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Full text of "Nel regno delle maschere, dalla commedia dell'arte a Carlo Goldoni;"

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NEL  REGNO  DELLE  MASCHERE 


DELLO  STESSO  AUTORE 


Epistolario,  compreso  quello  amoroso,  d*  Ugo  Fo- 
scolo e  Quirina  >Iagiotti-]Mocenni.  —  Firenze ,  Sa- 
lani,  1888.   Un  volume.  (Seconda  edizione,  1904). 

!MÌSterÌ  di  Polizia.  —  Storia  Italiana  degli  ultimi  tempi,  rica- 
vata dalle  carte  d'un  Archivio  segreto  di  Stato.  —  Firenze,  Sa- 
lani,   1890.  Un  volume. 

Un  amore  di  Giuseppe  Mazzini.  —  Milano,  Kantorowicz, 
1895.  Un  volume.    (Esaurito). 

Cospirazioni   Romane.  —  Roma,  Voghera,  1899.  Un  volume. 

Fascino  di  Donna.  —  Romanzo  moderno.  —  Torino ,  Stre- 
glio,   1900.  Un  volume. 

Fra  le  quinte  della  Storia.  —  Torino,  fratelli  Bocca,  1903. 

Un  volume. 

Roma  che  ride.  —  Settant'anni  di  satira  (1800-1870). —  Roma- 
Torino,  Roux  e  Viarengo,    1904.  Un  volume. 

Vittorio  Alfieri  e  la  Contessa  d* Albany.  —  Roma-To- 
rino, Roux  e  Viarengo,    1904,  Un  volume. 

Giuseppe  Mazzini  e  Giuditta  Sidoli.  Torino,  Sten,  1909. 


EMILIO  DEL  CERRO 


(N.   NICEFORO) 


vO 


Nel^regno 
delle  maschere 

DALLA  COMMEDIA  DELL'ARTE 
A  CARLO  GOLDONI 


CON    PREFAZIONE 


DI 


BENEDETTO  CROCE 


NAPOLI 

FRANCESCO    PERRELLA 

Sodeti  Aaosima  Editti» 

1914 


Proprietà    Letteraria 


NAPOLI-TIR  S,  MORANO-S.  SEBASTIANO  48  R  P 


PREFAZIONE 


La  commedia  dell*  arte  è  stata  oggetto  di  molto  la- 
vorio fantastico.  La  vita  girovaga  di  quei  comici  ;  // 
loro  spargersi  fuori  d* Italia,  in  Francia,  in  Ispagna^ 
in  Inghilterra,  in  Germania  ;  le  loro  avventure  in- 
fiorate  di  tanti  aneddoti  ;  e  ,  soprattutto ,  /'  attitudine 
ad  essi  attribuita  dell* improvvisare  come  in  una  spe- 
cie di  furor  comicus  ;  hanno  circondato  la  comme- 
dia delVarte  del  nimbo  di  non  so  qual  mistero  o  pro- 
digio ;  e  se  ne  parla  volentieri  come  di  un  mirabile  e 
singolare  prodotto  dell*  ingegno  italiano,  che  brillò  di 
luce  vivissima  per  circa  due  secoli  e  si  spense  poi  per 
sempre.  Taluno  è  giunto  perfino  ad  attribuire  a  quei 
comici  erranti  il  sacro  deposito  della  nazionalità  ita- 
liana ,  che  solo  per  loro  mezzo  si  sarebbe  affermata, 
sarcastica  protesta  contro  lo  straniero  e  gli  oppressori 
di  ogni  sorta.  Si  tratta,  insomma,  di  una  leggenda, 
la  cui  origine  non  è  difficile  spiegare  ;  e  che  ha  il 
suo  analogo  nel  caso  della  "  poesia  popolare  ",  o,  più 
prossimo    ancora,    in    quello   dei   poeti    improvvisatori. 


—  VI  — 

Olirà  gloria  che  rifulse  nei  secoli  di  decadenza  e  che 
ora,  per  buona  fortuna,  è  al  tutto  finita. 

Quando  io  lessi,  or  sono  quattro  anni,  in  manoscritto 
il  presente  libro  del  Del  Cerro,  non  solo  mi  parve  de- 
gno di  pubblicazione  perchè  l'autore  aveva  pel  primo 
procurato  di  mettere  a  frutto  i  molti  documenti  sulla 
Commedia  dell*  arte  venuti  fuori  nei  decennii  seguenti 
al  lavoro  di  Adolfo  Cartoli;  ma  precipuamente  mi 
piacque  perchè  vidi  che  il  Del  Cerro,  con  fermo  buon 
senso  e  con  sana  critica  d'  arte  ,  intendeva  a  dissipa- 
re la  "  leggenda  "  della  commedia  dell'  arte.  Que- 
sta commedia  fu  improvvisata  per  modo  di  dire  :  sotto 
l'apparente  improvvisazione  (come,  in  altri  modi,  acca- 
deva  sotto  quella  dei  poeti  improvvisanti)  e  era  la 
preparazione  e  il  meccanismo  ;  sotto  V  apparente  ric' 
chezza  ,  la  povertà  ;  e  rimase  sempre  o  quasi  sem- 
pre in  un  basso  livello  spirituale,  con  V  intrigo  delle 
sue  azioni,  i  caratteri-caricature,  le  facezie  grossolane, 
i  lazzi  triviali.  E  se  piacque  principibus  viris,  ammessa 
e  festeggiata  nelle  corti,  codesto  non  tanto  fu  sua  lode, 
quanto  piuttosto  effetto  del  persistere  di  compiacenze 
e  costumanze  ancora  rozze  e  medievali  nelle  classi 
sociali  elevate  dei  secoli  decimosesto  e  decimosettimo. 
E  quando  i  costumi  s'ingentilirono,  la  commedia  del- 
l'arte decadde  o  fu  costretta  a  trasformarsi.  Il  Del 
Cerro  ha  ben  visto  che,  col  Goldoni,  entra  nella  com- 


—  VII  — 

media  un  contenuto  etico,  indizio  di  arte  pili  alta,  e 
che  questo  per  Vappunto  costituisce  Vessenziale  della 
riforma  goldoniana. 

Con  ciò  non  si  vuol  dire  che  la  commedia  dell  arte 
non  ritenga  alcun  pregio.  Si  vuol  semplicemente  otte- 
nere che  sia  conosciuta  meglio,  nella  sua  schietta  realtà, 
allontanando  le  fantasticherie.  Pregio  della  commedia 
dell'arte  fu  l'elemento  popolaresco  e  una  certa  libertà 
di  argomenti  e  di  movimenti,  ch'essa  potè  serbare  con- 
tro r  irrigidimento  della  commedia  regolare  ;  e,  segna- 
tamente, Vaver  creato  e  disciplinato  ottime  compagnie 
di  attori  drammatici,  e  perfezionato  la  tecnica  teatrale: 
e  per  quest'ultima  parte  veramente  /'  Italia  concorse, 
prima  e  più  efficacemente  di  ogni  altro  popolo,  alla 
creazione  del  teatro  moderno. 

tNiapoli,   dicembre    Ì9Ì4. 

Benedetto  Croce 


CAPITOLO  PRIMO 

La  Commedia  dell'  Arte  e  la  sua  Storia. 


Tutti  sanno  che  tra  la  seconda  metà  del  secolo  XVI 
e  i  primi  anni  del  secolo  XVIII  fiorì  in  Italia  la  com- 
media detta  dell'  arte,  o  a  braccia,  o  a  soggetto,  o  all'im- 
provviso, poiché  essa  ebbe  tutte  codeste  denominazioni  ; 
tutti  sanno  che  essa,  dopo  un  lungo  ed  anche  glorioso 
regno,  fu  detronizzata  da  Carlo  Goldoni  con  la  sua 
riforma  del  teatro  comico  italiano  ;  però  non  tutti  co- 
noscono le  sue  vicende,  la  sua  natura,  i  suoi  pregi,  le 
sue  deficienze.  Da  molti,  anzi,  ed  anche  non  indotti,  se 
ne  parla  così,  ad  orecchio.  Le  stesse  nostre  storie  let- 
terarie non  se  ne  sono  occupate  che  di  sfuggita  onde 
constatarne  la  morte  per  anemia ,  per  esaurimento ,  o 
per  recitcìre  sulla  sua  tomba  un  frettoloso  :  riposa  in 
pace  !  Però  non  sempre  i  morti  scendono  intieramente 
nel  sepolcro  ;  spesso  lasciano  di  se,  nell'animo  dei  vivi, 
qualche  cosa  che  a  suo  tempo  fruttifica  :  ed  infatti , 
nella  seconda  metà  del  secolo  scorso,  sopratutto  in 
Francia,  dove  la  commedia  dell'arte,  cosa  tutta  italiana» 
ebbe  vita  gloriosa,  la  povera  morta  cominciò  a  iai  pai- 

V^tl  Regno  delle  Maschere  1 


—  2  — 

lare  di  se,  dando  origine  ad  una  letteratura  piuttosto 
copiosa.  Codesto  movimento,  sebbene  con  minore  ef- 
ficacia, fu  seguito  in  Italia.  Adolfo  Bartoli  dapprima, 
altri  dopo  —  lo  Scherillo  e  il  Croce  segnatamente  — 
hanno  pubblicato  studi  o  monografie  assai  importanti 
sul  proposito  :  ma  il  movimento  è  appena  iniziato,  anche 
perchè  pochi,  assai  pochi,  presso  di  noi,  hanno  avuto 
la  cura  di  prendere  in  esame  il  materiale  che  tuttavia 
giace  inedito  nelle  biblioteche  sia  pubbliche  che  pri- 
vate. Laonde  se  noi  conosciamo  discretamente  l'ossa- 
tura della  commedia  dell'arte,  non  che  parecchie  delle 
trasformazioni  di  forma  e  di  contenuto  a  cui  andò  sog- 
getta lungo  la  sua  brillante  esistenza;  se  possediamo 
un  sufficiente  numero  di  particolari  biografici  intorno 
ai  maggiori  interpreti  di  siffatto  spettacolo  teatrale  ;  se 
intorno  a  parecchi  di  codesti  interpreti  abbiamo  la  storia 
del  loro  soggiorno  in  Francia ,  dove  la  commedia  a 
soggetto,  recitata  da  italiani,  ebbe  vita  lunga  ed  ono- 
rata, non  abbiamo  ancora  un'opera  che  esamini  insieme 
all'ossatura  o  impalcatura  del  genere  teatrale  di  cui  ci 
occupiamo  non  che  alle  sue  origini,  al  suo  fiorire  e 
al  suo  decadimento,  anche  il  suo  spirito,  la  sua  intima 
essenza  in  rapporto  alla  società  in  cui  la  commedia 
dell'arte  nacque,  fiorì  e  si  spense.  Anche  nei  suoi  rap- 
porti con  Carlo  Goldoni,  e  precisamente  con  la  riforma 
dal  grande  veneziano  intrapresa  e  felicemente  condotta 
a  termine,  ci  sembra  che  esista  una  lacuna.  Non  vo- 
gliamo dire  con  ciò  che  non  sieno  state  indagate,  con 
una  certa  ampiezza  di  sviluppo,  le  cause  diverse  che 
provocarono  la  riforma  goldoniana,  poiché  non  si  può 


—   :? 


ponderatamente  discorrere  dei  rapporti  della  commedia 
dell'arte  o  a  soggetto  con  la  riforma  del  Goldoni  senza 
che  non  si  tenga  conto  delle  cause  che  provocarono  la 
riforma  stessa  :  no  ;  non  ci  si  attribuisca  siffatto  concetto, 
perchè  non  corrisponderebbe  al  vero.  Vogliamo  soltanto 
dire  che  gli  scrittori  che  di  codeste  cause  si  sono  occu- 
pati, non  hanno  sempre  colpito  nel  segno  :  tutti,  o  quasi 
tutti,  si  sono  fatti  sedurre  dal  genio  del  grande  comme- 
diografo veneziano  e  la  riforma  della  commedia  da  lui 
com.piuta  hanno  giudicato  come  un  atto  spontaneo'  e 
semplice  della  volontà  dello  scrittore.  Se  Carlo  Gol- 
doni non  avesse  voluto,  di  proposito,  intraprendere  la 
riforma  del  teatro  comico  italiano,  continuando  a  bat- 
tere la  vecchia  strada,  come,  per  altro,  aveva  fatto  nei 
primi  anni  della  sua  carriera ,  la  commedia  dell'  arte 
non  sarebbe  morta.  Ora,  questo,  a  noi  sembra  errore. 
Generalmente  si  ritiene  che  l'arte,  nelle  sue  diverse 
manifestazioni,  non  sia  che  un  prodotto  volontario  del- 
l'uomo, il  quale,  se  accompagnato  dal  genio,  le  imprime 
il  carattere  d' una  vera  creazione  :  ma  non  è  precisa- 
mente così.  L'arte,  nelle  sue  svariate  manifestazioni,  è 
frutto  d'ambiente,  il  quale,  alla  sua  volta,  è  l'elabora- 
zione di  ambienti  precedenti,  di  tradizioni,  di  tentativi 
ora  riusciti ,  tal'  altra  rimasti  allo  stato  d' un  semplice 
conato,  le  cui  origini,  come  un  tempo  quelle  del  Nilo, 
spesso  sono  oscure,  avvolte  nel  mistero.  L' individuo, 
certamente ,  in  questa  lunga  e  faticosa  elaborazione 
delle  forme  dell'  arte ,  ha  la  sua  parte  più  o  meno 
grande  a  seconda  ch'egli  si  chiami  Tespi  o  Aristofane, 
Nevio  o  Plauto,  Cimabue  o  Giotto,   Brunetto  Latini  o 


—  4  — 

Dante  Alighieri,  lacopone  da  Todi  o  Francesco  Pe- 
trcirca,  Durante,  l'autore  del  Romanzo  della  ^osa  in 
italiano,  o  Ludovico  Ariosto,  Marlowe  o  Shakspeare; 
ma  nessuno  di  costoro ,  nemmeno  il  più  grande ,  può 
sottrarsi  ai  suoi  tempi.  Dante  Alighieri,  malgrado 
che  le  due  o  tre  ultime  generazioni  d' italiani  l'abbiano 
voluto  strappare  all'  Italia  del  secolo  XIV  per  farne  il 
precursore,  anzi  l' interprete  dell'  Italia  moderna,  resta 
sempre  un  uomo  medievale ,  cioè ,  il  figlio  dei  suoi 
tempi.  La  riforma  del  teatro  comico  italiano  nel  secolo 
XVIII  s' impersonò  in  Cailo  Goldoni  ;  ma  anche  senza 
di  quest'ultimo  e  della  sua  audacia  riformatrice,  la  com- 
media dell'arte  sarebbe  morta  ;  sarebbe  morta,  proba- 
bilmente, qualche  dozzina  d'anni  più  tardi,  ma  sarebbe 
morta,  o  avrebbe  trasportato  i  suoi  lari  sulle  scene  po- 
polari, fra  le  plebi,  poiché  oramai  essa  non  rappresen- 
tava che  la  vis  comica  plebea;  vis  comica  che  prima 
dell'apparizione  del  Goldoni  sulla  scena,  e  per  parec- 
chie generazioni,  era  stata  quella  delle  altre  classi  so- 
ciali. Imperocché,  codeste  classi  —  classi  dirigenti  —  sin 
dalla  fine  del  secolo  XVII,  e  più  propriamente  sin  dal 
principio  del  secolo  successivo,  sotto  l'influenza  d'un 
gusto  più  raffinato ,  di  abitudini  meno  grossolane ,  di 
sentimenti  più  delicati ,  avevano,  in  Italia,  subito  una 
trasformazione  :  il  loro  stato  d'animo  era  sensibilmente 
diverso  da  quello  delle  generazioni  precedenti ,  e  un 
gentiluomo  dei  primi  anni  del  secolo  XVIII  si  sarebbe 
vergognato  di  ridere  di  quel  riso  grasso,  rumoroso,  come 
s'era  fatto  sin' allora,  dinanzi  alle  trivialità  condite  di 
sudicerie  o  alle  scipitezze  o  alle  insulsaggini  d'un  Ar- 


—  5  — 

lecchino  o  d*un  Brighella,  d'un  Pantalone  o  d'un  Dot- 
tore Graziano ,  d*  uno  Scaramuccia  o  d'  un  Capitano 
Spavento  della  commedia  dell'arte  :  trivialità,  sconcezze, 
insulsaggini  e  scipitezze  che  pur  avevano  fatto  ridere 
sovrani  come  Enrico  III  ed  Enrico  IV,  Luigi  XIII  e 
Luigi  XIV,  regine  come  Caterina  e  Maria  dei  Me- 
dici, principi  come  i  Gonzaga  di  Mantova,  i  D'Este 
di  Ferrara,  i  Della  Rovere  d'Urbino,  uomini  di  Stato 
come  il  Colbert,  cardinali  come  l'Aldobrandini  (il  ni- 
pote di  Clemente  VIII)  e  il  Mazzarino,  letterati  come 
il  Tasso,  il  Chiabrera,  il  Marino,  artisti  come  Salvator 
Rosa  e  il  Bernini . . . 

Che  cosa  era  la  commedia  dell'  arte  ? 

Era  una  commedia  di  cui  l' autore  non  scriveva  il 
dialogo;  scriveva  soltanto  lo  scenario  o  soggetto:  l'at- 
tore ne  improvvisava  il  resto.  Scrisse  Adolfo  Bartoli  : 
"  Si  chiamò  commedia  improvvisa  o  dell'  arte  quella 
della  quale  non  è  disteso  il  dialogo,  ma  semplicemente 
è  fatta  la  divisione  delle  scene  ed  accennato  ciò  che 
i  personaggi  debbono  dire  (1).  "  E  il  Baschet:  "  C'était 
une  comédie  improvisée ,  développée ,  détaillée  en 
quelque  sorte  par  inspiration  et  selon  tous  les  caprices 
de  r  esprit ,  sur  un  sujet  donne ,  sur  un  canevas  pré  - 
pare  (2).  " 


(1)  Scenari  Inedili  della  Comm.  dell'  Arte.  —  Firenze,  Sansoni, 
1880.   Introd.   p.   IX. 

(2)  Les  Comédiens  Italiens  à  la  Cour  de  France  sous  Charles 
IX,  Henri  III.  Henri  IV  et  Louis  XIII.  —  Paris.  Plon  et  C.  1882, 
p.   10-11. 


—  6  — 

Quanta  parte  la  commedia  dell'arte  lasciasse  all'  im- 
provvisazione, e  quindi  all'ispirazione  particolare  del- 
l'artista, vedremo  più  innanzi.  Ora  ci  domandiamo: 
quando  nacque  la  commedia  dell'  arte  ? 

Segnare  l'anno  preciso  della  sua  nascita,  quasi  che 
i  generi  letterari  avessero  il  loro  Stato  Civile,  e  quindi 
facile  riscontrarne  la  venuta  al  mondo  con  la  produ- 
zione dell'atto  relativo,  sarebbe  quasi  impossibile.  Le 
manifestazioni  letterarie  o  artistiche  del  pensiero  umano 
non  sono  che  lente  e  spesso  faticose  elaborazioni  con 
un  continuo  passaggio  da  una  forma  all'altra,  che  non 
di  rado  non  differisce  dalla  precedente  che  in  particolari 
secondari,  quasi  impercettibili.  Risalire  dalla  forma  com- 
pletamente evoluta  ai  suoi  primi  embrioni,  per  quanto 
r  indagine  sia  largamente  praticata,  pure  non  è  cosa  sem- 
pre facile  o  sicura  :  quando  s' è,  o  si  crede  d'essere  alle 
origini,  ecco  che  mediante  un'ulteriore  indagine,  risa- 
lendo sempre  più  in  alto,  troviamo  ancora  traccie,  più 
o  meno  appariscenti,  di  quel  genere  letterario  o  artistico. 
Ma  per  non  troppo  divagare  dal  nostro  tema,  ecco  che 
le  origini  della  commedia  dell'  arte  o  a  soggetto,  so- 
rella minore  di  quella  scritta  o  letteraria,  si  fanno  ri- 
salire sino  al  Medio  Evo,  non  perchè  scenari  di  com- 
medie improvvise  o  a  braccia  di  quel  tempo  siano  per- 
venuti sino  a  noi,  oppure,  perchè  storici  o  cronisti  fac- 
ciano menzione  che  durante  quell'evo,  o  in  qualche  suo 
deriodo,  si  fosse  rappresentato  qualcosa  di  simile  ;  ma  sib- 
bene  perchè  le  origini  o  le  prime  manifestazioni  dello 
spettacolo  a  braccia  si  è  creduto  di  riscontrare  nelle  farse 


—  7  — 

o  dialoghi  recitati,  come  scrive  il  Bartoli  (1),  dai  più 
volgari  istrioni  mezzi  commedianti  e  mezzi  saltimban- 
chi. Altri  volle  dcire  alla  commedia  dell'arte  origini 
più  antiche,  e  trovò  che  essa  discendeva  in  linea  retta 
dalle  famose  farse  della  Campania,  chiamate  appunto 
da  Ateìla,  il  paese  d'origine,  Fabulae  Atellanae  (2)y 
le  cui  quattro  maschere  trovano  un  riscontro  in  alcune 
di  quelle  della  commedia  improvvisa,  e  che  scomparse 
dalla  scena  aristocratica,  restano  ancora  a  far  ridere  il 
volgo  dagli  umili  teatri  popolari.  Opinione  codesta  forse 
non  troppo  ardita,  e  che  troverebbe  la  sua  documen- 

(1)  Op.  cit.  p.  IX-X. 

(2)  Baschet;  op.  cit.  p.  11-12.  —  Il  Bernardin  scrive:  "  Plusieurs 
siècles  avant  l'ère  Christiane  il  se  jouait  en  Campanie,  dans  la  petite 
ville  d'Atella,  des  comédies  populaires . . .  C'étaient  Manducus  et  Lamia, 
l'ogre  et  la  goule,  et  surtout,  Dossennus,  le  sage  bossu,  le  maigre  Maccus, 
làche,  voluptueux  et  gourmand,  et  Pappus,  le  veillard  amoureux  et  avare, 
toujours  dupé.  On  s*  amusait  à  les  revétir  d' un  costume  et  à  les  piacer 
dans  une  situalion  absolument  contraire  a  leur  caractère  et  à  leurs  goùts, 
montrant,  par  exemple,  le  poltron  Maccus  en  demoiselle  à  marier.  Les 
Atellanes  peìgnaient  plus  volentier  les  moeurs  des  petits  gens:  bou- 
langers,  pécheurs,  gladiateurs ....  Le  dialogue  fut  long  temps  improvisé 
par  les  comédiens  sur  un  canevas  trace  d'avance.  "  La  Comédìe  ItC' 
henne  et  il  '77héa(re  de  la  Foire  ;  Paris,  Revue  Bleue,  1 902.  SuU'as- 
serta  discendenza  della  commedia  dell'  arte  dalle  antiche  Atellane  scrisse 
ampiamente  ed  acutamente  Benedetto  Croce  nel  suo  scritto  :  Pulcinella 
e  le  relazioni  della  Commedia  dell'arte  con  la  commedia  popolare 
romana,  stampato  in:  Arch.  St.  per  le  Prov.  Napol.  Voi.  XXIII,  e 
di  recente  ristampato  in  :  Saggi  sulla  letteratura  italiana  del  Seicento  ; 
Bari,  Laterza  e  figli,  1910;  p.  195.  Con  lo  scritto  predetto  il  Croce 
mette  molta  acqua  nel  vino  di  coloro  che  vorrebbero  vedere  nella  com- 
media a  soggetto  la  diretta  e  legittima  discendente  delle  Atellane.  Con- 


tazione  o  base  che  dir  si  voglia  nell'elemento  etnico; 
poiché  la  Campania  hi  ed  è  sempre  la  patria  del  riso 
pieno,  irresistibile,  comunicativo,  del  motto  salace,  della 
frase  sboccata,  del  gesto  più  espressivo,  più  eloquente 
della  stessa  parola  ;  doti  tutte  che  costituiscono  la  base 
dello  spettacolo  comico  di  cui  ci  occupiamo.  Anche 
oggi  il  rappresentante  più  diretto  delle  Fahulae  JlteU 
lanae  è  certamente  Pulcinella,  la  maschera  più  briosa 
di  tutte  le  maschere  italiane  e  più  rassomigliante  a  quel 
Maccus  che  nelle  città  e  nelle  borgate  sorgenti  in- 
torno al  Vesuvio  rallegrò  i  contemporanei  di  Plauto,  di 
Orazio,  di  Cicerone  e  di  Virgilio.  S' aggiunga  che  i 


vinto  propugnatore  della  predetta  discendenza  si  mostrò  in  Italia  il  De  Amicis 
(Vincenzo)  nel  suo  studio:  U Imitazione  latina  nella  Commedia  Ita- 
liana del  XVI  secolo,  stampato,  nel  1871,  a  Pisa,  e  poi  con  aggiunte 
e  correzioni  ristampato  dal  Sansoni  a  Firenze  nel  1897.  Ma  di  recente 
un  tedesco  ha  veduto  più  lontano  dei  De  Amicis.  11  Reich  nella  sua  opera: 
©er  Mimus,  ec.  ec.  (Voi  I,  Theorie  des  ^JìiCimus;  Berlin,  Widmann, 
1 903)  scrive  che  nel  mondo  letterario  greco  accanto  alla  poesia  idealistica, 
al  dramma  classico  (Eschilo,  Sofocle,  Euripide)  fiorì  una  specie  di  let- 
teratura di  secondo  ordine,  realistica,  il  mimo,  cioè,  il  dramma  mimico. 
Il  dramma  classico  si  svolse  poscia  con  Seneca  a  Roma ,  con  Marlow^e  e 
Shakspeare  in  Inghilterra,  con  Corneille  e  Racine  in  Francia ,  con  Schiller 
e  Goethe  in  Germania.  Il  dramma  realistico  esordisce  col  mimo;  dalla  Gre- 
cia passa  a  Roma,  a  Costantinopoli  ;  nella  seconda  metà  del  secolo  XV, 
in  Costantinopoli  divenuta  Stambul,  diventa  Karagoz,  una  maschera  turca. 
Da  Roma  va  in  giro  per  l' Europa  medievale  coi  buffoni ,  giullari  e 
s'introduce  nei  Misteri;  infine,  crea  la  Commedia  dell'Arte,  forse  per 
via  di  Costantinopoli,  o  meglio  di  Stambul.  Il  Croce,  giustamente,  trova 
tutto  ciò  parecchio  ardito  e  senza  documentazione.  Ved.  Croce  in: 
Saggi  ec.  ce.  p.,  261  e  segg. 


—  9  — 

primi  saggi  di  commedia  popolare  italiana  si  riscon- 
trano appunto  in  certe  farse  che  furono  scritte  a  Napoli 
nella  seconda  metà  del  secolo  XV  e  sul  principio  del 
secolo  seguente,  dette  Cavajole,  perchè  tra  i  perso- 
naggi figuravano  persone  di  Cava,  un  paese  che  godeva 
fama  d' essere  abitato  da  gente  rozza,  credenzona,  stu- 
pida. E  in  queste  brevi  composizioni  comiche  che  per 
la  prima  volta  s' incontra  un  vero  spunto  di  vis  comica 
nonché  la  riproduzione  della  vita  fatta  in  senso  realista. 
Sin' allora  lo  spettacolo  dominante,  anzi  il  solo  spet- 
tacolo teatrale  signoreggiante  la  scena,  era  stata  la 
Rappresentazione  religiosa  succeduta  alla  Laude  dei 
Disciplinati  delle  verdi  vallate  umbre  e  nella  quale 
r  illustre  Alessandro  D'Ancona  trova  il  primo  em- 
brione dello  spettacolo  teatrale  italiano  (  1  )  :  era  —  la 
Rappresentazione  religiosa  o  cM^istero  —  un'  esposizione 
cronologica  dei  fatti  del  Vecchio  e  del  Nuovo  Testa- 
mento più  o  meno  inframmezzata  delle  leggende  che 
intorno  ai  medesimi  fatti  aveva  creato  la  fantasia  del 
popolo  o  di  qualche  frate  meno  incolto  dei  suoi  com- 
pagni dichiostro.  Non  passioni  umane,  non  analisi 
d' anime,  non  caratteri,  ma  tipi  foggiati  dalla  tradizione 
e  quasi  mai  modificati  dal  poeta.  1  personaggi  di  quei 
lavori ,  scriveva  il  Torraca  (2),  non  sono  persone.    La 

(1)  Origini  del  Teatro  Italiano;  Torino,  Lcescher,  1891,  Voi.  I, 
pagina  2. 

(2)  //  Teatro  italiano  nei  secoli  XIII,  XIV  e  XV —  Firenze, 
Sansoni,  1885,  p.  XVI -XVII;  e  Io  stesso  Torraca:  Studi  di  Storia 
Letteraria  Napoletana;  Livorno,  Vigo,  1884.  (I  capitoli:  P.  A.  Ca- 
racciolo e  Le  farse  Cavajole. 


—  10  — 

Rappresentazione  religiosa  era  intanto  penetrata  a  Na- 
poli; ma  qui,  lo  spirito  del  vecchio  Maccus,  quel 
vecchio  spirito  salace,  beffardo,  che  si  stemperava  in 
un  riso  largo,  in  buffonate,  in  lazzi,  s'  appiccicò  allo 
stesso  dramma  religioso  e  ne  vennero  fuori  le  Farse 
Spirituali,  Maccus,  che  aveva  riso  nel  trivio,  accanto 
al  tempio  di  Venere  o  di  honte  al  foro  dove  i  gio- 
vanotti galanti  mormoravano  i  versi  di  Catullo  o  di 
Properzio  all'  orecchio  delle  belle  matrone  o  delle 
gentili  fanciulle,  aveva  voluto  ridere  anche  in  chiesa, 
accanto  ai  gravi  personaggi  del  racconto  biblico,  ai 
santi  e  alle  sante  della  agiografia  cristiana.  Ma  a  Na- 
poli, la  farsa  popolare,  vero  studio  dal  vero,  esatta 
riproduzione  di  costumi  locali,  liberatasi  dalle  pastoie 
religiose,  ebbe  presto  a  sollevarsi  a  dignità  d' opera 
d*  arte.  San  Carlino ,  il  famoso  teatrucolo  dove  per 
tanti  anni  scoppiettò  lo  spirito  napoletano,  non  fece 
che  continuare  la  tradizione  degli  umili  teatri,  dove 
furono  recitate  le  cavajole. 

Applaudite  cavajole  scrisse,  fra  la  fine  del  secolo  XV 
e  il  principio  del  secolo  XVI,  Antonio  Caracciolo. 
Il  Napoli  -  Signorelli  (1)  ne  ricorda  alcune  insieme  a 
curiose  notizie  sulle  stesse  ;  ma  andarono  perdute,  meno 
qualcuna.  Fra  le  smarrite,  il  Napoli-Signorelli  ricorda 
V  Ammalato  dove  figurano  tre  medici,  che  probabil- 
mente avranno  messo  in  ridicolo  i  loro  colleghi  e  la 
scienza  da  loro  professata  due  secoli  prima  che  il  Mo- 
lière facesse  lo  stesso  in  Francia.  Un'  altra,  pubblicata 

(1)  Coltura  delle  due  Sicilie;  voi.  Ili,  pag.  236. 


dal  Torraca  (1),  introduce  a  parlare  una  cita,  lo  citOy 
una  vecchia,  un  notaro,  lo  Preite,  lo  Vacano  et  uno 
terzo.  E  una  farsa  assai  magra,  ma  già  vi  si  riscontra 
lo  spirito  che  poi  doveva  informare  la  commedia  let- 
teraria italiana  non  che  quella  dell*  arte.  Eccone  una 
scena. 

Il  notaio  Fiorillo  stipula,  sulla  scena,  il  contratto  di 
nozze  e  lo  legge  : 

Voi  che  siete  a  lo  torno  qui  in  presentia, 

Ognuno  ad  udientia  s' apparecchie 

Da  prestarmi  l'orecchie  in  questa  parte, 

Per  fin  che  queste  carte  avrò  lette. 

Oggi  che  so  li  sette  de  febraro, 

Che  vene  da  po'  jennaro,  in  presenti  anno 

Che  corre  senza  affanno   1514. 

Uno  dei  patti  : 

E  ditta  cita 
Se  obbliga  a  la  sua  vita  non  mancare 
De  maje  s'accarezzare  co  lo  cito 
Se  proprio  isso  ha  appetito  da  pigliarla 
La  notte  et  abbracciarla,  e  quanno  invario 
Facesse  lo  contrario,  che  isso  possa 
Romperle  tutte  1'  ossa  et  la  cacciare. 
E  da  po'  se  pigliare  per  mogliere 
Chi  le  fosse  in  piacere. 

Un  altro  patto  : 

Ifem  promette  et  jura  qua  davante 
Che  se  issa  qualche  amante  vò  pigliare. 
De  non  se  ne  accorare,  et  se  accascasse 
Che  isso  maje  la  trovasse  ne  lo  letto, 

(1)  Op.  cit.   p.   305. 


—  12  — 

Promette  altro  dispetto  non  le  fare 
Se  no  de  se  n'andare  et  stare  fore 
Pe  quatto  o  cinque  hore  et  non  tornare 
Se  no  lo  fa  chiamare;  ma  de  patto 
Vole  che  zò  che  ha  fatto  la  mogliera 
De  farcelo  assaporare  sia  costretta. 

LA  CITA 
Puro  che  me  prometta  non  m'  accidere. 

LO  CITO 

Io  me  ne  voglio  ridere. 

Letti  i  capitoli,  viene  lo  Prevete,  il  quale,  interro-  i 
gati  i  testimoni,    congiunge   gli   sposi    con    espressioni 
burlesche. 

Un'  altra  farsa  popolare  (cavajola),  non  del  Carac- 
ciolo, ma  di  Vincenzo  Braca,  s'  intitola  :  Farsa  cava- 
iola  della  Schola  (1).  Riportiamo  la  lezione  del  maestro: 

.  .  .  Pigliate  e  lettiuni.  Tacete  omnes, 
Conticuere  omnes  poslquam  ilìa  Dido 
Trovato  havea  no  nido  de  Cianfroni, 
Edificava  e  mura   de   Cartagine 
Con  tutte  quante  e  magine  de  Trojani 
E  de  antichi  Romani  a  natione. 
A  regina  Junone  contra  Enea 
Con  Eolo  ne  venea,  armata  mano, 
E  pigliao,  sano  sano,  o  coloniello 
Da  dietro  no  vasciello,  e  s'annegao. 
Enea  se  n'adonao,  e  disse:  o  Fato, 

(1)  Torraca;  op.  cit.  pag.   431. 


—  13  — 

Oh,  che  sciagura  è  stato,  eo  songo  puosto 
Che  so  de  o  sangue  vuosto,  e  mo  m'anneo. 
Così  pregando  Deo  dette  a  sborrare 
Natando  dintro  a  o  mare,  e  a  Pezzulo 
Se  n'andao  sulo,  sulo.  In  chesto  Acate, 
Che  l'era  come  frate,  o  secutava 
E  con  isso  natava  co  e  bessicKe, 
Lassando  e  navi  amiche  ncanna  a  l'onde. 
Ma  Venere  e  nasconde  dintro  a  neglia 
Dando  a*  sordati  a  veglia,  e  co  a  fortuna 
lero  a  luce  de  luna  po'  a  sbarcare 
Dove  vedero  fare  na  Cetate 
Dell' Afreca  a  e  contrate,  dove  Dudone 
Voze    ntendere  a  raggione,  che  i  gricci 
Commattero  anni  dieci  contro  Troja. 
Ejiea,  che  avea  a  fojade  a  Regina, 
Comenzao  na  matina  cossi  a  narrare: 
Conticuere  omnes  et  intentique 
Angustie  sunt  ubique  bora  tenebant. 
Ita  Trojani  dicebant:  inde  Thoro, 
Pregando  Santo  Aitoro  :  eh,  regina. 
Tu  vuoi  stammatina,  jubes  rennovare, 
Accomenza  a  cantare,  dolerem  . . . 

Il  maestro  continua  ancora  un  poco,  poi  si  ferma  e 
dice: 

Pe  chello,  che  me  veo,  ca  sto  secundo 
No  o  p>o  ntendere  Ramundo. 

(Gli  scolari    si    chiamavano:  Ramundo,  Parmades, 
Ciardullo,  Giandisco,  Paduano  e  Masullo). 

RAM.  —  Né  Maffeo  .  .  . 

MAF.  —  Né  manco  Giarmisco,  né  Paduano  . . . 

PAD.  —  Ciardullo  co  o  Masullo  sta  confuso  . . . 


—   14  — 

CIAR.  —  Liei,  Masto,  o  Furiuso  .  .  . 
PARM.  —  E  Antonio  Bruno ... 
MAR.  —  E  a  storia  de  Liunbruni. 
MASTRO  —  Quetollà, 

Voglio  fa  punto  eo  cha. 
CIARD.  —  Mastro,  feria  ! 
MASTRO  —  Ca  non  potimo  sta  miseria  comportare. 

