
dinario concorso del pubblico , che s' appassionava
grandemente alla lotta fra i due commediografi , non
c'era però ne vis comica, ne creazione di caratteri, ne
riproduzione d' ambiente , ne analisi di passioni. La
commedia dell' cirte, materialmente , esisteva sempre ,
perchè nell' Jlmore delle tre melarance lo scrittore
non forniva ai comici che il solo canovaccio , ma il
contenuto non l'avrebbero riconosciuto per proprio ne
i Flamini Scala, ne i Biancolelli, ne gli infiniti au-
tori dei Soggetti o Scenari dell' antica commedia. Si
viveva, nel teatro fiabesco del Gozzi, non in quella
certa vita comica come era stata foggiata dalla tradi-
zione, ma come in un sogno, come in un mondo fan-
tastico.
Del resto , il Gozzi riteneva che la riproduzione
i sulla scena della vita popolare , come aveva fatto il
I Goldoni nella 'Putta Onorata, nel Campielo, neWe Ba-
ruffe Chiozzotte , nelle Massere , fosse cosa anti-arti-
stica, anti-teatrale. Per lui le commedie popolari del
Goldoni, veri capolavori, erano cose plebee e lo di-
— 366 —
chiara espressamente nel breve commento al urologo
delle Tre Melarance. Egli era un aristocratico , un
conservatore della più beli' acqua, e sebbene fosse
non meno spiantato di suo fratello Gaspare, pure te-
meva d' insudiciare il suo abito gallonato di conte al
contatto della plebe della sua città. La plebe, se la
tollerava in piazza, non l'ammetteva sulla scena. In
sostanza, il suo teatro , anziché una fedele rappre-
sentazione della vita , era un' aberrazione. Ne , sino
a certo punto , potrebbe dirsi che fosse nuovo. Le
sue origini, senza rimontare a spettacoli di tempi
molto remoti, possono trovarsi nel teatro francese dei
primi anni del secolo XVIII , dopo 1' espulsione dei
comici italiani da Parigi. Vivevano quivi, un pò nel--
l'ombra, alcuni teatri popolari, i thèàtres de la Foire (1),
ai quali , in vista del privilegio goduto dal Théàtre
FrancaiSy cioè , la maggior scena della Francia , era
interdetto di recitare lavori teatrali, meno il monolo-
go. Stretti quei comici in questo letto di Procuste ,
s'ingegnarono di trarne alla meglio profìtto, e non po-
tendo fare agire due personaggi alla volta sulla scena,
ne introdussero un secondo muto. Era anche loro in-
terdetto, sempre per quel famoso privilegio, di can-
tare dei coupletSy ma essi li fecero cantare dagli spet-
tari, fra i quali qualcuno , appositamente addestrato ,
dava la prima nota, mentre l'orchestra accompagnava
il canto. Quest' ultima innovazione si eseguiva così ;
(1) Bernardin, La Comedie Italienne et le '^hèàtre de la Foire; ,
Paris, ed. della T^euue ^leu, 1902.
— 367 —
scendevano dall'alto, sulla scena, due piccoli amori,
i quali spiegavano un cartello dove a grandi lettere
stava trascritto il couplet ed indicato il motivo popo-
lare sul quale doveva cantarsi lo stesso couplet; indi,
tre o quattro suonatori davano principio al motivo e
gli spettatori cantavano. Il primo tentativo fu coronato
da un lieto successo , e a malgrado delle ordinanze
e degli uscieri, ai quali ricorrevano i signori della
Maison de Molière per mantenere integro il loro pri-
vilegio e delle cause che ne seguivano, crebbe l'ar-
dimento dei comici dei teatri della Foire. Delle vere
produzioni teatrali scritte dai migliori autori francesi
del tempo, diedero importanza artistica a quei teatri,
e le maschere italiane cacciate dall' Hotel Bourgogne,
sotto vesti francesi, trovarono ospitalità nei nuovi 77?ea-
tres de la Foire costruiti appositamente nei luoghi stessi
dove prima non esistevano che povere baracche. In-
fine , arrivarono quei comici ad ottenere il permesso
del dialogo e del couplet-, e così gli écriteaux coi re-
lativi Amorini, che scendevano dell'alto, scomparvero,
come pure scomparvero i libretti che si distribuivano'
perchè gli spettatori potessero avere sott'occhio i cow
plets che si cantavano. Lo spettacolo divenne così
più interessante, più vario. Il Bernardin si occupa di
questo nuovo teatro comico, dal quale poi derivarono
il monologo, il vaudeville, V opera-comique, la revue, la
féerie e... le fiabe del Gozzi. Un brevissimo esame
Ji qualcuna delle pieces del repertorio dei teatri di
^oire ci metterà al corrente del contenuto delle stesse
'^ièces.
— 368 —
Una di codeste commedie recitate sui teatri di Foire
è del Le Sage: Arlequin roi de Serendih. Nonostante
il nome della maschera italiana , la commedia del-
l' arte, la commedia di Flaminio Scala non e* entra
per nulla. La commedia del Le Sage è una parodia
dell' Iphigenie en Tauride di Duchet e Sauchet. L'a-
zione si finge in Serendib, un' isola misterinsa , e la
scena, all' alzarsi del sipario, rappresenta una riva de-
serta. Il mare è in tempesta; un legno naufraga, ed
Arlecchino, salvandosi a nuoto, tocca la terra. Egli
ha con se una grossa borsa piena di zecchini, se non
che, tre briganti, l' uno dopo l'altro, e tutti e tre di-
versamente camuffati, lo costringono, armata mano, ai
consegnare loro il denaro. Arlecchino strilla, protesta,
piange; i ladri decidono d' ucciderlo, ma uno di loro
s'intenerisce della sorte di quel disgraziato e gli fa
salva la vita; perchè non fugga, lo chiudono in una
botte vuota. Arlecchino piange ancora; un lupo affa-
mato accorre, fiuta la carne fresca e con le zanne
cerca di sfondare la botte; ma Arlecchino da una
fessura di questa afferra la coda del lupo, il quale,
sentendosela stringere cerca di darsela a gambe: Ar-
lecchino tira ancora; la coda del lupo gli resta fra le
mani, la botte si sfascia e mentre 1' animale fugge de
un lato, Arlecchino si salva dall' altro.
A Serendib, intanto, esiste l'uso che lo straniere
che vi sbarca deve essere eletto re per un mese. Ar
lecchino non può sfuggire a questo onore. Accolte
trionfalmente, è condotto al palazzo reale , dove , il
mezzo ad una magnificenza straordinaria, riceve la co^
- 369 —
rona. Ma non e* è gaudio senza dolore; il nuovo re
apprende che dopo il mese di regno voluto dall'uso,
questo vuole che il nuovo re o monarca sia immolato
dalla grande sacerdotessa al Dio del paese, Kesaya.
La grande sacerdotessa è Mezzettino, un' altra ma-
schera italiana, e il suo confidente è un'altra maschera
ma francese; Pierrot : il sacrificio è imminente; Mez-
zettino, vestito da sacerdotessa di Kesaya, imbrandi-
sce il pugnale e prima d'immergerlo nel seno della
vittima, domanda ad Arlecchino il nome del suo
paese. L'ex re gli risponde:
" C est à Bergame, hélas ! en Italie
Que une tripiére en ses flancs m*a porte.
II pugnale cade di mano a Mezzettino, il quale ri-
conosce nell'ex-sovrano il suo famoso compatriotta Ar-
lecchino : tutti e tre (perchè anche Pierrot è della
partita) s'abbracciano , rinunziano al sagrificio e sva-
ligiano il tempio ; ma quando stanno per mettere le
mani su Kesaya, il dio di quel paese, il tempio co-
mincia a crollare. I tre amici si mettono in salvo.
Nel Monde Renversè, dello stesso Le Sage , noi
siamo nel regno del Mago Merlino, dove tutto suc-
cede a rovescio di quello che succede nei mondi
:onosciuti: ivi arrivano Arlecchino e Pierrot, i quali
estano sorpresi di trovarvi procuratori onesti , petits
naitres austeri, discreti e sobri , filosofi pazzarelloni ,
ìttrici pudiche, comici modesti, e mariti fedeli. Ar-
ecchino , domanda subito se la bestia marito-cocu
iva anche in quello strano paese, ma nessuno com-
Nel Regno delle Maschere 24
I
— 370 —
prende la natura di quell'animale, ed Arlecchino s'af-
fretta a spiegare che quella bestia è d'origine europea
ed aggiunge : " Le cocu est le contraire du coq. Le
coq a plus d' une poule et la femme d' un coq est
une poule qui a plus d' un coq. " In un' altra com-
media, le Eaux de Merlin, Arlecchino e Mezzettino
s' imbattono, nella foresta delle Ardennes , nel mago
Merlino che rivela loro le virtù meravigliose di due
fontane colà esistenti :
" De ces eaux une goutte cu deux
Guérissent un homme hamoureux;
L' amour méme se change en haine,
Mais l'eau de cette autre fontaine
Fait un effet bien diffèrent:
Dés qu'on en boit on seint son àme
S' enflemmer d'une vive ardeur ".
Arlecchino e Mezzettino decidono di stabilirsi nel
paese e di vendere quelle acque prodigiose. Si ca-
muffano da ciarlatani perchè
" Un homme d'étrange apparence
Gagne d'abord la confidence.
Et surtout du peuple de France.
Aprono, intanto, bottega. Qui segue lo sfilare dei
compratori, uomini e donne d'ogni età e condizione,
che sono tanti caratteri disegnati con quello spirito-
ch'era proprio dell'autore del Diahle Boiteux e di Qil
Blas, poiché la commedia è del Le Sage. Ecco una
giovane contessa che chiede l'acqua per calmare gli
- 371 -
ardori d'un marito troppo innamorato; poi un giovane
che vorrebbe estinguere con V acqua miracolosa l'a-
more che sente per una principessa... da palcoscenico;
poi un contadino ingenuo che vorrebbe farsi amare
da una sua giovane vicina di casa, che gli dà dei...
pizzicotti e lo guarda... con certi occhi!; poi un ma-
rito che vorrebbe conoscere ciò che fa l' onesta sua
metà durante l'assenza di lui. Negli j^nimaux ^ai-
sonnahles del Fulizier, la scena si svolge nell'isola di
Circe. Ulisse ha ottenuto dalla maga che i suoi com-
pagni trasformati da lei in animali riprendano la loro
forma umana; ma nessuno di loro vuol riprendere le
antiche sembianze. A che servirebbe , per esempio,
alla pollastra di ritornare una giovine civetta, al lupo
un procuratore, alla beccaccina una ragazza stordita,
al toro un marito ingannato, e al maiale un appalta-
tore d'imposte? NeWylrlequin-DeucaUon, del Piron,
la scena, nel primo atto, rappresenta la vetta del Par-
naso, soggiorno d'Apollo e delle Muse; di là si scorge
il mare, che occupa tutto il fondo del teatro. E il
diluvio. Subito Arlecchino-Deucalione arriva a caval-
cioni d'una botte e d'un salto mette piede a terra.
Egli si rallegra d'essere lui solo scampato dalla morte
che ha colpito tutto il genere umano e fa quattro ca-
priole per essersi liberato dalla moglie Pirra, bugiarda,
ciarliera, gelosa e taccagna: poi pensa a far colazione
e dalla sua sacca da viaggio — poiché egli ha potuto
salvare dal diluvio una sacca — tira fuori due lingue
affamicate, una coscia di castrato al forno e un pro-
sciutto di ventotto libbre. Divora la sua colazione e
- 372 —
si disseta ad una vicina sorgente d' acqua. Quindi
improvvisa alcuni versi e comprende così che si trova
nel paese d'Apollo. Ma già Arlecchino comincia ad
annoiarsi della sua solitudine; se non che esce una
bella signora, vestita alla romana, che passeggia gra-
vemente, meditando una scena tragica: è Melpomene.
Arlecchino, che se odia Pirra comincia pure a sen-
tire il vuoto della sua assenza, s'avvicina alla Musa
e l'invita ad unirsi a lui in un'opera altamente civi-
lizzatrice ed umanitaria, quella, cioè, di procreare il
nuovo genere umano. Ma la severa musa non gli dà
ascolto; allora Arlecchino tira fuori la chiave di casa,
se la mette alla bocca e fischia. A questo solo ru-
more, la Musa della tragedia si scuote, getta un'oc-
chiata terribile al sibilatore e dignitosamente si ritira
come un'attrice fischiata. Entra subito in iscena Talia
danzando e facendo scoppiettare come un'andalusa le
castagnole. La Musa della commedia sta per parlare...
Era il tempo in cui ai teatri della Foire era proibito
di far recitare produzioni dialogate; diffatti, nella scena
precedente. Melpomene era stata sempre muta, anche
quando Arlecchino la fischia. Ma questa volta la brava
maschera bergamasca comprende il pericolo e vol-
gendosi verso la loggia dove sta il signor luogotenente
di polizia, grida spaventato, accennando a Talia, che
resta intanto interdetta: "Signor luogotenente, all'erta!
Io non garantisco nulla... Salvateci dalla multa!" E fra
le risate del pubblico si precipita sulla Musa e con
una mano le tappa la bocca gridando : " Silenzio,
chiacchierona! Vorresti forse far morire di rabbia i
— 373 —
signori del Teatro Francese? " E cosi dicendo la
spinge fra le quinte.
Un ballo di Silfidi chiude l'atto.
Nell'atto secondo, Pirra, la moglie di Arlecchino-
Deucalione, scende dal cielo a cavallo di Pegaso, il
quale, dopo d'averla deposta a terra, sparisce. Pirra,
in una scena muta — ella, dallo spavento del diluvio,
aveva perduta la voce — si rallegra d'essersi salvata
dalle acque, si rassegna a viver sola sulla terra e fi-
nisce con l'addormentarsi su d' un banco di pietra.
Arriva Apollo cantando un'arietta, vede Pirra, e chi-
natosi su di lei, intuona una canzoncina. Qui entra
Arlecchino disperato di non aver potuto costringere
nessuna delle nove muse a prendere il posto di Pirra
presso di lui; ma scorge la moglie ed Apollo e resta
interdetto ; quindi s' avvicina e trovando indecoroso
per la sua dignità maritale l'atteggiamento d'Apollo,
lascia cadere sulle spalle di questo mezza dozzina di
colpi di bastone. Il biondo iddio fugge.
I due sposi passano alle spiegazioni ; Arlecchino,
loquacemente, narra come potè salvarsi dalle acque;
Pirra lo fa con gesti. Il primo va in cerca di Pegaso;
lo ritrova: è un divino cavallo con le orecchie d'asino
e le ali di tacchino con addosso una coperta , che
spcirisce sotto diversi avvisi teatrali. Qui succede una
rivista dei fatti più importanti accaduti a Parigi nel
corso dell'anno. Infine Pegaso con Arlecchino addosso
riprende le vie aeree, ma il suo compagno , con un
dito salto, ritorna sulla terra.
Arlecchino riflette che sebbene ora abbia una com-
— 374 -
pagna, Pirra , pure ciò non può andare alle lunghe ;
egli dovrà orribilmente annoiarsi con una muta. Con-
sultiamo gli Dei , dice , e si propone d' entrare nel
tempio di Temi. " Con un pò di denaro si ha un
oracolo "; esclama ; e picchia alla porta. Questa è
aperta, e i due sposi entrano per consultare la Dea.
Un secondo balletto chiude l'atto.
Neir atto terzo , Arlecchino e Pirra , in ossequio
agli ordini di Temi, si collocano ciascuno accanto ad
una quinta gettando dietro di questa delle pietre: su-
bito, dalla quinta dove sta Arlecchino vengono fuori
dei giovani, e da quella dove sta Pirra delle giova-
nette. I giovani appena sono sul palco vengono alle
mani ed Arlecchino grida e suda per dividerli. Egli
osserva: " E* un grazioso presagio per la fraternità e la
solidarietà dei popoli : " I giovani smettono d* acca-
pigliarsi fra loro, ma si gettano sulle donne: altra fa-
tica d'Arlecchino per tenerli nei limiti della decenza.
Infine, Arlecchino, dopo che ha posto un pò d'ordine
in quella " canaille ", recita un discorso pieno di sen-
tenze morali e assai sensato; al contadino, all'operaio,
al soldato, a tutti i componenti della nuova umanità,
giacche quei giovani rappresentano le diverse classi
sociali, lancia un motto , un frizzo , un monito. Per
esempio, al soldato che gli sta dinanzi col cappello
in testa e la destra sull' elsa della spada, strappa il
cappello e gli dice :
" Chapeau bas devant ton pere, quand tes deux
amis (il contadino e V operaio) sont dans leur devoir,
ne croit-il pas avoir été forme d'une pierre plus pre-
1
- 375 -
cieuse que les autres? Mon gentilhomme, un peu de
modestie! Tout ton ta-lent est de savoir tuer! "
E prevedendo le sciagure a cui va incontro la nuova
umanità, esclama:
" Je voudrais, quand j' ai jeté la maudite pierre
dont il est forme {Fuomo), l'avoir poussée à cent lieues
en mer ".
Arlecchino però non si lascia vincere completa-
mente dal suo pessimismo e consacra le nozze fra
quei giovani e quelle giovinette. In questo momento
un cuculo fa sentire il suo canto. " Ah , esclama
Arlecchino , brutto animale , potevi aspettare che la
nuova umanità fosse almeno alla sua seconda gene-
razione! ".
Come nelle fiabe del Gozzi, nelle commedie del
Le Sage, del Piron, del Fuzilier e d'altri, l'argomento
è fantastico; la fantasia, la mitologia, la poesia, la leg-
genda, tutto è buono, purché strano, purché bizzarro,
a fornire la trama dello spettacolo. Talvolta basta un
tenue filo tratto dalle Mille ed una Notte del Galland,
o dai poemi omerici o daW Eneide di Virgilio perchè
lo scrittore vi ricami intorno una favola piena di spi-
rito, di comicità, d'interesse. C'è un pò di tutto, la
strada come il palazzo , la casa borghese come la
reggia, il "boudoir" della dama come la bottega del
ciarlatano, il riso sguaiato delle antiche farse e il
bon mot dei salotti. Né il teatro della Foire dimen-
ticò l'attualità il fatto del giorno, che presentò ed in-
corniciò in quadri satirici , dalla fuga del cassiere
alle gare dei comici, alle guerre dei letterati, ai sue-
— 376 -
cessi o ai fiaschi del teatro e della letteratura. Nelle
Fiabe del Gozzi c'è qualche cosa di simile. L'Amo-
re delle tre Melar ancie, Turandot , V Jlngellin bel- |
verde, il Corvo e le altre fiabe del conte veneto non
rassomigliano un poco alle commedie del Le Sage, del
Piron, del Fuzilier ? Non vi si riscontra lo stesso sen-
timento fantastico ? Le Maschere della commedia del-
l'arte non agiscono in un ambiente affatto diverso da
quello in cui vissero per tanti anni? Del resto, anche
il teatro a braccia italiano aveva reso popolare la
commedia a base di fantasia, di meraviglioso. U Ar-
cadia incantata, difatti, del p. Adriani, ha boschi in-
cantati , maghi , trasformazioni fantastiche, insomma,
tutto il fa-bisogno d'un teatro de la foire. L'origina
lità, dunque, del teatro del Gozzi deve intendersi in
modo limitato. I chiosatori delle fiabe, e particolar-
mente il Magrini , che come giustamente osservò il
Masi, con molto amore trattò questo tema, hanno vo-
luto indicarci assai minuziosamente le fonti alle quali
il Gozzi attinse i diversi argomenti da lui trattati. Ma
attingere ad una fonte non significa difetto d'origina-
lità. Questa sta nell'anima, diremmo quasi, che l'au-
tore sa imprimere all'opera sua. Un poco dopo la
metà del secolo XVIII, a Venezia, le commedie-fiabe
del Gozzi parvero originali; ma sarebbero apparse tali
se accanto al teatro in cui si recitavano, in un altro
teatro, con una compagnia francese , si fossero reci-
tate le commedie del Le Sage, del Piron e d' altri |
scrittori del Thèàtre de la Foire ?
Ma come già accennammo, pel Gozzi la rivendi-
— 317 —
cazione dei diritti della commedia dell* 2U*te non fu
che un pretesto. Egli non ripristinò affatto quest' ulti-
ma sulla scena. Le sue commedie non costitui-
scono la continuazione del regno della commedia a
soggetto; esse iniziarono in Italia uno spettacolo af-
fatto nuovo o quasi nuovo, per noi, un miscuglio dei
due vecchi generi, la commedia improvvisa e quella
sostenuta, su d'un fondo fantastico, dove le bizzarrie
sostituivano le situazioni, con visibile derivazione dal
teatro francese. Ma il successso del Gozzi fu di breve
durata; i veneziani, dopo d'avere accolto festosamente
le Fiabe, ebbero il buon senso di ricredersi. La prima
fiaba — Vylmore delle tre Melarance — andò in iscena
la sera del 25 gennaio 1761 ; la seconda, il CorvOj
che il Masi ritiene la più drammatica di tutte, la sera
del 24 ottobre dello stesso anno; la terza, il T^e Cervo,
la sera del 5 gennaio 1 762; è dello stesso anno la
prima recita della quarta fiaba, Turandot ; la quinta
fiaba, la T)orìna Serpente, fu per la prima volta reci-
tata la sera del 29 ottobre dello stesso anno. Qui c'è
una breve sosta nella produzione fiabesca; la sesta
fiaba, la Zobeide, fu recitata la sera dell' 1 1 novem-
bre 1 763; la settima, i Pitocchi Fortunati, la sera del
29 novembre 1 764, ed ebbe un successo bazzotto e
fu immediatamente seguita dal Mostro Turchino, (8
dicembre 1 704). U jìugellin Bel 'Verde e Zeim re
dei Geni, le ultime due fiabe del Gozzi , furono re-
citate l'una la sera del 1 7 gennaio e 1' altra la sera
del 25 novembre 1765. Dopo, non più ^aèe, non più
ritorno air antico; il Gozzi, è vero, ritornò a scrivere,
- 378 —
pel teatro, ma non trattò più il genere fiabesco , ne
si curò più della commedia dell' arte. Quando , nel
1806, scese nel sepolcro, nessuno, o quasi nessuno,
s'accorse della sua scomparsa. 11 suo avversario, Carlo
Goldoni, cinque anni dopo la recita dell'ultima fiaba
gozziana, faceva rappresentare a Parigi , al Thèàtre
Francais, il burbero benefico. Era il più gran trionfo
che sin'allora avesse ottenuto il grande scrittore ve-
neziano! La commedia dell'arte non era più che un
ricordo.
Fine.
APPENDICE
a) Scenari di B» Loccatello»
bj Scenari Napoletani^
cj Scenari del p» Adriani^
A.
DAGLI SCENARI D' BASILIO LOCCATELLO
a) Il Giuoco della Primiera.
b) La Commedia in Commedia.
Di Basilio Loccatello^ o come anche è stato chia-
mato, Locatello o Locatelli, romano, scrittore di sce-
nari, poco o assai poco si sapeva sino a non molti
anni fa: appena il nome e i titoli, parecchi dei quali
errati, delle sue commedie a braccia. Il primo a par-
larne era stato V Allacci nella sua DrammaturgiQy
stampata la prima volta un poco dopo la metà del
secolo XVII ; poi, per rivedere il suo nome, bisognava
saltare sino a Francesco Bartoli (1), vissuto nella se-
conda metà del secolo XVIII. Il Bartoli aggiunse, di
suo, qualche notizia biografica, spacciando non si sa
Scriviamo Loccatello, e non diversamente, p>erchè così sta scritto
nel manoscritto casanatense e precisamente nel Discorso che precede
i Soggetti,
(I) Notizie Storiche dei Comici Italiani; Padova, 1781.
— 382 —
come per comico il Loccatello, il quale, d* allora in
poi, come comico fu da tutti ritenuto. Nel 1894, il
Valeri fCarletta) dissipò un po' le tenebre che si ad-
densavano intorno al nostro commediografo (1). E-
rano già stati rinvenuti gli Scenari, manoscritti, presso
la Biblioteca Casanatense, di Roma, e dai quali noi
abbiamo trascritto i due che ora pubblichiamo (2).
Il loro autore fu certamente romano; ma quando nac-
que? quando morì? Il Valeri, che cercò di accer-
tarlo, non potè venirne a capo ; ritiene però che fosse
nato sugli ultimi anni del Cinquecento e morto poco
oltre la metà del Seicento : e se non fu comico di
professione, ebbe certamente a far péu^te d' una di
quelle tante società filodrammatiche, che allora si chia-
mavano Accademie. Mandò alle stampe una commedia
della quale non si conosce che il titolo : Li Sei Ri-
trovati.
( 1 ) Gli Scenari Inediti di ^. Localelli in ; La ^uova Rasse-
gna, Roma 1864. Questo studio fu stampato anche a parte.
(2) Sono in due volumi e il titolo preciso è il seguente : Della Scena
dei Soggetti Comici di B. L. R. (Romano), in Roma. Il primo vo-
lume è del MDCXVIII e il secondo del MDCXXII. L'opera è prece-
duta da un discorso " per il quale si mostra esser necessarie le facetie
a la vita humana, et faceto chiamarsi il comico ".
IL GIUOCO DELLA PRIMIERA
COMMEDIA
PERSONAGGI
Pantalone
Lelio, figlio
Zanni, servo
COVIELLO
Flaminia, figlia
Furbo
ROBBE
Un abito da Pantalone - Una borsa di denari - Una sporta -
Un mazzo di carte da giuoco.
La scena si finge a Roma
N. B. (Niella trascrizione non conserviamo perfettamente la vec-
chia grafia del manoscritto per non islancare il lettore. Vogliamo
solo avvertire che nel manoscritto si legge ora azzi ed ora azi.
Atto Primo
Pantalone con Zanni, di casa, sopra 1* amore che
porta a Flaminia figlia di Coviello ; dice di volerla
pigliar per moglie ; fanno lazzi ; alla fine basta ; in
questo
Coviello, di casa, intende come Pantalone è inna-
morato di Flaminia e volerla pigliar per moglie ; fanno
lazzi; alla fine s'accordano della dote; chiama
Flaminia, di casa, intende essser maritata a Pan-
talone, ricusa voler mau^ito, fanno altri discorsi , alla
fine obbedisce al padre e dà la mano a Pantalone.
Flaminia rientra in casa ; Coviello dice a Pantalone:
fra un' ora si trovi al Banco della Scimia che gli fo
pagare quattro mila scudi per la dote. Coviello parte,
Pantalone dice che coi denari della dote comprerà gli
abiti per le nozze. Entra in casa.
Lelio, di strada ; sopra l'amore che porta a Fla-
minia, figlia di Coviello ; volerle scoprire 1' amor suo ;
in questo
Flaminia, di casa ; intende l' amor di Lelio, gli dice
come suo padre l' ha maritata con Pantalone, lo prega
Nel Regno delle Maschere 25
— 386 -
guastar le nozze dandole la fede di consorte. Fla-
minia in casa.
Lelio disperato vuol cercare Pantalone per gua-
stare le nozze, in questo
Zanni, di casa, con sporta e denari per spendere;
intende l'amor di Lelio e Flaminia, gli dice delle
nozze, è pregato di guastarle. Zanni dice. Pantalone
deve andare a pigliare quattro mila scudi della dote
volergli mandare un altro in luogo di lui e fargli la
burla. Lelio dice aspettarlo dal rigattiere e parte.
Zanni sulla spesa che ha da fare facendo lazzi col
contare li danari ; in questo
Furbo, di strada, con un par di carte da giuocare;
fa lazzi con Zanni sopra il giuoco della primiera ;
impara a giuocare a Zanni, facendo lazzi vince li de-
nari, e le vesti a Zanni, facendolo restare in camicia.