Abbiamo  voluto  riportare  codeste  due  scene  di  farse 
cavajole,  perchè  già  vi  si  comincia  a  disegnare  un 
motivo,  che  in  seguito  fu  ampiamente  sviluppato  dalla 
commedia  dell'  arte,  la  quale  in  questo  ebbe  a  compagna 
quella  letteraria  o  scritta.  Difatti,  nelle  due  scene  sopra 
trascritte,  e  dove  nell'una  il  notaio  legge  il  contratto  nu- 
ziale, e  nell'altra  il  maestro  impartisce  la  sua  lezione 
agli  scolari,  fa  capolino  la  parodia.  Qui  il  notaio  e  il 
maestro  toccano  il  grottesco.  Non  è  più  il  sorriso  che 
increspa  il  labbro  ;  è  il  riso  largo,  sguaiato  che  trasforma 
la  bocca  in  una  smorfia.  C  è  la  rappresentazione  del 
vero,  ma  quasi  sempre  la  rappresentazione  precipita 
nella  caricatura.  Le  maschere,  che  dovranno  costituire 
più  tardi  la  base  della  commedia  dell'arte,  già  si  sen- 
tono, s'intravedono  nelle  farse  cavajole.  Quel  notaio, 
quel  maestro  di  scuola ,  l' uno  grottesco,  l'  altro  igno- 
rante, preannunziano  l'arrivo  sulla  scena  di  personaggi, 
che  la  commedia  dell'arte  renderà  famosi.  Se  non  che, 
non  abbiamo  ancora  la  commedia  a  soggetto:  le  parti 
delle  Cavajole  sono  scritte,  a  meno  che  un  primo  al- 
bore —  un  albore  pallido,  diremmo  quasi  incerto  — 
dello  spettacolo  improvviso  non  si  volesse  vedere  in 
quelle  facezie,  o  meglio,  in  quei  lazzi  con  che  i  per- 


-   15  — 

sonaggi  delle  farse  del  Caracciolo  e  del  Braca  accom- 
pagnavano i  loro  discorsi  ;  per  esempio,  gli  atti  burle- 
schi con  che  il  'Preite,  nella  farsa  del  primo  dei  due 
sopra  ricordati  scrittori,  infiorava  la  celebrazione  delle 
nozze. 

Quasi  al  punto  opposto  della  penisola,  nel  Piemonte, 
e  precisamente  ad  Asti ,  Gio.  Giorgio  Allione ,  con- 
tenporaneo  degli  scrittori  delle  Cavajole,  scriveva  com- 
medie e  farse  in  vecchio  dialetto  astigiano  misto  qua 
e  là  al  fiancese ,  ricordo  della  calata  di  Carlo  Vili  : 
ma  la  vis  comica  v'  è  povera ,  e  quelle  commedie  e 
quelle  farse  hanno  tutta  l'aria  di  discendere  dalle  vec- 
chie Moralités  e  Soitises  francesi  (azioni  dialogate). 

La  commedia  popolare,  o,  semplicemente,  farsa,  non 
fu,  sulla  fine  del  Quattrocento,  un  prodotto  esclusiva- 
mente napoletano.  Farse,  o  commedie  popolari  furono 
scritte  e  recitate  anche  fuori  di  Napoli  ;  potrebbe  dirsi, 
anzi,  che  sulla  fine  del  secolo  predetto  se  ne  fosse  dif- 
fuso il  gusto  in  tutta  la  penisola.  L'anima  italiana,  sin'  al- 
lora terribilmente  stretta  fra  le  morse  del  misticismo  medie- 
vale, serrata  fra  le  penombre  delle  chiese  dalle  strette 
finestre  ogivali ,  materiata  di  leggende  foggiate  nelle 
oscure  e  malinconiche  celle  dei  conventi,  quotidiana- 
mente minacciata  dalle  pene  eterne  dell'  inferno,  ral- 
legrata soltanto  da  uno  spettacolo  scenico,  qual'  era  la 
Rappresentazione  religiosa,  dove  tanta  parte  dell'anima 
stessa,  il  sentimento  amoroso,  era  severamente  soppressa, 
sentiva  il  bisogno  di  respirare  più  liberamente,  di  ri- 
cordarsi che  viveva  insieme  alla  carne ,  che  se  l' una 
aveva  i  suoi  bisogni,  anche  l'altra  aveva  i  propri.  La 


—  lo- 
carne; ecco  il  nuovo  personaggio  che  nella  seconda 
metà  del  Quattrocento  entrava  sulla  scena  della  vita  ; 
un  personaggio  che  il  Medio  Evo,  se  non  aveva  igno- 
rato, riteneva  che  fosse  perfettamente  trascurabile  dopo 
d'averlo  reso  impotente.  L'uomo  usciva  fuori  del  triste 
sogno;  si  svegliava  ed  aprendo  gli  occhi  alla  luce, 
s'accorgeva  che  quanto  gli  stava  intorno,  vivente  sotto 
la  volta  del  cielo  azzurro,  non  era  così  brutto  come 
era  stato  dipinto  dai  teologi  e  dai  moralisti  :  la  donna, 
sopratutto,  non  era  quell'essere  inferiore,  quasi  sozzura 
vivente,  nemica  dell'  uomo  e  della  sua  salute  eterna , 
che  gli  avevano  descritto,  bersaglio  d'anatemi,  d'ironie 
crudeli,  d'oltraggi  senza  fine.  Si  ricordava,  finalmente, 
che  prima  di  quell'  incubo,  tante  volte  secolare,  l'uomo, 
sotto  quello  stesso  cielo  azzurro,  accanto  a  quei  monti 
superbi  o  a  quelle  colline  dalle  linee  delicate,  su  quei 
campi  che  il  sole  di  giugno  indorava  nelle  messi  e 
quello  di  settembre  e  d'ottobre  imporporava  nei  grap- 
poH  pendenti  dalla  vite  maritata  all'olmo  o  corrente, 
a  guisa  di  festone,  da  un  albero  all'altro,  era  vissuto 
lietamente,  non  turbato  dai  sogni  o  dai  presentimenti 
della  vita  futura.  Perchè  egli  non  avrebbe  fatto  come 
i  suoi  antichi  padri  se  nulla  intorno  a  lui  era  cambiato, 
se  la  natura  era  sempre  la  stessa? 

Certamente,  codesto  cambiamento  della  psiche  uma- 
na, in  Italia,  non  avvenne  d'un  tratto;  sarebbe  quasi 
impossibile  il  segnare  il  giorno  di  questo  risvegliarsi 
dell'anima  italiana  alla  vita  novella.  I  primi  segni  pre- 
cursori si  ritroverebbero,  forse,  nell'Italia  del  mezzo- 
giorno, alla  corte  di  Federigo  II  svevo,  dove  l' impe- 


—  17  — 

ratore  e  re,  tedesco  d'origine,  ma  nato  in  Italia,  e  i 
suoi  cortigiani,  metà  soldati ,  metà  trovatori ,  si  beffa- 
vano delle  pene  dell'inferno,  e  in  quella  del  Setten- 
trione e  del  Centro  alla  prima  invasione  dei  poeti  pro- 
venzali o  del  gusto  della  poesia  provenzale.  Ma  non 
era  che  un'  esigua ,  sottile  corrente  intellettuale  attra- 
versante, quasi  limpido  fiumicello,  le  masse  popolari, 
specie  d' oceano  torbido ,  profondo ,  travagliato  dalle 
superstizioni,  dall'  ignoranza,  dal  fanatismo.  Dante  stesso, 
spirito  superiore  al  suo  secolo,  non  seppe  intieramente 
sottrarsi  alle  sue  credenze  d'uomo  medievale,  e  se  non 
ebbe  il  coraggio  di  condannare  Manfredi ,  soldato , 
poeta  ed  innamorato,  all'  inferno,  lo  cacciò  nel  purga- 
torio. 

Ma  verso  la  metà  del  Quattrocento,  in  Italia,  il  di- 
stacco fra  l'uomo-nuovo  e  l'uomo-medievale,  nelle  classi 
elevate  o  dirigenti,  è  completo.  Re,  principi,  uomini 
di  spada,  poeti,  eruditi,  rappresentano  la  nuova  vita, 
e  con  loro  anche  i  papi,  i  cardinali,  i  vescovi.  Il  ri- 
sveglio della  vita,  il  ritorno  al  culto  della  natura,  è 
così  profondo,  è  così  baldo  che  pervade  e  vince  il  suo 
antico  nemico  :  la  Chiesa.  Si  comincia  a  sentire  il  bi- 
sogno di  conoscere  più  intimamente  il  vecchio  mondo, 
quello  pagano,  così  calunniato,  così  laidamente  dipinto 
dai  padri  della  Chiesa  e  dai  filosofi  cristiani  ;  si  fruga 
negli  archivi  e  nelle  biblioteche;  si  fruga  sotto  le  ro- 
vine, e  ne  vengono  fuori  e  manoscritti  e  statue.  Si  re- 
staura il  culto  di  Roma  e  d'Atene  pagane.  Il  teatro 
di  Plauto,  sopratutto,  ottiene  un  successo  trionfale  ;  di- 
venne per  l'ultima  generazione  intellettuale  del  Quat- 

S^el  Regno  delle  t^aschcre  2 


trecento,  per  quella  generazione  che  presenziò  la  sco- 
perta del  Guitemberg  e  dell'America,  lo  scrittore  tea- 
trale di  moda,  diremmo  quasi  il  Dumas  figlio  o  il 
Sardou  di  quei  tempi.  Terenzio ,  forse  perchè  meno 
sboccato,  meno  ricco  di  vis  comica,  sebbene  più  cor- 
retto, piacque  meno.  I  grandi  signori  furono  i  loro  edi- 
tori teatrali ,  i  loro  buttafuori ,  non  esclusi  i  papi. 
ì  ty^enecmi,  di  Plauto,  furono  recitati  alla  corte  di 
Ferrara  nel  1 482  ;  nel  1 484  furono  recitati  dagli  alunni 
di  Paolo  Comparirti  a  Firenze,  cittadella,  come  scrisse 
il  D'Ancona  (1),  della  Rappresentazione  sacra;  sotto 
Alessandro  VI  Borgia  e  alla  sua  presenza  si  recita- 
rono, a  Roma,  oltre  i  ^M^enecmi,  i  Fantasmi,  dello 
stesso  Plauto.  A  Mantova,  ad  Urbino,  come  a  Fer- 
rara e  a  Roma,  Plauto  e  Terenzio  sono  i  poeti  comici 
favoriti.  Del  primo,  oltre  le  due  ricordate  commedie, 
furono  poste  in  iscena  il  JTO/es  Qloriosus,  ì  Captivi, 
il  Trinummo,  il  Truculento,  X Jlsinaria,  YAulularia; 
del  secondo,  VAndria  e  qualchedun' altra,  senza  tener 
conto  delle  riduzioni  e  dei  raffazzonamenti  più  o  meno 
liberi.  Non  è  un'esumazione,  un  esercizio  o  passatempo 
accademico,  d' intellettuali  ;  è  uno  spettacolo  che  real- 
mente piace,  che  incontra  il  favore  del  pubblico,  che 
esilara  dotti  ed  indotti.  E  Plauto  e  Terenzio  furono 
subito  imitati  :  e  di  qui  ebbe  origine  il  teatro  comico 
italiano  letterario,  che  però  per  difetto  d'un  Carlo  Gol- 
doni nel  Cinquecento,  meno  la  ^Jì^andragora  del  Ma- 
chiavelli ,  non  diede  che  frutti  senza  sapore ,  privi  di 

(1)  Op.  cit.  voi.  lì;  p.  61. 


—   19  — 

spirito ,  freddi,  compassate  riproduzioni  delle  opere  del 
teatro  latino.  Pure  ai  contemporanei,  quelle  commedie, 
non  parvero  cattive  :  la  Calandra,  di  Bernardo  Dovizi 
da  Bibbiena,  che  oggi,  riprodotta,  addormenterebbe  il 
pubblico ,  quando  apparve  sulla  scena  divertì  papi  e 
cardinali,  dame  e  gentiluomini  ;  ne  il  suo  successo  fu 
effìmero ,  poiché  troviamo  che  nel  1 548,  cioè,  più  di 
mezzo  secolo  dopo  eh'  era  stata  scritta ,  fu  recitata,  a 
Lione,  da  una  compagnia  di  comici  italiani  per  festeg- 
giare in  quella  città  l' ingresso  di  Enrico  II  e  di  Ca- 
terina dei  Medici  (1). 

Ma  qui  noi  non  dobbiamo  fare  la  storia  della  com- 
media letteraria.  La  farsa  popolare,  che  a  Napoli  ac- 
quistò perfezione  sopratutto  per  opera  del  ricordato 
Caracciolo  e  di  Giosuè  Capasse,  si  diffuse,  come  già 
dicemmo ,  per  tutta  Y  Italia.  Essa  si  distingueva  da 
quella  erudita  perchè  più  spigliata ,  più  leggiera,  più 
ricca  di  vis  comica  ;  si  distingueva  segnatamente  perchè 
aveva  risentito  meno  l' influenza  del  teatro  comico  la- 
tino, e  quindi  essa  anziché  plasmarsi  troppo  fedelmente 
sulle  opere  di  Plauto  e  di  Terenzio,  riproduceva  più 
o  meno  felicemente  dal  vero  i  suoi  personaggi.  In 
somma ,  essa  era  cosa  viva  ;  Y  altra  non  era  che  una 
esercitazione  letteraria. 


(I)  E  la  fredda  Calandra  piacque  davvero  in  Francia.  Un  con- 
temporaneo lasciò  scrino  che  essa  fu  scelta,  a  Lione,  nel  1  543,  "  per 
ciò  che  piacevolissima  era  e  di  sollazzevoli  motti  piena  et  dsii  più  in- 
tendenti stata  sempre  lodala  e  pregiata  molto.  " 

Baschet,  op.  cit.  pag.   7. 


—  20  — 

A  Firenze  scrisse  commedie  popolari  il  Cecchi  ; 
ma  i  suoi  lavori  sono  meno  vivaci  di  quelli  dei  suoi 
confratelli  di  Napoli  (1).  Allo  stesso  Cecchi  dobbiamo 
la  definizione  della  commedia  o  farsa  popolare  :  la 
togliamo  dal  Prologo  della  Romanesca.  Eccola: 

La  farsa  è  una  terza  cosa  nuova 

Tra  !a  tragedia  e  la  commedia  :  gode 

Della  larghezza  di  tutte  due  loro, 

E  fugge  la  strettezza  lor  ;  perchè 

Raccatta  in  sé  li  gran  signori  e  principi  : 

Il  che  non  fa  la  comedia  ;  raccetta 

Com'  essa  fosse  o  albergo  o  spedale, 

La  gente  come  sia,  vile  e  plebea  ; 

Il  che  non  vuol  far  mai  donna  Tragedia  ; 

Non  è  ristretta  ai  casi;  che  li  toglie 

E  lieti  e  mesti,  profani  e  di  Chiesa, 

Civili,  rozzi,  funesti  e  piacevoli  ; 

Non  tien  conto  di  luogo  :  fa  il  proscenio 

Ed  in  Chiesa  ed  in  piazza  e  in  ogni  luogo  : 

Non  di  tempo;  onde  s'ella  non  entrasse 

In  un  dì,  lo  terrebbe  in  due,  in  tre; 

Che  importa  ?  E  insomma,  eli'  è  la  più  piacevole 

E  più  accomodata  foresozza 

E  la  più  dolce  che  si  trovi  al  mondo, 

E  si  potrebbe  agguagliarla  a  quel  monaco 

II  quale  volea  promettere  all'  abate 

Fuor  che  1'  ubbidienza,  ogn'  altra  cosa. 

La  quale  definizione  non  abbiamo  riportato  a  solo 
titolo  di  curiosità  ;  perocché ,  come  vedremo  innanzi , 
quasi  tutti  gì'  ingredienti  di  cui  il  Cecchi  ci  ha  fornito 

(1)  Torraca;  op.  cil.  p.  XVII. 


I 


I 


—  21   — 

la  ricetta ,  entreranno  a  far  parte  delia  composizione 
della  commedia  dell'arte;  anzi,  quest'ultima,  meno  la 
parte  scritta,  non  sarà  che  una  farsa  popolare  riveduta 
e  corretta,  specie  con  l'introduzione  delle  maschere 
o  col  più  ampio  sviluppo  a  loro  dato. 

La  farsa,  o  commedia  popolare,  come  già  avvertimmo, 
s'innalzò  subito  a  vero  lavoro  d'arte  per  quel  certo  suo 
spunto  d'originalità  di  cui  fu  cosparsa,  il  che  non  av- 
venne per  la  sua  sorella  maggiore,  la  commedia  lette- 
raria, che  vivacchiò  fra  i  ricordi  classici,  più  che  arte 
e  viva  riproduzione  di  vita  vissuta,  imparaticcio  d'eru- 
diti brancolanti  fra  persone  e  cose  morte  per  quanto 
su  quest'ultime,  tratto  tratto,  passasse  un  soffio  di  vita, 
un'eco  del  mondo  contemporaneo  :  imperocché,  lo  scrit- 
tore, pur  restando  fedele  alla  falsariga  del  capolavoro 
d'un'altra  età,  non  poteva  a  quando  a  quando,  anche 
alla  sua  insaputa,  non  dar  sfogo  al  proprio  spirito.  Certo, 
fra  le  due  sorelle,  il  distacco  non  fu  così  enorme  da 
non  più  ravvisare  fra  l'una  e  l'altra  la  comune  origine  : 
molte  situazioni ,  parecchi  tipi ,  certi  atteggiamenti ,  e 
qua  e  là  qualche  derivazione  dal  tronco  originario  ri- 
masero comuni;  ma  la  sorella  maggiore  restò  più  so- 
stenuta, più  obbediente  alle  tradizioni  classiche,  anche 
quando  volle  rispecchiare  le  diverse  correnti  letterarie 
imperanti  nella  penisola,  sia  se  d'origini  nostrane ,  sia 
se  esotiche ,  mentre  la  sorella  minore  più  briosa ,  per 
nulla  pedante,  ribelle  al  dominio  delle  accademie  e 
dei  canoni,  anche  se  questi  dettati  in  nome  d'Aristo- 
tile, più  a  contatto  col  popolo  e  da  esso  attingendo  le 
sue  ispirazioni,  il  suo  riso  piuttosto  volgare ,  fìnanco  i 


—  22  — 

lazzi  più  indecenti,  conservò  una  freschezza  quasi  rin- 
novantesi  di  generazione  in  generazione  tanto  da  assi- 
curarle una  vita  rigogliosa,  brillante,  la  cui  fama  ben 
presto  varcò  le  Alpi  diffondendosi  pel  mondo  civile 
d'  allora. 

Ma  la  caratteristica  che  meglio  di  qualsiasi  altra 
doveva  far  distinguere  la  commedia  letteraria  o  soste- 
nuta, come  anche  si  disse,  dalla  popolare,  fu  l'aboli- 
zione del  dialogo  scritto  in  quest'ultima  ;  mentre  l'una 
continuò  sempre  ad  essere  scritta,  di  modo  che  l'attore 
non  doveva  recitare  che  la  parte  dettata  dal  comme- 
diografo, l'altra,  soltanto  ideata  e  sceneggiata  dal  suo 
autore,  venne  affidata,  quanto  al  dialogo,  all'  ispirazione 
dei  comici.  '% 

Quando  avvenne  tale  separazione  ?  Quando  il  com- 
mediografo si  limitò  a  trovare  il  soagetio  del  suo  la-  t 
voro  e  a  dividerlo  in  atti  e  scene,  lasciando  che  l'ar- 
tista ne  inventasse  il  dialogo  su  una  breve  indicazione 
o  traccia  fornita  dall'autore  stesso?  Già  dicemmo  come 
non  fosse  diffìcile  che  qualche  cosa  di  spontaneo,  nella 
rappresentazione  delle  Cat^o/o/e  napoletane,  fosse  lasciato 
all'ispirazione  dell'artista,  quasi  ricordo  o  continuazione 
di  quanto  gì'  istrioni  o  buffoni  o  saltimbanchi  praticavano 
nei  loro  spettacoli  o  ludi  da  piazza  o  da  fiera  ma  le 
prime  manifestazioni  della  commedia  dell'arte  o  improv- 
visa non  dubbie,  ne  limitate  a  qualche  sola  parte,  s'hanno 
nella   prima    metà    del    Cinquecento  (1).    Come  quasi 

(I)  Lo  Stoppato  {La  Commedia  popolare  in  Italia;  Padova,  1887) 
dà  conto  d'una  farsa  o  satira  morale  di  Venturino  Venturi,  pesarese, 
anteriore  probabilmente  al    1521,  con  personaggi  parte  allegorici  e  parte 


—  23  — 

sempre,  il  creatore  rimane  avvolto  nel  mistero  :  ecco 
la  commedia  dell'  arte  ;  essa  regna  sulla  scena  ;  ma  chi 
fu  il  primo  a  stendere  un  intiero  scenario  con  tutte  le 
parti  dei  personaggi  non  scritte ,  ma  solo  indicate  ? 
Adolfo  Bartoìi  (I)  ritiene  che  il  tedesco  Klein  (^e- 
schichte  des  Drama's ,  IV,  Das  italienische  T)raTna  ^ 
I,  903)  s'inganni  quando  fa  il  nome  di  Francesco 
Cherea  come  inventore  della  commedia  a  soggetto  ap- 
poggiandosi ad  un  passo  dalla  Venetia  descritta  ecc. 
del  Sansovino.  Questi ,  parlando  del  Cherea ,  eh'  era 
commediograio  ed  attore,  scrisse  :  "  Egli  —  il  Cherea  — 
piacque  grandemente  ai  nostri,  onde  inventori,  in  queste 
parti  di  recitar  commedie,  si  suscitarono  in  quei  tempi 
a  sua  persuasione  diversi  nobili  ingegni,  che  ne  reci- 
tarono di  belle  ed  onorate.  Perciò  che  allora  mise  mano 
a  questa  impresa  Antonio  da  Molino  inteso  Burchiella, 
"  huomo  piacevole  et  che  parlava  in  lingua  greca  et 
schiavona  corretta  con  l' italiana,  con  le  più  ridicolose 
et  strane  inventioni  et  chimere  del  mondo ..." 

Il  passo  del  Sansovino  non  darebbe ,  secondo  il 
nostro  modesto  parere,  tanto  torto  allo  scrittore  tedesco  ; 
in  quel  Cherea,  eh'  è  inventore  non  solo  di  commedie, 


umani,  fra  i  quali  ultimi  è  notevole  lo  Spampana  che  viene  in  iscena 
bravando ,  dimostrandosi  in  parole  e  in  gesti  bravissimo  bravo ,  tipo 
anticipato  del  Capitano  della  commedia  a  soggetto.  Ma  siamo  sempre 
il  ;  più  che  d' una  commedia,  si  tratterebbe  d'una  sola  parte  a  braccia. 
Ved.  D'Ancona;  op.  cil..  Voi.   II,   p.   53. 

(1)  Op.  cit.  p.  X  (in  nota). 


—  24  — 

come  fu  realmente  (1),  ma  anche  inventore  in  queste 
parti  di  recitar  commedie  ;  in  quel  Burchiella,  che  recita 
sulla  scena  in  lingue  straniere  più  o  meno  italianiz- 
zate le  più  ridicolose  et  strane  inventioni  et  chimere^ 
ci  parrebbe  di  vedere  qualche  cosa  di  diverso  dal  sem- 
plice attore  recitante  una  parte  scritta.  In  ogni  modo, 
la  cosa  resta  avvolta  nel  dubbio,  il  quale  solo  potrebbe 
dissipare  Y  esumazione  del  teatro  a  soggetto  del  Cherea, 
ove  pure  questi  ne  avesse  scritto  uno  e  qualche  esem- 
plare ne  esistesse  sepolto  in  qualche  nostra  biblioteca, 
specie  del  veneto.  Qualunque  però  fosse  stato  il  tempo 
in  cui  la  commedia  dell'arte  apparve  sulla  scena,  egli 
è  certo  che  nella  seconda  metà  del  secolo  XVI  essa 
era  fiorente;  non  s'arresta  entro  i  confini  d'Italia,  ma 
valica  le  Alpi,  e  noi  vediamo  che  i  suoi  interpreti, 
nel  1 570,  in  Francia,  coi  loro  lazzi,  con  le  loro  facezie, 
con  le  loro  trovate  più  o  meno  spiritose  fanno  ridere 
Carlo  IX,  sua  madre,  Caterina  dei  Medici,  ed  i  loro 
cortigiani:  riso,  lazzi,  facezie,  trovate  che  non  impe- 
dirono a  quella  corte,  quattro  anni  più  tardi,  di  con- 
sumare quell'orrendo  misfatto,  che  passò  alla  storia 
sotto  il  nome  di  notte  di  San  Bartolomeo ,  o  sempli- 
cemente, Saint-Barthélemy. 

(I)  Cherea,  nome  tolto  dai  teatro  terenziano,  era  Francesco  dei 
Nobili,  lucchese,  che  fu  favorito,  insieme  a  tanti  altri  comici  istrion^ 
cantori  e  poeti,  di  Leone  X.  Visse  molti  anni  della  sua  vita  a  Ve- 
nezia, dove,  nel  1 508,  chiese  ed  ottenne  da  quel  Senato  il  privilegio 
della  stampa  delle  sue  commedie  e  tragedie  alcune  delle  quali  dovevano 
essere  riduzioni  ed  anche  semplici  traduzioni  dal  latino  come  lo  dimo- 
strano i  titoli:  il  ó^iles,  VAmphitrione,  XAulularia,  la  Mastellaria, 
*   Menecmi.   Ved.   D'Ancona;  op.  cit.  Voi.  II;  p.    111. 


—  25  — 

Comici  italiani  della  commedia  dell'arte  apparvero 
verso  quel  tempo  anche  in  Austria  ed  in  Ispagna;  il 
che  dimostrerebbe  come  già  in  quel  tempo  il  nuovo 
spettacolo  fosse  non  solo  adulto,  pieno  di  giovinezza, 
ma  anche  assai  gustato  da  pubblici  di  temperamento, 
cultura  e  gusto  diversi.  Ne  è  da  far  le  meraviglie  : 
la  commedia  letteraria  o  sostenuta  era  stata  sin'  allora 
una  povera  cosa;  fredda,  pedestre  imitazione  della  la- 
tina, essa  aveva  avuto  una  certa  fortuna  dinanzi  ad  un 
pubblico  che  sazio  delle  vecchie  Rappresentazioni  sacre, 
o  dei  MisterU  o  delle  <^oralità  informate  ad  uno  spirito 
che  non  era  più  quello  del  tempo,  faceva  buon  viso 
al  nuovo  spettacolo,  se  non  altio  per  la  novità  del  suo 
contenuto.  Bisogna  risalire  sino  alle  generazioni  che 
vissero  tra  la  seconda  metà  del  Quattrocento  e  la  prima 
metà  del  Cinquecento  e  fare,  anche  compendiosamente, 
un  inventario  delle  loro  credenze,  delia  loro  cultura, 
dei  loro  libri  favoriti  di  lettura,  dei  loro  divertimenti, 
sia  privati  che  pubblici,  per  farsi  un'  idea  della  sorpresa 
piacevole  che  la  nuova  commedia  dovette  produrre  sul 
loro  animo.  Per  quanto  il  nuovo  spettacolo  comico  a 
soggetto  fosse  calcato,  sino  a  certo  punto,  su  quello 
letterau-io,  e  questo  su  quello  classico,  di  guisa  che  ca- 
ratteri e  personaggi,  ed  anche  situazioni,  non  presen- 
tassero che  uno  scarso  sapore  di  novità  (1),  pure  l'im- 
provvisazione, che  formava  la  pietra  angolare  della 
nuova  commedia,  dava  a  quest' ultima  un'attrattiva,  un 


(1)  A.   Bartoli;  op.  cit.  p.   LVill. 


—  26  — 

fascino  che  non  si  riscontrava  nelFaltra.  Il  Gherardi  (1) 
scriveva  :  "  Qui  dit  bon  comédien  italien  dit  un  homme, 
qu'  a  du  fond,  qui  joue  plus  d'  imagination  que  de 
memoire,  qui  compose,  en  jouant,  tout  ce  qu'  il  dit.  " 
Ed  un  altro  scrittore  (2)  :  "  La  fagon  dont  les  comé- 
diens  italiens  composent ,  apprennent ,  et  représentent 
leurs  comédies ,  est  inexprimible ,  et  si  je  T  ose  dire , 
inconcevable,  par  la  quantité  d' agréments  et  des  dis- 
cours  non  étudiés  qu'  ils  y  ajoutent.  "  Sebbene  codesti 
due  giudizi  contengano  un  po'  d'  esagerazione,  poiché, 
come  dimostreremo,  non  è  esatto  il  dire  che  tutto  il 
dialogo  della  commedia  a  soggetto  fosse  improvvisato, 
pure  il  nuovo  spettacolo  avvicinandosi  di  molto  più 
che  r  altro  al  vero,  alla  vita  reale,  non  poteva  che 
piacere  grandemente  ad  una  società  che  sino  a  quel 
momento  per  suo  pascolo  intellettuale  non  aveva  avuto 
che  lavori  esumati  di  sotto  alle  rovine  d*  un  mondo 
scomparso  o  calcati  sugli  antichi.  Così  si  spiega  il 
grande  favore  che  acquistò  la  commedia  dell'arte  non 
solo  in  Italia,  ma  anche  in  Francia,  dove,  recitata  da 
italiani,  sino  a  divenirvi  uno  spettacolo  diremmo  quasi 
nazionale,  sopravvisse,  sebbene  di  poco,  alla  sua  scom- 
parsa nel  paese  d'origine.  Il  teatro  francese,  meno  qual- 
che produzione ,  verso  la  fine  del  Cinquecento ,  era 
d'argomento  sacro:  il  vecchio  Mistero  e  la  vecchia 
Moralité  si  strascinavano  sulle  scene,  sebbene  avessero 
assunto  forme  moderne,  o  meglio  classiche.  Sul   prin- 

(1)  Le   Théàtre    Italien    de   Qherardi,   ou  Recueil  Qen.  de  toutes 
les  comédies,  ec.   Paris,   1717.  Advertissement. 

(2)  A.   Bartoli;  op.  cit.  p.   LXXI   (in  nc.a). 


—  27  — 

cipio  del  Seicento  gli  argomenti  sacri  non  erano  ancora 
scomparsi  dal  teatro  :  nel  1 60 1  troviamo  un  Joseph  le 
Chaste,  un  Achab,  una  Lutece  ou  L'Jlmour  divìn, 
del  De  Marie  ;  una  Sainte  Cécile  e  un  Job  del 
Sainte-Marthe.  Dopo  la  comparsa  dei  primi  comici 
italiani  alla  corte  di  Francia  sotto  il  regno  di  Carlo  IX, 
nel  1581,  sotto  il  regno  di  Enrico  ili,  apparve  alla 
stessa  corte  la  famosa  compagnia  dei  Gelosi  già  esi- 
stente a  Firenze  sin  dal  1 578.  Ne  facevano  parte  i 
celebri  coniugi  Francesco  ed  Isabella  Andreini  :  questa 
non  era  soltanto  una  grande  attrice,  era  anche  poetessa, 
e  i  suoi  contemporanei  la  celebrarono  in  prosa  e  in 
versi  (I).  Morì  giovane  a  Lione,  nel  1604,  mentre  era 
in  viaggio  per  rientrare  in  Italia.  La  Municipalità  di 
Lione  le  rese  solenni  onoranze  funebri  come  se  fosse 
una  regina  o  una  principessa  reale,  ed  uno  scrittore  fran- 
cese del  tempo,  Pietro  Mathieu,  ne  volle  conservare, 
col  suo  stile  pomposo,  il  ricordo  nella  sua  Histoire  de 

(I)  In  Italia  fu  celebrata  da  Torquato  Tasso,  che  la  conobbe  a 
Roma,  presso  il  cardinale  Aldobrandini,  nipote  di  Clemente  Vili,  e 
dal  Chiabrera  ;  in  Francia,  al  momento  della  sua  partenza  per  l' Italia, 
Isacco  de  Ryer,  cantò  : 

Je  ne  crois  point  qu'  Isabelle 
Soit  une  femme  mortelle. 
C  est  plutot  quelqu*  un  des  Dieux 
Qui  s'  est  déguisé  en  femme 
A  fin  de  nous  ravir  l  àme 
Par  roreille  et  par  Ics  yeux. 

Baschet  ;  op.   cit.    p.    134. 


—  28  — 

France:  "  Si  elle  eust  vescu  en  Grece  au  tems  que 
la  comédie  estoit  en  vogue,  on  lui  eust  douné  les 
statues  et  eust  re^ué  sur  le  théhàtre  autant  de  fleurs, 
comme  les  mauvais  joùeurs  y  recevoient  de  coups  de 
pierre  (1).  "  Il  marito,  che  fu  anche  scrittore,  creò  o 
meglio,  rinfrescò  con  nuovi  atteggiamenti  la  parte  del 
Capitano,  che  egli  battezzò  col  nome  di  Capitan  Spa- 
vento di  Valle  Inferna;  una  parte,  o  maschera,  che 
risaliva  sino  al  t^iles  Qloriosus  di  Plauto,  ma  che  in 
realtà  era  la  parodia  dei  soldati  spagnuoli  allora  spa- 
droneggianti  in  Italia.  Narrando  le  sue  gesta  d' alcova , 
poiché  egli  s'atteggiava  a  formidabile  seduttore,  diceva, 
per  esempio,  eh'  egli  in  una  sola  notte  aveva  posto 
fuori  combattimento  duecento  donne ,  e  discorrendo 
delle  doti  meravigliose  della  sua  persona  narrava  che 
la  natura  per  formarlo  aveva  preso  l' oro  della  prima 
età,  l'argento  della  seconda,  il  bronzo  della  terza  e 
il  ferro  della  quarta,  e  che,  fatta  questa  scelta,  gli 
aveva  fregiato  il  capo  con  l'oro,  il  corpo  con  l'ar- 
gento, le  gambe  col  bronzo  e  le  braccia  col  ferro;  j 
oppure,  facendo  l'inventario  degli  oggetti  preziosi  dafl 
lui  posseduti,  citava  la  sua  spada  fabbricata  da  Vul-" 
cano  poi  offerta  al  Fato,  che  l' aveva  data  a  Serse, 
il  quale,  alla  sua  volta,  l' aveva  dato  a  Dario  passando 
successivamente  per  le  mani  d'Alessandro,  di  Romolo, 
di  Tarquinio,  del  Senato  Romano  e  di  Cesare  dal 
quale  pervenne  in  quelle  gloriose  di  lui.  il  carattere 
di  Capitan  Spavento  di  Valle  inferna  divenne  presto 

(1)   Baschet;  op.    cit.  p,    147-148. 


—  29  — 

celebre  ;  egli  fu  imitato,  copiato  e  non  si  scrisse  o  non 
si  ideò  commedia  sostenuta  o  a  soggetto  di  quei  tempi 
che  a  quel  personaggio  fanfarone  non  si  assegnasse 
una  delle  prime  parti  :  lo  stesso  Andreini  ne  volle 
dare  un  saggio  abbastanza  ampio  in  un  suo  libro  dal 
titolo:  Le  Bravure  del  Capitano  Spavento,  divise  in 
molti  ragionamenti  in  forma  di  dialogo,  la  cui  prima 
parte  fu  stampata  a  Venezia  nel  1607  e  la  seconda 
nel  1618.  L'intiera  opera  fu  ristampata,  sempre  a  Ve- 
nezia, nel  1 624  e  nel  1 669  ;  segno,  certamente,  questo 
del  successo  ottenuto  da  un*  opera  che  sebbene  scritta 
in  uno  stile  ampolloso,  gonfio,  riboccante  di  esagera- 
zioni ed  iperboli  grottesche,  pur  rispecchiava  il  gusto 
delirante  del  tempo  (1). 

Essendo  entrata  pienamente  la  commedia  dell'  arte 
nel  gusto  del  pubblico,  alcuni  principi  italiani  pensa- 
rono di  prendere  al  loro  stipendio  i  migliori  attori  del 
tempo  creando  così  delle  vere  compagnie  comiche  di 
corte,  quasi  stabili.  1  principi  di  Mantova,  sotto  questo 
aspetto ,  potrebbero ,  anzi ,  chiamarsi  gì'  impresari  più 
fortunati  che  abbia  avuto  l' Italia  tra  la  fine  del  Cin- 
quecento e  i  primi  tre  decenni  del  Seicento  ;  difatti, 
tutte  le  volte  che  la  corte  di  Francia  volle  sentire  dei 
buoni  comici  improvvisi,  fu  sempre  costretta  a  chiedere 
al  duca  di  Mantova  la  cessione  di  quelli    da   lui  sti- 

(  I  )  Le  tre  prime  edizioni  sono  citate  dal  BascKet,  op.  cit.  ;  un  esem- 
plare di  quella  del  1669,  si  trova  nella  Biblioteca  Nazionale  di  Pa- 
lermo. Le  Bravure  (prima  parte)  furono  tradotte  in  Francia  e  stampate, 
nel  1608,  a  Parigi;  ma  l'opera  francese,  in  verità,  più  che  una  tra- 
duzione, è  una  riduzione. 


—  30  — 

pendiati.  Ne  le  trattative  per  averli  per  qualche  sta- 
gione erano  facili  :  una  gita  dei  comici  di  Sua  Altezza 
Serenissima  il  signor  duca  di  Mantova  a  Parigi  assu- 
meva tutta  r  importanza  d'  un  affare  di  Stato  ;  non  ba- 
stava un  semplice  scambio  di  lettere  fia  ministri  e  mi- 
nistri; occorreva  nientemeno  che  il  re  o  la  regina  di 
Francia  scrivessero  direttamente  per  ottenere  che  i  com- 
medianti del  signor  duca,  profumatamente  pagati  e  re- 
galati ,  recitassero  al  palazzo  di  Borgogna,  la  c7^Caison 
delia  commedia  italiana  di  quel  tempo  a  Parigi.  Quivi 
erano  attesi  con  impazienza  ed  ascoltati  con  estrema 
benevolenza,  anche  perchè  la  lingua  italiana  era  allora 
assai  conosciuta  in  Francia,  ove ,  come  scrive  il  Ber- 
nardin (1),  "  depuis  les  guerres  d'Italie  et  le  mariage 
de  Catherine  de  Medicis,  Y  italien  on  parlait  beaucoup 
et  bien  des  parisiens  étaient  capables  de  comprendre 
et  de  suivre  une  comédie  italienne.  " 

Le  compagnie  comiche,  per  altro,  si  moltiplicarono 
col  crescente  successo  della  commedia  dell*  arte  ;  lo 
spettacolo  a  soggetto  o  a  braccia  era  allora  diventato 
il  divertimento  più  gradito,  più  gustato  delle  alte  classi 
sociali.  Gli  istrioni  italiani  facevano  ridere  re  e  regine, 
ministri  ed  alti  dignitari  di  Corte.  Mentre  V  Italia  spro- 
fondava nella  miseria,  essa  rideva  e  faceva  ridere.  Ecco 
perchè  nessuno,  nemmeno  essa  stessa,  se  ne  accorgeva. 
L*  Italia  era  stesa  sul  cataletto,  che  la  Spagna  le  aveva 
preparato  ;  ma  che  importava  ?  O  gì'  italiani  non  ride- 
vano? 

(1)  Op.  clt.  ;  p.    10-11. 


—  31   — 

Interessante,  certo,  riuscirebbe  una  storia  delle  compa- 
gnie comiche  che  interpretarono  la  commedia  dell'  arte 
in  Italia  e  fuori  ;  se  non  che,  le  indagini,  lunghe,  pazienti 
che  richiederebbe  un  lavoro  simile,  non  ne  hanno  reso 
possibile  sino  a  questo  momento  l'attuazione.  Il  Baschet 
tentò,  su  documenti  inediti  esistenti  in  Francia  e  nel- 
l'Archivio di  Stato  di  Mantova,  una  storia  dei  com- 
medianti italiani  che  recitarono  in  Francia  sotto  i  regni 
di  Carlo  IX,  Enrico  II,  Enrico  III,  Enrico  IV  e  Luigi 
XIII  ;  ma,  come  si  vede,  occorrerebbe  riempire  ancora 
delle  lacune,  e  vaste,  poiché  le  recite  dei  comici  ita- 
liani in  Francia  continuarono  sotto  i  regni  di  Luigi 
XIV,  di  Luigi  XV,  e  non  cessarono  completamente, 
sebbene  avessero  smesso  di  adoperare  la  lingua  propria, 
che  sotto  il  regno  di  Luigi  XVI  (1).  Però  delle  mag- 
giori compagnie,  come  dei  maggiori  comici,  che  recita- 
rono in  Italia,  non  mancano  notizie,  anche  perchè  Fran- 
cesco Bartoli,  un  amoroso  cultore  della  storia  dell'arte 
comica,  dopo  d'essersi  ritirato  dalle  scene,  stampò  a  Pa- 
dova, nel  1781,  un  grosso  volume  di  polizie  Storiche 
dei  Comici  italiani.  Prima  di  lui,  sullo  stesso  argomento, 
un  copioso  materiale  (ma  per  la  storia  della  commedia 
italiana  dell'arte  in  Francia)  avevano  radunato  il  Ricco- 
boni  e  il  Gherardi,  come  il  Bartoli,  scrittori  e  comici  ; 
e  dopo  lo  stesso  Bartoli,  abbiamo  avuto  Maurizio  Sand 
col  suo  prezioso  libro:  ty^asques  et  BuffonSy  ed  altri 

(  1  )  Sulle  vicende  dei  comici  italiani  a  Parigi  sotto  i  regni  di  Luigi 
XIV,  Luigi  XV  e  Luigi  XVI,  ha  dato,  di  recente,  curiose  notizie  il 
Bernardin.  Ved.  op.  cit. 


—  32  — 

come  il  Campardon,  il  Moland,  il  Magnin,  il  BaschetJ 

il  Bernardin,  e  fra  gì'  italiani  Adolfo  Bartoli  e  Luigi 
Rasi,  il  primo  con  la  sua  Introduzione  agli  Scenari  Ineditiì 
e  il  secondo  col  T)izionario  biografico  dei  Comici  ita\ 
lianì  (1). 

Una  delle  più  vecchie  compagnie  comiche  italiana 
che  ricordi  la  storia  è  certamente  quella  di  Drusiam 
Martinelli,  che  dopo  d'essere  stata  in  Francia,  fu  nel 
1577  in  Inghilterra  alla  corte  della  grande  Elisabetta^ 
un'altra,  diretta  da  un  certo  Ganassa ,  fu  in  Ispagna 
alla  corte  di  Filippo  II,  formando  la  delizia  del  tetre 
Tiberio    spagnuolo.     Il    Ganassa   recitava  le  parti  del 
secondo  Zanni',   recitò  anche  in  Francia  e  scrisse  ui 
Lamento  con  messer  Stefano  Bottargo  sopra  la  morte 
d'un  pidocco.  Una  compagnia  che  acquistò  subito  fama 
grandissima  fu  quella  detta  dei  Gelosi  costituitasi  a  Fi- 
renze   qualche    anno    innanzi  al   1 580    con   gli  avanzi 
di  due  altre    compagnie    l'una    delle    quali    detta  dei 
Confidenti  e  l'altra,  come  la  nuova,  dei  Gelosi,  che  per 
qualche  tempo  formarono  una  sola  Compagnia  detta  dei 
Comici  Uniti,  Dei  nuovi  Qelosi  erano  principale  orna- 
mento i  due  artisti  già  da  noi  ricordati,  Francesco  An- 
dreini  e  la  moglie  di  lui,  Isabella  ;  gli  altri  artisti  erano 
Lodovico  da  Bologna  (Arlecchino),  Giulio  Pasquali 
(Pantalone),  Simone  da  Bologna  (Zanni),  Gabriele  da 
Bologna  (Francatrippa),    Mario    da  Padova  (Innamo^ 
rato),  Adriano  Valerini  (secondo   Innamorato),  Giro- 

(1)  Per  quanto  riguarda  le  provincia  napoletane  è  importante  l'opera 
del  Croce  :  /  Teatri  di  Napoli  ;  Napoli,  Pierro,    1 89 1  . 


—  33  — 

lamo  Salimbeni  da  Firenze  (vecchio  borghese),  Silvia 
Rovaglia  (Franceschina  o  fantesca).  Di  questa  compa- 
gnia lo  stesso  Francesco  Andreini,  quando,  in  seguito 
della  morte  della  moglie,  si  ritirò  dalle  scene,  scrisse 
che  "  la  fama  non  avrebbe  mai  visto  l'ultima  notte  !  " 
In  una  delle  sue  trasformazioni,  essa  ebbe  per  capo  o 
direttore  Flaminio  Scala,  il  quale  scrisse  parecchie  com- 
medie a  soggetto  i  cui  scenari  furono  stampati  dallo 
stesso  Scala  a  Venezia ,  nel  1 60 1  col  titolo  :  Teatro 
delle  Favole  rappresentative  (  1  )  :  e  sono  i  più  antichi 
che  si  conoscano.  Nel  1 599,  sotto  gli  auspici  del  duca 
di  Mantova,  si  formò  una  compagnia  d'  "  Arlecchino  " , 
dalla  maschera  che  n'  era  il  capo.  Il  nome  della  ma- 
schera aveva  quasi  soppresso  il  nome  dell'artista  che 
la  portava,  e  con  tale  nome  gli  scrisse  Enrico  IV  il 
il  2 1  dicembre  1 599  per  iscritturarlo  coi  suoi  comici 
pel  teatro  di  palazzo  Bourgogne.  "  Arlequin,  Etant 
venue  jusqu'  a  moi  votre  renommée  et  celle  de  la  bonne 
compagnie  de  comédiens  que  vous  avez  en  Italie,  j'ai 

(  1  )  Altri  Scenari,  ma  inediti,  sono  quelli  di  Basilio  Luccatello  o 
Loccatello,  romano,  conservati  nella  Biblioteca  Casanatense,  di  Roma. 
Hanno  per  titolo  :  Della  Scena  di  soggetti  comici,  di  B.  L.  R.  ;  in 
Roma;  (P.  I.)  MDCXVIII  e  (P.  II.)  MDCXXII.  Leone  Allacci, 
nella  sua  Dramaturgia,  Roma,  1666,  stampò,  ma  non  esattamente,  né 
completamente,  i  titoli  delle  commedie  del  Loccatello,  che  furono  ri- 
prodotti da  A.  Bartoli  (op.  cit.)  né  correggendoli,  né  completandoli. 
Due  altri  manoscritti  di  Scenari  conservansi  nelle  nostre  biblioteche  pub- 
bliche, l'uno  nella  Corsiniana,  di  Roma,  l'altro  in  due  volumi,  alla 
Nazionale,  di  Napoli,  a  cui  fu  donato  da  Benedetto  Croce.  Quest'ul- 
tima raccolta  è  la  più  ampia  che  si  conosca  contenendo  183  scenari. 
Il  primo  volume  porta  in  fronte  la  seguente  indicazione:   Gihaldone  da 

3^el  Regno  delle  Maschere  3 


—  34  — 

desiré  de  vous  faire  passer  en  mon  royame  ecc.  ecc.  (I).  " 
Però  il  nome  dell'Arlecchino  del  serenissimo  duca  di 
Mantova  pervenne  ai  posteri  :  egli  era  Tristano  Mar- 
tinelli, fratello  di  Drusiano  e  marito  di  madama  An- 
gelica, prima  donna.  La  compagnia  era  detta  degli 
j^ccesi  e  pare  che  fosse  la  più  rinomata  che  allora 
contasse  l' Italia.  Ne  faceva  parte  Pier  Maria  Cecchini, 
che  si  rese  celebre  nella  parte  di  Frittellino.  Era  anche 
autore  di  commedie  a  soggetto. 

Un'  altra  compagnia  di  comici  italiani,  che  percorse 
con  gloria  non  solo  le  nostre  scene,  ma  anche  quelle 
francesi  —  oramai  i  comici  italiani  avevano  acquistato 
diritto  di  cittadinanza  in  Francia  —  fu  quella  diretta  da 
Giambattista  Andreini,  figlio  di  Francesco  e  d' Isabella. 
Ne  facevano  parte  Virginia,  detta  florinda,  moglie  del 
capo-comico,    alla    quale   fece  il    ritratto    il    Bronzino, 

recitarsi  all'Impronto.  —  Alcuni  propri  e  gli  altri  da  diversi,  raccolti 
da  D.  Annibale  Sersale,  Conte  di  Cas amarciano.  Il  secondo  volume 
è  intitolato:  Gibaldone  Comico  di  Vari  Suggetti  di  Comedie  ed  Opere 
Bellissime  copiate  da  me  Antonino  Passanti  detto  Oratio  il  Cala- 
brese, per  comando  dell' Ill.mo  signor  Conte  di  Casamarciano,  ì  700. 
Il  manoscritto  originale  di  quelli  editi  dal  Bartoli  appartiene  alla  Ma- 
gliabechiana,  di  Firenze.  S'ha  ricordo  d'altri  scenari,  per  esempio,  di 
quelli  di  Domenico  Biancolelli,  che  possono  leggersi  riassunti  nella  Hi- 
stoire  de  l'Jlnc.  Théàtre  Italien,  del  Gherardi.  Altri  titoli  di  Sce- 
nari, ma  del  teatro  italiano  di  Parigi,  si  possono  rilevare  dal  Bartoli, 
op.  cit.  p.  XXXVII  e  segg.  Infine  diciotto  Scenari  si  leggono  in  un 
manoscritto  conservato  nella  Biblioteca  Comunale  di  Perugia  (A.  20)j 
e  del  quale  rese  conto  Benedetto  Croce  in:  Giornale  Storico  della 
Leti.  Italiana,  XXXI,  p.  458  (ved.  nostre  Appendici). 

(l)   Baschet;  op.  cit.   p.    106. 


—  35  — 

Eularia  Coris,  assai  bella,  Giovanni  Paolo  Fabri,  Nic- 
colò Barbieri,  detto  Beltrame,  eh'  era  anche  scrittore 
di  commedie,  Domenico  Bruni,  Diana  Ponti  (Lavinia), 
Niccolò  Zeno  (Bar (olino),  Girolamo  Caravini  {Capitan 
Rinoceronte),  ed  altri.  L'Andreini,  come  il  padre, 
come  la  madre,  era  colto  e  scriveva  commedie  e  tra- 
gedie, e  fra  queste  ultime  si  ricorda  ancora  V Adamo 
dal  quale  qualcuno  pretese  che  il  Milton  avesse  preso 
l'idea  del  suo  Paradiso  Perduto.  La  compagnia  si 
chiamava  dei  Fedeli  e  si  ha  notizia  che  nel  1608  fu 
a  Milano,  nel  1609  a  Torino,  dove  recitò  Florinda, 
tragedia,  dalla  quale  poi  la  prima  attrice  della  compa- 
gnia. Virginia  Andreini,  prese  il  suo  nome  d' arte,  nel 
1612  a  Bologna,  nel  1612  di  nuovo  a  Milano.  Poscia 
i  Fedeli  andarono  a  Parigi,  chiamativi  da  Maria  dei 
Medici,  e  vi  stettero  sino  al  1618;  ritornati  in  Italia, 
furono  a  Milano  nello  stesso  anno  1618,  a  Venezia 
nel  1619,  poi  ancora  a  Milano.  In  seguito  *la  regina 
Maria  de'  Medici  li  volle  nuovamente  a  Parigi,  dove 
stettero  sino  al  1623;  indi  passarono  a  Torino,  poi  a 
Venezia.  Li  troviamo  ancora  a  Parigi  nel  1 624  ;  nel 
1625  sono  a  Venezia,  a  Praga  nel  1630,  a  Venezia 
nel  1633,  a  Bologna  nell'anno  seguente,  a  Perugia 
nel  641.  Nel  1645,  si  formò  una  nuova  compagnia  sotto 
la  direzione  del  Barbieri,  detto  Beltrame,  la  quale, 
regnando  in  Francia  Luigi  XIII,  passò  a  Parigi,  dove 
stette  tre  anni.  Un'  altra,  condotta  da  Giuseppe  Bianchi, 
che  recitava  le  parti  di  Capitano  Spezzaferro,  andò 
ugualmente  a  Parigi,  dove  fu  una  prima  volta  nel  1639 
ed  una  seconda  nel   1645.  Ne  facevano  parte  Tiberio 


—  36  — 

Fiorini,  che  vi  acquistò  fama  grandissima  creando  la 
parte  di  Scaramuccia  (1),  Gabriella  Locatelli,  Giulio 
Gabrielli,  Margherita  Bertolazzi,  Domenico  Locatelli 
{Trivellino),  Brigida  Bianchi  ed  altri.  La  compagnia 
recitò  a\V  Hotel  Bourgogne  sino  al  1647  o  1648.  Altra 
compagnia  di  comici  italiani  che  recitò  a  Parigi  un 
pò*  più  tardi  (1653),  fu  quella  di  cui  facevano  parte 
insieme  a  parecchi  artisti  della  compagnia  precedente, 
il  Turi  (pantalone),  Costantino  Lolli  {T)ottore),  Marco 
Romagnesi  (Innamorato),  Beatrice  Adami  (Diamantina), 
Quest'  ultima  pare  che  sia  stata  molto  apprezzata  nella 
capitale  francese,  se  un  poeta  potè  cantare  di  lei: 

Mademoiselle  Béatrix 
Emporta  ce  jour  là  le  prix. 

La  compagnia,  che  cominciò  a  recitare  al  Petit- 
Bourbon,  nel  1660  passò  al  Palais-Royal  aggregandosi 
via  via  nuovi  attori  i  cui  nomi  possono  leggersi  in: 
Masques  et  Buffons,  del  Sand.  Se  non  che,  nel  1 668, 
il  favore  che  sin' allora  aveva  goduto  in  Francia  la 
commedia  italiana  dell'  arte  cominciò  a  decrescere  :  le 
recite  non  si  fecero  più  esclusivamente  in  italiano.  Era 
cessata  in  gran  parte  la  conoscenza  della  lingua  ita- 
liana ;  il  pubblico  cominciava  a  non  capir  più  la  lingua 

(  I  )  Morto  il  Fiorini,  sotto  un  ritratto  di  lui  furono  posti  i  seguenti 
due  versi: 

Il  fut  maitre  de  Molière, 
Et  la  nature  fu  le  sien. 


—  37  — 

dell*  Ariosto  e  del  Tasso,  specie  che  col  matrimonio 
di  Luigi  XIV  con  una  principessa  della  casa  reale  di 
Spagna,  la  lingua  del  Cervantes,  del  Calderon  e  di 
Lope  de  Vega  era  divenuta  di  moda  in  Francia.  Al 
teatro  italiano,  dunque,  le  produzioni  nella  lingua  dei 
comici  si  alternarono  con  commedie  e  farse  in  lingua 
francese,  distinguendovisi  Francesco  e  Caterina  figli  di 
Domenico  Biancolelli  (1),  Evaristo  Gherardi,  autore  di 
parecchie  commedie  a  soggetto  e  della  Histoire  de 
V Ancien  Théàtre  Italien,  Giuseppe  Tortoriti  e  Angelo 
Costantini  (cM^ezzettino),  che  s' acquistò  fama  non  solo 
per  le  sue  attitudini  artistiche,  ma  anche  per  le  sue 
avventure  (2).  Sotto  un  ritratto  di  lui ,  dipinto  dal 
De  Troy,  il  La  Fontaine  scrisse  i  versi   seguenti  : 

lei  de  Mézetin,  rare  et  noveau  Prothée, 

La  figure  est  raprésentée: 

La  Nature  l'ayant  pourvù 

Des  dons  de  la   métamorphose  ; 

Qui  ne  le  voit  pas,  n'  a  rien  vù. 

Qui  le  voit,  a  vù  toute  chose. 

(  1  )  L*  autore  degli  Scenarii  riassunti  dal  Gherardi  nella  Histoire  de 
r Ancien    Théàtre  Italien. 

(2)  Il  Costantini,  lasciato  Parigi,  andò  in  Sassonia  chiamatovi  da 
quell'Elettore  (Augusto  II)  per  formare  e  dirigere  una  compagnia  co- 
mico-lirica. S'acquistò  la  benevolenza  e  la  slima  del  principe  e  da  questo 
fu  creato  nobile  nonché  suo  cameriere  intimo  e  tesoriere  dei  suoi  minuti 
piaceri.  Ma  il  Costantini  non  parve  contento  di  tutta  codesta  pioggia 
di  favori;  cercò  di  rapire  al  principe  l'amante.  Augusto  II  obliò  com- 
pletamente le  allegre  risate  che  doveva  a  Mezzettino,  e  Io  fece  arre- 
stare ed  imprigionare  nel  castello  di  Konigstein  dove  rimase  più  di  venti 
anni.  Infine,  un'  altra  amante  del  principe  ottenne  la  sua  liberazione. 
A.  Bartoli,  Op.  cit.  p.  CXLVIII,   in  nota. 


—  38  — 


i 


( 


Se  non  che,  nel  1697,  quando  sembrava  che  i  co- 
mici italiani  avessero  posto  salde  radici  in  Francia, 
vennero  bruscamente  espulsi,  si  disse  per  una  commedia 
dove  si  volle  vedere  più  d' una  allusione  a  madama 
Maintenon,  la  quale,  in  quel  tempo,  dall'alcova  di  Luigi 
XIV,  governava  dispoticamente.  Scaramuccia,  Mezzet- 
tino,  Brighella,  Frittellino,  Arlecchino  non  fecero  più 
echeggiare  delle  loro  grasse  risate  le  sale  deWHótel 
Bourgogne  ;  essi  si  sparsero  un  po'  qua ,  un  po'  là, 
anche  in  Francia,  perchè  a  loro  non  fu  interdetta  che 
la  sola  scena  parigina;  ma  morto  il  Re-5o/ez7,  nel  1716 
il  duca  d'Orleans,  Reggente  del  regno,  che  non  aveva 
gH  scrupoli  della  vecchia  Maintenon,  richiamò  i  nostri 
buoni  comici  a  Parigi,  dove,  la  sera  del  18  maggio, 
diedero  la  loro  prima  rappresentazione  alla  presenza 
dello  stesso  Reggente.  Vi  rimasero  sino  al  1729;  poi 
fecero  una  punta  in  Italia,  ritornando  a  Parigi  nel  1731. 

Ma  se  italiani  erano  i  comici,  italiano  non  era  più 
il  repertorio  :  questo  era  divenuto  completamente  fran- 
cese ;  d' italiano  non  aveva  che  le  vecchie,  le  allegre,  J 
le  gloriose  maschere.  Arlecchino  era  Tommaso  An- 
tonio Vicentini  ;  Pantalone,  Pietro  Alberghetti  ;  il  Dot- 
tore, Francesco  Materazzi. 

Se  le  vicende  del  teatro  comico  italiano  a  soggetto 
in  Francia  possono  oggi  riassumersi  molto  facilmente 
grazie  ai  lavori  storici  dei  nostri  vicini  d' oltre  Varo , 
non  è  lo  stesso  per  quelle  del  teatro  comico  a  soggetto 
in  Italia  :  non  mancano,  in  verità,  le  notizie,  ma  sono 
scarse,  e  quasi  nulle  per  alcune  regioni  della  penisola. 
Di  parecchie  compagnie  s' hanno  però  gli  elenchi,  che 


—  39  — 

si  possono  leggere  nell'opera  più  volte  ricordata  di 
Adolfo  Bartoli,  rari  nei  primi  anni  del  Seicento,  nu- 
merosi fra  la  fine  di  questo  e  il  principio  del  Sette- 
cento; ma  già,  in  quest'ultimi  elenchi,  cominciano  a 
far  capolino  i  nomi  di  quegli  attori  ai  quali  Carlo  Gol- 
doni doveva  far  recitare  le  sue  commedie. 

Di  cotesti  attori  della  commedia  dell'arte  a  soggetto, 
molti  ebbero  certamente  attitudini  comiche  di  primo 
ordine,  se  re,  regine  e  principi  se  li  disputarono  ;  pa- 
recchi ebbero  cultura  non  ordinaria  ;  non  pochi  rag- 
giunsero la  celebrità.  La  maggioranza,  anzi  la  grande 
maggioranza,  non  era  certamente  ne  colta,  ne  probabil- 
mente bene  educata,  visto  che  l' educazione,  in  quei 
tempi,  difettava  anche  nelle  classi  elevate ,  dirigenti  : 
era  povera  gente  che  non  sapendo  adattarsi  ad  un 
mestiere  manovale,  si  buttava  all'arte,  ove,  se  non  altro, 
quando  indossava  un  abito  gallonato  o  un  cappello 
piumato  poteva  illudersi  d'essere  qualche  cosa  di  più 
dei  suoi  pari.  I  guitti  d' oggi ,  che  vagano  di  paese 
in  paese,  che  lasciano  all'albergatore  in  pegno  i  loro 
costumi  di  velluto  di  cotone  o  semplicemente  i  loro 
abiti  ordinari ,  non  nacquero  ne  ieri ,  ne  ieri  l' altro  ; 
ma  discendono  da  quei  comici  che  i  primi  resero  po- 
polare la  commedia  a  soggetto,  discendenti,  alla  loro 
volta,  da  quegli  istrioni,  buffoni  o  saltimbanchi  che  nel 
Medio-Evo  divertivano  con  le  loro  facezie,  con  le 
loro  canzoni,  coi  loro  salti  castellane  e  popolane,  genti- 
luomini e  borghesi.  Ma  quanto  all'  ingegno,  e,  sopra- 
tutto, alla  cultura,  meno  le  eccezioni  delle  quali  ab- 
biamo oià  fatto  cenno,  non  crediamo  che  ne  avessero  in 


—  40  — 

misura  straordineiria,  ed  esagerava  certamente  Adolfo 
Bartoli  quando  scriveva:  "  Certo  è  che  per  improv- 
visare quel  dialogo  o  anche  per  adattare  alle  varie 
situazioni  le  cose  già  lette  e  imparate  a  memoria,  si 
richiedeva  nei  comici  dell'  arte  non  solamente  ingegno 
e  disposizione  naturale,  ma  anche  coltura.  E  questa 
necessità  ci  spiega  un  fatto  che  riuscirà  forse  nuovo 
a  molti,  cioè,  gli  attori  dei  secoli  passati  furono  scrit- 
tori (1).  "  Giudizio  questo,  ripetiamo,  che  pecca  d'esa- 
gerazione, ed  anche  d' inesattezza  :  d' accordo  che  per 
diventare  grande  attore  o  grande  attrice  occorre  un'at- 
titudine speciale,  diremo  anche  eccezionale,  per  ripro- 
durre tipi  e  caratteri,  per  investirsi  degli  afletti  e  delle 
passioni  del  personaggio  che  si  rappresenta  sulla  scena. 
L' ingegno  di  Garrick  o  di  Talma,  della  Rachel  o  della 
Ristori,  di  Gustavo  Modena  o  di  Tommaso  Salvini, 
sotto  questo  aspetto,  non  è  minore  di  quello  di  un 
grande  poeta,  d' un  grande  scultore  o  d' un  grande 
pittore;  ma  argomentare  da  questo  ingegno  speciale 
la  cultura  dell'artista,  non  ci  sembra  esatto.  Dimo- 
streremo più  innanzi  come  il  dialogo,  nella  commedia 
dell'  arte,  non  fosse  affatto  improvvisato,  o  per  lo  meno, 
all'improvvisazione  non  fosse  lasciata  che  una  parte 
assai  modesta  per  quanto  la  commedia  a  soggetto  o 
a  braccia  fosse  chiamata  "  improvvisa  " ,  ed  essa,  sulla 
carta,  non  si  riducesse  che  ad  un  magro  scenario  e 
a  sobrie  indicazioni.  Per  altro,  compulsando  bene  la 
storia,  si    troverebbe    che  dei  tanti    comici-commedio- 

(1)  Op.  cit.  p.  CIX. 


—  41   — 

grafi  ricordati  da  essa,  nessuno,  proprio  nessuno,  lasciò 
un*  opera,  anche  breve,  che  fosse  degna  d' essere  ri- 
cordata, meno  forse  Y Adamo  di  Giambattista  Andreini, 
non  tanto  pel  suo  valore  intrinseco  quanto  per  essere 
stato  ritenuto  da  parecchi  il  punto  di  partenza,  per 
Giovanni  Milton,  del  suo  Paradiso  Perduto  :  lo  stesso 
Bartoli,  in  sostanza,  ne  conviene  tanto  che  per  met- 
tere insieme  una  rassegna  di  comici-scrittori,  ebbe  a 
frugare  faticosamente  nelle  biblioteche  dalle  quali  non 
trasse  fuori  che  nomi  d'autori  e  titoli  di  commedie 
perfettamente  dimenticati.  Ciò  non  pertanto,  codesti 
comici  -  scrittori  costituiscono  una  pagina  della  storia 
della  commedia  dell'arte,  ne,  in  questo  nostro  lavoro, 
deve  passarsi  sotto  silenzio.  Così  oltre  il  Cherea  da 
noi  ricordato ,  scrissero  commedie  o  tragedie  Angelo 
Beolco,  detto  il  Ruzzante  (1),  il  quale  forse  fu  il 
primo  ad  introdurre  sulla  scena  i  diversi  dialetti  d'  I- 
talia ,  Flaminio  Scala,  che  fu  il  primo  a  compilare  o 
a  raccogliere  gli  Scenari  (2),  Giovanni  Donato  Lom- 
bardo ,  Giovanni  da  Pistoja ,  Bernardino  Lombardi, 
autore  d' un  A  Ichimista,  in  cui  il  Bartoli  trova  qualche 
pregio,    Fabrizio    de   Fornaris,   Pier  Maria   Cecchini , 

(  1  )  Il  Ruzzante  fu  erroneamente  ritenuto  come  autore  di  commedie 
a  soggetto.  Le  sue  commedie  sono  tutte  distese.  "  Se  il  carattere  della 
commedia  dell*  arte  è  quello  d'essere  improvvisata,  è  chiaro  che  tale 
non  può  dirsi  la  commedia  del  Ruzzante.  Diciamola  commedia  popo- 
lare, sì,  ma  non  dell'  arte,  se  non  vogliamo  confonder  tutto.  "  A.  Bar- 
toli; op.  cit.  p.  CXXVII,   (in  nota). 

(2)  Si  ha  a  stampa  una  commedia  distesa  dello  Scala:  Il  finto  ma- 
rito (Venetia,    1619). 


—  42  — 

che  scrisse  anche  sul  modo  di  recitare  le  commedie, 
Niccolò  Barbieri  detto  Beltrame,  che  scrisse  anche  a 
difesa  dei  comici  e  del  teatro  comico,  tacciati  gli  uni 
e  l'altro  d'immoralità,  Andrea  Calmo  sotto  il  nome 
del  quale  va  anche  qualche  commedia  del  Ruzzante  (I), 
Pietro  Cotta,  detto  Celio,  Silvio  Fiorillo,  Francesco 
Bartoli,  che  scrisse  anche  [Njìtizie  Storiche  dei  Comici 
Italiani  e  fu  marito  di  quella  Teresa  Ricci,  comme- 
diante come  il  Bartoli,  che  fu  corteggiata  da  Gaspare 
Gozzi;  Giuseppe  Imer,  di  Genova,  Brigida  Bianchi, 
Francesco  Bassi,  Pietro  Adolfatti,  Pietro  Rosa,  Andrea 
Patriarchi,  Pompilio  Miti,  Nicodemo  Manni,  Placido 
Grani,  Domenico  Fortunati,  ed  altri  ed  altri.  Scrissero 
pel  teatro  comico  italiano  di  Parigi  Pier  Francesco 
Biancolelli,  Elena  Belletti-Riccoboni,  Giovanni  Anto- 
nio Romagnesi,  Fabio  Strioti,  Carlo  Veronese. 

Ma  tutti  codesti  nomi  non  arrivano  a  farci  cambiare 
di  parere;  la  grande  maggioranza  di  quei  comici  era 
plebe.  Il  Perrucci  (2)  scriveva  :  "  Il  male  si  è  che 
oggi  si  stima  abile  per  ingolfarsi  nella  Comica  improv- 
visa, e  la  più  vile  feccia  della  plebe  vi  s'impiega, 
stimandola  cosa  facile  ;  ma  il  non  conoscere  il  pericolo 
nasce  dall'  ignoranza Ond'  è  che  i  vilissimi  ciur- 
matori e  saltimbanchi  che  s'  hanno  posto  in  testa  d' al- 
lettare le  genti vogliono  rappresentare  nelle  pub- 
bliche piazze  commedie  all'  improvviso,  storpiando  i 
soggetti,  parlando  allo  sproposito,    gestendo  da  matti , 

(1)  L.  Rasi;  Dizionari  v.  Biogr.  Voi.    I.;  p.  350. 

(2)  Dell'Arte  liappreserìtaliva,   ec.  Napoli,  1699,  pag.    189. 


—  43  — 

e  quel  eh*  è   peggio,    facendo   mille   oscenità   e   spor- 
chezze ..." 

Come  abbiamo  potuto  vedere,  la  commedia  italiana, 
sia  distesa  o  scritta,  sia  a  soggetto,  sino  ai  primi  anni 
del  secolo  XVIII,  e  quindi  prima  del  Goldoni,  non 
aveva  avuto  ancora  ne  un  Plauto ,  ne  un  Molière  : 
solo  era  emersa  quella  improvvisa,  ma  per  virtù  dei 
suoi  interpreti  i  quali  per  due  secoli  avevano  avuto 
la  virtù  di  far  ridere  i  pubblici  di  Italia  e  di  Francia; 
ma  era  virtuosità  d' artisti  :  sulla  scena  del  teatro  comico 
italiano  non  era  ancora  apparso  un  genio  creatore  di 
un  tipo  di  commedia  che  non  fosse  ne  quella  degli  eru- 
diti, calcata  sulle  orme  dei  classici,  ne  quella  a  braccia 
affidata  allo  spirito  e  all'arte  dei  comici. 


a    a 


CAPITOLO  SECONDO 

La  Forma  della  Commedia  dell'Arte 


Sebbene  tutte  le  forme  dell'arte  subiscano,  più  o 
meno,  l' influenza  dei  tempi  attraverso  i  quali  si  evol- 
vono, pure  la  commedia  dell'  arte  o  a  soggetto,  nella 
sua  parte  esteriore,  materiale,  non  obbedì  che  lenta- 
mente, assai  lentamente,  a  siffatta  legge.  La  forma 
della  commedia  dell'arte  —  si  badi,  forma,  e  non 
contenuto  —  durante  la  vita  quasi  bicentenaria  di 
quello  spettacolo,  e  quindi  durante  la  seconda  metà 
del  Cinquecento,  tutto  il  Seicento,  e  una  parte  del 
Settecento,  è  quasi  immobile,  quasi  cristallizzata  in 
quella  latina  o  erudita:  essa  non  ricalca  che  molto 
pedestremente  le  orme  di  Plauto  e  di  Terenzio.  Se 
si  riducesse  a  scenario  o  a  soggetto  una  delle  comme- 
die di  questi  due  ultimi  scrittori,  si  vedrebbe  che  il 
nuovo  scenario  o  soggetto  plautino  o  terenziano  non 
differirebbe  che  in  maniera  impercettibile  da  uno  di 
quelli  del  teatro  di  Flaminio  Scala  o  del  Loccatello.  • 
Come  nella  tragedia  a  tipo  classico  la  forma  non  s' i- 
spirò  che  ai  precetti  d'  Aristotile,  e  questi  —  almeno  in 


—  45  — 

Italia  e  in  Francia  —  non  furono  posti  da  parte  che  as- 
sai tardi,  quando,  cioè,  la  reazione  contro  il  classici- 
smo prese  vigore  e  consistenza  sotto  il  nome  di  ro- 
manticismo, così  nella  commedia  dell*  arte  la  forma 
latina  non  fu  abbandonata  completamente  che  con  la 
riforma  goldoniana.  Si  confronti  una  commedia  di 
Plauto  o  di  Terenzio  con  una  commedia  dell'  arte,  e 
subito  ciò  salterà  all'occhio  :  c'è  la  stessa  immobilità  di 
scena  ;  questa,  sempre,  o  quasi  sempre,  non  rappresenta 
che  una  piazza  o  una  strada;  le  case  dei  personaggi 
che  prendono  parte  all'azione,  o  quelle  dei  principa- 
li, si  trovano  in  quella  piazza,  in  quella  via  :  i  loro 
inquilini,  gli  amici  dei  loro  inquilini,  vi  entrano  o  ne 
escono  a  loro  talento,  secondo  i  bisogni  dell'azione  (1). 
L'immobilità  della  scena  con  tutte  le  sue  incoeren- 
ze, che  non  possono  passare  inosservate  nemmeno  al 
più  ingenuo  degli  spettatori,  regna  sovrana  tanto  nella 
commedia  latina  come  in  quella  a  soggetto.  Vi  si 
sente  quasi  l'infanzia  dell'arte,  la  quale  se  è  spiega- 
bile nel  teatro  latino,  anche  per  le  abitudini  di  vive- 
re in  pubblico,  nei  fori,  nelle  basiliche,  nelle  terme, 
non  trova  nessuna  giustificazione  nel  teatro  a  braccia 
nato  e  cresciuto  in  una  società  affatto  diversa.  Lo 
stesso  Plauto,  lo  stesso   Terenzio,  s' accorgevano  bene 

(1)  Contrariamente  agli  Scenarii  dello  Scala,  della  Magliabe- 
chiana,  del  Loccatello  e  d'altri,  parecchi  di  quelli  della  Raccolta  Na- 
poletana offrono  esempi  di  cambiamenti  di  scena:  se  non  che  trattasi 
di  scenarii  o  soggetti  della  fine  del  700  o  rimaneggiati  verso  quel 
tempo  e  quindi  quando  il  teatro  spagnuolo  con  le  sue  libertà  anti-ari- 
stoteliche  era  stato  fatto  proprio  dai  comici   italiani. 


—  46  — 

di  tutte  le  difficoltà  che  si  traeva  seco  V  immobilità 
della  scena;  se  non  che,  non  sapevano  superarle,  o 
credevano  d'  averle  superate  con  ripieghi,  con  mez- 
zucci, eh'  erano  addirittura  infantili.  Plauto,  per  esem- 
pio, nella  Casina  (Atto  II,  Se.  I),  immagina  che 
Cleostrata  ha  bisogno  di  recarsi  in  casa  della  sua  a- 
mica  Mirrina,  la  cui  casa  e  lì,  sulla  piazza,  accanto 
alla  propria  ;  ma  ecco  che  1'  amica  ne  vien  fuori,  e 
quindi  è  evitato  il  cambiamento   di  scena: 

E  or  anderò  qui  dalla  vicina 

A  lamentarmi  della  mia  fortuna; 

Ma  crepita  la  porta  :  eccola  viene 

Fuori  essa  stessa  :  non  mi  mossi  a  tempo, 

Per  Ercole  (1). 

Nella  stessa  Casina  (  atto  IV,  se.  I) ,  non  potendo 
Fautore  fare  assistere  il  pubblico  al  banchetto  che  si 
celebrava  per  le  nozze  della  fìnta  Casina  col  villico 
Olimpione,  perchè  ha  luogo  in  casa  di  Stalinone ,  è 
costretto  a  farne  fare  la  descrizione  dalla  serva  Parda- 
lisca,  mentre  questa  se  ne  sta  sulla  piazza  : 

Tutti  si  danno  gran  moto  per  la  casa. 
Il   vecchio  grida  in  cucina  ed  esorta 
I  cuochi.  Oggi  che  fate?  Che  ci  date, 
Se  pur  qualche  cosa  date?  Fate  presto: 
La  cena  bisognava  che  fosse 
Cotta.  E  il  villico  con  una  corona. 
Bianco  vestito  ne  va  avanti  e  indietro 


(1)  Traduzione  del  senatore  Gaspare  Finali. 