Zanni, disperato, ruba li denari e li vestiti e fugge
per la strada gridando: al ladro!
Atto Secondo
Lelio, di strada, cerca di Zanni per sapere se ha
avuto la dote per aver fatta la burla ; in questo
Flaminia, di casa, intende come vogliono guastare
le nozze dandole il cenno nell' orecchie. Flaminia è
contenta, entra in casa; Lelio per trovar Zanni parte
per la strada.
Coviello, di strada, aver pagato la dote a Panta-
lone, voler fare le nozze ; in questo
_ 387 —
Pantalone, di casa, volere andare al Banco e pi-
gliar la dote, fa lazzi a Coviello che voglia fargli pa-
gar la dote. Coviello dice avergliela data, Pantalone
dice non esser vero, nega, vengono a parole ; Pan-
talone dice voler andare alla giustizia, e parte. Co-
viello resta in collera lamentandosi di Pantalone che
gli nega la dote che ha pagato poco fa; in questo
Zanni, di strada, in abito da Pantalone, facendo
lazzi dice andar cercando Lelio. Coviello gli dice
della dote. Zanni conferma d'averla avuta; Coviello
si lamenta perchè lui glielo abbia negato poca fa;
Zanni dice burlava e parte per la strada. Coviello
di non piacergli queste burle, in questo
Pantalone, di strada, esser stato alla giustizia e vo-
ler far castigare Coviello. Fanno lazzi, Coviello d'a-
ver avuto la dote. Pantalone dice non esser vero, ven-
gono a parole, poi a pugni. Partono Coviello in casa,
Pantalone per la strada.
Atto Terzo
Lelio con Zanni, di strada, intende aver fatto la
burla con l'avere avuto la dote : fanno allegrezze ;
Zanni dice voler fingere Pantalone e dire a Coviello
di non voler più Flaminia, ma di darla per moglie a
Lelio. S'accordano lodando l'invenzione. Fanno lazzi
del Pantalone e dell' esser Lelio figlio di questo ;
Zanni dice: figlio d'un castronaccio, ti darò la mia
maledizione, non ti voglio esser padre ; infine, Lelio
— 388 -
s' accorda di tutto quello che deve farsi, fa a Zanni
riverenza dicendo : signor padre, gli faccio aver Fla-
minia per moglie; infine vanno via.
Coviello, di casa, in collera per la dote che gli ha
negato Pantalone. Zanni, fingendo Pantalone, dice a-
ver burlato, e confessa averla avuta, ma non voler
più Flaminia per moglie per esser vecchio, ma vo-
lerla dare a Lelio suo figliuolo, facendo lazzi a Le-
lio^, dicendo : fio d*un castronaccio, sei contento ? Alla
fine, tutti contenti ; in questo
Flaminia, di casa, intende esser maritata a Lelio ;
lei contenta, si toccano la mano facendo lazzi ; tutti
in casa ; Zanni resta ridendosi della burla, dice vo-
ler restituire li abiti al rigattiere ; parte per la strada.
Pantalone, di strada, in collera contro Coviello, dice
volersi vendicare e castigarlo per via di giustizia ; in
questo
Coviello, di casa, invita Pantalone andare alle nozze;
Pantalone dice non voler fare le nozze se prima non
ha la dote ; Coviello si meraviglia facendo lazzi dal-
l' aver confessato d'averla avuta, vengono di nuovo a
parole facendo rumore ; in questo
Lelio e Flaminia, di casa, corrono al rumore, si
scopre Lelio esser marito di Flaminia e Pantalone
aver fatto il parentado. Pantalone si meraviglia, di-
cendo non esser vero ; tutti confermano esser vero;
alla fine Lelio scopre ch'essendo innamorato di Fla-
* Deve intendersi presente in iscena, sebbene non risulti dallo Sce-
nario.
— 389 —
minia, Zanni ha finto esser Pantalone ed ha avuto la
dote, e poi ha finto non voler moglie ed averla data
a lui. Pantalone avendo udito va in collera contro
Zanni, questi entra e dice che vuole andcire a man-
giare alle nozze. Pantalone perdona facendo allegrezza.
Tutti entrano in casa.
FINE DELLA COMMEDIA
LA COMMEDIA IN COMMEDIA
COMMEDIA
PERSONAGGI
Pantalone
Lidia, figlia
Zanni, servo
COVIELLO
ArDELIA, figlia
Tofano, medico
Lelio, poi
Curzio, figlio di Coviello
Graziano, recitante
Capitano, recitante, poi
Orazio, figlio di Pantalone
ROBBE
Una scena - Sedie - Armi assai.
La scena si finge a Sermoneta
Atto Primo
Pantalone e Zanni ; Pantalone dice voler maritare
Lidia sua figliuola ; Coviello averla domandata e vo-
ylierla dare; batte
Coviello, di casa, intende come Pantalone è con-
ento di volergli dare Lidia per moglie ; fanno lazzi ;
estano d' accordo sulla dote ; Coviello chiama , in
questo
Lidia, di casa, intende esser maritata a Coviello,
lei ricusa, fanno lazzi, alla fine, a furia di minacce,
Jdia cede e tocca la mano di Coviello. Lidia, mal-
ontenta, rientra in casa. Coviello dice andare all'of-
cio pei capitoli ed ivi aspettar Pantalone. Parte, Pan-
alone dice a Zanni vada ad avvisare i commedianti
li parenti per far recitare una commedia per alle-
rezza. Zanni parte ; parte pure Pantalone.
Lelio, di strada, dice esser partito dallo studio di
*adova, dove fu mandato dal padre, per riveder Li-
ia che ama ; batte, in questo
Lidia, di casa, riconosce Lelio, quale va incognito
3n barba posticcia, avendo mutato nome ed essersi
- 394
partito dallo studio di Padova. Lidia si dispera perchè
Pantalone suo padre V abbia maritata a Coviello. Lelio
dolendosi dice stia di buon' animo, e vuol cercare di
guastar tutto; parte. Lidia rientra in casa.
Pantalone, di strada, dice aver fatto li capitoli e
Coviello vuol far presto le nozze; in questo
Zanni e Graziano, di strada; Zanni dice a Pan-
talone d' avere avvisato li parenti ed aver menato il
capo dei commedianti, Graziano. Pantalone gli do-
manda qual' è la sua parte ; Graziano dice fare l' in-
namorato. Pantalone se ne ride dicendo : Guarda mo-
staccio da far d' innamorato ; alla fine fanno il patto
della commedia di dieci scudi ; li dà la caparra. Gra-
ziano dice che va a chiamare i compagni ; parte. Pan-
talone fa metter fuori V occorrente e le sedie ; dice
voler aspettare V ora. Tutti in casa.
Coviello, di strada, allegro per le nozze e le feste;
dice che vuol far godere delle nozze Ardelia sua fi-
gliola; batte, in questo
Ardelia, di casa, intende come suo padre Coviello
vuol prender moglie senza dar marito a lei e vuole
che assista alle nozze e alla commedia; batte, m questo
Pantalone, Lidia, Zanni , di casa. Pantalone ab-
braccia Coviello suo genero facendo allegrezze ; Lidia
di mala voglia lo riceve ; poi siedono avendo inteso
da Zanni che li commedianti sono in ondine. In questo
Tofano, di strada, essendo venuto alla commedia
lo ricevono, e siede ; in questo
Lelio, di strada, si mette da parte insieme ad altri
n
- 395 -
3er sentire la commedia. Si danno ordini per comin-
:iare la commedia. In questo
Prologo, essendosi prima suonato musica, annunzia
iilenzio perchè si ha da fare una commedia all' im-
provviso; entra in questo
Capitano, discorre dell'amore che porta ad Isabella
ìglia di Graziano, dice volerla dimandare al padre
3er moglie, batte.
Graziano, di casa, avendo inteso il tutto dal Ca-
pitano, si mette d* accordo con questo per le nozze.
[n questo, casca in terra a Lidia un guanto, Lelio su-
DÌto corre a raccoglierlo e baciandolo lo rende a Li-
dia. Coviello si leva in piede dicendo a quello che
lui ci abbia da fare; si fa rumore; tutti in bisbiglio,
uggono chi per la strada, chi per le case.
Atto Secondo
Pantalone e Zanni di casa ; Pantalone fa levar via
e sedie e li apparati dispiacendosi dello sconveniente
liuccesso, che ha messo una gran paura alla figlia e
nanda Zanni a chiamare il medico, in questo
Coviello, di casa, armato, dice volersi risentire con-
fo Lelio, perchè non doveva far quello che ha fatto;
olerlo ammazzare. Pantalone lo riprende e dice che
lon faccia il gradasso ; Coviello dice che Pantalone
D ingiuria ; V altro lo consiglia a star tranquillo. Rien-
rano in casa, anche perchè Pantalone ha mandato a
hiamara il medico per Lidia; Zanni resta.
— 396 —
Lelio, di strada, intende il tutto e promette mancia
a Zanni se lo aiuta. In questo
Lidia , di casa, parlano del loro amoreggiamento,
dandosi la fede; pigliano appuntamento di fuggirsene
insieme alle due ore di notte. Lidia rientra in casa,
Lelio va via.
Capitano, di strada, parla italiano, quando recitava
la commedia parlava spagnuolo, e dice che quando
lui recitò la commedia alla presenza di Pantalone,
vide una giovane ed essersene innamorato; in questo
Ardelia, dalla finestra, vede il Capitano, si salutano
insieme ; lei è pregata di venire in basso, lei viene,
intende V amore del Capitano, lei lo accetta, dice che
il padre la vuol maritare, ma lei vuole scegliersi da
se il marito; dice volerlo rivedere, ma in casa d'una
sua vicina ; si danno la posta per le due ore di notte.
Capitano, allegro, parte ; lei rientra in casa.
Tofano, di strada, dice esser medico mandato da
Pantalone a visitar Lidia sua figliola sposa tiovandosi
inferma; batte, in questo
Zanni, dalla finestra, crede che si tratti del medico
per veder la sposa, lo fa salire in casa.
Pantalone e Coviello, di strada, dicono aver man-
dato il medico per veder la sposa, dicono voler sa-
pere come stia ; battono, in questo
Tofano, di casa, dice che l'ammalata è gucirita ed
esser niente, e sta bene , tutti si rallegrano ; Coviello
dice volersi levar l' arma d'addosso, entra in casa; gli
altri restano, in questo
Graziano, di strada, vede Pantalone, gli domanda
11
— 397 —
facendolo tirar da parte i danari della commedia. Pan-
talone dice che non V ha finito di recitare ; Graziano
dice che farà pagare Coviello; Pantalone, che non vuol
far questione, dice che li danari li pagherà suo fra-
tello e mostra Tofano, che ha dei denari addosso ;
Graziano si mostra contento; Pantalone dice a Tofano
che Graziano ha bisogno dell'opera sua; Tofano ri-
sponde che è pronto ; Pantalone va via. Tofano dice
1 Graziano che si accosti ; Graziano crede che lo pa-
?hi ; r avvicina ; Tofano risponde che è pronto; Pan-
alone va via. Tofano gli prende il polso, l'altro si
icusa, in fine si fa toccare il polso. Tofano gli ordina
in serviziale ; Graziano gli chiede otto scudi che Pan-
alone è rimasto a dare; Tofano dice che lui ha la
lebbre, che lo fa farneticare ; ritiene che la febbre sia
Hi quelle maligne; bisogna cavargli sangue facendo
,azzi; alla fine vengono alle mani, si danno pugni e
j)artono.
i
Atto Terzo
Capitano , di strada, finge notte , dice non saper
uale sia la casa d'Ardelia, dice esser ora di ritro-
arsi secondo si sono data la posta; in questo
Lidia, di casa, fingendo notte oscura la scena cre-
ando il Capitano sia Lelio, e il Capitano credendo
he Lidia sia Ardelia ; si abbracciano e partono per
i strada.
Lelio, di strada, fingendo notte, dice voler vedere
la Lidia, e tenerla in casa d'una sua amica ; in questo
- 398 -
Ardelia, di casa, fa il cenno; si credono V una il
Capitano, l'altro Lidia, senza parlare s'abbracciano e
partono per la strada.
Capitano e Lidia, di strada, essendosi scoperti non
essere amanti. Lidia lo prega a salvcir l'onor suo per
amar Lelio, che in grazia la meni in casa d'una sua
amica per rispetto di suo padre, e dove spera trovar
Lelio. Capitano si lamenta e poi alla fine pregato si
contenta, e partono.
Lelio ed Ardelia , di stiada , essendosi anch' essi
scoperti e non essere amanti, Ardelia si raccomanda
pensandosi fosse Capitano; Lelio dolendosi di Lidia
accompagna Ardelia a casa; in questo
Capitano, di strada, lamentandosi della mala sorte
non aver veduto Ardelia ; la vede, intende il brutto
successo, alla fine scoprono lui e Lelio l'uno avere l'in-
namorata dell' altro, e niuno avere pregiudicato l' a-
mico neir onore ; dicono volerle andare a godere, par-
tono.
Coviello, di casa, fingendo la mattina a buon'or?
dicendo di non aver mai dormito tutta la notte pen
sando a Lidia che vuole sempre pigliar per moglie
dubitandosi qualche male ; in questo
Pantalone, dalla finestra, fingendo levarsi allora di
letto, intende da Coviello voler la moglie , che ver
rebbe menéu* via senza far nozze, ne feste. Pantalon»
vien fuori e dice che Lidia sta molto bene e ch«
tutta notte l'ha intesa andare e venire per casa; ali
fine, pregato, chiama ; in questo
Zanni, di casa; intende Pantalone che chiama Lidi
- 399 —
5 che è venuto Io sposo ; Zanni esce fuori più volte
accodo lazzi, guardando verso la strada, e rientra in
:asa; infine, dice che Lidia non è in casa. Coviello
g Pantalone si disperano, entrano in casa, escono fuori,
dubitano che Lidia sia stata rubata ; dicono volersi
irmare e cercarla. Pantalone e Coviello rientrano nelle
loro case.