—  47  — 

Tutto  lindo  e  azzimato.  Esse  poi  vestono 

Dentro  una  stanza  l'armigero,  il  quale 

Dee  far  da  moglie  invece  della  Casina  ; 

Ma  san  dissimular  quel  che  accadrà. 

I   cuochi  fanno  in  maniera  che  il  vecchio 

Non  ceni;  ora  ribaltan  le  pignate, 

Ora  spengon  il  fuoco  con  dell'acqua... 

Sempre  nella  stessa  Casina  (atto  IV,  se.  II),  il  vec- 
chio Stalinone,  che  ha  divisato  di  godere  i  favori  della 
giovine  schiava  Casina,  che  ha  creduto  di  maritare  al 
suo  villico  Olimpione ,  mentre  la  moglie  con  sottile 
astuzia  ha  sostituito  alla  schiava  un  soldato,  annunzia 
alla  sua  famiglia,  stando  sulla  porta  della  casa,  ch'egU  si 
reca  in  campagna: 

Voi  se  sapete  fare,  moglie  mia. 
Andrete  a  cena  appena  che  sia  cotta; 

10  cenerò  in  campagna,  dove   voglio 

11  novello  marito  accompagnare, 

E  la  novella  sposa:  so  pur  troppo 
Quanti  uomini  vi  son  di  male  affare 
Che  potrebber  rapirla.  Ora  voi  fate 
Tutto  il  vostro  piacere 

Si  comprende  che  la  moglie  del  vecchio  Stalinone 
sta  in  casa  e  non  è  vista  dagli  spettatori. 

Nel  'Punitore  di  se  stesso,  di  Terenzio,  i  due  amici 
Cremete  e  Menedemo,  sono  in  iscena,  cioè,  in  piazza: 
occorre  all'autore,  ai  fini  dell'  azione,  che  il  secondo 
dei  detti  personaggi  resti  solo,  ed  allora  Cremete  dice 
ch'egli  è  stato  proposto  arbitro    in    una  causa  e  deve 


—  48  — 

andar  via.  Va  via,  difatti,  e  poco  dopo  rientra  e  dice 
d'aver  fatto  tutto  (atto  I;  se.  I  e  segg.)  Nella  stessa 
commedia  Sostrata ,  moglie  di  Cremete ,  scopre ,  me- 
diante un  anello,  che  la  ragazza  che  ha  in  casa,  è  sua 
figlia;  vuol  dare  la  lieta  novella  al  marito,  esce  fuori, 
s'imbatte  in  quest'ultimo,  e  sulla  via  gli  narra  la  sco- 
perta e  il  modo  con  che  si  sbarazzò  della  figlia  dopo 
d'averla  messa  al  mondo  (atto  IV;  se.  I). 

Questi  esempi  si  potrebbero  moltiplicare  all'infinito, 
poiché  la  commedia  latina,  imbarazzata  dalla  stabilità 
della  scena,  era  costretta  di  ricorrere  a  cento  e  cento 
ripieghi,  la  cui  scarsa  ingegnosità,  come  abbiamo  visto, 
lasciava  travedere  un'arte  veramente  infantile.  Ne  di-i 
versamente  procedette  la  commedia  a  soggetto.  Se  noi 
che,  qualche  volta  l'azione  non  si  piega  alla  stabilità 
della  scena  per  quanto  l'autore  si  affatichi  a  piegarvela; 
ed  allora  il  personaggio  stesso  s'incarica  di  far  cono- 
scere al  pubblico  il  luogo  dove  in  quel  momento  si 
svolge  l'azione. 

Nella  Vedova  costante  (1),  l'azione  ha  luogo  sulla 
strada,  dinanzi  alle  case  d'Isabella  e  d'Ardelia,  questa 
figlia  d'  Ubaldo ,  quella  del  Dottore  ;  Isabella  dà  ad 
Orazio,  un  amante  da  lei  non  corrisposto,  un  appun- 
tamento fuori  le  mura  della  città:  ora  si  reca  al  luogo 
designato,  ma  siccome  la  scena  non  ceunbia,  così  egli 
per  far  conoscere  agli  spettatori  che  la  scena  cambia, 
dice  semplicemente  che  quello  li  è  il  posto  fissato  per 
l'appuntamento. 

(1)  A.  Bartoli;  op.  cit.   p.  13. 


I 


—  49  — 

AI  contrario  della  commedia  latina,  quella  dell'arte 
ha  saputo  rendere  più  varia  la  stabilità  della  scena 
traendo  profitto  dalle  mutate  condizioni  dell'architettura. 
La  finestra,  nella  commedia  a  soggetto,  serve  spesso  a 
dissimulare  le  difficoltà  che  presenta  l'immobilità  della 
scena:  dalla  finestra  si  ascolta  facilmente,  quasi  senza 
ricorrere  a  ripieghi  più  o  meno  ingegnosi,  quello  che 
si  dice  e  fa  sulla  piazza  o  sulla  via,  e  da  questa  quello 
che  si  dice  e  fa  in  quella,  senza  tener  conto  che  i 
colloqui  fra  coloro  che  stanno  alla  finestra  e  quelli  che 
stanno  sotto  sono  facili  e  naturali.  La  finestra ,  poi , 
aiuta  a  complicare  l'intrigo:  si  salta  assai  agevolmente 
da  essa  sulla  strada,  e  da  questa  su  quella.  Nella  com- 
media //  Medico  volante  (1),  Cola,  servitore  e  finto 
medico  (Atto  II;  Se.  XVII  e  XVIII),  rappresenta 
due  personaggi,  dei  quali  uno  deve  trovarsi  in  casa 
del  vecchio  Ubaldo  e  l'altro  in  piazza:  ebbene,  Cola 
saltando,  attraverso  la  finestra,  dalla  casa  sulla  piazza 
e  da  questa  in  quella,  rappresenta,  imbrogliando  l'in- 
trigo, le  due  parti.  Lo  stesso  esercizio  Cola  ripete  nel- 
l'atto terzo  della  commedia  medesima.  Nel  teatro  co- 
mico latino,  pel  difetto,  nelle  case  private,  di  finestre 
sporgenti  sulla  via  o  sulla  piazza,  l'autore  non  poteva 
ricorrere  a  codesto  artifizio:  i  personaggi  si  fermavano 
sulla  porta  e  di  là  discorrevano  con  coloro  che  stavano 
dentro  la  casa  o  venivano  di  fuori. 

La  finestra  si  porgeva,  poi,  nella  commedia  del- 
l' arte,  a  rendere  facili  i  colloqui  amorosi,    specie  che 

(1)  A.  Bartoli;  op.   cit.   p.    103. 

!ACel  Regno  delle  ^^aschere  4 


—  50  — 

i  padri  e  i  mariti  erano,  quasi  sempre,  dipinti  diffiden- 
ti, gelosi,  e  chiudevano  a  chiave  le  figlie  e  le  mo- 
gli. Puntalone  dei  Bisognosi,  o  il  vecchio  Ubaldo  o 
il  suo  vicino  di  casa  Pandolfo  —  questi  due  ultimi 
personaggi  non  erano  che  una  sotto-varietà  del  pri- 
mo —  avevano  un  bel  raccomandare,  uscendo  di  ca- 
sa, alla  figlia  o  alla  moglie  di  non  metter  hiori  della 
finestra  la  punta  del  naso:  raccomandazione  sprecata, 
la  finestra  era  lì  aperta  o  socchiusa,  e,  nella  assenza 
del  padre  o  del  marito,  i  colloqui  fioccavano.  Se  la 
porta  di  casa  non  era  serrata,  si  spiava  dalla  finestra 
r  arrivo  del  padrone,  e  l' amante,  che  la  serva  o  il 
servo  compiacente  aveva  introdotto  in  casa,  aveva 
tutto  il  tempo  per  nascondersi  o  svignarsela.  Non 
parliamo  poi  delle  serenate  fatte,  al  chiaro  di  luna, 
di  sotto  alla  finestra.  Quando  non  e'  era  la  finestra, 
e*  era  il  tenazzino:  allora  la  padrona  o  la  serva  vi 
pigliava  il  fresco,  o  vi  stava  a  contemplare  la  luna, 
mentre,  di  sotto,  dalla  strada,  un  Lelio  o  un  Florindo 
spiava  r  occasione  di  far  giungere  all'  amata  una  let- 
terina esprimente  il  suo   amore. 

Tanto  nella  commedia  latina  quanto  in  quella  del- 
l' arte,  i  personaggi  che  non  occorre vono  più  per  far 
scena,  si  mandavano  via  spesso  senza  un  apparente 
motivo  ;  andavano  e  venivano  con  tutto  il  loro  comodo; 
e  quando  di  questo  loro  andare  avanti  ed  indietro 
volevano  fornire  una  spiegazione,  questa  era  spesso 
ingenua,  sciocca.  Plauto  mandava  via  di  scena  ordi- 
nariamente i  suoi  personaggi,  se  vecchi,  col  pretesto 
d' andare  al  foro  per  difendervi  la  causa  d' un  clien- 


—  si- 
te, o  per  dare  il  suo  giudizio  come  arbitro;  nella 
commedia  dell'  arte,  questo  pretesto  era  diverso,  ma 
non  meno  estraneo,  allo  svolgimento  dell'azione,  di 
quanto  lo  fosse  quello  delle  commedie  di  Plauto  e 
di  Terenzio. 

L' azione,  spesso,  si  svolgeva  per  narrazione  ;  i  per- 
sonaggi, più  che  agire,  raccontavano  ciò  che  avevano 
fatto  o  che  avrebbero  fatto.  Nei  comici  latini  questo 
mezzo  assai  ingenuo  e  primitivo  per  far  progredire 
r  azione  o  portarla  a  cognizione  del  pubblico  era  an- 
cora, se  possibile,  più  ingenuo  e  primitivo;  poiché 
r  attore,  che  recitava  il  Prologo,  s' incaricava,  prima 
che  cominciasse  la  rappresentazione,  di  spiegare  agli 
spettatori  quanto  sarebbe  avvenuto  sulla  scena.  Nel- 
r  Aulularia,  di  Plauto,  il  prologo  è  recitato  dal  La- 
re della  famiglia,  il  quale  narra  che  in  una  di  quel- 
le case,  che  si  vedono  sulla  scena,  sta  un  certo  Eu- 
clione,  un  vecchio  avaro  e  padre  d' una  bella  fan- 
ciulla. C  era  là  sepolto  un  tesoro  ed  egH,  il  Lare,  lo 
fece  rinvenire  a  quel  vecchio  e  ne  aggiunge  il  mo- 
tivo: 


In  grazia  degli  onori  che  mi  rende 

Feci  che  quel  tesoro  ritrovasse 

Euclione,  affinchè  più  facilmente 

Possa  darle   [alla  figlia)  marito.  Un  giovinotto 

Di  gran  famiglia  ad  essa  usò  violenza; 

Il   giovinotto  la  conosce  bene, 

Ma  non  sa  dessa  chi  sia  stato,  e  il  padre 

Non  sa  che  la  figliuola  sia  violata. 


—  52  — 

Oggi  io  farò  che  il  vecchio  (1)  di  qui   presso 
Per  sé  la  chiegga  in  moglie;  io  farò  questo 
Perchè  più  facilmente  la  conduca 
In  moglie  quegli  che  le  usò  violenza. 

Lo  stesso  Plauto,  nel  prologo  dei  Prigionieri  (Ca- 
pteivi),  e  più  esplicito;  espone  l'azione  sin  nei  più 
minuti  particolari  : 

Questi  due  prigionieri  che    vedete 
Qui  stare,  i  due  che  son  lì  fermi,  stanno 
Ambedue  in  pie  non  già   a  sedere. 
Egione  il  vecchio  che  sta  qui  presso, 
E'  padre  di  costui  ;  ma  per  qual   caso 
Questi  al  suo  padre  serva,  innanzi  a  voi 
Lo  spiegherò,  se  m'ascoltate.... 

Terenzio  non  faceva  diversamente  ;  egli,  veramente» 
faceva  qualche  cosa  di  più,  discuteva  anche  nel  pro- 
logo coi  suoi  critici  che  gli  rinfacciavano  i  suoi  plagi» 
dei  quali  egli,  per  altro,  menava  vanto  (2). 

Però,  il  prologo,  che  ad  imitazione  della  comme- 
dia latina  aveva  messo  radice  dapprima  nelle  rap- 
presentazioni religiose,  poi  nelle  commedie  letterarie 
del  Cinquecento,  fu  abolito    in    quelle    dell'  arte  :    in 

(1)  Megadoro,  uno  dei  personaggi  della   commedia. 

(2)  Nel  Punitore  di  sé  stesso:  "  Quanto  alle  voci  propagate  dai 
malevoli,  cioè,  eh'  egli  abbia  mescolato  poche  commedie  greche,  men- 
tre ne  compone  poche  latine —  non  gliene  rincrebbe  per  nulla;  anzi 
ha  intenzione  di  farlo  anche  in  avvenire.  In  ciò  egli  segue  I'  esempio 
dei  buoni  autori....  „  E  probabilmente  alludeva  a  Plauto. 


—  53  — 

queste  l' autore  volle  che  la  curiosità  del  pubblico 
restasse  viva  e  sospesa  sino  alla  fine  dello  spettacolo, 
senza  che  uno  degli  attori ,  prima  dell'  alzarsi  del  si- 
pario, uscisse  fuori  a  sciuparla  raccontando  l' intieccio 
della  commedia. 

La  caratteristica  principale  della  commedia  dell'arte, 
in  ordine  alla  forma,  era,  come  si  sa,  l*  improvvisazione. 
Andrea  Ferrucci,  scrivendo  sulla  fine  del  secolo  XVII 
l'opera:  Dell'Arte  rappresentativa  premeditata  e  allo 
improvviso,  dichiarava  che  alla  prima  rispondeva  la 
commedia  letteraria,  intieramente  dialogata,  e  alla  se- 
conda la  commedia  dell'  arte  o  a  soggetto  e  della  quale 
non  si  scriveva  che  il  solo  scenario. 

Improvvisa,  realmente,  fu  chiamata  quest'  ultima  com- 
media, e  così  si  continua  a  chiamare  ;  se  non  che,  se 
non  tutti,  certamente  parecchi  di  coloro  che  ne  hanno 
scritto,  o  continuano  a  scriverne,  hanno  ritenuto,  o  con- 
tinuano a  ritenere,  che  sulla  commedia  dell'  arte  il  solo 
canovaccio,  cioè,  l'argomento  svolto  nelle  sue  grandi 
e  piccole  divisioni  d' atti  e  di  scene,  appartenesse  al- 
l' autore  ;  il  resto,  cioè,  il  dialogo,  fosse  opera  esclusiva 
dei  comici.  Divisione,  codesta,  in  forza  della  quale  la 
parte  riservata  al  commediografo  era  assai  povera  cosa, 
o,  per  lo  meno,  non  era  la  principale,  la  più  impor- 
tante, poiché  spesso,  nello  scenario  o  soggetto,  le  si- 
tuazioni non  erano  che  superficialmente  accennate , 
quando  non  lo  erano  affatto.  Molti  degli  scenari  della 
commedia  dell'  arte  non  danno  che  una  idea  assai  vaga, 
confusa  dell'  azione  :  qui,  più  che  un  canovaccio,  si 
direbbe  una   linea;  là,  un  segno  ;  era  addirittura  l'artista 


—  54  — 

che  non  solo  recitava,  ma  creava  di  sana  pianta 
la  parte.  Negli  Scenari  corsiniani  questa  sobrietà  d'in- 
dicazioni è  incredibile  :  degli  atti  intieri  sono  condensati 
in  poche  righe  (1).  Quindi  s'ingannerebbe  a  partito  chi 
prendesse  alla  lettera  la  denominazione  di  commedia 
improvvisa,  o  a  soggetto  o  a  braccia;  in  realtà,  assai 
poco,  veramente  assai  poco,  era  lasciato  all'improvvi- 
sazione, anche  perchè  non  tutti  i  comici  che  prende- 
vano parte  alla  recita  avevano  cultura  o  attitudine  per 
dire  all'  improvviso  :  e  se  commedia  premeditata  fu  detta 
allora  quella  intieramente  scritta,  non  meno  premeditata 
in  gran  parte  si  potrebbe  chiamare  quella  improvvisa. 
E  difatti,  impropriamente  improvvisa  fu  detta  quest'  ul- 
tima; ne  noi,  dicendo  così,  affermiamo  cosa  che  non 
possa  giustificarsi,  come  subito  si  vedrà,  con  le  prove 
alla  mano. 

Chi  non  conosce  il  retroscena  della  commedia  del- 
l'arte,  chi  non  l'ha  studiato  nei  suoi  particolari  intimi, 
specie  nella  sua  preparazione  e  nel  suo  allestimento 
scenico,  potrebbe  supporre  che  la  parte  dialogata  della 
azione  s'improvvisasse  sulla  scena,  come  in  quei  tempi, 
e  nei  posteriori,  i  poeti  improvvisavano  versi  e  magari 
tragedie  sul  semplice  tema  offerto  da  uno  degli  uditori. 
Certamente,  una  commedia  improvvisata  in  tal  modo 
avrebbe  dato  al  pubblico  un  saggio  assai  apprezzabile 


(1)  Però  ogni  scenario  (e  sono  in  tutto  cento)  porta  in  fronte  una 
tavola  a  colori  rappresentante  in  tutti  i  suoi  particolari  la  scena-madre 
o  principale:  cosa  assai  importante  per  una  futura  storia  del  costume 
teatrale  italiano. 


—  55  — 

non  solo  della  valentia  tecnica  dell'  artista,  ma  anche 
del  suo  ingegno  e  della  sua  istruzione.  I  dialoghi  briosi, 
le  trovate  comiche,  i  lazzi  degli  zanni,  le  uscite  sen- 
timentali dell'  innamorato  e  della  innamorata,  quelle 
roboanti  di  Capitan  Spavento,  i  discorsi  infarciti  di 
latino  del  Dottor  Graziano,  le  parole  o  le  frasi  a  doppio 
senso,  tutto  in  tal  modo  sarebbe  stato  il  prodotto  del- 
l'ispirazione  del  momento.  Ma  nessuno  ha  mai  pensato 
sin' ora  che  se  realmente  le  cose  fossero  passate  così 
sulle  scene  del  teatro  comico  a  soggetto,  le  compagnie 
della  commedia  dell'  arte  avrebbero  dovuto  reclutare 
il  loro  personale  artistico  fra  gl'ingegni  più  svegliati, 
più  arguti,  più  riboccanti  di  fantasia  e  di  vis  comica 
del  tempo,  senza  tener  conto  che  in  tal  modo  composte 
le  compagnie,  avrebbero  queste  avuto  degli  eccellenti 
improvvisatori,  ma  non  sempre  comici  valorosi  ;  poiché 
è  risaputo  come  difficilmente  le  due  qualità,  cioè,  di 
inventore  e  d' interprete,  vadano  riunite  nella  stessa  per- 
sona. E  vero  che  nei  comici  della  commedia  dell'arte 
codeste  due  qualità  andarono  qualche  volta  accoppiate; 
ma  ove  si  pensi  che  codesti  attori  ed  autori  ad  un  tempo 
non  costituivano  che  una  quasi  impercettibile  minoranza 
di  fronte  all'  immensa  turba  degli  interpreti  dotati  d*  una 
superfìcialissima  cultura  e  sforniti  di  facoltà  inventiva, 
incapaci  di  mettere  insieme  poche  battute  di  dialogo, 
un  soliloquio  magari  di  forma  più  che  minuscola,  già 
è  bello  e  detto  come  il  concetto  d'  una  commedia  im- 
provvisata, nella  parte  dialogata,  lì  per  lì,  sulla  scena, 
alla  presenza  degli  spettatori,  sia  da  relegarsi  fra  le 
leggende.    Del   resto,   qui   non  si  tratta  di  congetture, 


—  56  — 

poiché,  come  già  dicemmo,  possiamo  provare  quanto 
ora  affermiamo,  anche  perchè  i  fatti  si  accordano  con 
le  ragioni  dell'  arte,  non  potendosi  immaginare  un'  a- 
zione  ben  concatenata  fra  le  sue  parti  e  sopratutto  ben 
dialogata  senza  che  sia  preceduta  da  un  accurato  al- 
lestimento, e  quindi  senza  quella  tale  premeditazione,] 
come  scriveva  il  seicentista  Ferrucci,  che  solo  rende 
possibile  la  perfetta  esecuzione  d'una  commedia.         jj 

Ma  entriamo,  per  un  istante,  con  un  leggiero  sforzo 
della  nostra  immaginazione  sussidiata  da  qualche  do- 
cumento del  tempo,  in  uno  dei  teatri  in  cui  nel  se- 
colo XVII  si  recitava  la  commedia  a  soggetto.  Entriamo 
in  teatro  nell'  ora  della  prova,  un  po'  prima  di  mezzodì. 
Noi  abbiamo  una  buona  guida  che  ci  assisterà  durante 
la  nostra  presenza  sul  palcoscenico  svelandoci  i  segreti 
dell'arte  comica  di  quei  tempi.  E  il  Ferrucci  da  noij. 
più  volte  ricordato.  1 

Come  su  tutti  i  palcoscenici  nell'  ora  mattutina  delle 
prove,  la  luce  non  piove  sulla  scena  che  in  modo  assai 
scarso  ;  entrando  dall'  usciolo  d' ingresso,  posto  ordina- 
riamente in  fondo  al  corridoio  dei  palchi  di  prima  fila, 
non  ci  si  vede  affatto  tanto  le  ombre  avvolgono  cose 
e  persone.  Inciampando  ora  in  una  sedia,  ora  in  una 
quinta,  dando  ora  la  punta  del  naso  in  una  canucola 
pendente  dall'  aito,  ora  sulla  parte  estrema  d' una  scena 
alzata  per  metà,  noi  arriviamo  a  pervenire  sul  proscenio, 
in  prossimità  del  cupolino  del  suggeritore.  Il  nostre 
occhio  che  nel  frattempo  s' è  abituato  a  quella  mezza 
luce  che  regna  lì  dentro,  comincia  a  distinguere,  ur 
po'  alla  volta,  tutte  le  particolarità  del  luogo,  comprese 


—  57  — 

le  persone.  Queste  attirano  subito  la  nostra  attenzione: 
sono  i  comici  lì  riuniti  per  la  prima  prova  d'una  com- 
media a  soggetto,  poiché  la  commedia  dell'  arte,  sebbene 
detta  improvvisa,  si  provava  e  riprovava  come  se  fosse 
una  commedia  distesa  o  letteraria. 

Non  duriamo  molta  fatica  a  riconoscere  le  attrici: 
la  prima  donna,  l' amorosa,  la  servetta.  Ecco  gli  attori: 
I  due  vecchi,  cioè,  Pantalone  e  il  Dottore,  l' innamorato, 
il  Capitano,  gli  Zanni  sotto  le  diverse  denominazioni 
di  Stoppino ,  Trappola ,  Cola ,  Pulcinella ,  Brighella , 
Arlecchino.  Tutti  costoro  fanno  cerchio,  chi  seduto, 
chi  all'  impiedi ,  al  direttore ,  che  il  Perrucci  con  una 
parola  presa  a  prestito  dal  teatro  greco,  chiama  corago. 
Questi  ha  in  mano  un  fascicoletto  assai  sottile,  mano- 
scritto ;  e  lo  scenario  o  soggetto  della  commedia  che 
si  concerta.  Possiamo  scegliere,  per  lo  spettacolo  che 
si  mette  in  prova,  a  piacere,  e  poiché  siamo  verso  la 
fine  del  secolo  XVII,  la  scelta  può  cadere  benissimo 
su  d' uno  degli  Scenari  editi  da  A.  Bartoli.  Si  concerta, 
dunque,  Y  Incauto,  ovvero,  l'Inavvertito.  Un  secondo 
esemplare  del  soggetto  sta  attaccato  ad  una  quinta , 
perchè  possa  essere  consultato  da  chiunque ,  mentre 
ognuno  degli  artisti  ne  ha  in  mano  una  copia  per  proprio 
uso.   Il  corago  (1)  legge  dapprima  il  titolo  della  com- 


(  1  )  "  Lorsqu'on  doit  jouer  une  pièce  nouvelle ,  ou  une  de  celles 
que  l'on  remet  au  théatre,  ou  méme  lorsque  la  troupe  est  composée 
d'acteurs  qui  n'ont  pas  encore  joué  ensemble,  le  premier  acteur  les  réunit 
le  matin;  leur  lit  le  pian  de  la  pièce,  et  leur  explique  fort  au  long 
tout  ce  qui  la  compose;  en  un  mot,  il  joue  lui    seul    devant   eux    la 


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media,  poi  l' elenco  dei  personaggi  ;  con  parola  facile, 
ed  ampiezza  di  particolari,  egli  spiega  il  soggetto  atto 
per  atto,  scena  per  scena.  Il  luogo  dell'  azione  lo  preoc- 
cupa ;  imperocché,  egli  dice,  occorre  che  Y  attore  co- 
nosca bene  il  luogo  dove  l'azione  si  svolge,  e  non  dica 
per  esempio,  che  si  trova  a  Venezia,  mentre  deve  dire 
a  Milano  :  si  accrescerebbe  poi  il  ridicolo  della  situa- 
zione ove  un'  altro  attore  venisse  a  dire  che  l' azione 
ha  luogo  non  a  Venezia,  ne  a  Milano,  ma  a  Genova. 
In  seguito,  il  corago  aggiunge  :  Questa  volta  l' azione 
si  svolge  a  Napoli  e  i  personaggi  della  commedia 
sono....  —  e  qui  indica  le  personae  dramalis.  Indi  de- 
scrive la  scena  :  questa  è  la  casa  d' Ubaldo,  padre  di 
Valerio  ;  quell'  altra,  là,  è  la  casa  di  Pandolfo,  padre 
d'Ardelia;  la  terza  è  la  casa  dove  alloggia  Lucinda, 
la  giovine  schiava,  che  poi  si  scopre  essere  Clarice. 
Occorre  che  l'artista  conosca  bene  la  disposizione  delle 
diverse  case  sulla  scena  perchè  non  succedano  equivoci 
e  non  si  scambi  la  casa  dell'uno  per  quella  dell'altro. 
Sull'assegnazione  delle  parti  non  può  più  rimanere 
dubbio:  Ubaldo,  uno  dei  due  vecchi,  è  il  padre  di 
Valerio  ;  questi,  s' intende  è  l' innamorato  ;  Cola  è  il 
servo  di  Valerio,  e  la  sua  parte  spetta  ad  uno  degli 
zanni'.  Pulcinella,  mercante    di  schiavi  e  padrone  di 


pièce  entière  ;  rappelle  à  chacun  ce  qu'il  doit  dire,  quant  au  fond  ;  lui 
indique  les  traits  brillans  qui,  consacrés  par  le  temps,  sont  devenus  in- 
dispensables  ;  les  jeux  de  théàtre  que  porte  la  scène  et  la  manière  don* 
les  lazis  doivent  se  répondre  les  uns  aux  autres. 

Hist.  Jlnc.  du   Théàtre  hai  Paris,   1769;  voi.  1;  p.  41. 


—  59  — 

Lucinda,  è  un  altro  zanni  e  con  Cola  ha  1*  incarico 
di  divertire  il  pubblico  ;  Lucinda  è  1'  amorosa  ;  un'  altra 
amorosa  e  Ardelia;  Pandolfo,  secondo  vecchio,  è  il 
padre  di  quest*  ultima  ;  un  terzo  servo,  amico  di  Cola, 
è  Stoppino ,  anche  lui ,  come  l' altro ,  incaricato  di 
far  ridere  gli  spettatori,  e  quindi  la  sua  parte  è  recitata 
da  un  terzo  zanni;  Doretta  è  una  seconda  schiava,  ed 
è  parte  di  amorosa  ;  è  parte  d*  innamorato  quella  di 
Ottavio  ;  infine ,  e'  è  il  Capitano  ,  lo  spaccamontagna , 
r  ammazzasette,  che  finisce  sempre  col  pigliarle  da  Cola 
o  da  Stoppino,  quando  non  le  piglia  da  tutti  e  due 
insieme. 

Assegnate  le  diverse  parti,  il  corago,  passa  a  spie- 
gare diffusamente  l' intreccio  della  commedia.  Pulcinella, 
mercante  di  schiavi,  è  capitato  a  Napoli  con  una  parte 
della  sua  triste  merce  :  fa  parte  di  questa  la  giovane 
e  graziosa  Lucinda ,  della  quale  s' innammorano  per- 
dutamente due  buoni  amici,  Valerio  ed  Ottavio,  seb- 
bene il  primo  sia  fidanzato  d'  Ardelia,  la  quale  non 
r  ama,  ma  ama,  invece,  Ottavio,  il  quale,  a  sua  volta, 
per  r  amore  che  porta  alla  schiava  ,  non  ne  contrac- 
cambia r  affetto. 

Tutti  e  due  i  giovani,  Valerio  ed  Ottavio,  vogliono 
venire  in  possesso  di  Lucinda  e  cercano  di  comprarla 
da  Pulcinella,  ma  in  seguito  a  diverse  avventure,  ecco 
che  un  terzo  la  compra,  ed  e  il  Capitano  ;  questi  che 
è  innamorato  di  una  certa  Isabella,  fatta  schiava,  crede 
di  ritrovarla  in  Lucinda  ;  ma  s' inganna  ,  poiché  que- 
st'  ultima  non  è  che  la  sorella  d*  Isabella,  ma  a  lei  molto 
somigliante,  e  tutte  e  due  tratte  in  ischiavitìi  dai  pirati. 


—  60  — 

In  seguito  a  tale  scoperta,  tutti  sono  contenti,  poiché 
il  Capitano  va  via,  Valerio  sposa  Lucinda  dalla  quale 
è  riamato,  ed  Ottavio,  non  potendo  sposare  la  schiava, 
impalma  Ardelia,  che  1'  amava  segretamente.  Durante 
r  azione,  Cola  e  Stoppino,  i  due  zanni,  aiutano  i  pa- 
droni nei  loro  amori,  si  moltiplicano  per  trarli  hiori  dalle 
situazioni  critiche ,  si  burlano  di  Pulcinella  e  dei  due 
vecchi  tenendo  sempre  allegro  il  pubblico  coi  loro  lazzi. 

Più  minutamente  il  corago  spiega  le  situazioni  più 
importanti  abozzandone  anche  il  dialogo  e  tratto  tratto 
aggiunge  :  qui  ci  vuole  il  tale  lazzo  ;  qui  occorre  una 
scena  equivoca  e  ne  suggerisce  la  trama  ;  oppure  :  qui 
occorre  un*  uscita  più  lunga,  là  bisogna  infiorare  il  dia- 
logo con  tale  o  tal'  altra  figura  o  metafora  (non  dimen- 
tichi il  lettore  che  siamo  nel  Seicento)  ;  qui  bisogna 
che  il  dialogo  proceda  con  rapidità,  che  sia  più  diffuso 
per  dar  tempo  ad  un  travestimento.  Eppoi  altri  suggerì- 1 
menti  :  badino  i  signori  comici  a  non  esser  lunghi  di 
soverchio  nei  lazzi,  che,  spesso,  la  lunghezza  di  questi 
fa  perdere  o  interrompe  bruscamente  il  filo  dell'  intrec- 
cio, o  si  stenta  ,  finito  che  sia  il  lazzo  ,  ad  afferrarlo 
di  nuovo  ;  badino,  sempre  nei  lazzi,  anche  se  vecchi, 
a  non  fare  a  fidanza  con  la  memoria,  perchè  non  sempre 
i  coraghi  li  concertano  nella  stessa  maniera,  ne  sempre 
i  particolari  della  commedia  sono  i  medesimi. 

Come  si  vede,  la  tanto  decantata  improvvisazione 
della  commedia  dell'  arte  comincia  già  a  dissiparsi.  Ma 
si  ascolti  ancora  il  Perrucci,  il  quale,  mentre  il  corago 
continua  a  concertare  coi  suoi  artisti  la  commedia,  ci 
dice  :  Questi  signori  comici    possono  benissimo  appli- 


—  61    — 

care  alla  loro  recitazione  improvvisa  qualche  cosa  di 
preparato  tanto  se  il  pezzo  sia  stato  scritto  apposta  per  la 
commedia  alla  quale  prendono  parte,  quanto  se  sia  di  cose 
universali  che  si  tengono  a  mente  per  applicarsi  a  qual- 
sivoglia commedia,  come  sono  le  Prime  Uscite,  le  Di- 
sperazioni, ì  Corìcetti,  ì  Rimproveri,  i  Saluti,  i  Pa- 
ralleli, e,  infine,  uno  o  più  dialoghi ,  secondo  casi. 
Occorre  però  che  il  tutto  sia  disposto  non  a  casaccio, 
a  modo  d'  una  rabberciatura  qualunque ,  ma  opportu- 
namente, con  discernimento,  perchè  non  paia  che  stia 
lì  come  i  cavoli  a  merenda,  o  come  Pilato  nel  Credo  (  1  )  ; 
che,  in  quest'  ultimo  caso,  il  collocamento  ozioso  o  inop- 
portuno di  quella  Prima  Uscita,  o  di  quel  Concetto, 
o  d' altra  simile  cosa ,  salterebbe  subito  all'  occhio. 
Del  resto,  ogni  buon  comico  deve  avere  la  mente  riem- 
pita di  sentenze ,  di  descrizioni,  di  discorsi  d'  amore, 
di  disperazione ,  di  deliri  e  simili  per  averli  sempre 
pronti  air  occasione.  Occorre,  poi,  che  il  comico  parli 
bene  l' italiano  ,  che  riproduca  con  esattezza  la  parte 
che  recita  e  questa  vivifichi  con  Y  anima  sua  e  il  suo 
pensiero.  Un  ultimo  consiglio  :  ogni  comico  sia  prov- 
visto d'  uno  Zibaldone  o  Repertorio  ove  sieno  raccolti 
Concetti  ed  altre    materie    attinenti  alla  propria  parte. 

(I)  Il  comico  Pier  Maria  Cecchini  scriveva:  "Sogliono  questi  che 
si  compiacciono  di  recitare  la  difficile  parte  d' Innammorato,  arricchirsi 
prima  la  mente  d'una  leggiadra  quantità  di  nobili  discorsi  attinenti  alla 
varietà  delle  materie  che  la  scena  suol  apportar  seco.  Ma  è  da  avver- 
tire che  le  parole  susseguenti  alle  imparate  vogliono  avere  uniformità 
alle  prime  acciò  il  furto  appaia  patrimonio,  e  non  rapina,  "  Frutti  delle 
moderne  commedie  et  avvisi  a  chi  li  recita  ",  Padova,    1628. 


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I  Concetti,  per  esempio ,  sono  diversi  :  concetti  d' in- 
namorato, d'  amor  corrisposto,  di  gelosia,  di  priego,  di 
scaccio,  di  sdegno j  di  pace,  d*  amicizia,  di  merito,  di 
partenza.  Vi  sono  poi  i  soliloqui,  parti  toscane  (I); 
ahri  soliloqui  sono  le  ^rime  Uscite,  che  portano  nomi 
diversi,  cioè,  d*  amante  corrisposto,  d'  amante  tacito , 
d'  amante  disprezzato,  d*  amante  sdegnoso.  Altre  7-^r/- 
me  Uscite  sono  quelle  contro  amore,  contro  la  fortuna, 
d'  un  forestiere  che  viene  in  città,  d'  uno  che  ritorna 
in  patria.  C  è  di  tutto  e  per  tutti  in  quei  benedetti 
Zibaldoni  (2);  la  pentola  è  sempre  piena  ;  basta  attin- 
gervi a  tempo  opportuno  e  scodellare  con  garbo.  Per 
esempio  ;  i  soliloqui,  che  bisogna  aver  sempre  sotto 
mano,  sono  infiniti  :  e'  è  il  soliloquio  con  tropi,  quello 
con  figure  di  parole,  1*  altro  di  rimprovero  con  figure 
ritrovate  per  accrescere  vaghezza,  oppure  quello  di  di' 
sperazione  d'  amante  disprezzato,  e  così  via  via. 

La  poesia,  ali*  occorrenza,  viene  in  aiuto  della  prosa  ; 
alla  fine  d'  una  scena  o  d'  un  soliloquio,  oppure  d'  un 
dialogo,  prende  posto  la  chiusetta  composta  d*  ordinario, 

(1)  Ecco  come  l'Adriani  (manoscritto  della  Biblioteca  Comunale  di 
Perugia)  spiega  i  propositi  che  lo  guidarono  nel  formare  il  suo  Zibal- 
done o  Seha  :  "  La  Seltìa  io  1'  ho  fatta  perchè  ho  provato  e  toccato 
con  mano  che  anche  i  più  bravi  recitanti  all'  impronto  dovendo  fare 
15  o  20  recite  diverse  li  mancano  le  forme,  si  vuol  dire  le  parole,  e 
per  lo  più  replicano  l' istesso  ;  ancora  chi  sa  la  parola  sola  d'Innamo- 
rato, si  trovi  pronto  per  li  dialoghi  d' amore,  di  sdegno  ecc.  ecc.  e 
per  questo  ho  raccolto  tutto  acciò  ognuno  abbia    panno  per  vestirsi  ". 

(2)  Cioè,  dei  personaggi  che  non  parlavano  il  dialetto.  Erano  sempre 
parti  toscane  quelle  dell' innamarato  e  dell'amorosa  o  prima  donna. 