Lelio e Capitano dicono aver lasciato le amorose
donne vicino e volerle dimandare alli loro genitori
per mogli, e se essi non vogliono darle a loro, le me-
neranno pel mondo, ma si ritirano vedendo venire in
questo
Coviello, di casa, e Pantalone e Zanni , di casa,
jgualmente armati. Coviello dice che Ardelia ancora
jei è fuggita di casa ; lui e Pantalone vogliono am-
Inazzare chi ha tenuto mano alla fuga. Capitano, s'ac-
|:osta a Coviello pregandolo dargli Ardelia per moglie ;
oviello dice di non volerla dare a un commediante.
Capitano si sdegna ; lui e un galantuomo; tutto il resto
|0 dirà Graziano, il quale dirà d' averlo levato da pic-
:olo a Francesca sua balia, e suo padre si chimava
Pantalone de' Bisognosi. Pantalone ode questo, rico-
losce nel Capitano Orazio suo figliolo, il quale fu por-
ato via alla balia da Graziano; fa allegrezze, lo ab-
braccia. Coviello avendo inteso che il Capitano è fi-
;liolo di Pantalone, gli concede per moglie Ardelia.
-elio s' inginocchia davanti Coviello sua padre, le-
gandosi dal volto la barba posticcia per non esser co-
osciuto dice stare incognito e venire dallo studio di
*adova per amor di Lidia. Coviello lo perdona e
— 400 —
Pantalone gli concede in moglie la figlia. Tutti fanno
allegrezza.
Graziano, di strada, domanda a Pantalone gli otto
scndi della commedia fatta. Pantalone lo piglia e gli
discopre il tutto d' averlo menato via da Francesca
Orazio suo figliolo; Graziano gli domanda perdonanza
per campare recitava commedie. Pantalone lo per-
dona; in questo
Capitano, Lelio, Lidia ed Ardelia, di strada ; le
donne domandano perdono alli loro padri; Lidia, sposa
Lelio; Ardelia, sposa il Capitano ; fanno allegrezze e
vanno a fare le nozze.
FINE DELLA COMMEDIA
1
B.
DAGLI SCENARII DELLA RACCOLTA SER-
BALE DI CASAMARCIANO J' J- J' J'
a) L'Amante Gelosa.
h) Le Disgrazie di Pulcinella.
e) Nerone Imperatore, tragicomedia.
La raccolta posseduta dalla Biblioteca Nazionale di
Napoli, ^ alla quale fu donata da Benedetto Croce,
è in due volumi (manoscritti). Il primo volume porta
il seguente titolo : Sibaldone de Soggetti da recitarsi
air Impronto — A Izuni propri e gli altri da diversi rac-
colti— Di T). ylnnihale Sersale conte di Casamarciano.
Il secondo : Sibaldone comico di %Jarj Soggetti di com-
medie ed opere bellissime copiate da me Jìntonino Pas'
sante detto Oratio il Calabrese per comando dell* ecc.mo
sig. conte di Casamarciano. 1 700.
* Segnatura: Mss. XI, AA. 41.
\e/ Regno delle v^aschere 26
L'AMANTE GELOSA
COMMEDIA
PERSONAGGI
GlANGURGOLO, padre di
Luzio
COVIELLO, servo
PaSCARIELLO, padre di
Vittoria
Fiammetta, serva
Angela
Flaminio
Pulcinella, servo
Brunetta, serva
ROBBE
Un sacco - Vestito da mago - Bastone
Città: Napoli
ATTO PRIMO
Scena I.
Giangurgolo e Pascariello
Fanno parentela, cioè Pascariello dà Vittoria sua
figlia a Luzio figlio di Giangurgolo; PasccU*iello via;
Giangurgolo batte
Scena 11.
Coviello e Giangurgolo
Inteso da Giangurgolo il parentado , fanno lazzi ;
Coviello però da prima accennerà che Luzio è amante
d' Angela ; Giangurgolo via; Coviello resta ; in questo
Scena III.
Luzio e Coviello
L'amore di Angela ; vede Coviello, il quale dopo
— 406 —
lazzi gli dice come il padre l'ha accasato con Vittoria;
Luzio si lamenta volendo Angela e la fa chiamare.
Scena IV.
Brunetta e Detti.
Fa lazzi con Coviello e dopo scena la fannno chia-
mare.
Scena V.
Angela e Detti.
Coviello, il lazzo dell'acqua calda e della fredda,
poi Luzio si fa avanti, fanno scena amorosa, si danno
la fede ; donne in casa, loro via.
Scena VI.
Flaminio e Pulcinella.
L*uno r amore di Vittoria, l'altro l'amore di Fiam-
metta e mentre stanno per chiamarle
Scena VII.
Pascarielloy %)ittoria, Fiammetta e Detti.
Esce Pascariello contrastando con la figlia perchè
vuole che si accasi con Luzio; Flaminio e Pulcinella
— 407 -
dopo lazzi nascosti si fanno avanti facendo loro par-
iate ; Pascciriello entra più in sospetto, sgrida sua fi-
glia e parte per ritrovare Giangurgolo e concludere
il matrimonio; donne restano facendo scena amorosa
r una con Flaminio, Taltra con Pulcinella ; Vittoria
poi dirà del matrimonio che vuol fare il padre con
Luzio e crede che Luzio lo procuri; Flaminio si a-
dira contro Luzio, promette disturbare ; donne entrano
in casa; loro restano ; in questo
Scena Vili.
Luzio, Coviello, Flaminio e Pulcinella,
Saluta Flaminio, il quale fa l'alterato, fanno diversi
lazzi, alla fine si chiariscono, 1' una ama Angela l'al-
tro Vittoria, inteso che poi la darà a Flaminio e lui
sarà sposo di nome e questo di fatto ; sono d'accordo,
Flaminio e Pulcinella vanno via , Luzio e Coviello
restano ; in questo
Scena IX.
Pascariello, Giangurgolo, Coviello e Luzio.
Vedono Luzio, gli dicono il parentado fatto, lui
finge contentarsi ; loro battono.
— 408 —
Scena X.
Vittoria, Fiammetta e Detti.
Pascariello dice che tocchi la mano a Luzio, essa
ricusa, loro gliela fanno toccare per forza; in questo
Scena XI.
Jlngela, brunetta e Detti.
Vedono il tutto di nascosto, ed Angela si altera;
tutti via, Angela e Brunetta restano ; poi Angela fa
entrare la serva, ed essa resta lamentandosi ; in questo
Scena XII.
Coviello ed Angela.
Coviello esce dicendo che vuole avvisare Angela
deir invenzione presa ; Angela in vederlo senza dargli
tempo di parlare gli dà una grande bastonata ed entra,
Coviello resta meravigliato ; in questo
Scena XIII.
Fiammetta e Coviello.
Fa scena amorosa con Coviello; in questo
- 409 —
Scena XIV.
Pulcinella e Detti.
Pulcinella fa suoi lazzi di dietro, poi si fa avanti
e contrasta con Coviello per Fiammetta ; ia questo
Scena XV.
Brunetta e Detti.
Piglia gelosia, attaccano rumore uomini e donne e
finisce Tatto.
ATTO SECONDO
Scena I.
Giangurgolo, Luzio e Coviello.
Giangurgolo dice a suo figlio che entri da sua mo-
glie, perchè lui vuole andare a convitcìre i peu^enti, e
via ; Coviello dice a Luzio che Angela 1* ha basta-
nato ; Luzio batte da
Scena II.
Angela, Luzio e Coviello.
Angela rimprovera Luzio in vederlo dicendogli che
non l'ama più, gli serra la parta in faccia ed entra;
Luzio, sua disperazione; in questo
410
Scena III.
Qiangurgoloy Coviello e Luzio.
Giangurgolo dice che ha invitato i parenti ; Luzio
delira, in questo
Scena IV.
Angela e Detti
Angela, dalla finestra, si rimproverano con Luzio ;
Giangurgolo fa suoi lazzi ; infine Angela entra ; Gian-
gurgolo dice a Luzio che entri da sua moglie; Luzio
fa spropositi e parte ; Coviello fa la signa ( l ) di Lu-
zio e parte ; Giangurgolo appresso.
Scena V.
Flaminio e Pulcinella,
Desiderosi di sapere 1* invenzione di Coviello, in
questo
Scena VI.
angela, brunetta e Detti.
Angela domanda a Flaminio chi sia il suo più caro
amico ; questi dice essere Luzio ; essa dice che Luzio
(I) Scimmia.
— 411 —
è traditore atteso che cerca accasarsi con Vittoria sua
innamorata; Flaminio la sincera dicendo che Luzio
ama lei, e che questa era invenzione fatta da Coviello
per amor suo, contandole il tutto ; Angela per alle-
grezza l'abbraccia ; in questo
Scena VII.
'Vittoria, Fiammetta e Detti,
Vedono il tutto di nascosto. Vittoria s' adira, tutti
via; restano Fiammetta e Vittoria quale poi manda
la serva : ed essa resta facendo suo lamento; in questo
Scena Vili.
T^ulcinella e Angela.
In veder Pulcinella lo bastona ed entra, lui resta,
in questo
Scena IX.
Flaminio e Pulcinella.
Pulcinella dice che Vittoria Tha bastonato, e via ;
Flaminio batte
Scena X.
Vittoria e Flaminio.
In veder Flaminio gli dà uno schiaffo ed entra; lui
si lamenta; e via.
- 412 —
Scena XI.
Luzìo e Coviello.
Malinconici pel disamore d'Angela; in questo
Scena XII.
Angela e Detti.
In veder Luzio gli domanda perdono, perchè cre-
deva che lui l'avesse tradita; Luzio l'abbraccia, si
danno di nuovo la fede, Angela in casa, Luzio via
con Coviello.
Scena XIII.
Pulcinella solo.
Sopra il passato, in questo
Scena XIV.
Brunetta e Detto.
Fa scena amorosa con Pulcinella ; in questo
Scena XV.
Coviello e Detti.
Coviello fa suoi lazzi da dietro, poi si fa avanti e
contrasta con Pulcinella per Brunetta , in questo
— 413 —
Scena XVI.
Fiammetta e Detti.
Piglia gelosia di Pulcinella, attaccano rumore uo-
mini e donne e finiscono Tatto secondo.
ATTO TERZO
Scena I.
Flaminio e Pulcinella,
Per sincerarsi e pacificarsi con Vittoria, battono
Scena II.
Vittoria e Detti.
Si sincerano, si pacificano ; si danno la fede ed
entra Vittoria ; Flaminio via ; Pulcinella resta in questo
Scena III.
Cornelio e Detto.
Coviello e Pulcinella, dopo lazzi, si pacificano ;
dopo Coviello gli dice che se vuole aiutare il suo
padrone si vesta da negromante e dica che Luzio è
spiritato, che per levar gli spiriti vuol portare un sacco
— 414 —
di demonj sotto il letto della sposa, e con questa scusa
faranno entrare Flaminio nel sacco ; Pulcinella entra a
vestirsi, Coviello resta ; in questo
Scena IV.
Qiangurgolo, Pascariello e Coviello.
Ascoltano da Coviello che Luzio è spiritato e che
ha trovato un mago che vuol sanarlo ; loro dicono che
lo chiami, e Coviello chiama
Scena V.
Pulcinella e Detti.
Pulcinella da mago fa suoi lazzi, poi dice che per
sanare Luzio porterà un sacco di demonj sotto il letto
della sposa; loro si contentano e vanno a battere da
Scena VI.
littoria, Fiammetta e Detti.
Li Vecchi le danno ordine che quando verrà Co-
viello con un sacco che lo piglino e lo pongano sotto
il letto, perchè è mercanzia ; Coviello di nascosto av-
visa Vittoria che questa è sua invenzione per farle
avere Flaminio ; essa risponde ai Vecchi che si con-
tenta. Donne in casa. Vecchi via; restano Pulcinella
e Coviello; questi manda Pulcinella a pigliare un sacco;
Pulcinella via, Coviello resta ; in questo
— 415 —
Scena VII.
Flaminio e Cornelio.
Coviello gli conta il tutto, lui si contenta, in questo
Scena Vili.
Pulcinella e Detti.
Pulcinella porta il sacco , vi pongono dentro Fla-
minio, e battono
Scena IX.
Vittoria, Fiammetta e Detti.
Ricevono il sacco e via tutti, resta Coviello ; in
questo
Scena X.
Lazio e Coviello.
Ascolta il tutto di Flaminio, si rallegra , Coviello
batte da
Scena XI.
Angela, Brunetta e Detti.
Si sposa Angela con Luzio e Brunetta con Coviello;
m questo
— 416 —
Scena XII.
Pulcinella e Detti.
Domanda Fiammetta per moglie, Coviello dice che
già sta per lui, ed entrano tutti in casa di Vittoria.
Scena XIII.
Giangurgolo e l^ascariello.
Per vedere se il mago ha sanato Luzio ; battono
alla casa di Vittoria.
Scena ultima.
Tutti ; si possono fare diversi lazzi per finire 1' o-
pera ridicola, cioè, o con il lazzo uscendo uno ad uno
del La la la, o con quello d* allegrezza , allegrezza,
oppure della fenestra ; tutto questo è arbitrario ; poi
Coviello cerca perdono, si concludono i matrimoni e
finiscono V opera.
fine della commedia
LE DISGRAZIE DI PULCINELLA ^
COMMEDIA
PERSONAGGI
Dottore, padre
Isabella, lìalia
COVIELLO, servo
Luzio
Tartaglia, padre
Cinzia, figlia
Rosetta, serva
Orazio
Pulcinella, napoletano
Facchino
Servì
Ponno anche intervenire sei figlietti vestiti alla Pulcinella.
Città : Bologna
* 11 presente scenario fu riprodotto per sommi capi dal Caprin nel
suo libro sul Goldoni.
tKd "Regno delle ^JiCaschtre 27
ATTO PRIMO
Isabella, da casa, viene lamentandosi con Coviello
suo servo del poco affetto d'Orazio e della fede do-
natagli prima che andasse allo studio, e dopo un così
lungo tempo dopo la sua partenza, non aver potuto
avere lettera ; lui la consola dicendole che non dubiti
della fede di quello ; lei domandi al procaccia per
lettere ed entra ; Coviello va via.