—  63  — 

di  due  versi  ;  e  quindi  e*  è  la  chiusetta  d'  amante  ta- 
cito, quella  per  salutare  la  donna  amata ,  oppure  di 
priego,  di  partenza,  d'  infelicità,  d'  amicizia,  ed  altre. 
Eccone  una  d'  amante  tacito. 

Per  scoprir,  per  parlar  la  mente  adopro. 
Penso  assai,  poco  tento,  nulla  scopro. 

Chiusetta  contro  V  amore  : 

Amor,  angue  tu  sei,  se  il  tuo  veleno 

Sen  corre  al  col,   mentre  mi  serpe  in  seno. 

Di  priego  : 


Se  mi  sdegni,  vedremo 

Chi  più  stabile  sia. 

La  tua  fierezza,  o  la  costanza  mia. 

Di  disperazione  : 

Pietà  più  nel  mio  cuor  non  trova  luoco. 
Vada  il  regno  d'Amor  a  sangue  e  fuoco. 

Il  Ferrucci  continua  ad  ammonire  :  Di  codesti  zi- 
baldoni o  repertori  ogni  attore  o  attrice  abbia  il  suo 
formato  in  base  alle  parti  che  recita  o  al  carattere  o 
maschera  che  rappresenta.  Così  chi  fa  le  parti  di  padre 
deve  avere  la  sua  raccolta  di  Consigli,  di  Persuasioni, 
di  ^Maledizioni  al  figlio  ;  il  Dottore  i  suoi  sproloqui 
o  infilzate  di  cose  sciocche,  strampalate,  buffonesche, 
lardellate  di  latino,  riboccanti  di  nomi  pomposi  di  fi- 
losofi, di  medici,  di  giureconsulti  ;  il  Capitano,  sia  che 


—  64  — 

si  chiami  Spavento,  o  Rinoceronte,  o  Spezzaferro,  deve 
avere  sempre  pronti  i  suoi  racconti  di  battaglie  san- 
guinosissime, da  lui  non  combattute  ne  viste,  di  am- 
mazzamenti, non  che  un'  odissea  di  viaggi  fantastici  e 
una  sfilata  interminabile  di  conquiste  amorose.  Si  fac- 
cia altrettanto  dagli  Zanni  pei  loro  lazzi  o  trovate 
comiche,  dagli  innammorati  e  dalle  amorose  per  i  loro 
discorsi  patetici  ecc. 

Lo  Zanni,  aggiunge  il  Ferrucci,  il  quale  coi  suoi 
precetti  sembra  che  voglia  ad  ogni  istante  provare  come 
la  commedia  improvvisa  non  sia  che  una  commedia 
premeditata  —  lo  Zanni,  il  cui  ufficio  è  di  tirare  in- 
nanzi V  intrigo  ed  imbrogliare  le  carte  (1),  ha  bisogno 
d*  avere  tutto  il  soggetto  a  memoria,  come  suol  dirsi, 
per  portar  franco  l'intreccio  e  le  invenzioni  senza  men- 
dicarle, esser  pronto  e  vivace  nelle  risposte,  non  uscir 
tanto  fuori  del  soggetto  che  subito  non  vi  possa  rien- 
trare, dire  a  tempo  i  motti  arguti  e  caldi,  ma  che  non 
abbiano  dello  sciocco  ;  infine,  non  esca  dalla  sua  parte 
con  tagliare  i  motti  ridicoli  al  secondo  Zanni. 

Intanto  il  corago  o  direttore  della  compagnia  è  an- 
dato già  innanzi  nella  spiegazione  del  soggetto  o  scenario 
in  prova.  Egli  è  arrivato  alla  scena  seconda  dell'  atto 
secondo.  Diamo  un'  occhiata  allo  scenario  dove  la 
scena  è  accennata  con  le  seguenti  magre  indicazioni  : 

Pulcinella  e  Pandolfo. 

"  Sente  Pulcinella  che  Pandolfo  vuol  comprare  la 
schiava ,  gli  narra   la   cosa    del   sequestro ,  Landolfo 

(  1  )  Ferrucci  ;  op.  cit.  pag.  283. 


—  65  — 

glielo  legge,  e  Io  conduce  seco  al  Giudice  per  libe- 
rarlo da  tal  sequestro  (1).  " 

Ecco  ora  come  il  corago,  facendo  tanto  la  parte  di 
Pulcinella  quanto  quella  di  Pandolfo,  spiega  e  rende 
dialogata  la  scena  di  sopra  trascritta  (2)  : 

feltrarne  e  CMiezzettino, 

BEL.  —  O  di  casa! 
MEZZ.  —  Chi  è  là? 

BEL.  —  Amici. 
MEZZ.  —  Che  amici  ? 

BEL.  —  Sono  Beltrame.  Olà,  che  voce  languida  è  questa  ?  Mes- 
ser  Mezzettino,  una  parola. 

MEZZ.  — Perdonatemi,  messer  Beltrame,  non  posso  aprire. 

BEL.  —  E  che  avete  le  mani  in  pasta  ? 

MEZZ.  —  Sto  in  modo  che  non  mi  posso  muovere. 

BEL.  —  E  che  cosa  avete  ? 

MELZZ.  —  Cosa  tale  che  non  posso  venire. 

BEL.  —  E  che  siete  storpiato  ? 

MEZZ.  —  Peggio,  signore. 

(1)  BartoH  A.  —  Op.   cit.  p.    96. 

(2)  Non  volendo  porre  in  bocca  al  corago  un  dialogo  di  nostra 
invenzione,  ci  siamo  attenuti  ad  un  piccolo  artifìcio:  abbiamo  tolta  la 
scena  dialogata  riportata  nel  testo  da  una  commedia  di  Nicolò  Bar- 
bieri, comico,  il  quale,  sebbene  con  un  titolo  un  po'  diverso  (L' Inav- 
vertito, ovvero  Scapino  disturbato  e  Mezzettino  travestito,  Venezia , 
1630),  distese,  cioè,  scrisse  la  parte  dialogata  dello  scenario  spiegato 
dal  nostro  corago  ai  suoi  comici.  S'avverta  però  che  il  Barbieri,  nel 
distendere  lo  scenario,  v'introdusse  qualche  cambiamento:  ridusse  gli 
atti  e  le  scene  ad  un  numero  minore  e  cambio  i  nomi  dei  personaggi. 
'Pulcinella  e  Pandolfo  divennero  c^ezzettino  e  feltrarne.  (Bartoli 
A.  —  Op.  cit.  p.  XCVIII). 

5\^e/  Regno  delle  Maschere  5 


—  66  — 

BEL.  —  Ma  in  buon'ora,  fate  ch'io  sappia  almeno  quello  che 
avete. 

MEZZ.  —  Sono  sequestrato. 

BEL.  —  Come  sequestrato?   Siete  sequestrato  in  casa? 

MEZZ.  —  Non  so  ;  so  bene  che  sono  sequestrato  tutto. 

BEL.  —  Aprite  la  porta,  e  non  uscite  voi  se  siete  sequestrato  in 
casa. 

MEZZ.  —  Ma  credo  sia  sequestrata  anche  la  porta. 

BEL.  —  O  mi  fate  ridere,  voi  siete  ben  balordo.  E  come  si  se- 
questrano le  porte  e 

MEZZ.  (venendo  fuori)  —  Eccomi;  ma  avvertite  che  se   io  vad 
in  pena  alcuna,  che  ne  siete  cagione  voi. 

BEL.  —  Ov'  è  il  sequestro  ? 

MEZZ.  —  Qui  in  scarsella. 

BEL.  —  Mostratemelo  un  poco. 

MEZZ.  —  Come  mostrarvelo  s'egli  è  sequestralo  ? 

BEL.  — O  questa  sì  che  è  da  scemo!  Siete  così  ignorante  o  pur 
fate  il  balordo  per  qualche  vostro  interesse  ? 

MEZZ.  —  Io  non  sono  stato  mai  in  questo  intrigo.  Mio  padre 
morì  disgraziatamente  per  giustizia,  ed  io  con  l' esempio  mi  sono  av- 
vilito in  modo  che  vedendo  i  birri,  mi  pare  d'essere  legato. 

BEL.  —  E  come  morì  vostro  padre  ? 

MEIZZ.  —  Lo  strozzarono  per  aver  fatto  la  sentinella. 

BEL.  —  Doveva  aver  fatto  qualche  segnale  al  nemico  o  passato 
qualche  accordo  seco. 

MEZZ.  —  Anzi  r  impiccarono  per  essere  troppo  fedele. 
BEL.  —  lo  ciò  non  V  intendo,  se  non  parlate  più  chiaro. 

MEZZ.  —  Faceva  la  sentinella  mentre  certi  suoi  compagni  rompe- 
vano una  bottega,  acciocché  la  Corte  non  sopraggiungesse,  ed  uno  in- 
vidioso del  bene  altrui  gli  diede  la  querela,  e  per  far  servizio  al  suo 
prossimo,  fu  col  prossimo  mandato  in   Piccardia. 

BEL.  —  Veramente  queste  sono  certe  carità  che  non  meritano  altra 
ricompensa.  E  voi  che  cosa  avete  fatto  ? 

MEZZ.  —  Niente  di  male  eh'  io  sappia  e  per  niente  sono  ridotto 
a  questo  passo.   Hu,  hu,  hu 


I 


—  67  — 

BEL.  —  Non  piangete ,  siete  così  pusillanime  ?  E  vergogna ,  un 
uomo  come  voi  siete,  pratico  del  mondo,  dare  in  queste  bassezze? 

MEZZ.  —  Do  nelle  bassezze  per  tema  di  dare  nelle  altezze  e  ri- 
maner per  aria.  E  una  mala  cosa  l'esser  stato  predestinato  a  fare  il 
fine  del  padre  e  cominciare  la  giustizia  venirmi  a  casa.  Il  male  co- 
mincia spesso  da  poco  ,  e  quel  poco  s' avanza  tanto  che  tira  le  per- 
sone alla  morte.  La  giustizia  ha  cominciato  ;  non  so  altro. 

BEL.  —  Mostratemi,  di  grazia,  questo  sequestro. 

MEZZ,  —  Toglietelo  voi  fuori  di  scarsella,  che  io  non  voglio  pre- 
terire r  ordine  della  signora  Giustizia  ;  ma  avvertite  a  quello  che  fate  voi. 

BEL.  —  Lasciate  la  cura  a  me.  De  mandato  magnae  Curiae  *U/- 
cariae. 

MEZZ.  —  Chi  ha  mandato  alcuna  vigliaceu'ia  ? 

BEL.  —  A  proposito  I  Non  dico  vigliacaria,  dico  d' ordine  della 
Gran  Corte  della  Vicaria.  Non  sapete  che  cosa  è  Vicaria  in  Napoli  ? 

MEZZ.  —  Signor  sì,  dove  sono  gì'  incarcerati  ;  ed  ecco  che  que- 
sto è  un  principio  di  disgrazia.  Oh  cielo!  Aiutami! 

BEL,  —  Fermatevi,  jìd  istantiam  domini  Fulvii  de  Bisognosis.... 

MEZZ.  —  Signor  no,  signor  no  ;  io  non  ha  fatto  istanza  al  signor 
Fulvio,  è  lui  che  voleva  la  mia  schiava,  il  signor  Pantalone  ha  torto 
a   mandarmi  la  giustizia  a  casa. 

BEL.  —  Piano,  piano,  che  il  signor  Pantalone  non  vi  fa  torto,  né 
dice  che  abbia  fatto  istanza  al  signor  Fulvio.  Sequeslreiur  omne  per 
illud  quod  reperitur  penes  Domino  Mezzettino.... 

MEZZ.  —  lo  non  ho  reperito,  né  rapito  né  penne,  né  pennacchi 
a   nessuno,  la  giustizta  é  male  informata. 

BEL.  —  Tacete  in  buon'ora,  che  non  parla  né  di  rapine,  né  di 
rubare  ;  uti  bona  pertinentia  ad  Dominum  Cinlhium  Fidentium... 

MEZZ.  —  Non  è  vero;  io  non  ho  fatto  impertinenze  al  signor 
Cinzio;  io  gli  ho  parlato  sempre  con  somma  riverenza. 

BEL.  —  Se  voi  non  avete  pazienza,  non  la  finiremo  maù  ;  non  in- 
tendete, e  però  tacete  ;  scolarem  Beneventanum ,  videlicei  aurum  et 
argentum... 

MEZZ.  —  Sono  dugento  ducati  d' oro,  ed  io  non  ho  argento  ecco, 
e  non  l' ho  rubati,  che  sono  per  il  riscatto  della  schiava. 

BEl^.  —  in  buon'ora;  et  in  ispecie... 


—  68  — 

MEZZ.  —  Io  non  ho  spezie... 

BEL,  —  Non  parlo  di  vostre  spezie,  ascoltatemi  ;  dico  mancipium 
unam  captivam... 

MEZZ.  —  Che  mi  vogliano  porre  una  mano  in  ceppi  perchè  è 
cattiva  ?   E  qual  mano  ho  io  cattiva  ? 

BEL.  —  Non  vi  turbate,  che  non  dice  così.  Udite  :  cum  declara- 
tione  quod  ipse  non  possit  amplius  eam  tenere  ncque  possidere... 

MEZZ.  —  Ch'  io  non  possa  più  sedere  ?  Oimè  !  Sono  rovinato,  oh 
meschino,  è  impossibile  ch'io  possa  stare  sempre  in  piedi! 

BEL.  —  O  pazzo,  non  dice  che  non  possiate  sedere,  dice  che  non 
possiate  possedere:  ncque  in  pedihus. 

MEZZ.  —  Neanco  in  piedi  !  Oh  poveretto  me  !  Sono  morto  I 

BEL.  —  Voi  mi  volete  far  perdere  la  pazienza.  Fermatevi  in 
buon'ora,  che  starete  seduto  e  in  piedi,  come  vorrete  voi!  Ut  dicitur 
alienum  constituere,   et  quod  ficret  in  contrarium  fiat  frusta. 

MEZZ.  —  O  quella  sì  che  l' ho  intesa  e  non  me  la  imbroglierete. 
Contrarium  frusta  vuol  dire  che  mi  frusteranno  per  le  contrade... 

BEL.  —  Voi  mi  volete  far  morire  di  ridere.  O  che  voi  dubitate 
dei  vostri  meriti  o  che  voi  v'  interpretate  a  forza  di  paura. 

MEZZ,  —  Ah  ,  signore  ,  voi  non  volete  esser  quello  che  mi  dia 
cattiva  nova;  ma  io  intendo  per  discrezione. 

BEL.  —  Oh,  se  v'intendete  tanto  di  mangiare,  non  occorrerebbero 
maestre  di  torte  o  musiche  de  maccheroni.  Datevi  pace  ed  abbiate 
f>azienza  ch'io  vi  legga  il  tutto:  Ed  hacc  sub  poena  Ontiarum  auri 
centum... 

MEZZ.  —  Che  mi  vogliono  ungere  in  cento  ? 

BEL.  —  A  proposito  ;  le  onze  d' oro  sono  un  valore  di  moneta , 
e  credo  che  sia  di  cinque  ducati  d'oro  un'onza;  T^cgio  Fisco  appli- 
candarum... 

MEZZ.  —  Che  mi  vogliono  appiccare  al  fresco  ?  Oh ,  poveretto 
me!  Oh,  mia  madre,  che  triste  novella  intenderete  dell'unico  vostro 
figliuolo!  Almanco  si  potesse  sapere  perchè... 

BEI..  —  Eh,  quietatevi,  che  non  vuol  dir  così,  no.  Applicandarum 
dice,  e  non  apicandum ,  da  applicarsi  al  Fisco ,  da  darsi  alla  Corte  ; 
intendete?  Registratum  per  publicum  Notarium  éJìiCoscttinus  Calerà... 

MEZZ. —  Oh,  questa  non  si  può  dir  più  chiara!  Mezzettino  in  galera! 


—  69  — 

BEL.  —  Voi  diventate  pazzo  tra  la  vostra  paura  e  la  vostra  inter- 
pretazione. Mosettinus  vuol  dire  Moisè  in  diminuitivo,  e  Calerà  è  una 
casata   spagnuola. 

MEZZ.  lo  non  voglio  andare  in  Ispagna.  Ma  in  che  linguaggio  è 
scritta  questa  carta? 

BEL.  —  In  latino. 

MEZZ.  Deve  venir  dunque  questo  sequestro  dal  paese  dei  Latini 
ed  io  non  so  dove  sia. 

BEL.  —  11  paese  dei  Latini  è  l'Italia  ecc.    ecc. 

Non  aggiungiamo  altri  esempi  tolti  dal  repertorio  o 
zibaldore  che  ogni  comico  aveva  l' abitudine  di  tener 
suo  costantemente  durante  le  sue  peregrinazioni  da  un 
teatro  all'  altro,  per  dimostrare  come  la  commedia  im- 
provvisa non  fosse  meno  pensata  e  distesa  di  quella 
letteraria  o  scritta,  anche  perchè  più  innanzi,  quando 
e'  intratterremo  del  contenuto  della  commedia  a  soggetto, 
dovremo  ritornare  sull'  argomento.  In  sostanza,  una  sola 
casa  differenziava  il  primo  dal  secondo  spettacolo  ;  men- 
tre questo,  il  letterario,  presentava  tutte  le  parti  dei  per- 
sonaggi scritte  dallo  stesso  commediografo,  l' altro,  quello 
a  braccia  o  a  soggetto,  aveva  le  parti  scritte  da  persone 
diverse  e  per  lo  più  raccattate  di  qua  e  di  là,  o  modi- 
ficate dal  capriccio  o  dal  gusto  dei  comici  stessi. 

L'  artista,  certamente,  anche  nelle  parti  che  non  in- 
ventava, ci  metteva  del  suo,  specie  se  all'  abilità  tecnica 
del  comico  accoppiava  un  ingegno  colto,  vivace,  crea- 
tore :  v'  aggiungeva  certamente  meno  se  quest'  ultima 
qualità  possedeva  in  misura  minore;  ripeteva  ciò  che 
altri  prima  di  lui  avevano  detto  nella  stessa  parte,  o 
non  s' allontanava  affatto  da  ciò  che  aveva  imparato 
sulle   pagine   dello   Zibaldone,   se   mancava  completa- 


—  70  — 

mente  d' ingegno  e  di  cultura.  Nei  soliloqui,  sopratutto, 
la  fantasia  d' un  artista  poteva  spaziare  a  suo  pieno 
talento,  anche  perchè  non  avendo  ad  aspettare  la  ri- 
sposta del  compagno  di  scena,  o  da  darla  a  questo, 
era  più  libero.  Spesso  un  vuoto  di  scena,  come  i  co- 
mici chiamano  la  mancata  entrata  d' un  personaggio, 
si  riempiva  prolungando  il  soliloquio  per  dar  tempo  al- 
l' altro  attore  d*  entrare.  Carlo  Gozzi,  che,  come  si  sa, 
fu  strenuo  propugnatore  della  commedia  dell'  arte  quando 
questa,  sotto  i  colpi  della  riforma  goldoniana,  non  dava 
più  che  segni  di  vita  stentata,  nelle  sue  Memorie  Inu- 
tili (1)  narra  come  egli,  nella  sua  giovinezza,  recitando 
a  Zara  nel  teatro  di  Corte,  per  la  mancata  entrata  in 
iscena  d' un  comico,  che  rappresentava  Pantalone ,  fosse 
stato  costretto  a  prolungare  un  suo  soliloquio.  A  mal- 
grado di  ciò,  ad  un  certo  punto,  egli  si  trovava  proprio 
sulle  spine,  perchè  Pantalone  non  solo  non  usciva  in 
iscena,  ma,  non  si  sa  per  qual  motivo,  nemmeno  era 
arrivato  in  teatro.  "  Levai  lo  sguardo  ai  palchetti  ac- 
cidentalmente —  prosegue  il  Gozzi  —  e  vidi  in  uno  di 
proscenio  quella  Tonina  di  mal  costume  risplendere  in 
una  bellezza  e  in  una  gala  illuminatrice  del  frutto  dei  ! 
suoi  delitti,  che  baldanzosamente  rideva  più  degli  altri 
delle  mie  freddure  donnesche  (2).  Mi  risovvenne 
in  quel  punto  il  pericolo  che  aveva  corso  delle  trom- 
bonate per  di  lei  cagione.  Parvemi  d'  aver  trova- 
to un  tesoro,  e  un  lampo  di  novello  argomento  ri- 
Ci)  Venezia,  1797;  Parte  I.;  Gap.  XIII. 
(2)  11  Gozzi  recitava  una  parte  di  donna  allattante  la  sua  bambina. 


—  71   — 

svegliò  in  me  un'  eloquenza  ardita ,  eh'  e  permessa 
e  goduta  in  un  teatro  non  venale  ....  e  potei 
soccorrere  il  mio  povero  soliloquio  eh'  era  spirante. 
Posi  in  sul  fatto  il  nome  di  Tonina  alla  mia  figliuo- 
letta  bamboccia,  e  rivolsi  il  mio  discorso  a  quella. 
L' accarezzai ,  contemplai  le  sue  fattezze  ,  mi  lusingai 
che  la  mia  figlia  Tonina  dovesse  crescere  una  bella 
ragazza  .  .  .  Esclamai  quindi  verso  la  mia  piccola 
Tonina  .  .  .  che  se  ad  onta  delle  mie  cure  materne 
ella  dovesse  cadere  un  giorno  nei  tali  e  tali  errori  .  .  . 
sarebbe  la  peggior  Tonina  del  mondo.  Non  vidi  ai 
giorni  miei  avere  maggiori  acclamazioni  un  comico  so- 
liloquio del  mio.  Tutti  generalmente  gli  spettatori  a 
punto  voltano  i  loro  visi  al  palchetto  della  bella  To- 
nina in  gala  con  la  maggior  chiamata  di  risa  e  mag- 
gior fracasso  di  picchÌ2u*e  di  mani  che  fosse  giammai 
udito.  .   .  Giunse,  finalmente,  Pantalone  ". 

Ma  codesto  modo  più  o  meno  ingegnoso  di  non  fare 
accorgere  il  pubblico  d'un  vuoto  di  scena,  non  era, 
per  altro,  una  caratteristica  esclusiva  dei  comici  a  sog- 
getto. Basta  avere  una  conoscenza  anche  superficiale 
della  vita  del  palcoscenico,  non  solo  dei  tempi  passati, 
ma  anche  moderni,  per  sapere  come  in  parecchie  oc- 
casioni del  genere  accennato  dal  Gozzi,  anche  l'artista 
della  commedia  letteraria  o  dialogata  ricorresse,  o  ri- 
corra, a  ripieghi  improvvisi.  Senonchè,  noi  abbiam 
voluto  dimostrare,  come  già  dicemmo  —  e  il  ripeterlo 
giova  —  che  se  in  qualche  parte,  in  qualche  scena,  o 
dialogo,  o  soliloquio,  il  comico  dell'arte  improvvisava, 
generalmente  l'improvvisazione  si  riduceva    a  ripetere 


—  11  — 

ciò  che  si  sapeva  già  a  memoria  o  pazientemente  era 
stato  concertato  in  precedenza.  La  parte  dialogata  na- 
sceva e  si  stendeva  nelle  stesse  condizioni  in  cui  na- 
sceva e  si  stendeva  nella  commedia  scritta  ;  studiosa- 
mente, amorosamente,  in  lunghe  e  ripetute  prove,  col 
concorso  di  tutti  gli  attori,  e  sotto  la  guida  del  capo- 
comico, si  riempiva  la  tela  dei  dialoghi,  dei  soliloqui, 
delle  uscite;  si  concertavano  i  lazzi;  il  tutto  con  l'aiuto 
dei  propri  ricordi,  delle  tradizioni  sceniche,  ma,  sopra- 
tutto, con  la  collaborazione  dei  repertori  o  zibaldoni, 
mercè  la  quale,  anche  l' attore  o  1*  attrice  meno  intel- 
gente  era  in  grado  di  recitare  nel  modo  piìi  brillante 
la  sua  parte  a  soggetto  o  a  braccia.  Che  più  ?  I  lazzi, 
la  parte  più  vivace,  più  spigliata,  la  più  riboccante  di 
vis  comica,  diremmo  quasi  la  più  ribelle  alle  regole, 
della  vecchia  commedia,  erano,  direbbe  il  Ferrucci, 
premeditati.  Il  pubblico  rideva,  rideva  anche  sino  alle 
lagrime,  e  batteva  le  mani  alle  felici  e  geniali  improv- 
visazioni deir  attore  ;  ma  quel  lazzo,  che  metteva  tanto 
di  buon  umore  la  platea,  aveva  tanto  di  barba  da 
due  o  tre  generazioni,  più  o  meno  riveduto  e  corretto, 
aveva  rallegrato  i  pubblici  ;  qualche  volta  non  aveva 
di  particolare,  di  proprio,  che  qualche  insignificante 
aggiunta  ;  spesso  era  tale  quale  da  anni  ed  anni  vedeva 
la  luce  della  ribalta,  di  guisa  che  per  gli  spettatori 
non  era  che  una  vecchia  conoscenza.  Lo  si  sapeva  a 
memoria  e  non  lo  rendeva  geniale  e  gradito  che  la 
sapiente  abilità  dell'interprete. 

Negli  scenari  o  soggetti  ì  lazzi  erano   appena    ac- 
cennati col  loro  nome  :  il  lazzo  di  torna  a  bussare,  il 


—  73  — 

lazzo  di  lascia  questo  e  prendi  quello,  il  lazzo  deW aquila 
a  due  teste  (1),  oppure  il  lazzo  della  circoncisione  nel 
Finto  Principe  (2)  ecc.  ecc.  Ma  bastava  il  solo  titolo 
del  lazzo  perchè  lo  Zanni  lo  svolgesse  con  tutto  il 
suo  brio  :  egli ,  però ,  quasi  sempre ,  non  faceva  che 
ripetere  con  più  o  meno  genialità  un  vecchio  motivo  (3). 

Sebbene  tutto  ciò  si  sapesse,  pure  si  riteneva  gene- 
ralmente che  la  commedia  a  soggetto  s'improvvisasse. 
Ne  lo  riteneva  soltanto  il  grosso  pubblico,  quello  che 
applaudiva  dal  lubbione  ;  lo  ritenevano  anche  le  persone 
colte.  Il  presidente  De  Brosses  nelle  sue  Lettres  sur 
r  Italie  (4),  scriveva  :  "  Cette  manière  de  jouer  à  l'im- 
promptu., .rend  l'action  très-vive  et  très-vraie...  Le  geste 
et  r  inflexion  de  la  voix  se  marient  toujours  avec  le 
propos  au  théàtre;  les  acteurs  vont  et  viennent,  dia- 
loguent  et  agissent  comme  chez  eux.  Cette  action  toute 
autrement  naturelle,  a  un  tout  autre  air  de  verité,  que 
de  voir,  comme  aux  Frangais,  quatre  ou  cinq  acteurs 
rangés  à  la  file  sur  une  ligne ,  comme  un  bas-relief, 
au-devant  du  théàtre  ,  débitant  leur  dialogue  chacun 
a  leur  tour.  " 

Qui  si  vede  che  il  buon  presidente  francese  giudicava 
dalla  platea  e  che  non  aveva  mai  posto   il    piede    su 


(1)  Perrucci;  op.  cit.  p.   363. 

(2)  A.   Bartoli  ;  Scenari  Inediti. 

(3)  "  E  certo  poi  che  a  poco  per  volta  andò  quasi  stereotipandosi 
nella  commedia  dell'Arte,  "  A.  Bartoli;  op.   cit.    p.  LXXII. 

(4)  II;  p.    254, 


—  74  — 

d*un  palcoscenico  durante  una  faticosa  prova  della 
commedia  a  soggetto  :  egli  doveva  perfettamente  igno- 
rare r  esistenza  dei  repertori  o  zibaldoni  dai  quali 
l'artista  attingeva  in  gran  parte  il  suo  spirito,  la  sua 
parlata  facile,  brillante,  i  suoi  lazzi;  di  vero  soltanto 
e'  era  eh'  egli,  il  De  Brosses,  restava  ammaliato  dalla 
spigliatezza,  dalla  vivacità,  dalla  naturalezza  del  modo 
di  recitare  dei  nostri  commedianti ,  i  quali  pare  che 
non  rassomigliassero  affatto  ai  comici  del  suo  paese , 
freddi,  compassati  ed  addormentatori  di  pubblici. 

Ma  il  pregiudizio  di  cui  abbiamo  parlato  guadagnava 
qualche  volta  anche  lo  spirito  di  coloro  che  vivevano 
della  vita  stessa  dei  comici  della  commedia  dell'  arte 
e  ne  conoscevano  ,  quindi,  i  segreti  ;  difatti  ,  il  Ghe- 
rardi  scriveva  neW  Advertisssment  del  Théàtre  Italien 
ou  Recueil  general  de  toutes  les  comédies  et  scènes  fran- 
caises  jouée  par  les  comédiens  Italiens.  "  Qui  dit  co- 
médien  italien  dit  un  homme  qui  a  du  fond,  qui  joue 
plus  d' imagination  que  de  mémoire,  qui  compose,  en 
jouant,  tout  ce  qu'  il  dit,  qui  fait  seconder  celui  avec  qui 
il  se  trouve  sur  le  théàtre  e'  est  à  dire,  qu'  il  marie  si 
bien  ses  paroles  et  ses  actions  avec  celles  de  son  ca- 
marade,  qu'  il  entre  sur  le  champ  dans  tous  les  mu- 
vements  que  l*  autre  demande  d'  une  manière  à  faire 
croire  à  tout  le  monde  qu'  ils  étoient  déjà  concertés  " . 
Proprio  così  :  a  far  credere  che  fossero  concertati  !  O 
i  comici  —  e  questo  lo  sapeva  bene  il  Gherardi  — 
non  venivano  in  iscena  dopo  d'  aver  concertato  la  com- 
media e  quando  ciascuno  di  loro  era  sicuro  della  parte 
a  lui  affidata  ?  Ma  insieme  al  Gherardi   quel  pregiu- 


—  75  — 

dizio  aveva  guadagnato  altri  :  Carlo  Gozzi  scriveva  così  : 
"  Contemplo  nella  commedia  improvvisa  un  pregio  del- 
l' Italia.  Lo  giudico  un  trattenimento  d'  una  specie  af- 
fatto separata  da  quella  delle  rappresentazioni  scritte 
o  maturate.  Animo  i  talenti  colti  a  produrne  di  buone 
e  regolate,  e  non  appello  con  chiara  sfacciataggine  igno- 
rante plebaglia  quell'  uditorio  ,  che  vedo  cogli  occhi 
miei  propri  alla  commedia  improvvisa  e  alla  premedi- 
tata essere  il  medesimo.  Considero  i  valenti  comici 
air  improvviso  molto  più  di  quei  poeti  improvvisatori, 
che  senza  dir  nulla,  cagionano  la  meraviglia  di  quelle 
adunanze  che  l'affollano  per  ascoltarli  (I).  " 

Ma  già  dalle  stesse  parole  del  Gozzi  si  comprende 
come  la  commedia    detta  improvvisa  fosse  ammalata  , 
assai  ammalata,  quasi  in  fin  di  vita,  ai  tempi  dell'au- 
tore  delle  Fiabe.  E  solo  al  letto    degli  infermi  che  i 
medici  danno  consulti. 

Il  Gozzi  aveva  un  bel  dare  consigli  ai  "  talenti 
colti  "  a  produrre  buone  e  regolate  commedie  improv- 
vise ;  i  tempi  non  volgevano  più  propizi  a  siffatto  ge- 
nere di  spettacolo,  a  cui  lo  stesso  Gozzi  con  le  sue 
Fiabe  aveva  voluto  infondere,  sebbene  inutilmente,  nuo- 
va vita. 


(1)  Opere;  voi.   I.  Ragionamento  ingenuo  e  storia  sincera  dell'o- 
rigine delle  mie  dieci  Fiabe  teatrali. 


CAPITOLO  TERZO 

II  contenuto  della  Commedia  dell'Arte. 


La  commedia  dell'arte  fu  per  eccellenza  una  comme- 
dia d'intreccio,  quasi  sempre  amoroso,  per  non  dire  addi- 
rittura sempre  amoroso.  Non  sappiamo  se  sia  stato  da 
altri  osservato  ;  ma  la  commedia  d' intrigo  è  stata  sempre 
la  commedia  dei  popoli  primitivi.  Lo  scrittore  trova  più 
facile  il  suo  compito  svolgendo  dinanzi  al  suo  uditorio 
la  tela  d' un'  azione  mediante  una  serie  più  o  meno 
complicata  d' avventure,  anziché  mediante  una  pittura 
di  caratteri,  uno  studio  di  costumi,  un'analisi  di  pas- 
sioni, una  ricostruzione  d' ambiente.  Quest'  ultimo  lavoro 
richiede  uno  spirito  d'osservazione,  un'  acutezza  di  mente,  | 
una  ricca  messe  d'indagini,  un  profondo  studio  del 
cuore  umano  che  non  possono  riscontrarsi  che  nei  com- 
mediografi di  società  più  evolute  dove  quasi  sempre 
il  senso  dell'  analisi  e  dominante.  Si  nóirra  facilmente 
da  tutti  ;  ma  non  si  scruta  nel  fondo  dell'  anima  umana, 
non  se  ne  riscontrano  i  segreti,  non  se  ne  rilevano  le 
sfumature  anche  più  delicate,  non  si  riproduce  un  ca- 


—  77  — 

rattere  con  nitidezza  di  contorni  come  sopra  una  lastra 
fotografica,  non  si  fissa  su  d' una  tela  tutto  un  ambiente, 
non  esclusi  i  particolari  d'ordine  più  infimo,  che  da 
pochi  ingegni  eletti,  diremmo  quasi  esercitati  a  noto- 
mizzare  un*  anima,  un  sentimento,  una  società.  Si  confronti 
Terenzio  con  Plauto  :  sebbene  il  primo  non  sia  vissuto 
che  poche  dozzine  d'anni  dopo  il  secondo,  pure  il 
succedersi  d' una  o  due  generazioni,  e  quindi  il  mag- 
giore evolversi  della  società  latina  avvenuto  nel  frat- 
tempo, bastò  perchè  il  poeta  africano,  a  differenza  del- 
l' umbro,  si  mostrasse  meno  incompleto  nello  studio  dei 
caratteri  e  nell'  analisi  delle  passioni,  senza  che  la  sua 
commedia  cessasse  per  ciò  d'essere  una  commedia  di 
intreccio.  La  commedia  dell'  arte  o  a  soggetto,  venuta 
al  mondo  nella  seconda  metà  del  Cinquecento,  cam- 
minando, quanto  al  suo  organismo,  sulle  orme  di  quella 
letteraria,  la  quale,  alla  sua  volta,  s' era  formata  su  quella 
latina,  mantenne  per  tutta  la  sua  vita  codesto  carattere  : 
fu  sempre  d'intreccio. 

La  riproduzione  comica  della  vita  non  fu  studiata 
che  dal  lato  della  successione  dei  fatti  attraverso  i  quali 
la  vita  stessa  si  manifesta.  Lo  spettacolo  a  soggetto  fu 
una  specie  di  cinematografo  ;  lo  spettatore  non  era  chia- 
mato ad  assistere  ad  uno  studio  di  caratteri,  o  di  pas- 
sioni, o  di  costumi  ;  non  gli  s' impostava  una  tesi  d' ordine 
morale,  economico  o  politico  per  risolverla  o  sentirla 
risolvere  ;  no.  Egli  assisteva  soltanto  allo  svolgersi  di 
un'  avventura  più  o  meno  comica,  più  o  meno  interes- 
sante. Quando  il  commediografo  voleva  accrescere  l' in- 
teresse o  la  comicità  della  sua  azione,  non  ricorreva  ad 


—  78  — 

un  esame  più  diligente  di  caratteri  o  di  passioni  ;  ma 
solo  sovraccaricava  d' avventure,  d'episodi  la  sua  azione, 
o  meglio,  parallelamente  all'  intreccio  principale  ne  face- 
va correre  un  secondo,  un  terzo,  magciri  un  quarto. 
Ciò,  come  si  diceva  allora,  imbrogliava  V  azione,  e  ne 
accresceva  l' interesse,  Plauto  e  Terenzio,  peraltro,  non 
avevano  fatto  diversamente. 

Neil'  jìndria  di  quest'  ultimo  abbiamo  una  doppia 
azione  amorosa  ;  quella  del  giovane  Panfilo  e  di  Gli- 
cerio,  e  l' altra  di  Carino  e  la  figlia  di  Cremete.  Lo 
interesse  della  conmiedia  terenziana  sta  in  questo  :  Si- 
mone, padre  di  Panfilo,  vuol  dare  a  questo  in  moglie 
la  figlia  di  Cremete,  mentre  questa  è  amata  da  Carino 
e  Panfilo  ama  Glicerio,  una  giovinetta  forestiera  e  della 
quale  s'ignora  il  casato.  Si  scopre  che  quest'ultima  è  figlia 
di  Cremete  e  quindi  di  buona  ed  agiata  famiglia,  e  cessa 
ogni  ostacolo  per  contrarre  matrimonio  col  figlio  di  Si- 
mone. Così  sono  poste  in  iscena  due  azioni,  due  amori  due 
intrecci  che  si  rincorrono,  s' attraversano,  s'aggrovigliano 
sino  alla  scena  finale,  dove  un  doppio  matrimonio  re- 
stituisce la  calma  e  la  felicità  nel  seno  di  due  famiglie. 
Nella  commedia  dell'arte,  come  dicemmo,  se  l'autore 
sente  il  bisogno  di  rendere  l'opera  sua  più  densa  di 
interesse ,  sovrappone  un  intreccio  ad  un  altro  intrec- 
cio ;  le  file  della  tela  non  corrono  diritte,  ma  qua  e 
là  si  confondono  ;  ad  un  certo  punto  la  matassa  si 
arruffa  in  modo  tale  da  riuscire  quasi  impossibile  il  tro- 
varne il  bandolo  ;  ma  un  fortunato  incidente,  un'astuzia 
preparata  bene  e  meglio  condotta  da  un  servo,  o  una 
scoperta  opportunamente  fatta  rischiara    il    buio  pesto 


—  79  — 

che  si  è  andato  addensando  intorno  all'azione  prin- 
cipale ;  le  cose  ritornano  al  loro  posto,  la  matassa  non 
e  più  arruffata,  ma  si  dipana  quasi  da  se,  e  la  tela 
scende  sui  personaggi  tutti  contenti  come  pasque. 

L' intreccio  è  quasi  sempre,  se  non  sempre,  amoroso, 
anche  se  duplice  o  triplice.  Gli  amori,  in  quest'ultimo 
caso,  s'  incrociano,  si  mescolano  ;  poi,  al  tocco  della 
verga  d*  un  mago,  ogni  amore  riprende  il  suo  posto  e 
le  nozze  si  celebrano.  Ne  le  fanciulle,  ne  le  vedove 
giovani  e  belle,  alla  fine  della  commedia,  restano  mai 
desolate  :  un  tocco  di  marito  lo  trovano  sempre.  Qualche 
volta  l'azione  s'imbroglia  in  un  modo  incredibile.  Negli 
Intrighi  d'Amore  (1),  per  esempio,  l'azione  non  è  ne 
duplice,  ne  triplice,  o  quadrupla  ;  è  sestupla  ;  vi  sono 
sei  amori  ;  Lucinda  ama  Valerio  ;  Ubaldo  aspira  alla 
mano  di  Lucinda  ;  Ottavio,  fratello  non  conosciuto  di 
questa,  ama  la  sorella  ;  Pasquella,  cameriera,  spera  di 
farsi  sposare  dal  vecchio  Pandolfo,  Colombina,  altra 
cameriera,  da  Stoppino  ;  infine,  il  vecchio  Ubaldo, 
non  potendo  ottenere  Lucinda,  vuol  fare  sua  Pasquella. 
Ma  per  quanto  l'intreccio  s'aggrovigli,  i  mezzi  che  il 
commediografo  adopera  per  destare  l'interesse  o  accre- 
scere la  comicità  della  situazione,  sono  sempre  infan- 
tili, grossolani,  d'  una  vis  comica,  che  confina  spesso  col 
grottesco.  Si  direbbe  che  il  commediografo  non  scriva 
che  per  un  pubblico  di  grandi  bambini  o  d'un  popolo 
primitivo,  grossolano. 

Già  abbiamo  detto  come  l'azione    si    svolga  gene- 

(1)  A.  Bartoli;  op.   cit.  p.    119. 


ralmente  sulla  piazza  o  sulla  via  in  un  modo  del  tutto 
contrario  alle  leggi  del  verosimile,  e  come  in  un  modo 
non  meno  inverosimile  i  personaggi  entrino  in  iscena, 
s' incontrino,  odano  gli  uni  i  discorsi  degli  altri,  com- 
presi gli  a  solo,  ed  escano.  Adolfo  Bartoli  (1),  a  que- 
sto proposito,  scriveva  :  "  I  mezzi  dei  quali  si  serve  {la 
commedia  dell' arte)  sono  generalmente  poveri  e  vol- 
gari. Per  metterci  sotto  gli  occhi  le  segrete  furfanterie 
d*  un  uomo ,  si  fa  eh*  egli  stesso ,  in  un  soliloquio ,  le 
racconti  al  pubblico  (2).  Per  far  credere  d'  essere  morti, 
si  ricorre  ad  un  sonnifero  (3).  Una  donna  pei  suoi 
intrighi  d' amore  si  finge  muta  e  spiritata  (4) ,  e  spi- 
ritati si  fìngono  gli  assenti  ed  i  servi  (5).  "  Nelle  Tre 
Gravide  (6)  i  mezzi  che  il  commediografo  impiega  per 
svolgere  Y  intreccio  sono  addirittura  grotteschi  nella  loro 
sconcezza.  Le  tre  fanciulle  costrette  a  nascondere  la 
loro  gravidanza,  si  dichiarano  ammalate  e  per  impedire 
che  i  medici  scoprano  il  vero,  il  posto  di  quest'  ultimi, 
con  molte  buffonate  è  preso  dai  loro  amanti. 

Nei  ^re  Becchi  (7) ,  Valerio,  amante  di  Lucinda, 
si  fa  introdurre  in  casa  di  questa  dentro  una  cassa,  che 

(1)  Op.  cit.  p.  X-XI. 

(2)  Nel  Pedante,  di  F.  Scala. 

(3)  Nella  Creduta  ^Miorta  e  nei  'tragici  successi,  di  F.  Scala. 

(4)  Nei  due  Fidi  Notati,  di  F.  Scala. 

(5)  Nel  Finto  Negromante  e  nei  Quattro  finti  Spiritati  di  F.  Scala. 

(6)  A.  Bartoli;  op.  cit.  p.   149. 

(7)  A.  Bartoli;  op.  cit.  p.    165. 


—  si- 
lo stesso  marito  di  Lucinda  ,  il  vecchio  Landolfo  , 
aiuta  a  mandar  dentro  ;  nell'ultimo  atto,  Lucinda,  per 
mandar  via  di  casa  Valerio  senza  che  Pandolfo  se 
ne  accorga,  dice  al  marito  che  il  suo  ferraiuolo  è  tutto 
inzaccherato  ;  gliene  alza  un  lembo  :  Valerio,  nascosto 
da  questo,  scappa.  Nella  stessa  commedia  Colombina 
per  far  fuggire  l'amante  senza  che  lo  veda  il  marito, 
mette  in  capo  a  costui  un  bigonciolo.  Nella  Finta 
^Niotte  di  Colafronio  (1),  Zanni  ha  una  collana,  Pul- 
cinella gliela  adocchia  e  pensa  di  rubargliela  ;  si  ve- 
ste da  diavolo  e  fa  il  colpo  ;  Cola ,  che  in  disparte 
ha  visto  tutto ,  si  veste  da  Morte  e  mette  le  mani 
sulla  collana,  che  Pulcinella,  spaventato  da  quella  ap- 
parizione, si  lascia  portar  via  :  ma  Pandolfo  ed  Ubaldo , 
che  hanno  assistito  alla  scena  ,  si  vestono  da  birri  e 
fìngono  di  menare  in  prigione  Cola  ;  questi  lascia  la 
collana  e  fugge.  Nei  Quattro  Pazzi  (2),  quattro  im- 
pazziscono per  amore  ;  un  mago  sopravviene,  sorprende 
i  quattro  matti  nel  sonno  e  mediante  un  suo  sortile- 
gio li  guarisce.  Qualche  volta  la  situazione  dramma- 
tica con  r  introduzione  del  comico  banale  diventa  grot- 
tesca :  nella  Cameriera  dei  manoscritti  Croce  della 
Nazionale  di  Napoli,  due  coppie  d'amanti,  ritenen- 
dosi falsamente  vittime  di  reciproco  inganno,  si  avve- 
lenano ;  già  sentono  prossima  l'  ora  estrema  ,  quando 
Pulcinella  che  aveva  preparato  la  pozione  mortifera , 
interviene  e  spiega  che  nella  terribile  fiala    egli   non 

(1)  A.    Bartoli;  op.  cit.  p.    1 7 . 
(2;  A.   Bartoli;  op.   cit.  p.   203. 

!ACel  Regno  delle  ^^aschere.  6 


-  82 

aveva  introdotto  che  della   "  pisciazza  " .   Grottesco  ed 
indecente. 

Un  mezzo  molto  comune  nelle  commedie  dell'arte 
sono  i  travestimenti  :  non  sono  quasi  mai  ingegnosi  ; 
quasi  sempre  sono  infantili  ;  il  che  conferma  sempre 
di  più  il  nostro  concetto  sulla  ingenuità  primitiva  della 
trama  della  commedia  improvvisa  o  a  soggetto  e  del 
gusto  grossolano  degli  spettatori  di  quel  tempo.  Nella 
%)edoVa  Costante  {])  ,  Isabella  che  ama  Orazio,  lo 
ritiene  ucciso  da  Ottavio  suo  rivale,  e  giura  di  ven- 
dicarlo ;  indossa  abiti  maschili  e  si  fa  soldato  :  ugual- 
mente si  arruola  nello  stesso  reggimento  Orazio,  anche 
lui  travestito  ;  ma  ne  luna  riconosce  l'altio,  ne  questi 
quella  ,  sebbene  fra  loro  si  stringa  intima  relazione. 
Anche  Ardelia,  che  ama  Orazio,  senza  esserne  cor- 
risposta, si  veste  da  uomo  e  si  arruola  nella  compa- 
gnia d'Orazio,  senza  che  questi  la  riconosca.  Nel  T^a- 
dre  Crudele  (2),  Ottavio,  che  indossa  il  ferraiuolo  e 
il  cappello  di  Valerio,  è  scambiato  per  quest'ultimo, 
si  busca  così  una  schioppettata,  fortunatamente,  inno- 
cua ,  perchè  Cola  ,  che  ha  avuto  l' incaiico  di  ucci- 
derlo ,  dimenticò  ,  pel  vino  copiosamente  bevuto  ,  di 
mettere  la  palla  nell'archibugio.  Nella  stessa  comme- 
dia il  vecchio  Ubaldo  per  entrare  senza  essere  rico- 
nosciuto in  casa  di  Colombina  ,  indossa  abiti  femmi- 
nili ;  Zanni  lo  scambia  per  la  stessa  Colombina  e  gli 
fa  lazzi  di  amore,  infine  ,  scopre  1'  inganno  e  manda 


(1)  A.   Bartoli,  op.  cit.   p.   3. 

(2)  Id.   op.  cit,  p.   3. 


-  83  — 

via  Ubaldo  scorbacchiato  e  vergognoso.  NeWIncauto 
ovvero  r Inavvertito  (  1  )  i  travestimenti  sono  diversi  ;  si 
travestono  Cola  ed  Ottavio  da  magnani,  lo  stesso  Cola 
e  Stoppino  da  marinai.  Nel  (dedico  Volante  (2)  Cola 
si  traveste  da  medico  per  visitare  Lucinda  ,  ne  esa- 
mina l'orina  e  spiattella  una  serqua  di  aforismi  burle- 
schi. Nella  stessa  commedia  Ottavio  e  Valerio  per 
parlare  con  le  loro  innamorate  si  tiavestono  da  suo- 
natori. Neil'  Onorata  fuga  di  Lucinda  (3)  ,  la  prota- 
gonista per  raggiungere  l'amante  che  l'ha  abbandonata, 
si  traveste  da  uomo,  stringe  amicizia  con  lo  stesso  Va- 
lerio, senza  che  questi  dubiti  del  sesso  del  suo  nuovo 
amico.  Nei  ^re  pecchi  (4)  ,  Ottavio  per  introdursi 
in  casa  d'Ardelia,  si  traveste  da  mendicante.  Nel  Finto 
Principe  (5),  Cola  mediante  una  certa  radice  datagli 
da  un  mago,  può  a  suo  talento  trasformarsi  in  principe 
e  da  principe  nel  buffone  di  lui.  Nei  '^re  Principi 
di  Salerno  (6)  ,  Briseide  e  Rosetta  si  travestono  da 
uomini  ,  sono  scambiate  pei  loro  mariti  ,  Lionello  e 
Cola,  ricercati  dagli  sgherri  del  principe  regnante,  ed 
uccise.  Nei  Quattro  T^azzi  (7)  Giangurgolo  e  Cola, 
perchè  il  Capitano  non  sposi  Lucinda  ,  si  travestono 
da  birri  e  fingono  d'essere  mandati  dalla  comunità  di 

(1)  A.   Bartoli,   p.   91. 

(2)  Id.  p.   105. 

(3)  Id.  p.   135. 

(4)  Id,  p.  n5. 

(5)  Id.  p.  193. 

(6)  Id.  p.  193. 
<7)  Id.  p.  203. 


—  84  — 

Orbetello  per  arrestare  il  Capitano  come  ladro.  Nel 
Giuoco  della  Primiera  (  I  ) ,  Pantalone  ottiene  da  Co- 
viello  la  mano  della  figlia  e  quattromila  ducati  che 
dovrà  riscuotere  dal  banco  della  "  Simia  ".  Dispera- 
zione della  ragazza,  la  quale  ama  Lelio  figlio  di  Pan- 
talone :  Zanni,  servo,  viene  in  aiuto  degli  amanti  ;  sa 
che  Pantalone,  suo  padrone,  deve  andare  a  riscuotere 
la  dote,  si  traveste  con  gli  abiti  di  quest'  ultimo  ,  va 
al  banco  e  ritira  i  denari  ;  poi,  va  da  Coviello  e  gli 
dice  che  tutto  sta  bene  e  che  affretti  le  nozze.  Pan- 
talone, alla  sua  volta,  va  al  banco,  ne  è  mandato  via 
come  un  truffatore,  e  corre  a  lamentarsene  con  Coviello , 
il  quale  ne  resta  meravigliato  e  gli  fa  osservare  che 
poco  prima  gli  aveva  pur  confessato  d'aver  ritirato  la 
dote.  Naturalmente,  gli  equivoci  si  dissipano  e  Lelio 
sposa  la  figlia  di  Coviello.  Nelle  T)isgrazie  di  Pul- 
cinella (2)  ,  il  Dottore  promette  la  mano  di  Isabella 
sua  figlia  a  Pulcinella,  che  sta  a  Napoli,  e  ne  aspetta 
a  Bologna  l'arrivo  per  celebrare  le  nozze.  Disperazione 
d'Isabella  che  ama  Orazio  e  ne  è  riamata  ;  ma  costui 
con  l'aiuto  d'un  servo  astuto  si  traveste  da  Pulcinella 
e  si  presenta  al  Dottore.  Questi  l'accoglie  a  braccia 
aperte,  ne  diversamente  fa  Isabella,  la  quale  sotto  la  ma- 
schera dell'altro  ha  riconosciuto  il  proprio  amante.  Arriva 
Pulcinella,  ma  è  accolto  male,  anzi  è  cacciato  via  di 
casa.  Dopo  diverse  avventure,  si  teme  che  l' inganno 
si  scopra,  e  Rosetta,  la  cameriera  d'  Isabella,   si  tra- 

(1)  Scenari  di  B.   Luccatello  della   Casanatense  di  Roma. 

(2)  Scenari  Croce  della  Nazionale  di  Napoli. 


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veste  e  si  spaccia  per  la  moglie  di  Pulcinella  ;  è  ac- 
compagnata dai  figli,  che  vedendo  il  loro  padre  ,  gli 
fanno  festa.  Pulcinella  protesta  e  dice  che  non  ha  mo- 
glie, ne  figli  ;  ma  le  sue  proteste  come  i  suoi  giura- 
menti non  valgono  a  cambiare  la  sua  posizione  ;  il 
Dottore  minaccia  di  farlo  arrestare  ,  ed  egli  riprende 
la  via  di  Napoli.  E  una  serie  di  travestimenti  la  com- 
media le  (Metamorfosi  dì  Pulcinella,  del  manoscritto 
della  Comunale  di  Perugia.  Il  Dottore  ha  due  figlie, 
che  custodisce  gelosamente  in  casa  ;  i  loro  innamo- 
rati ,  che  vogliono  entrare  in  carteggio  amoroso  con 
loro,  non  ne  sanno  trovare  il  modo.  Coviello,  servo  di 
uno  dei  giovani,  s'incarica  di  trovarlo  lui,  e  consegna 
le  lettere  a  Pulcinella,  il  quale  ,  per  entrare  in  casa 
del  Dottore  ,  si  traveste  in  cinque  o  sei  foggie  ,  ma 
sempre  inutilmente,  sino  a  che  Coviello,  con  un'ulti- 
ma invenzione,  non  arriva  a  far  conchiudere  le  nozze. 
Altro  mezzo  di  destare  l' interesse  e  di  provocare 
un  facile  scioglimento  dell'  azione,  erano  i  riconosci- 
menti. Qui  la  commedia  dell'  arte  scendeva  in  linea 
retta  da  quella  di  Plauto  e  di  Terenzio.  Come  si  sa, 
questi  due  ultimi  ne  fecero  quasi  il  capo-saldo  delle 
loro  commedie  nelle  quali  un  riconoscimento  era  quasi 
sempre  indispensabile.  Nei  Prigionieri  del  primo  n'  è 
la  base  ;  neWEpidico,  dello  stesso  autore,  Perifane  ri- 
nosce  sua  figlia  nella  schiava  che  il  proprio  servo  ha 
riscattato  ;  nella  Donna  d'Andria,  del  secondo,  Cre- 
mete  riconosce  sua  figlia  in  Glicerio  ;  nel  Punitore 
di  se  stesso,  del  medesimo  Terenzio,  Cremete  ritrova 
sua  figlia  in  Antifila  ;   un'altra  giovinetta  perduta  e  poi 


—  86  - 

ritrovata,  Panfìla,  noi  riscontriamo  nell'Eunuco,  ed  in 
Formione  il  vecchio  Cremete  riconosce  sua  figlia  in 
Fanio.  Codesti  riconoscimenti,  che  coronavano  la  fine 
d'una  commedia,  dovevano  essere  ricchi  di  emozioni 
pel  pubblico,  se  essi  dapprima  a  Roma  repubblicana 
ed  imperiale,  e,  poi,  nell'Italia  della  Rinascenza  e  della 
preponderanza  spagnuola,  formarono  ininterrottamente 
la  delizia  delle  platee.  Del  resto,  nel  Cinquecento  e 
nel  Seicento,  i  fanciulli  e  le  fanciulle  rapiti  da  cor- 
sari e  poi  riscattati,  non  costituivano  una  reminiscenza 
di  letture  classiche.  Sulle  spiagge  del  Mediterraneo  gli 
sciabecchi  di  Tunisi ,  di  Algieri  e  di  Tripoli  da- 
vano una  caccia  spietata  alle  nostre  popolazioni,  men- 
tre a  Venezia,  con  la  protezione  delle  leggi,  si  com- 
pravano schiavi  turchi  predati  dalle  navi  vittoriose  della 
repubblica  nei  mari  di  levante.  Erano,  sopratutto,  fan- 
ciulle tratte  in  cattività  dopo  l'  espugnazione  d'  una 
città  o  d'un  castello,  o  rapite  da  pirati  lungo  una  riva, 
che  davano  così  materia  al  nodo  e  allo  scioglimento 
della  commedia.  Nel  teatro  latino ,  codeste  fanciulle 
rapite  si  presentavano  quasi  sempre  cadute  nelle  mani 
d'un  lenone  o  d'una  lenona,  e  col  loro  riconoscimento 
da  parte  dei  loro  genitori  passavano  dalla  casa  infame 
in  quella  d'un  onesto  cittadino,  senza  che  questo  im- 
provviso passaggio  con  la  non  meno  improvvisa  riabilita- 
zione morale  stomacasse  il  pubblico  ;  nel  teatro  ita- 
liano, compreso  quello  dell'  arte,  alle  fanciulle  rapite 
o  sperdute,  non  toccava  sempre  una  sorte  tanto  triste  ; 
non  cadevano  sempre  nelle  mani  di  lenoni  e  alla  fine 
della  commedia  non  passavano  con  la  massima  disin- 


—  87  — 

voltura  dal  lupanare  alla  casa  maritale.  Nei  T)ue 
Schiavi  Rivenduti  {\),  Ubaldo  ha  fatto  comprare  due 
giovani  schiavi  di  sesso  diverso  che  alleva  in  casa  e 
tiene  a  modo  di  figli,  dopo  che  V  unica  sua  figliuola 
insieme  alla  balia  gli  era  stata  rapita  dai  corsari.  Essi 
si  chiamano  1'  uno  Ali  e  1'  altra  Armellina  ;  già  s'  a- 
mavano  prima  che  fossero  stati  venduti  ad  Ubaldo,  ed 
ora  sono  felici,  perchè  possono  amarsi  anche  sotto  il  tetto 
del  nuovo  padrone.  Se  non  che,  il  vecchio  s'innamora 
della  giovinetta,  e  vuole  sposarla;  ma  questa  ricusa,  per- 
chè ama  Ali  :  Ubaldo  va  in  collera  e  si  raccomonda  al 
servo,  Cola,  per  ottenere  la  mano  della  schiava.  An- 
che Ali  si  raccomanda  a  Cola  perchè  il  vecchio  ri- 
nunzi  alla  mano  di  Armellina  ,  e  Cola  che  ha  pro- 
messo il  suo  aiuto  ad  Ubaldo,  lo  promette  ugualmente 
ad  Ali.  Intanto  arriva  il  Capitano  ;  viene  dalla  Spagna 
ed  è  diretto  a  Tunisi  per  liberare  un  suo  fratello  fatto 
schiavo  parecchi  anni  prima  e  colà  condotto  :  vede 
Armellina  e  se  ne  innamora,  rinunzia  al  suo  viaggio  e 
saputo  che  il  vecchio  Ubaldo,  in  seguito  alle  ripulse 
della  giovinetta,  la  vuol  vendere,  risolve  di  comprarla. 
Ali ,  che  a  malgrado  del  nome  turchesco  è  cristiano 
e  si  chiama  Valerio,  scopre  che  la  sua  compagna,  la 
bella  Armellina,  è  d'origine  italiana  ;  fu  rapita  ancora 
bambina  insieme  alla  balia  dai  pirati  e  condotta  in 
Barberia,  e  con  le  indicazioni  che  gli  dà  Cola,  sco- 
pre che  è  la  figlia  d'  Ubaldo  :  la  sua  disperazione  è 
al  colmo,  perchè  se  prima  poteva  sperare  di   far  sua 

(1)  Bartoli  ;  op.  cit.  p.  43. 


—  88  — 

Armellina,  schiava ,  ora  non  lo  spera  più  :  essa  e  la 
figlia  del  proprio  padrone.  Ma  la  sua  disperazione  e 
breve  ;  arriva  il  momento  dei  riconoscimenti  :  il  Ca- 
pitano ritrova  in  Ali  il  fratello  perduto  ,  il  vecchio 
Ubaldo  ritrova  in  Armellina  la  figlia  rapita  dai  pirati 
e  la  dà  in  moglie  a  Valerio.  Nel  ^adre  Crudele  (I), 
Paldolfo,  che  ha  perduto  il  suo  unico  figliuolo  in  un 
incendio,  alleva  presso  di  se  ed  ama  come  se  fosse 
il  proprio,  il  figlio  di  un  amico,  Valerio,  che  ama  Lu- 
cinda,  una  giovanetta  alla  cui  mano  aspira  il  vecchio. 
Questi  scopre  i  loro  amori  innocenti  e  caccia  Vale- 
rio di  casa.  Intanto  il  padre  di  Lucinda  s' impegna  di 
dare  la  figlia  a  Landolfo  ;  disperazione  dei  due  gio- 
vani ;  se  non  che  ,  dopo  una  serie  di  avventure  tra- 
gico-comiche, si  scopre  che  Valerio  è  figlio  di  Pan- 
dolfo,  il  quale  non  si  oppone  più  alle  nozze  dei  due 
giovani.  Nella  commedia  l'/ncau/o,  ovvero  V  Inavver- 
tito (2),  nella  protagonista  è  riconosciuta  una  fanciulla 
già  rapita.  Negli  Intrighi  d'Amore  (3),  Pandolfo  ebbe 
rapito  dai  turchi  il  suo  unico  figliuolo  ;  ora  ha  con  se 
una  figlia,  Lucinda ,  che  vuole  accasare.  Questa  è 
amata  da  Valerio,  ma  il  padre  di  lui,  Ubaldo,  la  vuol 
prendere  lui  stesso  in  moglie  e  ne  ottiene  il  consenso 
da  Pandolfo.  Arriva  Ottavio,  il  quale  si  è  potuto  li- 
berare dalla  schiavitù  in  cui  era  caduto  con  la  sua 
virtù,  vede  Lucinda  e  se  ne  innamora.  Dolore  di  Va- 


(1)  Bartoli;  op.  cit.  p.  73. 

(2)  Bartoli;   op.   cit,   p.    91. 

(3)  Bartoli;   op.   cit.  p.    191. 


—  89  — 

lerio,  che  apprende  che  l'altro  vuole  impalmare  la  gio- 
vinetta da  lui  amata;  Ottavio  si  adopera  presso  Pandolro 
per  ottenere  la  mano  di  Lucinda,  ne  ottiene  il  consenso, 
ma  la  fanciulla  continua  ad  amoreggiare  con  Valerio; 
il  padre  la  sorprende  alla  finestra  nell'atto  che  parla 
col  suo  damo  ;  la  sgrida,  ma  Valerio  lo  persuade  che 
si  è  ingannato.  Ottavio,  intanto,  si  crede  felice,  spo- 
serà presto  Lucinda.  All'  incontro  ,  Valerio  è  sulle 
furie;  ma  ecco,  Pandolfo  scopre  che  Ottavio  è  il  pro- 
prio figliuolo  ;  il  suo  matrimonio  con  Lucinda  è  im- 
possibile e  questa,  in  mezzo  alla  gioia  di  tutti,  sposa 
Valerio.  Nei  Tre  <^atti  (ì),  Ubaldo  Lanterni,  dopo 
diverse  peripezie,  diventa  commissario  dell'isola  d'Elba; 
ha  una  figlia,  che  s' innamora  del  servo  Orazio  ;  per 
amoreggiare  liberamente  si  finge  pazza  ,  ma  il  Capi- 
tano che  l'ha  domandata  in  moglie,  indica  un  medico 
per  guarirla.  Intanto,  Ardelia  ,  figlia  di  Fabrizio,  sa- 
pendo che  il  proprio  amante,  Orazio,  trovasi  schiavo 
all'  Elba  ,  si  traveste  da  uomo  insieme  a  Colombina 
sua  serva  ed  approda  nell'isola  recando  il  danaro  ne- 
cessario per  riscattare  dalla  schiavitù  il  giovane.  Qui 
ha  luogo  una  serie  d'  avventure  strane  ;  ad  Ardelia 
rubajio  il  denaro  che  porta  ;  intanto  mercè  una  certa 
acqua  portentosa  che  doveva  guarire  la  pazzia  di  Lu- 
cinda, Ardelia,  Colombina  e  Zanni  amante  di  costei  e 
lo  stesso  Ubaldo  diventano  matti  :  è  stato  un  sem- 
plice equivoco  ,  giacche  invece  di  bere  1'  acqua  che 
restituiva  il  senno,  bevvero  quella  che  lo  fa  perdere. 

(I)   Bartoli  ;  op.  cit.    p.   237. 


—  90  — 

Qui  altre  avventure  ,  ma  comiche  ;  infine  ,  si  scopre 
che  Orazio  è  figho  d'Ubaldo  e  sposa  ArdeUa  ,  Lu- 
cinda  sposa  Fabrizio  fratello  di  questa,  Colombina 
sposa  Zanni.  Anche  in  Commedia  de!  p.  Adriani,  Pan- 
talone riconosce  nel  Capitano  un  suo  figliuolo. 

Altra  caratteristica  della  commedia  dell'arte  è  il  ru- 
more che  fanno  i  personaggi  sulla  scena,  specialmente 
alla  fine  del  primo  e  secondo  atto  dell'azione  col  re- 
lativo panico  e  fuggi  fuggi  dei  personaggi,  anche  per 
cose  da  nulla.  L'azione,  allora,  diventa  caotica,  tutti 
gridano  ,  gesticolano  ,  si  rincorrono  o  fuggono  per  la 
strada  o  si  rinchiudono  in  casa.  Spesso  i  personaggi 
si  bastonano  fra  loro,  si  scambiano  schiaffi,  calci  ;  chi 
cade  ,  travolge  nella  caduta  il  compagno  o  getta  a 
terra  chi  arriva.  Non  cadono  soli  ;  trascinano  nella  ca- 
duta anche  i  mobili.  Quasi  tutti  codesti  finali  d'atti — 
meno  l'ultimo  in  cui  con  le  nozze  ritorna  la  calma  — 
non  sono  che  scene  di  fracasso.  Nello  scenario  :  For- 
tuna di  Flavio,  dello  Scala,  leggiamo  :  "  Arlecchino 
fa  accomodare  il  banco  da  montare  a  vendere  la  roba  ; 
poi  Servitori  vi  mettono  sopra  la  sedia,  la  valigia,  poi 
chiama  i  compagni  Gratiano  e  Turchetto  vengono  fuori 
dall'  hosteria  ,  montano  tutti  in  banco  ;  Turchetto  co- 
mincia a  suonare  e  cantare  ;  in  quello  Flaminia  alla 
finestra  sta  a  guardare  i  ciarlatani  ;  in  quello  Burat- 
tino viene  ad  ascoltare  ;  in  quello  Franceschina  arriva, 
si  ferma  per  vedere  :  in  quello  l^antalone  arriva,  sa- 
luta Oratio  e  tutti  si  fermano  a  vedere.  Qui  Gratiano 
sopra  la  sua  roba  fa  l'imbonimento,  jìrlecchino  il  si- 
mile ;    Turchetto  suona    e  canta  ;   in    quello    Capitano 


—  91   — 

vedendo  Flaminia  alla  finestra  subito  la  saluta  ;  Fran- 
ceschina  saluta  lo  schiavo  ;  Capitano  osserva  Arlec- 
chino e  lo  riconosce  per  quello  che  aveva  in  governo 
la  sua  donna,  Io  tira  giù  dal  banco  ;  Pantalone  dice 
ad  Oratio  quello  Capitano  essere  suo  nemico  ;  Oratio 
caccia  mano  contro  Capitano  ;  Capitano  il  simile  ;  ylr- 
lecchino  fugge  ;  Capitano  lo  seguita  e  in  quel  mo- 
mento il  banco  va  per  terra,  ognuno  fugge  a  casa  sua  ; 
Pantalone  e  Pedr olino  li  seguono  (1)  ".  Il  finale  del- 
l'atto secondo  della  Finta  U^otte  di  Colafronio  e  in- 
dicato così  :  "  Scena  X.  jìrdelia.  Isabella,  ^asquella. 
Zanni  e  Colombina.  Ar delia  chiama  Isabella  la- 
mentandosi del  torto  che  riceve  da  lei  benché  povera 
vedova  ,  mentre  gli  vuol  torre  Ottavio  quale  gli  ha 
dato  parola  di  sposarla  :  lei  dice  che  sempre  visse 
amante  d'Ottavio  siccome  ella  fu  amante  di  Valerio  ; 
Pasquella  si  duole  con  Colombina  che  le  tolga  il  suo 
Pulcinella.  Le  padrone  vengono  agli  schiaffi,  le  serve 
ai  capelli,  Zanni  di  mezzo  sparte  e  finisce  l'atto  (2)  ". 
Ecco  il  finale  dei  Due  Schiavi  l^ivenduti  :  "  Scena 
XV.  Ubaldo  e  Cola.  Ubaldo  viene  con  le  gioie,  vuole 
entrare  in  casa  ,  sente  un  gran  rumore  ,  si  rompono 
pentole  ;  diversi  strepiti;  esce  {Cola)  fuori  con  bastone, 
bastona  il  vecchio  ed  entra  ;  vecchio  fugge  (3)  ".  Nella 
stessa  commedia  la  traccia  della  scena  quinta  dell'atto 
terzo  è  la  seguente  :    "  Cola    si   rallegra  con    Valerio 

(1)  Bartoli;   op.  cit.   p.  XII. 

(2)  Id.   op.   cit.  p.   24. 

(3)  Id.  op.  cit.   p.   50. 


—  92  — 

che  r  invenzione  cammina  bene  ;  in  questa  rientra  il 
Capitano  e  il  servo,  Cola  bastona  ;  loro  paura  e  fug- 
gono ^'.  Ecco  le  due  ultime  scene  dell'atto  primo  del 
Padre  Crudele  :  "  Scena  VI.  T^asquella  e  Colombina, 
vengono  discorrendo  insieme  a  ragionamenti  amorosi, 
si  domandano  chi  sia  il  damo ,  tutte  dicono  d'essere 
amanti  di  Stoppino  dove  alterate  si  azzuffano  ;  e  in 
questo  :  Scene  VII  ;  Stoppino  e  le  dette.  Entra  di 
mezzo,  e  vuole  intendere  la  causa  della  contesa,  cia- 
scheduna la  vuol  dire,  l'una  non  lascia  parlare  l'altra, 
di  nuovo  si  danno,  Stoppino  frusta  tutte  e  due,  esse 
fuggono  in  casa  (  1  )  " .  Negli  Intrighi  d'  ylmore,  Pa- 
squella  e  Colombina  si  tirano  i  capelli  nel  primo  atto; 
si  picchiano  nel  secondo  ;  Pandolfo  bastona  Lucin- 
da  (2)  ".  NeW Onorata  fuga  di  Lucinda,  Valerio  va 
a  fare  una  serenata  sotto  la  finestra  di  Ardelia  ,  ma 
Pantalone,  padre  della  ragazza,  gli  tira  sul  capo  una 
pentola;  Valerio  e  il  suo  servo,  impauriti,  fuggono  (3). 
Nelle  Tre  Gravide,  i  tre  falsi  medici  (Cocivola,  Co- 
cilla  e  Birimbocciola)  bastonano  il  vero  medico  (4); 
Colombina  bastona  Cola  e  il  Capitano  ;  le  tre  gravide, 
fìngendosi  spiritate,  s'avventono  sul  vero  medico  e  gli 
danno  pugni  e  calci  :  quest'ultimo  dice  che  sono  ar- 
rabbiate e  tutti  fuggono.  Nelle  T)isgrazie  di  Colafro- 
nio  ,  Cola  è  bastonato  da  tutti  ,  da  Fabrizio  perchè 
l'ha  messo  in  disgrazia  di  Lucinda,  da  Orazio  perchè 

(1)  Id.  p.  76-77. 

(2)  Id.  p.  119. 

(3)  Id.  p.  143. 

(4)  Id.  p.  155. 


—   V:> 


r  ha  messo  in  disgrazia  d' Ardelia,  dal  Capitano  perchè 
gli  ha  sviato  il  servo  (1).   Nei   Tappeti,    Zanni  travi- 
sato da  diavolo  bastona  il  Capitano,  Pantalone  e  tutti 
gli   altri  personaggi  che  si  trovano    sulla   scena  ;  tutti 
prendono  la  fuga  e  finisce  l'atto  secondo  (2).  Anche 
le   donne  maneggiano  il  bastone  e  mettono  in  fuga  i 
personaggi.    NeWylmante  Geloso  della  raccolta  Croce, 
Angiola    e    Vittoria  bastonano    Pulcinella  e  Coviello 
(atto  secondo)  ;  nella  Cameriera,   della  stessa  raccolta, 
Florinda,  per  gelosia,  bastona  Angiola  e  qumdi  Orazio 
suo  amante  perchè  implora  perdono  per  quest'ultima. 
Nella  commedia  dell'arte  le  trivialità  e  le  sconcezze 
dal  titolo  passavano    nel    contenuto.   Nelle     Tre  (gra- 
vide il  Capitano  è  innamorato  di  Lucinda  e  Cola  suo 
servo  di  Colombina  :  si   presentano  alle    due    donne, 
fanno  la  loro  dichiarazione,  ma  sono  bastonati  ;  le  due 
donne  msieme  ad  Ardelia,    sorella  di  Lucinda  ,  par- 
lano dei  loro  amori  ;   Lucinda  ama  Orazio  ;   Ardelia, 
Ottavio  ;  Colombina,  Zanni  servo  d'  Ottavio.  Tutte  e 
tre  sono  rimaste  incinte  ;    temono    d'  essere    scoperte, 
Lucinda  e  Colombina    sopratutto,  perchè    hanno    ap- 
preso che  i  loro  amanti  devono  partire  per  Pisa  senza 
che  prima  possano  sposarle.  Pandolfo,  padre  d'Orazio, 
difatti,  ha  imposto  a  suo  figlio  d'andare  a  fare  i  suoi 
scudi  in  quella  città  e  Zanni  deve  seguirlo.  Lo  stesso 
Pandolfo,  ch'è  vedovo,  domanda  la  mano  di  Lucinda, 
ma  Ubaldo,  padre  di  questa,  non  può  subito  accon- 
ci) Id.  p.  255. 
(2)  Id.  p.  287. 


—  94  — 

sentire  alle  nozze  perchè  la  figlia  è  indisposta  ;  oc- 
corre che  prima  guarisca  ;  poi  contentissimo  di  dar- 
gliela in  isposa. 