Orazio, ritorno alla patria e l'amore d' Isabella , e
volerla domandare per isposa al padre ; in questo Dot-
tore, vede quello, si rallegra di sua venuta ; dopo sce-
na Orazio gli chiede la figlia per isposa ; lui dice
averla casata con un mercante di pietre pomici di Na-
poli ed avere avuto la lettera che in breve sarà per
isposare la figlia in Bologna , mostrandogli la lettera
di quello e lasciandosela cadere, parte ; lui doloroso
resta e voler rimproverare la sua donna ; batte.
Isabella, vedendo Orazio con allegrezza corre per
abbracciarlo; lui discostandosi da quella la rimprove-
ra ; lei per non poter parlare, s'affligge ; in questo
Coviello vede Orazio, corre con allegrezza ; lui tira
— 420 —
la spada per uccidersi ; Coviello chiede la causa del
suo cordoglio ; lui dice il tutto del matrimonio d'Isa-
bella; loro dicono non saperne niente : vedono un fo-
glio in terra ; Orazio conosce esser la lettera dello
sposo caduta al Dottore ; la pigliano, la leggono e ri-
dono delli spropositi; Coviello dice loro che lui di-
sturberà il tutto ; concerta Orazio da Pulcinella , gli
dà il modo di quello ; donna entra, Orazio e Coviello
vanno.
Pulcinella e Facchino. Pulcinella viene raccontan-
do all'altro molte cose. 11 Facchino con molte valigie
in collo posa le robbe e chiede esser pagato, lui gli
dice esser sposo e fa il mercante di pietre pomici ;
quello non volerne saper niente e voler essere pagato;
quello che quando piglia la dote lo pagherà ; sono in
contrasti ; in questo
Coviello, acquieta il rumore, sente esser quello Pul-
cinella lo sposo, manda via il facchino, e lui resta con
Pulcinella, quale gli chiede del Dottore ; Coviello con
lazzi lo manda in villa : Pulcinella prendesi le valigie
in collo, via ; Coviello resta, ed accenna all'amore di
Rosetta ; in questo
Luzio, sopra l'amore di Cinzia, chiede aiuto a Co-^
viello, quale gli dice anche lui essere amante della
serva : batte da
Rosetta, fa scena amorosa con Coviello , e dopa
scena chiama
Cinzia, fa scena d'amore con Luzio; Coviello dice
che se loro vogliono essere aiutati occorre che s'ado-
perino ancora con lui ad una sua invenzione ; quelli
— 421 -
promettono ; Coviello parla all'orecchio di Cinzia , e
poi le dice che vestendosi come le dice sia lesta
alla sua chiamata ; poi parla all' orecchio di Luzio e
poi concerta Rosetta da Dottore e che stiano pronte
al suo cenno ; in questo
Tartaglia, da strada, vede le donne con quelli, adi-
rato le sgrida : Luzio fa il lazzo del passeggio sino
alla porta con la riverenza alla muta, e via; Coviello
il simile con Rosetta, e via ; gli altri restano.
Tartaglia e Donne. Tartaglia dice alla figlia : che
cosa quelli volevano ? Lei dice : signor padre, quelli
volevano di me... S'imbroglia e col lazzo che lo dica
lei, più volte fatta la scena. Tartaglia le fa rientrare;
in questo
Orazio, accappottato, fa passata da bravo, e via ;
Tartaglia, sua paura, e resta : in questo
Coviello r istesso e parte; Tartaglia disperato e pau-
roso resta ; in questo
Dottore ; Tartaglia fa il lazzo del passeggio por-
tandolo per mano e la passata dell'accappottato; Dot-
tore se ne ride e lo stima per matto; lui gli racconta
ii tutto ; Dottore lo consiglia di casare la figlia ; lui
approva il suo parere, infine via ; Dottore ridendo re-
sta; in questo
Coviello, di fretta, dice essere venuto in piazza un
forestiero e domandava di lui ; Dottore dubita non
sia lo sposo di sua figlia; in questo
Orazio, da Pulcinella, con lazzi sciocchi dice d'an-
dar cercando Dottore e lui esser lo sposo di sua fi-
— 422 —
glia chiamato Pulcinella ; Dottore 1' abbraccia e con
allegrezza chiama
Isabella, intende esser Io sposo, lo guarda; Coviello
di dietro fa lazzi : le accenna esser Orazio; lei in-
teso si contenta , ed abbracciati entrano in casa , il
Dottore li segue ; Coviello resta , ed allegro per la
riuscita nell' invenzione, via.
Pulcinella, dice aver camminato dieci miglia con le
valigie in collo, ed essere stato burlato ; dice essergli
stata insegnata casa Dottore e voler chiamare . in
questo, di dentro, lazzi d'allegrezza dicendo : Sia il
ben venuto il signor Pulcinella : lui intende, si ralle-
gra credendo l'abbiano veduto venire, e tacendo al-
legrezza e con sollecitudine batte.
Dottore, di dentro, dice accomodare la tavola per
far desinare il signor Pulcinella ; lui si rallegra ; in
questo Dottore vien fuori e dice a quello, stimandolo
povero, che torni dopo pranzo, ed entra ; lui, attonito
resta, e di nuovo batte.
Dottore, il lazzo : è fatta la carità ; ed entra ; lui
s'adira e di nuovo batte.
Dottore, lo minaccia perchè disturba la cena ; lui
dice esser Pulcinella ; Dottore ridere dice esser matto,
perchè Pulcinella è in casa ; Pulcinella dice esser lui
ch'era venuto per la sposa ; Dottore lo chiama furbo;
sono a contrasti, e Dottore adirato chiama.
Orazio, da casa, da Pulcinella, fa lazzi, spropositi;
s'attaccano a pugni, pongono il Dottore in mezzo e
con lazzi e rumori finiscono l'atto primo.
— 423 —
ATTO SECONDO
Cinzia, da casa, chiedendo a Tartaglia, suo padre,
marito ; lui s'adira dicendo che attenda a star mode-
sta , che lui avendo buona occasione , la caserà : la
manda in casa, e lui adirato contro di quella, via.
Pulcinella, doloroso del passato pel Pulcinella falso;
in questo
Coviello finge di non conoscerlo : Pulcinella Io sa-
luta ; egli dice che dal giorno in cui lo mandò in villa
non ha potuto più vedere il Dottore; gli racconta es-
sere stato burlato per essergli stata insegnata la casa
di un altro Dottore con un Pulcinella falsario ; Co-
viello finge di non saper chi sia, ne che dica, e non
averlo mai veduto, e che quelli che hanno insegnato
la casa vedendo esser lui forestiero , hanno voluto
prendersi gusto con burlarlo , che il dottore suo pa-
drone non stava in quel loco , e gli mostra la casa,
dicendo essergli lui servo, e chiamarsi Meìi, e batte da
Rosetta, da Dottore, dopo lazzi, chiama
Cinzia, con stampelle da stroppiata, con empiastri,
tutta fasciata, fa lazzi con lo sposo ; lui non volerla ,
donna fingendo adirarsi entrano. Pulcinella con Co-
viello resta , e Coviello finge compatirlo, e che lui
aveva fatto molto male a venire a prendersi una sposa
che non sapeva senza prima informarsi del vero ; lo
consiglia che se ne torni ; lui di sì ; Coviello via; Pul-
cinella resta dicendo male del Dottore ; in questo
Tartaglia, vede Pulcinella , lo conosce , essendogli
— 424 —
stato amico, gli fa cerimonie, chiede che cosa era ve-
nuto a fare a Bologna ; lui gli dice il tutto dei ma-
trimonio e della sposa stroppiata e del Pulcinella fal-
sario ; Tartaglia dice che l'avevano burlato e che il
Dottore era un uomo di molto garbo e la figlia una
compita dama, la più bella della città ; s'offre far fede
di lui ch'era il vero Pulcinella, e lo vuol portar seco
per parlargli ; Pulcinella ringraziandolo lo prega aiu-
tarlo ; in questo
Dottore, sopra il successo dei due Pulcinella, vede
quello, si adira, lo chiama furbo ; Tartaglia fa fede
esser lui stato ingannato, che quello era il vero Pul-
cinella , mercante di pietre pomici , napoletano , suo
amico, e parte : Dottore gli chiede perdono di non
averlo conosciuto e con allegrezza chiama
Isabella, le dice essere stati ingannati, che questo
era il vero Pulcinella ; in questo
Coviello osserva e si dispera ; Dottore fa loro toc-
care la mano ; Coviello porge loro cose ridicole, ed
entra; loro rimangono facendo cerimonie e dicendo
che nella città vi sono molti belli umori che vogliono
pigliarsi gusto ; in questo
Orazio, da medico, dice a Pulcinella d'aver fatto
l'unguento del mal francese : lui si adira e bastona
quello, il quale fugge ; loro restano ; in questo
Coviello da mammana, dice ad Isabella quando
sarà il tempo del parto che la mandi a chiamare sol-
citamente ; Pulcinella s'adira, lo ributta ; lui parte, e
loro restano ; in questo fanno entrare Isabella in casa
e loro vanno via.
— 425 —
Coviello viene dicendo ad Orazio che non dubiti
e lasci fare a lui per imbrogliar tutti, gli parla all'o-
recchio e lo manda via ; e lui accenna prepararsi per
altre furberie e chiama
Rosetta, gli dice se ha sortito bene 1* invenzione;
Coviello accenna di fare il meglio, la concerta a porsi
un manto che quando sarà tempo che giunga esser la
moglie di Pulcinella ch'era venuta a posta da Napoli
per ritrovarlo e averla lasciata con sei figli e mezzo
(incinta) ; lei dice di sì, e lui la manda a vestirsi e
che sia lesta , e che quando lui darà il segno che
venga ; lei entra, lui resta, poi parte per la strada.
Dottore e Pulcinella allegri per aver fatti li scritti
ed ora non esserci più impedimento, e chiamano
Isabella, loro dicono che abbracci lo sposo, quella
ricusa, in questo
Coviello osserva e chiama con cenni
Rosetta, con manto ; Coviello, via ; lei rimprovera
Pulcinella d' ingrato per averla lasciata con sei figli
e mezzo in Napoli (1) e piena di debiti e volere an-
dare alla giustizia, e parte ; Dottore s' adira con Pul-
cinella per averlo ingannato ed esser sposo d'un'altra
moglie, e voler andare a farlo castigare dalla giusti-
zia ; fa entrare la figlia e lui adirato parte ; Pulci-
nella disperato resta ; in questo
Coviello, fìnge parlar dentro, che trattengano la fo-
( 1 ) Nota nel manoscritto : " Qui ponno uscire sei figlioli vestiti da
Pulcinella dicendo esser figli di Pulcinella, chiamandolo: Papà, papà,
e gridando : Pane, pane ".
— 426 —
Testiera e il Dottore, quali volevano con la Corte car-
cerare Pulcinella ; Pulcinella lo vede, lo chiama signor
Meìi ; Coviello nega constar chi sia, e chiamarsi: Te
r ho detto, ed esser lavandaio di panni sporchi , e
chiede chi sia lui. Pulcinella glie lo dice ; poi Co-
viello gli dice che si salvi perchè una donna napo-
letana, che dice essergli moglie, e il Dottore, l'hanno
querelato alla giustizia e che vanno per la città coi
birri per querelarlo , ed andrà in galera: Pulcinella
comprende e lo prega di aiutarlo. Coviello finge di
non saperne il modo, infine gli dice volerlo servire e
volerlo cacciare fuori la città dentro un sacco di panni
sporchi, che se per fortuna s' incontrano con la Corte
e chiesto che robba era nel sacco, lui dirà esser panni
sporchi e che poi essendo fuori le porte della città
anderà via ; lui si contenta e lo ringrazia ; Coviello
entra, e poi fuori.
Coviello, con sacco, pone Pulcinella dentro e lo
lega ; in questo
Orazio e Luzio ; Coviello dice il tutto di Pulci-
nella nel sacco e li concerta fingere la Corte ; loro
voler prima le donne ; in questo lui chiama
Isabella, la consegna ad Orazio e li manda via ;
Luzio resta con Coviello quale chiama
Cinzia, e gliela consegna, e li mando via; lui resta
aspettando i Servi di quelli per fingersi la Corte, se-
condo come sono rimasti appuntati ; in questo
Servi, fingono la Corte, dicono che vi sia nel sacco;
Coviello dice : panni sporchi ; Pulcinella di dentro,
fa il lazzo di panni sporchi ; loro lo sciolgono; Pul-
il
— 427 —
cinella scappa fuori e con paura fugge ; loro basto-
nando l' inseguono e finiscono l'atto secondo.
ATTO TERZO
Pulcinella, sopra le sue disgrazie ; in questo Co-
viello ; Pulcinella vedendolo lo chiama: Te l'ho detto;
Coviello dice di non conoscerlo, e che lui si chiama:
Tu lo sai, tei dirò, e con te l'ho detto. Fanno lazzi
sopra del nome ; Pulcinella gli narra le sue disgrazie;
Coviello che il Dottore era un mago stregone e che
la figlia era bruttissima e lui per incanti la fa parer
bella a tutti, ma aveva le gambe di legno, gli occhi
di vetro, la testa di cocozza, li denti di cera e che
sotto portava la bocca della montagna di Somma, lun-
ga sei miglia e fonda in quantità e che stia in cer-
vello, e che tutto quello che gli era successo erano
macchine del Dottore; Pulcinella lo ringrazia, dopo
Coviello va via, e lui rimane ; in questo
Dottore lo vede, lo rimprovera uomo di due mogli,
e Pulcinella lo chiama stregone, sono a contrasti, in
questo
Tartaglia li riprende che sempre facevano lite: Pul-
cinella gli dice che il Dottore era uno stregone e tutte
le sue disgrazie erano sue finzioni e che la figlia era
bruttissima, con le gambe di legno, li occhi di vetro,
la capa di cocozza e li denti di cera, come sotto ha
la bocca del monte Somma larga sei miglia e fonda
in quantità. 11 Dottore adirato vuole ucciderlo; Pul-
- 428 —
cinella fugge ; Taitaglia placa il Dottore e tutti e due
risolvono di pigliarsi loro l'uno con V altro le loro fi-
glie e chiamano ; in questo
Coviello, dice d'avere incontrato Pulcinella con cin-
que o sei persone armate , che portavano via le loro
figlie ; loro dicono volerlo inseguire , ma aver paura
della gente d'armi e pregano Coviello, quale dice che
se loro vogliono pagare un bravo , li accompagnerà ;
loro promettono e Coviello chiama
Orazio, da bravo, tira la spada facendo bravure ;
loro fuggono per la paura ; Coviello li trattiene, che
non temano che quello fosse così furioso. Orazio pro-
mette aiutarli ed esce con loro ; Coviello resta e dice
volere imbrogliare tutti ; in questo
Pulcinella disperato, vede Coviello, lo chiama: Tu
lo sai, tei dirò ; gli dice avere ingiuriato il Dottore,
quale, vedendosi scoverto voleva ucciderlo, e lui era
fuggito ; Coviello gli dice che stia sulla sua, perchè
il Dottore con due bravi lo vanno cercando per uc-
ciderlo : Pulcinella lo prega a salvarlo ; Coviello gli
dice di volerlo difendere ed armarsi con un altro suo
amico ed accompagnarlo. Pulcinella lo ringrazia e
vanno ad armarsi.
Tartaglia, Dottore ed Orazio, armati alla ridicola,
cercano Pulcinella; in questo
Luzio, Coviello e Pulcinella, armati, si vedono con
quelli ; fanno lazzi di passeggi ; Orazio dice a Luzio:
Mi conosci chi sono ? Luzio di no ; Orazio dice: Io
sono Orlando : Orazio risponde : Io sono Rinaldo; ed
abbracciati partono col lazzo : O signor parente. Gli
— 429 —
altri restano ; Coviello dice a Tartaglia : Io sono Man-
ricardo, e Tartaglia : Io sono Ferrali ; abbracciati fan-
no il simile ; Pulcinella e il Dottore restano ; Pulci-
nella dice : E tu chi sei ? Il Dottore dice : Io sono
Angelica, e Pulcinella risponde: Io sono Marfisa biz-
zarra : ed abbracciati partono facendo il simile.
Isabella e Cinzia, non hanno veduto più i loro a-
morosi, temono di qualche inconveniente . in questo
Luzio, Orazio e Coviello, travestiti, ridono del pas-
sato: in questo s'avvedono delle donne, si danno a cono-
scere, le narrano le burle fatte a Pulcinella, e ridendo
tutti via nel casino per prepararsi a nuovi imbrogli.
Pulcinella, armato alla ridicola, dice aver per^o i
suoi compagni ; in questo
I Vecchi lo vedono solo, cacciano la mano per uc-
ciderlo ; lui grida, in questo
Orazio da giudice, Luzio da scrivano, Coviello da
caporale, gridano loro di fermarsi; li arrestano; li Vec-
chi d'aver perso le figlie e averle Pulcinella rubate;
quelli che le figlie sono in potere della Corte e di
volere il loro consenso per poterle casare a gusto loro;
i Vecchi di no ; loro che andranno carcerati; i Vec-
chi per paura acconsentono ; loro chiamano
Isabella dice voler Orazio.
Cinzia, domandata, lei voler Luzio.
Rosetta, lei voler Coviello. I giovani si levano le
barbe, scoprono il tutto, e con matrimoni finiscono la
commedia.
FINE DELLA COMMEDIA
NERONE IMPERATORE
TRAGICOMMEDIA
PERSONAGGI
Nerone, imperatore
Ottavia, moglie
Agrippina, madre
Seneca, maestro
DO'iTORE / . ,. .
rr^ ( consiglieri
Tartaglia ^ ^
Ottone, cavaliere
POPPEA, moglie
TlRIDATE, re d'Armenia
Sergio Galea
Giustizia Divina
coviello / ...
r^ i cortigiani
Pulcinella i ^
Paggi
Soldati
ROBBE
Trono in iscena - Trombe e tamburi - Più lettere - Letto, stile, scato-
lino di veleno - Tumolo - Bacile d'argento - Due corone, due scet-
tri - Conca dove svenare Seneca - Catena per schiavo - Due tra-
vestiti Pulcinella e Coviello - Sangue - Due sedie d'appoggio.
Città : ^oma
ATTO PRIMO
Scena I. perone, Ottone, Seneca, Consiglieri, Corte
(Trono in camera)
Nerone sopra l' incendio di Roma ; ordina la sua
rinnovazione nello spazio di sol trenta giorni e che
fosse riedificata con più superbi palcizzi e sontuosi e-
difizi ; tratta di deporre la madre dal trono e la sua
incoronazione ; chiede consiglio a tutti, ognuno dà suo
parere ; a chi approva promette premj, chi contradice
li minaccia ; in questo
Scena II. Paggio con lettere su d*un bacile.
Lui legge che Portogallo chiede per mancanza del
Governo il nuovo dominante ; lui assegnerà ad Ot-
tone la carica e che parta prima del nuovo giorno ;
e via tutti.
!Kel Regno delle ^^aschere. 28
— 434 -
Scena III.
(In Città)
Poppea, Tamor di Nerone, in questo.
Scena IV. "Dottore e 'tartaglia.
La riveriscono ; lei li chiede che si dice in Corte
e se sarà regina ; loro di sì e danno notizia della par-
tenza d*Ottone suo marito con la carica di governa-
tore di Portogallo ; lei , ciò inteso , si rallegra della
partenza di suo meu'ito per aver campo di maggior-
mente godersi col suo amato Nerone, e con allegrezza
entra ; tutti la seguono mormorando della sua sfaccia
taggine.
Scena V. Ottavia.
(Camera)
Sopra la sua sventura e l'odio di Nerone suo sposo
e la sfacciataggine di Poppea lasciva ; in questo
Scena VI. Pulcinella e detta.
Pulcinella dice come Ottone vuol riverire la Sua
Maestà ; lei intende Ottone, dice : che vada a rive-
rire la maestà di sua moglie, e senza accettare la vi-
sita, via. Pulcinella rimane; in questo
- 435 —
Scena VII. Ottone e Pulcinella.
Ottone chiede a Pulcinella se fece Y imbasciata ;
lui dice che la regina gli disse : che vada a riverire
la maestà di sua moglie, e senz'altro dire s'era par-
tita, e via Pulcinella. Lui intende la cifra e discorre
che Nerone cerca obbligarlo con cariche e dividerlo
dalla moglie ; giura vendetta ; in questo
Scena Vili. Nerone e detto.
Nerone vede non esser partito , lo minaccia di
morte ; Ottone via, e lui rimane : in questo
Scena IX. Ottavia e Nerone.
Ottavia vede il marito, lo prega di non essere sì
rigoroso verso di lei in disprezzarla ; annoiato della
5ua vista, le volge le spalle e lasciandola parte ; in
questo
Scena X. JJgrippina ed Ottavia.
Agrippina vede turbata Ottavia, le chiede la causa;
quella, che Nerone suo figlio, per l'amore della dru-
da, la disprezza e la disdegna ; congiurano unitamente
la morte di questa e partono.
- 436 —
Scena XI. Pulcinella e Coviello.
Avere inteso il tutto della congiura della morte di
Poppea e volerlo riferire a Nerone, e partono.
Scena XII. Poppea coricata e Nerone,
f Camera con Ietto)
Nerone V amoreggia , fanno scena amorosa a loro
gusto ; in questo
Scena XIII. Coviello e "Pulcinella e detti.
Coviello e Pulcinella scoprono come Agrippina sua
madre ha consigliato ad Ottavia sua moglie la morte
di Poppea. Nerone ciò inteso ordina a Pulcinella e
Coviello portino la madre alle Quinquatrie, luogo di
sue delizie, e dentro una barca forata, le dieno nel-
l'acqua, sommergendola, la morte. Loro per l* effetto
impostoli da Nerone, partono, e tutti via.
Scena XIV. Seneca.
(Camera)
Sopra la tirannide del discepolo e la ruina di Ro-
ma ; in questo
437 —
Scena XV. Nerone, T>oitore, Tartaglia, Corte e detto.
Nerone dice a Seneca come sua moglie Ottavia
era discoperta impudica e voleva fosse castigata; Se-
neca dice essere calunnie ed accingersi per la difesa
di quella; Nerone dice che intende fare il ripudio,
minaccia Seneca quale mormorando parte; loro re-
stano: in questo
Scena XVI. Coviello e detti.
Coviello dice a Nerone come un marinaro, mentre
Agrippina stava sommergendosi nell'onde , opponen-
dosi agli ordini suoi, ha liberata la madre ; Nerone
adirato gli dà uno stile ed ordina che uccida il ma-
rinaio, e morto quello, vadano a svenar la madre, e
parte ; Corte lo siegue ; Coviello e Pulcinella sono
contenti perchè uccidendo quella saranno premiati, e
viano.
Scena XVII. Serìeca.
Sopra la sfacciataggine di Nerone, e sua crudel-
tade ; in questo
Scena XVIII. T)ottore, "tartaglia e detto.
Dottore e Tartaglia, d'ordine regio, lo fanno pri-
gioniero, e partono.
- 438 —
Scena XIX. Agrippina.
(Camerone)
Assisa in una sedia, esagerando la crudeltà del fi-
glio; in questo
Scena XX. Coviello e Pulcinella.
Entrano per ucciderla, fanno i loro timori; in questo
Scena XXI. tNsrone e detti.
Nerone anima Coviello e Pulcinella ad ucciderla;
loro le danno con lo stile e Tuccidono.
ATTO SECONDO
(Camerone con tumolo d'Agrippina; poi Trono)
Scena I. Ottavia.
Piangendo la morte d'Agrippina ; in questo
Scena II. Toppea.
Esce parlando sopra V amore di Nerone ; Ottavia
Tascolta, la chiama; Poppea disprezzandola, non le dà
orecchio, chiamandola ripudiata d'un Cesare; Ottavia
vedendosi abbiettata e schernita, la chiama adultera,.
— 439 —
impudica e le dà uno schiaffo ; lei grida chiamando
soccorso ; in questo
Scena III. Nerone e della.
Nerone placa Poppea, chiede del suo rammarico ;
Poppea cerca vendetta contro la moglie per averla
chiamata adultera e averle dato uno schiaffo; Nerone
promette vendicarla, l'acquieta, e chiama
Scena IV. Dollore, TarlagUa e detti.
Nerone ordina sia sprigionato Seneca e lo si con-
duca in quel luogo ; fa salire Poppea sul trono ; in
questo
Scena V. Seneca accompagnato dal T)ollore e da
'^arlaglia e detti.
Nerone voler ripudiare per adulterio Ottavia; fa ve-
nire dei testimoni che si sentono.
Scena VI.
Coviello, da suonatore, accusa Ottavia, e parte. Se-
neca dice, se v* è altro ; in questo
Scena VII.
Pulcinella , da cieco , fa l' istesso, e via ; Seneca
dice : che venga un altro ; in questo
- 440 —
Scena Vili.
Un testimonio, fa l'istesso, e via; Seneca asserisce
essere quelli falsi, difende Ottavia, e parte. Nerone
fa venire le insegne imperiali per coronare Poppea e
ordina che vada esule Ottavia dal regno ; in questo
Scena IX. Paggio e detti.
Dice essere venuto Tiridate d*Ai*menia ; Nerone
che entri ; in questo
Scena X. Tiridate e detti.
Tiridate s* inginocchia avanti al Trono, chiede di
essere incoronato ; Nerone fa venire un'altra corona e
scettro e incorona Tiridate ; offre la sua protezione.
Tiridate via, Poppea facendo segni d* allegrezza lo
segue, mentre Tiridate mostra segni d'amore verso di
quella.
Scena XI. Coviello e "Pulcinella,
(Città)
Avere ucciso Agrippina e sperarne premi da Ne-
rone, e via.
Scena XII. Ottavia sola.
Sopra la sua partenza dolorosa, e via.
— 441 —
Scena XIII. "Poppea.
(Camera)
Si rallegra della sua incoronazione.
Scena XIV. "Virìdate e detta.
Tiridate le si scopre amante ; in questo
Scena XV. Alerone e detti.
Nerone avere osservato, minaccia Tiridate, e chiama
Scena XVI. Consiglieri e detti.
Nerone ordina che Tiridate sia posto quale schiavo
in catena e con dialogo in tre finiscono l'atto.
ATTO TERZO
(Camerone con conca di rame)
Scena I.
Seneca svenato, suo lamento e muore.
Scena II.
(Camerone con Trono)
Tiridate con catena al piede viene pregando Ne-
rone per la sua libertà ; lui non ammettendo discolpe
— 442 -
lo caccia dal suo cospetto : licenzia tutti, si siede e
s'addorme ; in questo
Scena III.
Giustizia, lo minaccia, e via ; lui si sveglia e pre-
cipita dal trono ; in questo
Scena IV.
Dottore, gli dà una lettera ; lui legge la ribellione
di alcuni regni ; s* imperversa e giura farne vendetta;
Scena V.
Tartaglia l' istesso, con altra lettera di ribellione e
parte ; Nerone adirato risolve d'andar di persona a
far strage dei sudditi ; in questo
Scena VI.
Poppea, esorta Nerone alla fuga dicendogli come
Sergio Galba ed Ottavia sua consorte, fuori le porte
di Roma, con grossissimo esercito, tentano imposses-
szu'si del dominio : lui sdegnato le dà un calcio , e
via ; lei resta, e con un discorso sorpresa dal veleno
muore a pie del Trono.
Scena VII.
Pulcinella e Coviello, disperati, come la città era
piena di nemici, e Nerone spensierato dimora ; ve-
— 443 —
dono quella, la stimano ubbriaca , fanno molti lazzi»
infine, la vedono morta, la portano via.