Il  male  della  figlia  progredisce  ;  progredisce  quello 
di  Colombina,  la  quale  dice  che  ha  dolori  matricali 
perchè  ha  mangiato  fave.  Cresce  col  male  l' imbarazzo 
delle  donne  ;  Zanni  si  mette  loro  intorno  e  le  con- 
siglia di  non  farsi  toccare  il  polso  dal  medico,  ne  di 
mostrargli  le  orine;  gridino  che  non  vogliono  esser  vi- 
sitate da  medici  e  fingano  di  esser  spiritate.  Il  Capi- 
tano che  s'è  visto  respinto  da  Lucinda,  la  chiede  diret- 
tamente in  moglie  al  padre  ,  questi  risponde  che  la 
ragazza  è  ammalata  ,  ma  1'  altro  s' impegna  di  farla 
guarire,  e  corre  per  un  dottore.  I  tre  innamorati,  Ora- 
zio, Ottavio  e  Zanni,  travestiti  da  medici,  si  presen- 
tano ,  si  presenta  anche  il  medico  chiamato  dal  Ca- 
pitano, ma  i  primi  tre  si  mettono  contro  l'ultimo  ve- 
nuto, che,  alla  fine,  scappa.  Nell'atto  secondo,  il  Ca- 
pitano e  Cola  vengono  in  iscena  vestiti  da  dottori  e 
dicono  che  sono  Esculapio  e  Galeno  ,  vogliono  visi- 
tare Colombina,  ma  questa  li  bastona.  Torna  il  me- 
dico vero  e  visita  le  tre  donne  ;  queste  gridano,  di- 
cono che  hanno  addosso  gli  spiriti,  bistrattano  il  me- 
dico, il  quale  dichiara  che  tutte  e  tre  sono  arrabbiate. 
Si  chiama  un  negromante  ;  questi  arriva  ,  ma  non  è 
che  uno  degli  amanti,  Orazio  ,  il  quale  si  chiude  in 
camera  con  Lucinda  per  fare  i  circoli  ;  arriva  Otta- 
vio vestito  da  mago  e  si  chiude  in  camera  con  Ar- 
delia  per  preparare  1'  incantesimo.  Anche  Colombina 
vuole  un  astrologo   o    un    mago  ;  Zanni  è   pronto  ad 


—  95  — 

assumere  tale  qualità  e  si  chiude  in  camera  con  Co- 
lombina. Il  vecchio  Ubaldo  dice  che  anche  lui  va  a  chia- 
mare un  astrologo  per  far  guarire  la  sua  mula.  Nell'atto 
terzo  ,  il  Capitano  e  Cola  vestiti  da  astrologhi  pic- 
chiano alla  porta  d'  Ubaldo  ;  vien  fuori  Zanni  vestito 
da  astrologo,  chiama  Ottavio  ed  Orazio  e  tutti  e  tre 
bastonano  il  Capitano  e  Cola,  i  quali  se  la  danno  a 
gambe.  Ubaldo  domanda  ad  Orazio  se  le  donne  sono 
spiritate  e  il  giovane  risponde  che  sono  soltanto  me- 
lanconiche perchè  desiderano  prender  marito  ;  il  che 
saputo  il  vecchio  Pandolfo  ,  dichiara  ad  Ubaldo  che 
è  pronto  a  sposare  Lucinda.  Questa  è  chiamata  in- 
sieme ad  Ardelia  e  Colombina  e  Ubaldo  partecipa 
alla  prima  che  Pandolfo  ha  richiesto  la  sua  mano.  Co- 
lombina protesta  per  le  tre  gravide,  dice  che  il  loro 
male  non  può  essere  conosciuto  da  astrologhi,  ma  da 
donne  ;  Ubaldo  risponde  che  manderà  a  chiamare  una 
levatrice.  Imbarazzo  delle  tra  giovani ,  si  vedono  già 
scoperte,  ma  Zanni  viene  in  loro  aiuto  ;  difatti,  poco 
dopo,  uno  dei  tre  innamorati  ,  Orazio  ,  viene  vestito 
da  levatrice  :  vengono  fuori  le  tre  ragazze,  e  Lucinda 
con  la  fìnta  levatrice  rientra  in  casa.  Arriva  Ottavio 
ugualmente  vestito  da  levatrice  e  con  Ardelia  si  ri- 
tira in  casa  ;  arriva  parimente  Zanni  vestito  da  leva- 
trice e  con  Colombina  si  chiude  in  casa.  Intanto,  di 
dentro  ,  Lucinda  grida  che  finalmente  il  suo  male  è 
stato  conosciuto  ;  viene  fuori,  Ubaldo  le  domanda  che 
male  e  il  suo,  l'altra  risponde  che  è  gravida  e  1'  ha  in- 
gravidata la  levatrice.  Il  padre  ride,  ride  anche  Pan- 
dolfo.  Orazio  vien  fuori  in    abiti  maschili  e  dichiara 


—  96  — 

che  l'autore  di  quella  gravidanza  e  lui.  Lo  stesso  di- 
chiara Ottavio  per  Ardelia  e  Zanni  per  Colombina. 
Tutti  allegri,  quando  piombano  in  mezzo  a  loro  il  Ca- 
pitano e  Cola  travestiti  da  levatrici  offrendo  i  loro 
servizi,  ma  sono  ringraziati  e  messi  alla  porta. 

Negli  Scenari  di  Flaminio  Scala  l'oscenità  assume 
le  forme  più  plebee,  più  stomachevoli.    Nel  %)ecchio 
Geloso  ,  Burattino  ,  ortolano  ,  dà  alla  figliuola  lezioni 
sul  modo  di  maneggiare  la  zappa  ,  un    doppio  senso 
sconcissimo  che  faceva  sbellicare  dalle    risa  le  dame 
e  i  cavalieri  che  ascoltavano  la  commedia.   Lo  stesso 
Burattino,  nelle    Gelosie  d' Isabella  y  chiamava  Pedro- 
lino   "  signore  impregnatore  "  ;  sempre    la   stessa  ma- 
schera, nella  Caccia,  prega  tutti   "  che  facciano  poco! 
romore,  perchè  il  medico  possa  meglio  impregnare  sua 
figlia  ";  nel  Uecchio  Geloso  domanda  a  Pantalone  "  se| 
Gratiano  avendo  usato  con  sua  moglie ,  egli  può  es- 
sere chiamato  becco  "  ;  nel  Finto  Negromante  una  gio- 1 
vane  domanda  all'innamorato   "  se  la  sposerà  essendo 
la  gravidanza    al    colmo  ".   Nel  Pedante  ,  PedrolinoJ 
Arlecchino  e  Burattino   "  tutti  e  tre  vestiti  da  beccai 
e  da  castraporci  con  coltellacci  grandi  in  mano  e  una] 
conca    di    rame  si  accingono  a   castrare  Cataldo  pe-! 
dante".  NelF/r?/oA^egroman/e,  Arlecchino  vomita  "sfor- 
zandosi di  far  del  corpo  ".  In  un'altra  commedia  (1), 


(1)   É  il  Vecchio  Geloso.  Ecco  come  ne  è  indicata  la  scena  :  "  Men-j 
tre  si  balla   Isabella  accenna  a  suo  marito  di  voler  orinare  ;  Pasquella 
subito  con  licenza  di  Pantalone  la  conduce  in  casa.  Pantalone  subito, 
per  gelosia  si  pone  alla  guardia  della    porta ...  Ognuno    vorrebbe  en- 
trare in  casa  Pasquella  per    fare  qualche  servizio,  e   Pantalone  dice  : 


-  97  — 

durante  una  festa,  la  moglie  di  Pantalone  si  chiude 
per  un  certo  suo  bisogno  in  camera  do\e  già  l'aspet- 
tava l'amante  ;  il  marito  ,  perchè  la  sua  onesta  metà 
non  sia  turbata  in  quella  sua  funzione  fisiologica  ,  si 
mette,  di  guardia,  accanto  alla  porta  :  la  moglie  vien 
fuori,  tutta  rossa  ,  sudata  e  gli  abiti  in  disordine  ,  e 
Pantalone,  premuroso,  le  ricompone  il  vestito  e  con 
un  fazzoletto  le  asciuga  il  sudore. 

Che  più  ?  11  Perrucci,  che  neWArte  Rappresenta- 
tiva s'ingegna  ripetutamente  di  far  comprendere  ai  co- 
mici come  debbano  eviteire  nel  loro  linguaggio  non 
solo  ogni  oscenità  ma  anche  i  doppi  sensi  palesemente 
immorali,  nel  proporre  ai  commedianti  all'  improvviso 
alcune  forme  di  dire  figurato  o  arricchite  di  tropi,  gli 
mette  sott'occhio  i  seguenti  esempi  tratti  da  commedie 
molto  in  voga  ai  suoi  tempi  (  1  ). 

A.)   Con   occulto  sospetto  di  cosa  oscena  : 

"  Ma  subito  ,  Bertuccia  mia  ,  che  la  terra  sia  guasta  per  troppo 
scavarla  ?  ". 

B.)  Concedendo  ciò    che  s'oppone. 

FL.  —  Ruffiano  sfacciato... 

TOC.  —  Questa  è  l'arte  mia,  e  non  la  niego. 

FL.  —  Non  t'arrossisci  di  non   mantener  la  parola  ? 

TOC.  —  Se  son  ruffiano  come  vuoi  che  n'arrossisca  ? 

FL.  —  Scellerato  I... 

TOC.  —  Per  guadagno,  signor  sì. 

Di  grazia,  non  andate  a  disturbare  mia  moglie,  la  quale  fa  un  servizio... 
Vien  fuori   Isabella  tutta  sudata  ;  Pantoione  subito  la  rasciuga  col  suo 
fazzoletto   dicendole  che  quando  le  vengono  quelle  volontà  che  se  le 
levi,  e  non  patisca  ".   Scala,  op.  cit.  pp.  2 1  -22. 
(1)  Op.   cit.   p.   213. 

!ACel  Regno  delle  ^asehere  7 


—  98  — 

C.)    Con  la  vera  sciocchezza. 

"  T^asquella.  Fra  le  muraglie  di  questa  rocca  è  sempre  battuta  la 
bellezza  ;  non  posso  muovere  il  piede  ch'io  non  sia  adirala.  Se  io  vo 
in  mercato  ,  mi  gridan  dietro  come  s'  io  fussi  l' immagine  della  Dea 
Venere  :  Oh  che  fa  l'esser  bella!  Oh,  come  vi  sono  queste  poppone, 
che  paiono  due  zucche  prataie  ;  vanno  pazzi  costoro  di  me  !  (  1  )  ". 

D.)    Rimprovero  di  serva   al  servo. 
"  A   me  dunque   far   questo, 
Becco  con  tutto  il  resto  ? 
Dunque,   l'amasti  tanto 
E  il  tanto  sospirar  è  stato  vano  ? 
Mezzo  cornuto  e  tutto  ruffiano  ! 


O  razza  di  lumaca, 

O  cervo  a  paletta,   razza  di  Lioncorno, 

Già  che  fu  la  tua  fé'  per  me  di  vetro. 

Quello,   ch'heù  in  testa,  che  ti  corra  dietro!  (2) 

E.)   Rimprovero  (di  Pulcinella)   alla  serva,  in  dialetto  napoletano. 

"  Ah,  cana  arrennegata  ,  arma  cotta  ;  accossì  quanno  credeva  a  la 
chiazza  de  ssa  'bellezza  fare  eo  sportiello  de  gaudebilia,  non  solamente 
me  vinne  la  rrobba  contr'  assisa ,  ma  trovola  chiù  fraceta  e  stantiva  ! 
Lo  pane  a  ruotolo  è  divenuto  palatella  d'assisa,  l'erve  de  le  speranze 
so'  mosce  e  nsocetute,  lo  vino  de  la  grazia  è  spunto,  sbolluto  e  ghiunto 
a  Tacito  ;  li  pisce  de  le  mpromesse  ne af archiate  a  la  grotta  de  l'in- 
ganno, che  pareno  vive  ,  fetono  ;  li  frutte  de  li  guste  ammoruse  pa- 
reno  belle,  e  nce  so  dinto  li  vierme  ;  lo  lardo  de  sa  janchezza  pare 
frisco  e  sa  di  scartato  ;  pe'  parte  de  vetella  de  Sorrento  trovo  carne 
de  vacca  de  cient'anne;  lo  caso  è  fraceto  ,  le  ricotte  so  acetizze  ,  li 
frutte  de  mare  che  speravo  di  trovare  chine,  so'  bacante  pe'  essere  a 
la  scolatura  de  la  luna  e  dinto  la  pasticceria  de  ssa  bellezza  trovo  pa- 


(1)  Op.   cit.  pp.  323-27, 


—   99  - 

sticcie  de  inganne,  pizze  sfogliate  de  imbroglie...  e  sfogliatelle  e  mat- 
tonate de  carne  de  ciuccio,  de  mosche...    (1)  ". 

F.)  Scherzi  al  vecchio  innamorato. 

"  1  cervi  e  i  vecchi  sono  simili  perchè  nella  vecchiaja  aggravandosi 
la  testa  dei  corni,  non  possono  più  innalzarla.  I  vecchi  sono  come  le 
piante,  che  quando  hanno  per  l'età  pigliato  la  piega,  non  v'è  peri- 
colo che  si  possano  più  raddrizzare  (2)  ". 

Per  riassumere  :  il  contenuto  della  commedia  del- 
l' arte  non  è  superiore  a  quello  delle  farse  che  oggi 
si  rappresentano  nei  teatri  dialettali  d'infimo  ordine  e 
dove  la  maschera  rallegra  ancora  i  pomeriggi  e  le 
serate  della  plebe.  Pasquino,  Pulcinella,  Meneghino, 
Cassandrino,  Gianduja  ,  ancora  fanno  ridere  coi  loro 
lazzi,  con  le  loro  boccacce,  con  le  loro  trivialità,  coi 
loro  doppi  sensi  più  o  meno  apertamente  osceni  in 
commedie,  che  come  quelle  improvvise  d'  una  volta, 
hanno  per  base  un'  intreccio  infantile  ;  soltanto  codeste 
maschere,  oggi,  non  fanno  ridere  che  le  serve,  i  guat- 
teri,  i  portinai,  i  rivenduglioli,  insomma  ,  un  uditorio 
infinitamente  plebeo  ,  mentre  le  vecchie ,  quelle  glo- 
riose del  Cinquecento  e  del  Seicento  ,  facevano  ri- 
dere dame  gentili  e  cavalieri  inappuntabili,  nobili  e 
gente  di  lettere,  abati  di  spirito  ed  uomini  di  spada. 
Quale  caduta  ! 

Se  qualcuno  l'avesse  predetto  al  nostro  buon  Per- 
rucci  il  domani  della  pubblicazione  del  suo  libro, 
forse  lo  scrittore  palermitano  gli  avrebbe  gridato  :  IJa 

(1)  Op.  cit.  p.  297. 

(2)  Op.  cit.  p.  305. 


—   100  — 

retro,  Satana  !  Per  sua  fortuna,  quando  egli  morì,  la 
commedia  dell'arte  era  ancora  piena  di  vitalità  ed  egli 
potè  portar  seco  nel  sepolcro  la  convinzione  che  quel 
genere  di  spettacolo  avrebbe  sempre  costituito  una 
delle  glorie  più  pure  e  meno  discusse  dell'  Italia 
nostra. 


i 


CAPITOLO  QUARTO 

I   Personaggi  della   Commedia  dell'Arte 


Certamente  l'attrattiva  maggiore  della  commedia  del- 
l'arte non  deve  cercarsi  nella  orditura  della  comme- 
dia stessa,  ma  nei  suoi  personaggi,  anzi ,  nelle  Ma- 
schere. Chi ,  per  altro  ,  diceva  commedia  dell'  arte, 
diceva  maschere  :  era  impossibile  immaginare  1'  una 
senza  le  altre  ;  se  lo  scenario  costituiva  l'ossatura,  lo 
scheletro  della  prima ,  le  maschere  n'erano  il  sangue 
e  le  carni  ;  n'erano,  anzi,  1'  anima.  Senza  queste  ul- 
time ,  probabilmente ,  la  commedia  a  soggetto  non 
avrebbe  fatto  il  giro  di  tanta  parte  d'  Europa  e  1'  I- 
talia  avrebbe  avuto  una  gloria  letteraria  di  meno. 

Esse,  più  che  caratteri  ,  rappresentavano  tipi  ,  che 
lo  scrittore  comico  e  l'  artista  resero  quasi  immobili, 
quasi  condannati  a  muoversi  inesorabilmente  dentro  li- 
miti tracciati  dalla  tradizione  e  dall'arte  stessa  e  senza 
che  nessuna  delle  tante  sfumature  che  presentano  i  ca- 
ratteri umani  modificasse,  meno  casi  rarissimi,  una  sola 
piega  del  loro  volto.   La  stessa  maschera  che  copriva 


—   102  — 

il  viso  dell'artista,  contribuiva,  con  la  sua  immobilità, 
a  rendere  non  meno  immobile  il  tipo  che  la  medesi- 
ma rappresentava.  Qualche  volta  cambiavano  i  parti- 
colari, ma  il  personaggio  rimaneva  sempre  lo  stesso, 
fisso  ,  rinchiuso  diremmo  quasi  nella  sua  cristallizza- 
zione. Pantalone  poteva  cambiare  professione  o  me- 
stiere. Arlecchino,  o  Pulcinella  ,  poteva  per  un  mo- 
mento nascondere  la  sua  livrea  di  servo  ,  ma  il  suo 
carattere  non  variava  d'una  linea. 

Fra  i  personaggi  principali  o  maschere  della  com- 
media dell'arte  prendevano  posto  i  %)ecchi.  General- 
mente i  vecchi  erano  due,  ma  non  portarono  sempre 
e  dappertutto  lo  stesso  nome.  Furono  però  più  cono- 
scinti  r  uno  sotto  il  nome  di  Pantalone  e  1'  altro  di 
Dottore  Graziano  o  semplicemente  di  Dottore.  Negli 
Scenari  dello  Scala  c'è  Pantalone  ;  in  quelli  editi  dal 
Bartoli  codesti  due  nomi  non  figurano  che  di  rado;  nel 
T)ottore  Bacchettone,  che  crediamo  anteriore  e  quindi 
non  una  derivazione  del  'tartufo  del  Molière  (1),  il  dotr, 

(1)  lì  carattere  del  bacchettone  è  vecchio  nella  commedia  italiana. 
Scomparso  o  quasi,  nel  Seicento,  durante  1*  infierire  della  reeizione  cat- 
tolica, riapparve  sulle  scene  nel  Settecento  col  Gigli,  toscano.  Nel  li- 
cenzioso Cinquecento  Pietro  Aretino  intitolò  dall'  ipocrita  una  delle 
sue  commedie,  la  quale,  certamente,  fu  conosciuta  dal  Molière.  Scrive 
un  francese  :  "  Le  personnage  principal  de  la  comédie  de  Lo  Ipocrito 
a  de  commun  avec  Tartuffe,  non  seulement  l'hypocrisie,  mais  ancore 
la  gourmandise  et  la  sensualité.  11  emploie  les  mémes  moyens  pour 
conquérir  son  prestige  et  son  influence  :  simagrées  pieuses,  humilité  feinte, 
jargon  de  la  dévotion.  11  est  place  dans  un  milieu  pareil,  au  sein  de  la 
famille  oìi  il  exerce  une  autorité  dangereuse  ".  Moland,  Molière  et  la 
Comèdie  Italìenne;  Paris,  Didier  et  C.    1 867,  p.   222. 


—   103  — 

tore  si  chiama  appunto  Graziano;  ma  è  bacchettone,  don- 
naiuolo  e  strozzino;  Pantalone  figura  nella  stessa  com- 
media, nei  Tappeti,  e  poi  in  nessun'altra.  I  %)ecchi  si 
chiamano  Pandolfo  ed  Ubaldo  ;  Pantalone  ricompaire 
negli  Scenari  del  Luccatello,  ma  scompare  ,  o  quasi 
in  quelli  della  raccolta  Croce,  tutti  composti  o  rima- 
neggiati a  Napoli,  dove  la  maschera,  d'origine  vene- 
ziana, perdeva,  per  così  dire  ,  la  sua  nazionalità  per 
quella  napoletana  diventando  Giangurgolo  ,  o  Pasca- 
riello,  o  Tartaglia. 

I  %!)ecchi ,  per  altro  ,  sono  sempre  i  genitori  della 
coppia  amorosa  ;  gridano,  ammoniscono,  fanno  mostra 
di  molta  severità,  lodano  i  tempi  antichi  e  bistrattano 
i  presenti;  i|  che  non  impedisce  loro  d'innamorarsi, 
qualche  volta  ,  d'una  giovinetta  o  d'  una  vedova ,  e 
qualche  altra  di  sposare  la  serva  ;  ma  sono  sempre 
burlati  se  fanno  i  galanti  ,  e  il  loro  rigore  di  padri 
burberi  ed  inaccessibili  ai  sentimenti  gentili  sfuma  di 
botto  quando  il  sipario  sta  per  cadere  sull'ultima  sce- 
na della  commedia.  Ma  gli  Ubaldi  ,  i  Pandolfi  ed 
altri  simili,  come  i  Giangurgolo,  i  Tartaglia,  non  ebbero 
che  una  celebrità  relativa,  forse  appena  regionale;  gli 
immortali,  coloro  che  scrissero  a  caratteri  d'oro  il  loro 
nome  nelle  pagine  della  storia  dell'arte  comica  furono 
Pantalone  e  il  Dottor  Graziano. 

Sebbene  appartengano  l'uno  a  Venezia  e  l'altro  a 
Bologna,  pure  s'  è  voluto  dar  loro  un'  origine  remota, 
assai  remota  ;  il  loro  capostipite  sarebbe  stato  il  Senex 
della  commedia  latina.  Non  diciamo  che  più  d'  un 
punto  di  rassomiglianza  non  esista  fra  le  due  maschere 


—   104  - 

italiane  e  i  X)ecchi  del  teatro  di  Plauto  e  di  Teren- 
zio ;  per  esempio,  Pantalone  che  soffre  di  mal  d'amore 
e  il  Dottor  Graziano  che  fa  il  galante  a  Colombina  o 
a  Pasquella  potrebbero  benissimo  trovare  un  riscontro 
non  forzato,  non  stiracchiato,  ma  naturale,  nel  vecchio 
Stalinone  della  Casina,  di  Plauto,  che  vuole  ottenere 
i  favori  della  schiava  :  del  resto,  un  vero  Don  Gio- 
vanni con  gli  acciacchi  della  vecchiaia  in  di  più  co- 
desto Stalinone  ,  il  quale  ,  nella  scena  terza  dell'atto 
terzo,  scioglie  un  inno  all'amore,  che  tradotto  in  ve- 
neziano o  in  bolognese,  oppure  in  napoletano  avrebbe 
potuto  trovar  posto  fra  le  Prime  Uscite  dei  X)ecchi 
d'una  commedia  dell'arte. 

Nel  mondo 

Cosa  v'è  più  splendido  e  leggiadro 

Dell'Amore?  Che  cosa  ricordare 

Si  potria,  più  piacevole  e  gustosa  ? 

Meraviglio  che  tanti  condimenti 

Usino  i  cuochi  e  non  usin  quell'uno 

Che  ogni  altro  avanza.  Quando  in  una  cosa 

V'è  un  condimento  d'amore,  a  ciascuno 

Piace  di  certo  ;  e  per  contrario  nulla 

Può  essere  soave  e  saporito 

Quando  l'amore  non  v'è  misto.   Il  fiele, 

Che  tanto  amaro,   fa  diventar  miele, 

E  l'uom  da  triste,   disinvolto  e  lepido. 

{Trad.   di  G.   Finali) 

Ma  tolti  pochi  punti  di  rassomiglianza,  dovuti  na- 
turalmente alla  circostanza  che  tanto  i  comici  latini 
quanto  gli  italiani  non  crearono  che    lo  stesso  tipo  o 


—   105  - 

carattere,  e  quindi  con  esso  riproducevano  tutte  le 
debolezze  che  sono  comuni  ai  vecchi  di  tutti  i  tempi, 
le  due  maschere  della  commedia  a  soggetto  hanno 
una  fisonomia  tutta  loro  propria  ed  eminentemente  ca- 
ratteristica perchè  si  possano  ritenere  una  semplice  ri- 
produzione di  quelle  della  vecchia  Roma.  Esse ,  di- 
fatti, rispecchiano,  sebbene  in  caricatura ,  che  spesso 
tocca  il  grottesco ,  le  debolezze  ,  i  difetti,  i  vizi  dei 
vecchi  della  società  italiana  dei  secoli  XVI ,  XVII 
e  XVIII  :  severi  coi  figli,  partigiani  della  più  assoluta 
autorità  paterna  in  famiglia ,  mariti  burberi,  essi  fini- 
scono sempre  col  cedere  ai  desideri  dei  figli ,  o  col 
secondare  i  capricci  delle  mogli  ;  bacchettoni ,  colli- 
torti,  ossequienti  a  preti  e  a  frati,  tutti  chiesa  e  con- 
fessionile,  di  nascosto  professano  una  morale  comoda, 
assai  comoda ,  e  trovano  il  tempo  e  il  modo  d'  inta- 
volare uu  intrigo  galante  ,  di  prestare  il  denaro  ad 
usure  fenomenali  o  di  perderlo  in  una  bisca  o  nel- 
l'alcova d'una  donna  ;  memori  dei  peccati  e  dei  di- 
fetti della  loro  giovinezza,  ora,  nella  vecchiaia  ,  vor- 
rebbero ripeterli  ;  la  qualcosa  ,  forse  ,  spiega  perchè 
finiscono  sempre  col  dar  ragione  ai  giovani  e  perdo- 
nare ai  loro  trascorsi.  Di  caratteristico ,  di  regionale, 
codeste  due  maschere  hanno  questo  :  in  Pantalone, 
nella  persona  del  quale  s'  incarna  il  mercante  vene- 
ziano ,  stitico  ,  avaro  ,  facile  ad  innamorarsi  come  a 
ciarlare,  si  riscontra  spesso  l'uomo  prudente  ,  la  per- 
sona dai  buoni  consigli,  giacche  ,  allora ,  i  veneziani 
erano  in  fama  di  diplomatici  accorti  ,  tanti  Machia- 
velli trapiantati  dalla  terra  di  Dante  in  quella  di  San 


—   106  — 

Marco  (  1  )  ;  nel  Dottor  Graziano,  ch'è  bolognese  (2), 
si  riscontra  la  sapienza  e  l'erudiizione ,  perchè  Bono" 
nia  docet  ;  se  non  che,  la  sua  sapienza  e  la  sua  eru- 

(1)  Ferrucci,  op.  cit.  ,  p.  245.  Era  naturale  che  si  volesse  cono- 
scere Y  origine  del  nome  di  Pantalone.  Chi  scrisse  che  derivasse  da 
pianta-leoni,  poiché  i  veneziani,  nelle  terre  da  loro  conquistate,  met- 
tevano in  marmo,  come  segno  del  loro  dominio ,  la  loro  gloriosa  in- 
segna :  il  leone  di  S.  Marco  ;  altri  lo  derivò  da  un  nome  molto  usato, 
almeno  nei  tempi  andati,   a  Venezia  :  Pantaleone. 

(2)  Come  Pantalone  fu  detto  dei  Bisognosi,  il  Dottor  Graziano  fu 
detto  Balanzon.  Qualcuno  pretese  che  prima   d' assumere  quest'ultimo 
nome,  ne  avesse  un  altro,  Baloardo.  Quello  di  Balanzon  pare  che  lo 
abbia  preso  nel   1570,  quasi  derivandolo  dalla  professione  che  eserci- 
tavano i  comici  di  quei  tempi  prima  di  salire    le  scene.  Erano  quasi 
tutti  ex  saltatori,  ex  ballerini.  Corrado  Ricci  (/  'teatri  di  Bologna  nei  ' 
Secoli  XVII  e  XVIII;   Bologna,  succ.   Monti,  1888)  però  crede  che 
venga  da    balla    (frottola).  Il  Sarti  (//   'teatro    Dialettale  bolognese;    \ 
Bologna,  Zanchelli,    1895,  p.    142)  opina,  invece,  che  venga  da  ba-  \ 
lama  (bilancia),  emblema  della  giustizia.   Sulle  origini  delle    maschere 

e  dei  loro  nomi,  si  può  veramente  ripetere  :  tante  teste,  tante  sentenze. 
Però  anche  il  teatro  greco  conobbe  un  personaggio  quasi  simile  al  Dot- 
tore bolognese,   cioè,  un    personaggio  dai    discorsi   senza    costrutto.  In 
una  commedia  di  Sofrone  un  retore  fa  discorsi  spropositati,  in  un'altra  : 
di  Epicarmo  un  filosofo  della  scuola  d'Eraclito  spiega  balordamente  la  '■ 
teoria  della  perenne  trasformazione  d'ogni  cosa.   Di  qui  le    varie  deri-  ' 
vazioni  :  il  Socrate  delle  Nubi,  l'Euripide  degli  Acarnesi  ed  altri  per- 
sonaggi del  teatro  aristofanesco.  Secondo  il  Sarti  l'inventore  della  ma-  : 
schera  del  Dottor  Gratiano  sarebbe  stato    Luzio    Burchiello  ,  il  quale 
sottoscrivendosi  Lus  Burchiello   Gratià ,    aveva    preso    ad    imitare  un 
vecchio  barbiere  detto  Gratiano  delle  Cotiche.  Del  resto,  lo  stesso  Sarti 
cita  diverse  lettere  di  comici  fioriti  nella  seconda  metà  del  Cinquecento 
che  si  firmavano  :  Dottor  Qratiano  dei    Gelosi  (la  famosa    compagnia 
comica),  oppure  :    Comico    Andreazzo    Gratiano    o    Dottor  Gratiano 
Scarpazon.   (Op.  cit.  p.    135). 


—    107  — 

dizione  sono  vecchi  e  muffiti  (ondi  di  magazzino  messi 
insieme  a  casaccio  da  una  mente  squilibrata  e  non 
meno  a  casaccio  posti  fuori  da  una  bocca  ciarliera. 
E  la  caricatura  del  dottore  bolognese.JLaonde,  scrive 
il  Ferrucci  (  1  )^  è  "un  Dottore  ciarlone  che  non  fa 
respirare  chi  seco  parla  toccandosi  in  ciò  il  difetto  di 
alcuni  letterati,  che  non  voglion  far  fare  una  base  la 
loro  compagno  ,  per    dimostrare    che    v'  è    farina    nei 


sacco  ", 


Dal  libro  dello  stesso  Ferrucci  togliamo  unVesempio. 
òìjConsigtio  e  un  altro  df^ersuasiva  che  ci  daranno 
un  idea  del  linguaggio  che  si  metteva  in  bocca  a 
codeste  due  maschere.  Il  Consiglio  e  in  dialetto  ve- 
neziano ,  e  parla  Fantalone  ;  la  Persuasiva  e  in  dia- 
letto bolognese  alquanto  italianizzato  per  comodo  degli 
spettatori  non  nati  all'  ombra  del  tempio  di  San  Pe- 
tronio, e  parla  il  Dottore. 

"  CONSEGUO. 

"  I  antighi  Egizii,  Ezzellentissimo  Prinzipe,  volendo  mostrar  un  ze- 
rogrifico  del  conseggio  ,  i  fava  un  Pluton  con  el  Zimier  in  sol  cao, 
che  robava  Proserpina,  in  sto  muodo  volendo  dir  che  chi  vuol  far 
acquisto  de  la  ocasion  el  ghà  d*  aver  custodìo  el  cao  del  zimier  del 
conseggio  ;  chi  vuol  raccoger  el  fruto  da  quel  chi  ha  seminao  s'è  ne- 
cessitae  che  se  vaia  del  semenaor  del  consegger  per  cogmosser  el  tempo 
che  sia  ben  a  farlo.  Chi  vuol  alzar  l'edifìzio  della  Politica,  el  se  ser\à 
del  fondamento  della  rason,  perchè  senza  questa  anderà  per  tera  tutta 
la  rnachma.  El  comandar  a  la  orba  xè  un  voler  cascar  dentro  un  fuogo 
de  disgrazie  ;  per  non  star  a  scuro  bisogna  haver  el  moccolo  del  giu- 
dizio.  El   xè   bisogno   che  el   timon   governi    'a  gal;a  del  Regno,  per  no 


((ly'Op.  cit.   p.   245. 


—   108  — 

dar  into  i  scoggi  e  inte  le  secche  d'un  mar  pericoloso,  le  cui  aque  so 
avelenae  da  le  bisse  delle  turbolenze,  e  no  se  fa  chiare,  che  col  corno 
del  Lioncorno.  E  el  cavai  del  Governo  non  anderà  mai  dreto  se  noi 
vien  governao  dal  cavezon  del  consulto.  Fa  ben  donca  Vostra  Zelenza 
come  Pluton  a  servirse  del  Zimier  del  conseggio,  come  terà  a  servirse 
del  semenaor  del  conseger,  come  edifizio  a  fabbricar  sora  el  fondamento 
de  la  Prudenza.  Fra  la  scuritae  servirse  del  nostro  mocolo  per  non  andar 
a  taston  ;  come  Galìa  a  tior  da  drio  el  nostro  timon  de  la  acutezza  ;  come 
Lioncorno  a  scarzar  col  nostro  corno  de  la  Providenzia  el  Velen  de  le 
oculte  trapole  ;  e  come  cavai  a  farse  rezer  dal  cavezon  del  saver  d'i 
soi(l)". 

"  PERSUASIVA  ALLO  STUDIO. 

"  L'è  rhom  al  mond  senzi  al  saver  sicul  asinus  sine  capistro.  perchè  se 
ha  el  cavezon,  chi  el  mena  per  la  strada  de  la  virtù,  el  va  a  scave- 
zacol  al  prezipiz.  L'è  appunt  sicut  porcus  in  luto,  che  se  non  s'ingrassa 
col  beveron  de  la  Dutrina,  el  non  sarà  bon  per  ingrassar  la  minestra  de 
la  conversazion  ;  al  l'è  un  papagal  int'al  bosc  eh'  al  non  articutat  verba; 
de  muod  che  se  dal  maestr  non  l'è  post  int  la  gabbia,  e  vien  ammaistrà 
ad  articolar  i  azzient,  non  c'è  pericol  che  sippa  ne  gotta.  A  l'è  al  boja 
mal  prattic  che  non  savendo  struzar  la  ignoranza,  al  se  espon  al  pericol  de 
le  sassà  del  popol.  Voi  mi  per  tant  che  ti  set  l'asin,  ma  col  cavezon  meae 
disciplinae  ;  el  porc,  ma  col  beveron  de  mi  document  ;  el  papagal,  ma 
che  sippa  reddere  voces  ;  el  boja,  ma  praitic  che  ti  possa  iugulare  igno^ 
rantiam.  Perchè  di  ti  non  si  possa  dir  as/nus  ad  liram,  porcus  inter  glan- 
des,  psittacus  in  nemore  et  carnifex  in  furcis,  ma  asin  cargà  de  sapienza, 
porc  gras  de  dutrina  per  ingrassar  le  pentole  dell'Accademia,  papagal 
int'  la  gabbia  de  la  Corte  per  saper  adular  el  prossimo,  e  boja  del  pu- 
blic, per  struzar  l'ignoranza,  haved  i  applausi  da  i  ragazzi,  e  così  ti  sarat 
el  l'asin  d'or  d'Apulejo,  ch'era  asin  ma  filosof,  el  porc  d'Enea,  ch'ai  fu  f 
prognostic  del  regni ,  el  papagal  che  diss  ad  Ottavia  :  Ave  ,  Caesar  [ 
Imperator,  ed  il  boja  de  tedesc  che  l'avent  tajà  più  melone,   al  diviè 

(I))  Perrucci,  op,  cit.  p.  247. 


—   109  — 

Cavalier.  In  sto  muod  ti  sarat  e  l'asin,  el  porc,  el  papagal,  el  boja,  e  mi 
el  cavezon,  el  beveron,  el  maest  e  la  forc  per  fari  prattic  int  al  me- 
slier  (1)  ". 

Il  Cecchini,  che  come  comico  acquistò  una  grande 
notorietà  recitando  nella  parte  di  Frittellino,  nei  suoi 
Fruiti  ecc.  ,  scriveva  a  proposito  della  maschera  del 
Dottor  Graziano  :  "  La  pcute  del  Dottor  Gratiano 
tanto  grata  a  chi  l'ascolta  (quando  vien  fatta  da  chi 
l'intende)  vien  hoggi  dal  poco  conoscimento  d'alcuni 
adulterata  in  guisa  ,  che  non  gli  vien  lasciato  altro, 
che  'l  semplice  nome.  Ditemi,  e  chi  è  quello  il  quale 
possa  trattare  senza  sdegno  con  uno  che  essendo  tu 
Pantalone,  ti  dica  :  T^antalimon,  T^etulon,  Pultranzon, 
e  peggio?...  Un'altra  spetie  Grationatoria  si  è  ritro- 
vata, ed  è  che  pensando  questa  di  correggere  T  uso 
del  parlar  rovescio  (2)  ,  si  è  posta  a  dir  motti  latini 
e  sentenze  tirate....  in  guisa  che  non  lasciando  mai 
parlare  chi  seco  tratta,  confonde  e  snerva  il  filo  della 
favola  ".  Ed  aggiunge  :  "  Costumano  i  nostri  comici 
italiani  di  servirsi  per  consigliere  del  prelibato  signor 
Gratiano  il  quale...  dà  principio  al  suo  discorso  con 
una  :  Sacra  Cremona,   o  vero  :  Sacra  Carlona,  o  Sa- 

(1)  Ferrucci,  op.  cit.  p.   269. 

(2)  Il  Ferrucci  scriveva:  "  Molti  anni  sono  s'introdusse  un  modo  di 
recitare  da  Dottore  che  stravolgea  i  vocaboli,  v.  g.  TerribiI  Orinai  per 
Tribunale  ;  Amerigo  piega  la  groppa  all'asino  per  dir  l' America,  l'Africa, 
l'Europa  e  l'Asia,  e  così  si  cavava  la  risata  dal  nome  storpio...  Ma  per- 
chè si  conobbe  far  il  Dottore  da  troppo  semplice  balordo,  si  è  disusato... 
lasciando  al  dottor  Graiziano  la  dottrina  soda  ed  erudita,  ma  accompa- 
gnata dalle  dicerie  lunghissime  ".  Op.  cit.  p.  254. 