Scena Vili.
^^Camero con Trono)
Nerone, suo pensiero dando in furore per non po-
ter fare vendetta ; in questo, di dentro trombe, tam-
buri, gridi : Mora Nerone , lui più imperversa ; in
questo
Scena IX.
Coviello con stile al fianco gli dice salvarsi, che il
palazzo era dei nemici pieno e cercano di sorpren-
derlo ed ucciderlo ; lui vede lo stile , gli dice che
l'uccida ; quello ricusa, e dando lo stile e il veleno
in suo potere, via ; Nerone esagerando dice volersi
avvelenare, infine, si risolve, butta il veleno e s'ucci-
de ; in questo
Scena X.
Galba, Ottavia, Tiridate, soldati, sopra li loro trionfi,
ringraziano soldati, vedono morto Nerone ed ordinano
la sepoltura, danno la libertà a Tiridate, pongono Ot-
tavia nel dominio e finiscono l'opera.
e.
DAGLI SCENARI DI D. PLACIDO ADRIANI
Le Metamorfosi di Pulcinella.
Del p. d. Placido Adriani si sa questo soltanto :
che nacque a Lucca nella seconda metà del secolo XVII
ed entrato nell' ordine dei pp. Benedettini dimorò a
lungo nelle provincie napoletane , precisamente nelle
Calabrie: poi fu a Perugia, indi a Montecassino. Si
ignora dove sia morto e in quale anno. Da un suo
grosso manoscritto posseduto dalla Biblioteca Comu-
nale di Perugia (man. A. 20) ed intitolato : Selva
oppure Sihaldone di concetti comici ecc. con la data :
MDCCXXXVIII , si rileva che amò appassionata-
mente l'arte della recitazione all'improvviso, col recitare
lui stesso le peuti del Pulcinella parlando assai bene
il dialetto napoletano ; che nel 1 7 1 9, fu a Castrovillari,
per rappresentare un San Francesco di Paola il quale
" riuscì assai bene "; che nel 1732, ad Assisi, co-
— 446 -
mandato da una dama, compose una commedia : La
Pietra Incantata e nella quale recitarono i figli della
predetta dama; che nel 1730 e 1731 recitò, ali* im-
provviso, a Perugia; che negli anni seguenti (1735
1 736 e 1737) recitò a Montecassino, all' Albaneta,
nella stagione di carnevale. Nello stesso manoscritto
leggiamo che nel 1 737 scrisse: " U Omo al punto
" d'Onore d' Jlmore e d'Amicizia, e dopo d'averne
" ritrovato la Historia in Tito Livio, fu concluso re-
" citarsi all'impronto; così venne da Napoli il signor
" Cristoforo Rossi bravo ingegnere e pittore ed ec-
" cellentissimo in rappresentare la parte di Pulcinella
" con un bravo Coviello ed altri recitanti in musica
" per gli intermezzi ". La commedia: Le Metamor-
fosi di Pulcinella fu recitata nel carnevale del 1 730
nel monastero di San Pietro a Perugia, sostenendone
i monaci le parti e lo stesso suo autore quella di
Pulcinella. Altri tempi, altri monaci!
Di codesti Scenari, quello che porta il titolo : Non
può essere, ovvero. La donna può ciò che vuole, è stato
<la noi pubblicato in: Rivista d* Italia, di Roma, fa-
scicolo d' agosto 1911. (Un Commediografo dimen- |
ticatoj.
I
LE METAMORFOSI DI PULCINELLA
Commedia in tre atti
PERSONAGGI
Dottore, padre di
Clelia e Rosaura
Rosetta, loro serva
Orazio
Luzio
Pulcinella
coviello
ATTO PRIMO
Scena I. "Pulcinella solo
(Città)
Pulcinella esce cantando, poi fa scena sopra l'A-
more della vajassa del Dottore, e la grande gelosia
con cui tiene la serva e le figlie. Sua scena contro
l'Amore, poi esce.
Scena II. Covìello e T>etto
Pulcinella cerca aiuto a Coviello ; lui pure cerca
aiuto e dice come il suo padrone è innamorato d'una
delle figlie del Dottore; in questo
Scena III. Orazio, Luzio e T>etti
Innamorati dicono essere invaghiti delle figlie del
Dottore e avere scritto una lettera , ne sapere come
fare a fargliela ricapitsu^e in mano. Buffi loro lazzi
muti. Orazio scorge Coviello; lui dice se regaleranno
Nel Regno delle Maschere 29
— 450 -
dieci ducati a Pulcinella lui farà subito. Loro pro-
mettono denaro; e via Innamorati. Coviello concerta
Pulcinella da moretto statua a uso di tavolino; Pul-
cinella, suoi lazzi; poi via tutti per vestirsi.
Scena IV. Dottore solo
(Camera)
Sua scena contro il sesso femminile e potià dire
le seguenti parole notare a pag. 83 (1) ove nella
tirata si spiega la scena, acciò Pulcinella si vesta da
moretto; poi chiama
Scena V. Clelia, %osaura. Rosetta e Detto.
Dottore esorta le donne allo studio delle belle
lettere; Rosetta cercare belli fatti e non parole. Dot-
tore la sgrida, poi si sente bussare, Rosetta va a ve-
dere, torna e dice essere un falegname. Dottore fa
ritirare le donne.
(1) Difatti nello Zibaldone, a pag. 83, si legge la tirata contro
il sesso debole e di cui diamo soltanto la prima parte: " La donna
z'è il seppo dell'incostanza, z'è il specche dell'infedeltà, z'è la maistra
delie frodi, z' è l'amiga delli inganni, z' è l' inventris della simulazion.
Ora è il dir ben colò che non ghè mal che non vegni della femina,
e queir alter disse che zè mejo abitar int' una tierra deserta che star
con una femina stizzosa, e un alter al dicea che la femina zè più
dura della morte e per questo sta scritt , che de mill' omine se ne
triova uno bon, ma fra tutte le femine non ghe n* è una; e per quest se
dise, che tutte le malizie del mondo son corte a rispett della malizia de la
donna. E che si sappia el ver sta scritt , che l'è miglior la iniquità
pell'omm che una bona azzione d'una femina ecc. ecc.
- 451 -
Scena VI. Pulcinella Coviello e T>etto,
Pulcinella da statua di nero con tavolozza in mano
per posare ; Pulcinella viene portato da due. Coviello
da maestro artefice dice essergli giunto questo bel
tavolino air ultima moda , dice al Dottore che lo
compri. Loro Icizzi del prezzo; si accordano ; Dottore
piglia un fiasco, mette il vino nel bicchiere e mentre
discorrono Pulcinella beve, si fa due volte il lazzo ;
Dottore fa meraviglie; Coviello che sarà come l'acqua-
vite che va in fumo; poi beve Coviello, e va via lui
coi facchini. Dottore chiama.
Scena VII. Clelia, Rosaura, Tiosetta e Detti.
Dottore fa vedere compra da lui fatta , poi entra.
Pulcinella, subito lazzi con Rosetta; le donne gridano;
esce Dottore ; che il tavolino si muove ; Dottore le
tratta da sciocche, e via; Pulcinella, suoi lazzi; loro
grida; Dottore come sopra ; la terza volta Dottore
s'accorge, bastona Pulcinella, e via tutti.
Scena Vili. Orazio, Luzio.
(Città)
Ansiosi cosa abbia fatto Coviello con lettera; loro
lusinghe sia ricapitata nelle mani delle loro donne ;
speranza d'esito felice; in questo
— 452 —
Scena IX. Coviello e Detti.
Coviello ansioso per sapere l'esito dell' invenzione
fatta da Pulcinella. Innamorati vedono Coviello , di-
mandano cosa abbia fatto. Coviello racconta la tra-
sformazione di Pulcinella in moretto e che le cose
sono andate bene essendo un' invenzione assai vaga;
in questo
Scena X. Pulcinella e Detti
Pulcinella, suoi lazzi. Coviello cosa abbia fatto della
lettera; Pulcinella che odori le spalle; poi dice non
volerne saper altro. Innamorati lo pregano; qui ci va
il lazzo della Pellegrina ; Pulcinella promette aiuto ;
Innamorati via, Coviello concerta Pulcinella da Chia-
ravalle di Milano, e lui pure da Astrologo; loro lazzi
e via a vestirsi.
Scena XI. T>ottore solo
(Camera)
Uscendo finge cadere, recita la tirata dello scap-
puccio; poi chiama Rosetta.
Scena XII. Rosetta, poi Clelia, Rosaura, Detto
Dottore dice alla serva che chiami le ragazze; le
loda, la virtù esser necessaria nelle donne ; si sente
— 453 —
bussare. Rosetta va a vedere, dice essere due astro-
loghi; Dottore, che entrino.
Scena XIII. Pulcinella e Coviello da astrologhi, T>etti
Pulcinella con mappamondo illuminato e compasso,
Coviello con gran libraccio ; tutti siedono attorno al
tavolino. Dottore, sua tirata d' astrologia; Pulcinella,
suoi lazzi con Rosetta; poi considerano il globo ce-
leste; Pulcinella fissa in cima al compasso la lettera;
poi dice che quelle stelle significano un' arietta in
musica; Dottore, che la dica. Pulcinella canta : Pi-
gliatella sta cartella — Su, o figlioletta — Nò me ffa
chiù pantecà — e col compasso tocca verso Clelia
quale ci guarda dopo la seconda replica; se ne ac-
corge il Dottore; rumore, cadono sedie, cade il Dot-
tore, e finisce Tatto.
ATTO SECONDO
Scena I. T>ottore, Clelia, ^osaura, Rosetta
(Camera)
Dottore si lagna che per causa loro succedono tante
baronate. Donne dicono che le mariti. Dottore dice
che per via d'astrologia ha compreso che i due figli
d'un gran re delle Indie devono venire a sposarle,
attendano allo studio, e via. Donne si lagnano che
devono rivoltare libri, quando vorrebbero abbracciare
amanti, ed entrano.
- 454 —
Scena II. Pulcinella solo.
(Città)
Fa una tirata, poi non volere saper altro ; in questo
Scena III. Luzìo, Orazio, Coviello, T^etto.
Pulcinella dice che li andava cercando ; Coviello
che occorre che si ripiglino la lettera non volendo
fare il procaccia amoroso; loro lo pregano; lui ricusa;
loro che gli daranno 20 scudi. Pulcinella promette;
loro si raccomandano a Coviello, e via; Coviello con-
certa da statua Pulcinella, questi fa lazzi che non cam-
minerà , ma girerà ; Coviello che il tutto è finzione.
Pulcinella e Coviello via a vestirsi.
Scena IV. Dottore, poi Rosetta
(Camera)
Dottore dice ora essere innamorato di Rosetta ed
averla chiamata per iscoprirle il suo amore. Rosetta,
suoi lazzi di ciò che le bisogni; Dottore, anche lui ha
dei bisogni; Rosetta, che li spieghi , Dottore, essere
di lei innamorato; sua scena amorosa. Rosetta, a parte
lo burla; fìnge di corrispondere ; Dottore dice che
subito accasate le figliuole vuole sposarla, e farla pa-
drona di casa ; Rosetta , che è povera donnicciuola,
non esser degna. Dottore, che lui vuole così. (Si dia
— 455 —
tempo a Pulcinella di vestirsi). Si bussa; Rosetta corre,
torna, dice essere uno scultore; Dottore, che entri.
Scena V. Covìello da scultore, T^ulcinella da Statua,
T>etti.
Coviello con facchini che portano Pulcinella da
statua sopra piedistallo. Coviello con cerimonie, poi,
a tempo, fa muovere la statua, ora le braccia, ora le
gambe, ora il capo, dicendo essere tutta arte mate-
matica. Dottore domanda il prezzo; si accordano; Dot-
tore paga; Coviello via. Dottore dice a Rosetta, fac-
cia vedere la statua alle donne, e via.
Scena VI. Clelia, Rosauna, T>ettL
Rosetta dice avere il Dottore comprato una statua;
loro che non se ne curano; vogliamo robba viva e di
carne. Pulcinella scende e si pone in mezzo; paura.
Le donne hanno paura. Dottore viene , domanda la
causa; loro che la statua si muove; lui saperlo bene
che loro non sanno maneggiare bene il negozio. Muove
il braccio a Pulcinella, sale sul piedistallo ; Dottore
via. Donne tornano a discorrere che vogliono marito;
Pulcinella si pone in mezzo, tutto come sopra. Dot-
tore entra; Dottore si pone ai piedi della base; Donne
gridano; Pulcinella cerca di fuggire ; Dottore lo ba-
stona e lui via.
- 456 -
Scena VII. Luzh, Orazio
(Città)
Ansiosi sopra Fesito della lettera e delFinvenzione;
in questo
Scena Vili. Coviello, T>ettL
Orazio domanda a Coviello cosa si sia fatto; Co-
viello gli dà speranza di felice esito sperando che
l'invenzione della statua sia riuscita; in questo
Scena IX. Pulcinella, Detti.
Coviello dimanda dell'invenzione; Pulcinella che se
da statua non si fosse fatto corriere , il Dottore l' a-
vrebbe storpiato. Innamorati in disperazione. Coviello
loro fa animo; loro pregano Coviello. Lui che vadano,
che lascino fare a lui. Loro via. Coviello concerta
Pulcinella da bamboccio detto Cicco bimbo, figlio di
Porziella lavandcu*a del Dottore e lui si fìngerà la-
vandara. Pulcinella ricusa; Coviello gli farà un piatto
di maccheroni; Pulcinella farà tutto. Via a vestirsi.
Scena X. Donne.
(Camera;
Le donne assettate al tavolino con libri in mano;
Rosetta che spolvera libri. Si rammaricano di non
I
- 457 —
aver marito; Rosetta, che si saria pigliata la statua,
Donne non volere statua, ma giovane di carne e ner-
boruto; in questo
Scena XI. T)ottore e Detti.
Dottore se hanno veduto bene la lezione; loro di
sì ; si bussa ; Rosetta va e torna ; dice essere la la-
vandara.
Scema XII. Pulcinella, Coviello, Detti.
Pulcinella da bamboccio , Coviello da lavandara.
Coviello prega Dottore tenere in casa Cicco bimbo
che deve andare a lavare i panni ; Dottore che lo
lasci. Coviello via. Pulcinella , suoi lazzi , di cacca,
di pappa, Dottore voler prendere una ricotta o altro.
Pulcinella fa lazzi; donne gridano; Dottore entra con
ricotta, le sgrida, poi imbocca Pulcinella. Rosetta va
a prendere biscottini, e torna; Donne imboccano Pul-
cinella e finiscono l'atto.
ATTO TERZO
Scena 1.
(Città)
Pulcinella, Scena d'Amore.
— 458 -
Scena II. Orazio, Lazio, Coviello e Detto
Coviello dimanda a Pulcinella come sia riuscita
Tinvenzione; Pulcinella, al solito, male; Coviello dice
che ha saputo che il Dottore aspetta una mummia da
levante e concerta Pulcinella da mummia. Sua scena;
poi gli promettono Rosetta per moglie e via tutti.
Scena III.
(Camera)
Dottore solo, fa scena di voler maritare le figlie e
per poter poi sposare Rosetta, poi dice che gli hanno
scritto che un amico gli voleva mandare una mummia
per un mercante levantino , e lui volerla comprare ;
poi chiama
Scena IV. Donne e T>etto
Dottore dice se hanno studiato bene la lezione ;
loro gettano in terra i libri e dicono voler marito.
Dottore le conforta e dice che fra breve verrà chi le
consolerà, frattanto siedano e studino. Loro pigliano
li libri e studiano. Dottore, suoi lazzi muti amorosi
con Rosetta. Si batte ; Rosetta va e torna dicendo
essere un mercante levantino; Dottore, che venga, e
via donne.
Scena V. Coviello, Pulcinella, Dottore
Coviello da mercante levantino; due vastasi facchini
con la cassa e Pulcinella da mummia. Loro patto;
— 459 —
Dottore paga, e Coviello via. Dottore al tavolino; sua
tirata d'anatomia, come a f. 11 (1). Pulcinella, suoi
lazzi muti. Poi Dottore chiama le donne, raccomanda
lo studio, e via.
Scena VI. Donne e Pulcinella.
Donne dicono d'essere tediate di tale seccaggine;
volere mcirito, si raccomandano a Rosetta. Lei che il
padre non fa entrare in casa nemmeno un gatto ma-^
Schio. Pulcinella si pone in mezzo, loro paura, stril-
lano. Viene il Dottore che le tratta da spiritate per
tre volte, poi scopre, rumori, cadute. Pulcinella via.
(1) Ne diamo il principio. " Contro uno che vuole ammazzare u»
uomo. Ti voi ammazzare un uomo, che la Mader Natura tanto s' af-
fatigò in formarlo, e che il sippia ver, non vedi che lo ritondò nella
testa, l'imbridò nell'occhio, l'incavò nell* orecchie, lo breve nel volto,
lo squadrò nella front, lo zergevizè inti la tempie, l'aguzzò nel nas,
lo dispartì nelle gambe, il consolidò su i pie, l'incurvò nelle spalle,
l'organizzò nei membri, l' articulò nelle giunture , e mò el voli am-
mazzar, cancaraz !
" Un uomo, al qual ghe sta da cuor per viscer, polmon per re-
spirar, zervel per intender, senzo per penzar , fantasia per imaginar ,
intellett per discorrer, memoria per ricordar , volontà per deliberar ,
nervi per sosteners, muscoli per muovers, vertebre per piegar, arterie
per vivificar, vene f>er remear, sangue p>er ementar, diaframma per ri-
der, fià per significar, ventricolo per concacer , stomag per appetir,
denti per mastegar, esofagh per inghiottir, pori per trasportar , polsi
per dibatter, milza per camminar, fiel per consumar, vessiga per ri-
purgar e mi el voi ammautzar, cospettonaz I ".
— 460 -
Scena VII. Innamorati, Coviello.
(Città)
Sperano sia riuscito il loro disegno , Coviello lo
spera stante Pulcinella è innamorato di Rosetta, in
questo
Scena Vili. Pulcinella e Detti
Tutti allegri gli sono attorno , cercano ciò che ha
fatto, lui dice nulla. Coviello voler fare altra inven-
zione. Pulcinella non volerne più sapere. Loro pre-
gano, Pulcinella che vuol lui fare a suo modo con
nuova ritrovata, loro pregano glielo dica, lui non vo-
lerlo dire, ma fare, e via tutti.
Scena IX. Dottore solo.
(Camera)
Non sapere di dove gli vengono tante trappole, e
furberie, e però aver risoluto per guardar la casa voler
pigliare un bravo ed averlo detto ad un suo pau"ente
perchè mandi un buono sgherro acciò guardi bene la
casa. Chiama.
Scena X. Donne e Detto
Si raccomanda stare attente alla casa, perchè vede
di molti rigiri di furbi e voler procurare un uomo
— 461 —
bravo che invigili ed averlo detto ad un suo parente.
Donne avere necessario un uomo, in questo si sente
bussare; Rossetta va e torna dicendo essere un Bravo ;.
Dottore che entri.
Scena XI. Pulcinella e detti
Pulcinella da Bravo dice aver saputo che lui cerca
un uomo bravo per guaidare la casa ; lui essere a
proposito e fcuà la sentinella : fanno il prezzo; poi il
Dottore, che si ponga in guardia e faccia vedere la sua
bravura. Pulcinella schermisce con le mani, prima verso
il Dottore, poi verso Rosetta e le donne alle quali
getta la lettera in seno. Donne via. Pulcinella, sua
scena di bravura; poi tornano le donne con lettere di
risposta in seno ; Pulcinella si schermisce con loro e
piglia le loro lettere ; poi dice volersi provvedere d'arma
da fuoco, e subito tornerà ; via. Dottore che atten-
dano alla casa, e via. Donne dicono come due belli
giovani sono innamorati di loro e le hanno scritto una
lettera ed avere risposto la strettezza in cui sono te-
nute, la pazzia del padre di volerle accasare con due
principi figli d'un re delle Indie ; che essi cerchino
il modo d' indurre il padre che ora sono pronte di
volersi sposare.
Scena XII. Innamorati, Covici lo.
(Città)
Essere oramai stracchi di tante invenzioni senza
— 462 —
avere avuto esito favorevole. Coviello non sapere più
-che trovare ; in questo
Scena XIII. "Pulcinella, Detti.
Pulcinella nel suo solito, allegro, cantando, mostra
la lettera; cerca li 20 scudi e volere Rosetta. Loro
promettono la donna, lo pagano. Lui dà la lettera,
loro la leggono e Coviello che bisogna concertare
Pulcinella da re, lui da ambasciadore, loro da prin-
cipi indiani e così burlare il Dottore; loro allegri
tutti ; vanno a vestirsi.
Scena XIV. Donne sole.
(Camera)
Ansiose per sapere che abbiano fatto li loro amanti;
Rosetta che lei è innamorata del Bravo , e le pare
averlo veduto sotto altra figura e che lui forse è quello
che altra volta è venuto sotto altro vestito. Donne
sono dello stesso parere e che facilmente ritornerà.
Rosetta lo spera per averle il predetto individuo fatto
qualche cenno amoroso. Donne come farà essendosi
accorte che il Dottore è innamorato di lei ; Rosetta
fìngerà di corrispondere, non volere un vecchio ricco
ma piuttosto un giovane povero ; in questo
Scena XV. Dottore, Dette.
Donne, quando le darà marito; Dottore, che spera
^i farlo in breve e che il Bravo gli ha detto che a
— 463 -
momenti si aspettava un re grande con due principi
suoi figliuoli e spera che sia quello da lui previsto
con l'astrologia. Donne, che non può essere. Dottore
che se non Sca"à quello ne troverà altro. Si batte. Ro-
setta va, torna, dice: essere un Principe ambascia-
tore. Dottore, che entri.
Scena XVI. Covìello e Detti.
Coviello da cunbasciatore chinese. Loro lazzi di ce-
rimonie ; Coviello dice essere lui principe di Sango-
riccio ambasciatore del re Tiritappiataccù il quale è
arrivato con due principi suoi figli , Tuno si chiama
Gnagnao, l'altro principe Barabao , e vogliono spo-
Scire le sue due figlie. Dottore dice non essere de-
gna la casa sua di ricevere tanti onori. Coviello, così
vuole il re Tiritappiataccù, il quale già sente che
viene. Suoni di trombe, tamburi.
Scena XVII.
Pulcinella da re indiano; Innamorati da principi.
Pulcinella portato in se Jia. Loro atti di cerimonia
chinese ; Pulcinella dice che per via d'astrologia nel
segno del Capricorno ha saputo che lui tiene due figlie
belle e virtuose, e lui le vuole per sue figlie sposan-
dole a principe Gnagnao e al princiqe Barabao. Dot-
tore, suoi lazzi di umile ossequio; poi prende le figlie.
Pulcinella dà Clelia ad Orazio e Rosaura a Luzio.
Dottore, sue riverenze. Pulcinella dice che il prin-
— 464 —
cipe Gnagnao farà li gnagnao'ini e il principe Barabao
li barabaorini. Poi farà accostare Rosetta, scherza con
lei ; Dottore, sue smanie, dice la serva non essere
degna di stare vicino al re. Pulcinella, che la lasci
stare piacendogli assai. Dottore, sue smanie mute. Pul-
cinella la vuole per moglie avendo fatto a Giove voto
per salvarsi da una tempesta di sposare una fantesca.
Dottore, sue smanie mute ; Pulcinella sposa Rosetta ;
poi scopre tutto. Dottore si quieta e tutti allegri gri-
dano: evviva l'invenzione di Pulcinella!
FINE DELLA COMMEDIA
LAZZI
{Dal manoscritto Adriani)
1 . Il lazzo del piangere e ridere è che 1* uno va
gabbando l'altro come allorché il Vecchio piange per
la partenza del figlio e ride per aver campo aperto
senza gelosia di goder l'innamorata. Lo stesso fa il figlio.
2. 11 lazzo di frutti e baci è che Coviello finge la
voce della Donna amata da Pulcinella. Questi do-
manda i frutti d'amore, Coviello di dietro lo batte.
Pulcinella dice non esser quelli i frutti d'amore; Co-
viello di dietro gli dà schiaffetti.
3. Lazzi impasticciati sono che Coviello impara
(insegna) a Pulcinella a parlare amoroso e di dietro
li dice mille spropositi ; Pulcinella li replica ; Coviello
da dietro per affogarlo, e Pulcinella fa lo stesso alla
Donna.
4. 11 lazzo della mosca è che Pulcinella essendo
stato lasciato a guardia della casa del padrone, e do-
i^Cel Regno delle éXaschere 30
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mandato se in casa vi è nessuno gli dice non esservi
una mosca: il padrone vi trova gente e rinfaccia Pul-
cinella, e lui dice : Non ci hai trovato mosche , ma
uomini.
5. Il lazzo di polso e orina è che Pulcinella tocca
il piede e dice: è doglia di capo, poi si fa portare
Torina, e la beve, e la sbruffa in faccia a Coviello,
poi per fare la ricetta fa calare Coviello a quattro
piedi con il preterito alfudienza, fa cacciare la mano
di dietro a Coviello e vi fa tenere il calamaro , e
quando piglia inchiostro gli mette la penna nel pre-
terito dicendo : Galeno, io ti ringrazio , ego medicus.
6. Il lazzo del taci, è che il padrone parlando Pul-
cinella Tinterrompe, e il padrone per tre volte dice:
taci; poi chiama Pulcinella, e questi gli rende la pariglia.
7. Il lazzo di Pulcinella nato prima di suo padre
è che Pulcinella dice a Coviello esser nato prima di
suo padre; Coviello lo nega essendo impossibile. Pul-
cinella dice che camminando suo padre cadde e poco
mancò che una carrozza non li passasse sopra, onde
uno disse: Mo' sii nato, onde ciò essendo successo
Tanno passato, lui è nato prima di suo padre.
8. Il lazzo della Pellegrina è quando li Amanti
pregando Pulcinella o Coviello s' inginocchiano, e Pul-
cinella o Coviello parlando ad uno ad uno volta il
preterito alFaltro.
9. Il lazzo delForina fresca è che Pulcinella dice:
tutte le orine esser calde ; la servetta dice che fresca
s'intende quando è fatto allora, cioè, di fresco, e lo
sincera.
I
INDICE
p.f.
PREFAZIONE V
PARTE PRIMA
Capitolo Primo — La Commedia dell'arte e la sua storia. 1
CAPITOLO Secondo La Forma della Commedia del-
l' Arte 44
Capitolo Terzo — Il contenuto della Commedia dell'Arte. 76
CAPITOLO Quarto — I Personaggi della Commedia del-
l'Arte 101
Capitolo Quinto — Il Costume dei Personaggi della Com-
media dell'Arte . 159
CAPITOLO SESTO — L'Arte nella Commedia dell'Arte . 169
Capitolo Settimo — Il pubblico della Commedia dell'Arte. 207
PARTE SECONDA
Capitolo Primo — I tempi di Carlo Goldoni . . 245
Capitolo SECONEX) — Carlo Goldoni e la Commedia del-
l'Arte 256
Capitolo Terzo — La Nuova Commedia . . .295
Capitolo Quarto — L' originalità della Commedia goldo-
diana .......... 350
Capitolo Quinto — Un risveglio della Commedia del-
l'Arte 360
APPENDICE
A). Dagli Scenari di Basilio Loccatello romano . . ,381
B). Dagli Scenari della Raccolta Sersale della Biblioteca Na-
zionale di Napoli . . . , . . . 40 1
C). Dagli Scenari del p. D. Placido Adriani . . 445
D). Lazzi 465
ERRATA-CORRIGE
pag. 138 - Un. 15
dal commediografo è adi da! commediografo è azi
o atti. o azzi , forma volgare di
adi o atti.
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466
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PLEASE DO NOT REMOVE
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