—  no  — 

lada  Menestra  ".  E  sempre  lo  stesso  Cecchini  seri-  | 
veva  :  ''  Per  rappresentare...  questo  così  gratioso  per- 
sonaggio direi  che  quello  che  si  dispone  di  portarlo 
in  scena,  si  formasse  ben  prima  l'idea  di  tal  huomo,  !' 
il  quale  voglia  essere  moderno  al  rispetto  dell'  anti-  i 
chità  e  che  a  tempo  mandasse  fuori  sentenze  spropo- 
sitate quando  alla  materia  ,  e  sgangherate  quanto  al- 
Tespressura,  il  condimento  delle  quali  fosse  una  lingua 
bolognese  in  quella  forma  eh'  ella  vien  esercitata  da 
chi  si  crede  non  si  possa  dir  meglio,  et  poi  di  quando 
in  quando  lasciarsi  (con  qualche  sobrietà)  uscir  di 
bocca  di  quelle  parole  secondo  loro  più  scelte  ,  ma 
secondo  il  vero  le  più  ridicole  che  si  ascoltino;  come 
sarebbe  a  dire  :  interpretare  per  impetrare,  urore  per 
terrore,  suolari  (credendo  di  parlar  toscano)  per  scuo-  ■. 
lari  ....  Bisognerebbe  anche  talvolta  dar  di  piglio  a 
qualche  materia  sciocca  ,  triviale  et  molto  ben  cono- 
sciuta, et  quindi  mostrare  o  fìngere  di  credere  ch'ella 
sia  la  più  curiosa,  la  più  nova  et  la  più  incognita  del 
mondo  :  onde  senza  dar  punto  segno  di  ridere  darsi 
a  credere  di  ha  ver  fatto  stupire  (1)  ". 

Un' altra_maschera__era__quelljL^^^  d^^^  Capitano.  Era 
costui  rappresentato  come  un  soldataccio  spaccone,  va- 
naglorioso, bugiardo,  tagliacantoni  a  parole,  ma  sem- 
pre pronto  a  pigliar  pugni  calci  e  colpi  di  randello. 
Era  sempre  innamorato,  di  maniere  esagerate,  galanti 
e  cerimoniose  con    le  donne,  le  quaH    lo    pigliavano, 


(1)  Frutti  delie  moderne  Commedie  et  Avviso  a   chi  le  recita.  Pa- 
dova,   1628. 


s' intende,  in  giro,  dichiarandosi  ostinatamente  insensibili 
alle  sue  appassionate  proteste  d'  amore,  ai  suoi  sma- 
glianti galloni,  alla  sua  formidabile  durlindana,  ai  suoi 
baffi  dalle  punte  fieramente  rialzate,  al  suo  largo  cap- 
pello enormemonte  carico  di  piume.  Era  una  specie 
di  don  Giovanni  -  guerriero  imbottito  di  tutte  le  più 
ardite,  le  più  strampalate,  le  più  sgangherate  metafore 
foggiate,  nel  Seicento,  in  Italia  e  in  Ispagna.  Anche 
questa  maschera  ,  come  Pantalone ,  come  il  Dottore, 
si  presenta  col  suo  albero  genealogico,  che  mette  capo 
ai  soldati  millantatori  del  teatro  latino,  al  famoso  Miles 
Gloriosus,  di  Plauto,  e  all'altro  (Trasone)  un  po'  meno 
famoso,  deir  Eunuco,  di  Terenzio.  "_jE._  ^^^^sta  una 
parte ,  scrive  il  Perrucci  (  1  )  ,  ampollosa  di  parole  e 
di  gesti,  che  si  vanta  di  bellezza,  di  grazia  e  di  ric- 
chezza ;  quando  per  altro  è  un  mostro  di  natura,  un 
balordo  ,  un  codardo  ,  un  pover'  uomo  ,  e  matto  da 
'  catena,  che  vuol  vivere  col  credito  d'  essere  tenuto 
;  quello  che  non  è  ,  dei  quali  non  pochi  si  raggirano 
nel  mondo  (2)  ". 

(1)  Ferrucci,  op.  cit.   p,   274.  / 

(2)  I  caratteri  che  il  Perrucci  riscontra  nel  Capitano  dei  suoi  tempi, 
si  riscontrano  ugualmente  nel  Miles  plautino  (atto  secondo)  : 

"  Borioso,  svergognato, 
Vile,  pien  di  menzogna  e  d'adulteri  ; 
Si  vanta  che  lo  seguono  bramose 
Tutte  le  donne  ;  in  ridicolo  è  messo 
Da  tutti  e  ovunque  vada  ;  però  qui 
Le  meretrici  in  farne  tanto  scherno 
Colle  labbra,  vedrai  la  maggior  parte 
Colla  bocca  contorta  "' 


—  112  — 

Codesta  maschera,  tra  la  fine  del  Cinquecento  e  il 
principio  del  Seicento,  fu  quasi  rifatta  da  cima  a  fondo 
da  uno  dei  più  grandi  attori  della  commedia  dell'arte, 
e  precisamente  da  quel   Francesco  Andreini    che  in- 

Ed  una  cortigiana  ne  fa  quest'altra  pittura  (atto  terzo)  : 

"  ....  a  tutti  egli  è  antipatico, 
Millantator,  ricciuto,  porcellone, 
Profumato....  ". 

Lo  stesso  ^^iles  si  descrive  così  (atto  quarto)  : 

"  ....  In  me  non  nacque  mai 
L'avarizia  |  abbastanza  ho  di  ricchezze. 
Non  fo  per  dir,  ma  di  fìlippi  d'oro 
Ho  mille  moggia  .... 
.  .  .  .  O  donne,  io  nacqui 
Il  giorno  dopo  che  Opi  partoriva 
Giove....  ". 

Del  resto,  anche  sulle  stesse  scene  greche,  cercando  bene,  si  potrebbe 
ritrovare  il  progenitore  del  Capitano  nell'Atleta,  che  poi  si  trasformò  nei 
goldati  dai  nomi  altisonanti,  come  nel  nostro  Seicento:  uno  di  codesti  bra- 
vacci, nel  Filippo,  di  Mnesimaco,  diceva  come  un  capitan  Rodomonte 
o  un  capitan  Terremoto  qualunque  : 

"  Sai  tu  con  chi  devi  azzuffarti  ?  Noi 
Mangiamo  a  pranzo  spade  acuminate. 
Fiaccole  ardenti  trangugiamo  a  cena  ; 

E  dopo  il  pranzo 

Metto  in  tavola  cuspidi  cretesi 
Per  frutta,  a  mo'  di  ceci,  e  troncon'  franti 
Di  lancia  ;  e  per  guanciali  usiam  corazze, 
E  il  fronte  inghirlandiam  di  catapulte  ". 

(Le   Commedie  di  Aristofane,  trad.  da  E.  Romagnoli;  Torino,  Bocca, 
1909.  Introd.  p.  6). 


-   113  — 

sieme  alla  moglie,  rattrice-poetessa  Isabella,  abbiamo 
visto  essere  splendido  ornamento  della  commedia  a 
soggetto.  Ritirandosi  dalle  scene,  TAndreini  compose 
e  pubblicò  a  Venezia  un  libro  intolato  :  Bravure  del 
Capitano  Spavento  divise  in  molti  ragionamenti  in  for- 
ma di  dialogo.  Le  Bravure  erano  i  discorsi  o  le  Tirate 
del  Capitano  del  genere  di  quelle  ^rime  Uscite,  di 
quei  Saluti,  di  quei  Consigli  e  di  quelle  Persuasive 
che  il  Ferrucci  più  tardi  doveva  scrivere  pel  suo  libro 
suWArte  ed  altri  pei  loro  Zibaldoni. 

Se  non  che,  le  Bravure  dell' Andreini  sono  dialogate, 
e  non  in  forma  di  soliloqui  ,  giacche  oltre  la  parte 
del  Capitano  c'è  quella  del  servo  o  scudiere  di  que- 
st'ultimo, ch'era  sempre  rappresentato  da  uno  dei  due 
Zanni  della  compagnia,  quello  sciocco.  Battezzò  an- 
che l'Andreini  il  Capitano  da  lui  rappresentato  sulle 
scene  con  un  nome  particolare,  che  divenne  quasi  si- 
nonimo di  quello  dell'attore.  Egli  lo  chiamò  Capitan 
Spavento,  anzi ,  Capitan  Spavento  di  Valle  Inferno. 
Aveva  avuto  prima,  ed  ebbe  dopo  ,  altri  nomi,  tutti 
reboanti,  tutti  terrificanti:  capitan  Rodomonte,  capitan 
Matamoros  ,  capitan  Coccodrillo  ,  capitan  Terremoto, 
capitan  Spezzaferro,  capitan  Spaccamonte,  ecc.  Anche 
il  Miles  Gloriosus,  di  Plauto ,  porta  un  nome  da  far 
venire  la  pelle  d' oca  :  Pirgopolinice  (distruttore  di 
città)  ;  ma  il  Capitano  dell'Andreini,  oltre  quello  di 
Spavento,  aveva  altri  nomi  :  capitan  Aviarasche  ,  ca- 
pitan Diacatolicon  ,  capitan  Leucopigo ,  capitan  Me- 
lampigo.  Questi  ultimi  nomi ,  certamente  ,  erano  pel 
pubblico  scelto,  per  gli  eruditi,  per  gli  studiosi,  per  i 

\"e/  regno  delle  v^aschere.  8 


—   114  — 

membri  di  quelle  cento  e  cento  accademie  che  al- 
lora formicolavano  nella  penisola.  Pel  grosso  pubblico 
del  lubbione  codesti  nomi  dovevano  riuscire  più  oscuri 
di  un  indovinello.  Lo  stesso  Andreini  s' affretta,  nel 
suo  libro,  a  spiegarli  :  "  Diacatolicon  vuol  dire  capi- 
tano universale,  capitan  Ariarasche  vuol  dire  principe 
della  milizia ,  capitan  Melampigo  vuol  dire  capitan 
Cui  bianco  ". 

In  codesta  maschera  ,  ai  nostri  tempi,  si  volle  ve- 
dere una  caricatura  o  una  satira  feroce  del  soldato 
spagnuolo  che  tra  il  sorgere  e  il  tramonto  della  Com- 
media dell'arte,  spadroneggiò  in  quasi  tutta  Italia.  Pos- 
sibile; giacche  la  commedia,  anche  quella  più  obbe- 
diente alle  tradizioni  letterarie,  anche  quella  più  pe- 
destremente  seguace  di  vecchi  modelli,  non  può  fare 
astrazione  dai  tempi  in  cui  vive  e  dagli  uomini  a  cui 
deve  parlare.  Del  resto,  i  soldati  del  Seicento,  anche 
italiani  ,  non  erano  fior  di  cortesia.  Più  che  soldati, 
erano  dei  bravacci  professanti  un'  arte  che  alla  gente 
onesta  di  quei  tempi  sembrava  semplicemente  da  mal- 
fattori.  Ecco  come  il  Garzoni  ne  parla  :    "  Quest'arte 

{militare)  ci  insegna a  tessere   inganni  ,  a  mettere 

aguati,  a  usar  diversi  stratagemmi  contro  l'inimico.... 
a  spogliar  chiese  e  saccheggiare  città,  a  spiantar  ca- 
stella.... a  conculcar  leggi,  adulterar  matrone,  stuprar 
vedove,  rapir  donzelle.  Attende  per  lo  più  massima- 
mente ai  nostri  tempi  a  questo  fine  di  farsi  nome  di 
minatori  del  mondo  e  valorosi  omicidi  e  trasformare 
gli  uomini  in  usanze  di  fiere  e  costumi  di  bestie.  Però 
la  guerra  par  che  non  sia  altro  che  un  comune  omi- 


—  115  - 

cidio...   I  titoli  di  molti  sono   questi  :  ladroni,  guasta- 
tori ,  raptori  ,  stupratori  ,  ruffiani  ,  puttanieri,  adulteri, 
traditori,  sagrileghi,   manigoldi,  giuocatori,  bestiammia- 
tori,  assassini ,   corsari  ,  incendiari ,   tiranni  et  altri  si- 
mili... Tutti  questi  ditetti  chi  gli    vuole  imprimere  in 
una  parola  dica  :   soldati  moderni  (1)  ".  Ma  comunque 
sia,  e  certo  che  la  maschera  è  più  vecchia  della  do- 
minazione spagnuola  in  Italia,  anche  perchè  essa  trovò 
le  sue  origini    nel    teatro    latino  ,  la    cui    resurrezione 
nella  seconda  metà    del    secolo    XV    non  poteva  re- 
stare assolutamente  estranea   alla  creazione  dei  carat- 
teri   della    commedia    italiana    tanto    letteraria    quanto 
air  improvviso  ,  senza  tener  conto  che    essa    prosperò 
anche  in  luoghi,  specialmente    a    Venezia,  dove  non 
arrivò  ne  la  signoria,  ne  l' influenza  politica  spagnuola. 
Non  neghiamo  però   che  qualche    tratto    più    o  meno 
caratteristico  di   questa  maschera    non   sia  stato  preso 
dal  soldato  spagnuolo  ;   se  non  che,  a  siffatta  deriva- 
zione, non  bisogna  dare  molta  importanza,  se    i  con- 
temporanei non  la  videro,  e  se  ebbero,  anzi,  la  pre- 
mura di  distinguere  la  maschera  del  Capitano  italico 
da  quella  del  Capitano  spagnuolo.  Erano,  queste,  due 
maschere  diverse,  sebbene  fra  loro  avessero  parecchi 
tratti  comuni.   11  Ferrucci  (2),  che  pur  doveva  saperne 
qualche  cosa,  scriveva  che  la  parte  di  Capitano  bravo 
"  molti  autori....  per  lo   più    forestieri....    la  praticano 


(1)  La   'Piazza  universale  di  tutte  le  professioni  del  mondo;  Ve- 
nezia, 1614,  p.  637. 

(2)  Op.  cit.  p.  293. 


-    116  — 

\  per  deridere  i  napoletani  vanagloriosi.  "  Altro  che 
caricatura  di  soldati  spagnuoli!  La  satira  o  caricatura 
che  dir  si  voglia,  sarebbe  quindi  non  d' un  carattere 
straniero,  ma  paesano.  Lo  stesso  Ferrucci ,  scrivendo 
per  gli  attori  le  bravure  da  recitarsi,  poneva  cura,  nel 
foggiare  quelle  del  Capitano  spagnuolo  ,  di  farle  di- 
verse da  quelle  del  Capitano  italiano ,  e  scriveva  : 
"  Quando  si  fanno  (le  bravure)  in  spagnuolo,  bisogna 
farlo  con  decoro,  perchè  questa  Nazione  per  ogni  verso 
gloriosa,  non  patisce  esser  derisa  come  non  lo  soffrono 
le  altre  (1),  facendosi  deridere  i  Napoletani  per  scioc- 
chi e  linguacciuti  ;  i  Bolognesi  per  ciarloni  ;  i  Fran- 
cesi per  ubbriachi  ;  i  Siciliani  per  garruli  e  conten- 
ziosi, i  quali  non  si  alterano  anzi  ne  godono.  Ma  Io 
Spagnuolo  ride  nell* ascoltare  le  bravure;  ma  non  vuol 
vedere  nella  parte,  benché  fìnta  d'un  soldato,  codar- 
die ".  E  volendo  dare  un  saggio  di  una  bravura  spa- 
gnuola  fatta  con  "  decoro  ",  cioè,  senza  buffonate  e 
trivialità,  presenta  in  lingua  spagnuola  la  seguente 

bravura  spagnuola  (2)  : 

"  Non  sapete  chi  sono  ?  Non  avete  visto  il  bagliore 
di  questo  braccio  che  ha  vinto  Firro ,  Annibale ,  gli 
Scipioni,  Marcello,  i  Fabi,  Alessandro  e  sino  Ercole  ? 

e  1  )  Qualche  volta  il  povero  comico  le  pigliava  sul  serio  dagli  spagnuoli 
senza  che  la  sua  durlindana  da  palcoscenico  servisse  a  qualche  cosa.  Il 
Croce  ricorda  un  disgraiziato  Capitano  che  a  Pesaro  fu  bastonato  a  morte 
da  alcuni  uffiziali  spagnuoli,  (Saggi,  p.  242,  n.). 

(2)  Per  maggiore  comodità  dei  lettori  la  riproduciamo  in  italiano. 


—   117  — 

Prode  in  campo  aperto,  negli  assalti,  nelle  difese,  ho 
ammazzato,  scannato,  devastato,  distrutto,  incenerito, 
annientato  migliaia  e  migliaia  di  soldati  d'ogni  grado 
ed  arma.  Picchieri,  moschettieri,  cavalieri,  colonnelli, 
maestri  di  campo,  sergenti  generali,  generali,  re,  sol- 
dani,  imperatori  ,  ed  anche  giganti  e  pigmei.  Il  mio 
corpo  e  una  fortezza  ,  il  mio  petto  è  una  trincea  ,  il 
mio  capo  un  castello  ,  il  mio  stomaco  un  campo  ,  le 
mie  braccia  sono  due  cannoni,  la  mia  voce  è  un  tuono 
e  le  mie  armi  sono  fulmini  :  il  mio  valore  fa  tremare 
il  mondo  ". 

Esempi  di  bravure  di  Capitani  non  forestieri  sono 
quelli  che  ci  porge  l'Ardreini  nell'opera  sopra  ricor- 
data. E  sempre  una  sfilata  di  ampollosità  ,  di  erudi- 
zione barocca,  di  frasi  strampalate  ,  di  periodi  rigur- 
gitanti di  metafore  puro  sangue  seicento.  Sono  meno 
scurrili,  meno  plebee  di  quelle,  che  con  gesto  tragico, 
col  cappellaccio  piumato  sulle  ventitré,  recitavano  i  ca- 
pitani da  strapazzo,  da  fiera  ;  ciò  non  ostante,  la  frase 
volgare,  la  trivialità  sciatta,  disadorna,  fa  capolino  qua 
e  là  insieme  all'  irrompere  delle  metafore  più  goffe.  Nar- 
rando le  sue  grandi  imprese,  il  Capitano  dice  che  una 
volta  salvò  il  mondo  dal  diluvio.  Incerto  dapprima  "o 
di  bevere  tutta  l'acqua  che  pioveva  o  veramente  quella 
che  da  tutti  i  fiumi  traboccava...  per  ultima  resolutio- 
ne  me  ne  andai  nella  valle  del  Settentrione,  e  quivi 
pigHai  una  grandissima  nube,  la  quale  s'era  calata  nel 
mar  del  nord  per  abbevereirsi;  pigliata  eh'  io  ebbi  la 
sgonfiata  nuvola,  subito  vi  cacciai  dentro  i  venti,  tutte 
le  piogge,  tutti  i  fiumi,  legandola  in  modo    che    non 


potessero  uscire  ;  poscia  con  grandissimo  ardore,  slan- 
ciandola, la  slanciai  verso  il  sesto  cielo ,  là  dove  ar- 
rivando, percuotendo,  e  spezzandosi,  affogò  Giove  con 
tutto  il  concistoro  degli  Dei;  e  così  per  opera  mia  fu 
salvato  il  mondo  da  un  diluvio  d'acqua  (1)  ".Un'al- 
tra volta  racconta  la  guerra  ch'egli  mosse  alle  stelle. 
"  Io  cominciai  ad  armarmi  alla  bizzarra  ed  alla  fan- 
tastica ponendomi  indosso  la  torre  di  Nembrotte  per| 
tonica  e  il  monte  Tauro  per  morione.  Armato  eh'  io 
mi  ebbi  il  capo,  il  petto,  gli  omeri  e  le  braccia,  pi- 
gliai l'arco  baleno  per  balestra  e  il  laberinto  di  Creta 
per  carcasso  e  tutte  le  Piramidi  d'Egitto  per  frecce  e  vir- 
rettoni,  poscia  pieno  d' ira  e  di  furore,  ascesi  alla  ci- 
ma del  monte  Olimpo  ,  con  ferma  intenzione  di  fra- 
cassare l'uno  e  l'altro  Polo  :  pervenuto  ch'io  fui  sulla 
cima  dell'altissimo  monte,  cominciai  a  balestrare  il  fir- 
mamento, e  tante  balestre  gli  tirai  eh'  io  lo  sforacchiai 
come  un  crivello   (2)   ". 

Il  pubblico  rideva  e  trovava  che  il  Capitano  aveva 
una  fantasia  ariostesca  ,  foderata  d'  una  solida  erudi- 
zione. 

Ascoltiamo  ora  il  Capitan  bravo  innamorato.  La  ti- 
rata la  togliamo  dal  nostro  Perrucci  ridotta  da  lui  stesso 
in  italiano  dal  dialetto  calabrese  : 

"  Ben  abbia  quando  ti  vidi  :  codeste  treccie  son  li- 
gami  d'oro,  funi  e  cordelle  eh'  han  cinto  d'intorno  lo 
erede  della  Magna  Grecia.  Quegli  occhi,  che   vibrano 

0)Rag.  III. 
(2)  Rag.  IL 


-   119  - 

saette,  hanno  pertugiato,  succhiato,  bucato,  perforato  il 
cuore  al  cuore  di  tutti  i  cuori  miei  ;  la  bocca  è  un 
fialone  ove  fanno  nido  le  Grazie,  e  l'Amore  fatto  Ape 
vola  fra  i  fiori  succhiandone  il  miele,  o  fiore  di  Zum- 
pano  (1).  Le  tue  narici  sono  pezzi  d'artiglieria  che 
sparando  e  colpendo  in  questo  petto  fanno  un  dirupo 
della  casamatta  della  bravura  del  mondo  :  insomma, 
codesta  bellezza  è  lo  specchio  d'Archimede  che  ac- 
cende un  incendio  nelle  viscere  del  più  gran  Capi- 
tano degli  Eserciti.  Quindi,  giacche  mi  prendesti  come 
pettirosso,  beccafico,  o  merlo  al  trabocchetto,  non  mi 
far  desiare,  liquefare  e  andare  in  succhio.  Brami  cin- 
que o  sei  cittadi  di  quelle  che  prese  Platone  nel  cavo 
della  luna,  vuoi  il  grembiale  di  Giunone  ?  La  spada 
di  lama  della  lupa  di  Marte  ?  Lo  scudo  di  Pallade  ? 
I  cavalli  lattanti  del  sole?  Brami  il  colascione  che  fece 
Mercurio  d'una  tartaruga  ?  Apri  la  bocca  e  se  tu  an- 
che volessi  il  pitale  di  Giove  fatto  di  stelle  e  1'  ori- 
nale fatto  d'un  pezzo  di  luce,  te  lo  porterò;  e  con  un 
passo  disteso  ascendo  al  cielo  e  fo  saltare  a  calci  in 
e...  gli  Arieti,  i  Tori,  i  Leoni,  gli  Scorpioni,  i  Ge- 
mini, le  Orse ,  gli  Asini  e  tutte  le  bestiahtadi  delle 
Stelle. 

Che  altra  bestia  son*  io  che  non  son  quelle  ?  (2)  ". 

Passiamo  ora  alle  altre  maschere.  Cccoci  aglrsZann/i 
La  regola  ottava  della  parte  seconda  dell'opera  del 

(1)  Casale  di  Cosenza. 
(1)  Op.  cit.  pag.  277. 


—   120  — 

Ferrucci  tratta:  Delle  parti  ridicole  di  primo  e  secondo 
Zanni,  "  In  questa  regola  —  scrive  il  citato  autore  — 
I  sta  tutta  la  difficoltà  del  rappresentare  all'improvviso, 
perchè  se  la  commedia,  come  dice  Aristotele,  è  fatta 
per  lo  riso,  e  tanto  più  l' improvvisata,  senza  dubbio 
saranno  le  parti  più  essenziali  i  ridicoli  (1)  ". 

Erano  gli  Zanni  i  servi  della  commedia  dell'  arte, 
e  questa  ne  conosceva  due  :  il  primo  Zanni  e  il  se- 
condo Zanni  avendo  ciascuna  di  queste  due  maschere 
una  fisionomia  particolare.  "  Il  primo  —  scrive  il  Fer- 
rucci— ha  da  essere  astuto,  pronto,  faceto,  arguto,  che 
vaglia  ad  intricare,  deludere,  beffare,  ingannare  il  se- 
condo, mordace,  ma  cum  moderamine  ,  di  modo  che  5 
le  arguzie  sue  dette  dai  latini  Dicteria  ,  abbiano  del 
salato  e  non  dello  sciocco.  La  parte  de!  secondo  servo 
deve  essere  sciocco ,  balordo  ,  insensato ,  di  maniera 
che  non  sappia  qual  sia  la  destra  o  la  sinistra  ". 

Erano  il   principale  sostegno    della  commedia    del- 
l'arte, anzi  le  due  maschere  maggiori,  le  più  apprez- 
zate,  certamente  le  più  popolari.  Gli  Zanni,  del    re- 
-^o,  potevano  vantare  di  discendere  dal  teatro  comico 
/       latino  ,  dove  spesso    i    servi  rappresentavano  Ja^parte  ^ 
principale.  Se  non  sempre,  quasi  sempre,  erano  essi 
che  imbrogliavano,  complicavano  l'azione,  sino  al  mo- 
mento in  cui  quest'  ultima  ,  sbarcizzandosi  di  tutti  gli 
incidenti,  si  schiariva  e  filava  al  suo  fine.   Ricordiamo    ' 
ai  nostri  lettori  come  esempio  tipico  di  siffatto  genere    i 
di  commedia ,  1'  Epidico,  di  Flauto ,  dove  l' azione  è 

(1)  Op.  cit.  pag.  280. 


-   121   - 

diretta  da  un  servo  tanto  che  quella  commedia  po- 
trebbe chiamarsi  Le  astuzie  d' Epidico  (perchè  è  ap- 
punto Epidico  il  servo),  e  la  Donna  d  J^ndria,  di  Te- 
renzio, dove  la  parte  principale  è  affidata  a  Davo, 
servo.  La  commedia  a  soggetto  accrebbe  smisurata- 
mente r  importanza  del  servo  nell'  azione  ;  questi  di- 
ventò il  personaggio  più  importante  della  commedia  ; 
egli  creava  le  situazioni,  guidava  T  intrigo,  lo  invilup- 
pava sino  air  inverosimile  ,  1'  arrestava  ,  lo  distrigava. 
Non  c'era  ostacolo  più  difficile  eh'  egli  non  sapesse 
superare  ,  trabocchetto  più  insidioso  eh'  egli  non  sa- 
pesse preparare,  sorpresa  più  stupefacente  ch'egli  non 
sapesse  accogliere  senza  batter  ciglio.  Si  comprende  che 
questo  era  il  servo  astuto,  non  lo  sciocco.  Ombra  del 
suo  padrone,  ne  seguiva  i  passi,  ne  indovinava  i  pen- 
sieri, ne  favoriva  le  avventure,  specie  se  galanti  ;  ne 
divideva  i  pericoli  come  le  gioie.  Spesso,  e  con  pia- 
cere, pigliava  le  bastonate  dirette  al  padrone,  quando 
non  poteva  farle  pigliare  al  servo  sciocco.  Del  resto, 
gli  affari  del  suo  cuore  egli  li  faceva  camminare  di 
pari  passo  con  quelli  del  suo  signore,  con  questa  sola 
differenza,  che  mentre  il  padroncino  ,  alla  fine  della 
commedia,  sposava  la  figlia  d'un  mercante  o  d'un  dot- 
tore, egli  ne  sposava  la  serva.  Le  due  azioni  amorose 
o  i  due  intrighi ,  si  svolgevano  parallelamente ,  senza 
che  il  cammino  dell'uno  arrestasse  o  intralciasse  quello 
dell'altro  ,  ma  sempre  porgendosi  aiuto  ,  sempre  ren- 
dendo più  vivace,  più  spigliata  l'azione. 

11  servo  scjocco  (uno  sciocco,  però  ,  che  in  fondo 
^ilTe   sue    sciocchezze    metteva   sempre    un    grano    di 


f 


—   122  — 

sale,  e,  qualche  volta ,  più  d'  un  grano  di  fine  astu- 
zia), il  servo  sciocco,  diciamo  ,  naturalmente,  era  il 
contrapposto  del  suo  fratello  numero  uno  :  non  faceva 
sfoggio,  neir  azione,  d'  astuzia  ,  o  ,  per  lo  meno  ,  in 
apparenza,  non  era  astuto  ;  se  non  che  ,  i  suoi  con- 
trattempi, i  suoi  equivoci,  le  sue  goffaggini ,  se  esa- 
minati bene,  erano  spesso  piccoli  capolavori  di  spi- 
rito ,  d'  arguzia  e  non  servivano  all'  interesse  scenico 
meno  dello  spirito  inventivo,  della  frase  incisiva,  del- 
l' arguzia  ,   della  disinvoltura  dell'  altro    servo.y^nche 

,  Jui ,  lo  zanni  sciocco  ,  contribuiva  ad  ingarbugliare 
r  azione  ,  a  renderla  più  briosa  ,  più  ridanciana  e  , 
spesso  ,  a  condurla  allo  scioglimento/ Anche  lui  era 
f  o^fibr^  vjeppuo)  ne^dron^  il_mezzano  dei  suoi  amori, 
cteTcome  l' altro  servo,  conduceva  di  pari  passo  coi 
propri,  che  finivano,  come  quelli  de!  padroncino,  con 

,le_nozze.  Solo  piìi  di  .qi^felle  del    suo  furbo    compa^ 
gQo>^  più  di  quelle  di  tutti  i  personaggi  della    com- 
media, le  sue  spalle  s'  arrossavano  _SQttQ-_i  colpi  del 
bastone. 

Codesti  servi  assunsero  nomi  diversi,  sebbene,  ge- 
neralmente, compresi  sotto  la  denominazione  di  zanni. 
Anche  qui  s' invocò  l'erudizione  per  farli  discendere 
dal  sannio  delle  atellane  (l).  Altri  non  crede  a  siffatta 
discendenza,  e  l'origine  del  nome  riscontra  nella  parola 
zanni,  che  è  una  corruzione  o  deformazione  di  Gianni  o 


(1)  De  Amicis  V.  Lo  stesso  autore  (op.  cit.  p.  23)  cita  Cicerone  il 
quale  scriveva  ;  "  Quid  enim  potest  tara  ridiculum  quam  Saanio  esse  ? 
Qui  ore,  vultu,  imitandis   motibus,  voce  denique  corpore  ridetur  ipso  ". 


\ 


—    123   - 

Zuane  o  Giovanni  (1).  E  certo  però  che  sin  dalla  metà 
del  secolo  XVI,  codesto  nome  si  dava  ad  un  personag- 
gio burlesco,  e  probabilmente  veneto ,  o  dei  domini 
della  Serenissima  se  si  mandava  a  spasso,  nel  carne- 
vale,  "  avec  son  Magnifique  à  la  Venitienne  (2)  ".  Se 
non  il  più  celebre,  certamente  uno  dei  più  celebri  di 
codesti  nomi ,  è  quello  d'  Arlecchino  che  rappresen- 
tava la  parte  del  servo  sciocco.  Anche  qui  si  è  scritto 
a  lungo  sulle  origini  del  nome.  Arlecchino?  Hanno 
domandato  a  se  stessi  gli  erudiri ,  e,  naturalmente  , 
ognuno  di  loro  ha  trovato  una  risposta  ,  che  non  è 
sempre  quella  degli  altri.  Qualcuno  ha  voluto  ritro- 
vare r  origine  del  nome  della  nostra  maschera ,  in 
quello  d'  un  eroe  della  mitologia  scandinava,  un  certo 
Herlenkonig  ,  altri  in  quello  di  Alichino  ,  uno  dei 
diavoli  dell'  Inferno  di  Dante,  trasformato  in  seguito 
sulla  scena  francese  in  quello  di  Hallequin,  e  d'Ar- 

(1)  Croce,  Saggi  ec.   p.   220. 

(2)  Ioachim  du  Belley  nei  suoi  Regrels,  stampati  per  la  prima  volta 
nel  1558,  cantava  a  proposito  del  carnevale  di  Roma  : 

"  Voicy   le  Carneval,  menons  shacun  la  sienne, 
Allons  baller  en  masque,  allons  nous  promener, 
Allons  voir  Marc-Antoine  ou  Zany  bouffener 
Avec  son  Magnifique   à  la  Venitienne   ". 

Si  crede  che  sia  la  prima  volta  che  in  un*  opera  stampala  si  faccia 
cenno  d'un  Zanni  o  Zany.  E  sempre  òmÌY  origine  degli  Zanni:  il  Va- 
sari, nella  vita  di  Battista  Franco,  scrive  a  :  "  I  Zani  o  Zanni  sorsero 
nella  metà  del  secolo  XVI  e  riapparvero  nelle  commedie  fatte  fare  a 
Roma  da  una  brigata  d'artisti  e  beili  umori  a  capo  dei  quali  era  Gio- 
vanni Andrea  .Anguillara...  Lo  Zanni  è  maschera  lombarda  e  veneziana  ". 


lecchino  in  quella  italiana  ;  altri  nel  nome  d'  un  co- 
mico o  zanni  italiano  che  andato  a  Parigi  ai  tempi 
d'Enrico  III,  trovò  un  protettore  in  un  gentiluomo  della 
Corte,  certo  Achille  de  Harlay,  e  che  da  questo  no- 
me si  chiamò  Harlequin.  Ma  un  altro  ha  sentenziato: 
no,  non  fu  Achille  de  Harlay,  ma  un  altro  Harlay,  che 
fu  il  quinto  degli  Harlay,  Francesco  Harlay  de  Cha- 
valon,  che  dette  il  suo  nome  alla  maschera  {Harla})- 
Quint).  Un  altro  erudito  volle  dare  al  brioso  comico 
origini  imperiali  e  le  trovò  nel  nome  di  Carlo  Quinto 
C^harles  Quint).  Per  un  altro,  il  nome  d'  Arlecchino 
potrebbe  derivare  da  jìrlotto  e  cocchìno  fari  e  eoe- 
chino,  ari  e  chino).  Adolfo  Bartoli  (1)  le  chiama  eti- 
mologie impossibili  ;  noi  le  chiamiamo  etimologie  di 
eruditi  sfaccendati.  Più  recentemente,  un  tedesco.  Otto 
Driesen,  con  molta  erudizione  ,  mise  in  chiaro,  e  in 
modo  inconfutabile,  come  scrive  il  Croce  (2),  nell'opera: 
Der  Ursprung  des  Harlequin  ec.  (Berlin,  Dunker,  1 904) 
che  il  nome  d' Arlecchino  deriva  dal  medio  evo  fran- 
cese. Harlequin,  Herlequin,  Hellequin  era  il  nome 
d' un  diavolo  conduttore  di  schiere  di  diavoli,  di  Har- 
lequins  ,  che  trovarono  il  loro  posto  nella  letteratura 
francese  dal  secolo  XI  in  poi  in  drammi,  fahleaux , 
misteri  ec.  Ma,  evidentemente,  tutto  ciò  non  riguarda 
che  il  nome,  non  la  maschera. 


(1)  Op.  cit.   IntT.   p.  CLXXIV. 

(2)  Op.  cit,  p.  269.  Ved.  pure  :  Renier,  Svaghi  Critici;  Bari,  La 
Terza,  1910,  pp.  465-83;  laffei,  5\^o/e  Critiche  su  le  t^aschere  ec. 
in:  Rivista  d'Italia,  (Roma),  maggio  1910. 


—   125  — 

Ma  qualunque  sia  l' origine  del  nome  e  dello  stesso 
personaggio  (1),  Arlecchino  è  uno  dei  principali  so- 
stegni della  commedia  dell'  arte.  Con  le  sue  facezie, 
coi  suoi  lazzi,  con  le  sue  stesse  balordaggini,  egli  si- 
gnoreggia la  scena.  Langue  1'  azione?  Egli  è  pronto 
a  rialzarla  con  una  frase,  con  un  gesto  ,  magari  con 
una  delle  sue  tante  goffagini,  soprattutto  con  un  lazzo. 
Il  pubblico  è  di  cattivo  umore  ?  Egli  sa  subito  rab- 
bonirlo. La  cassetta  del  capo-comico  segna  zero  ?  Egli 
è  là,  col  suo  vestito  multicolore  e  il  suo  bastone  di 
paglia,  pronto  a  mettere  su  uno  spettacolo  atto  a  chia- 
mare il  pubblico  a  teatro  e  far  ridere  fìnanco  gl'ipo- 

4l)  Tanto  Arlecchino  quanto  il  suo  compagno  Brighella   sono  stati 
sempre  ritenuti  come  due  maschere    bergamasche,   perchè  gli  zanni  che 
hanno  portato  codesti  nomi  hanno  sempre  parlato   nelle  commedie  del- 
'arte  in  bergamasco.  Non  diciamo  gli  storici,  ma  coloro  che  scrivono  la 
storia  fondandosi  sulla  leggenda,  hanno  narrato  che  i  due  zanni,  essendo 
nati  a  Bergamo,  l' uno  (Arlecchino)  nella  città  bassa,  V  altro  (Brighella) 
nella  città  alta,  rappresentano  a  meraviglia  il  diverso  carattere  degli  abi- 
:anti,  l'uno   con   la   sua  goffagine,  l'altro  con  la  sua  furberia.  E  qui,  a 
rommento  di  quanto  asseriscono,    aggiungono   che,  a  Bergamo,    gH    abi- 
anti  della  città  bassa  hanno  sempre  goduto  fama  di  gente  di  corto  intel- 
etto,  e  quelli  della  città  alta,  dove  l' aria  è  più  sottile,  sono  stati  ritenuti 
>er  gente  che  sa   far  bene  i  propri  affari  (Sand,  Masques  et  (Quffons  ; 
ol.  1,  p.  75).  Ma  a  smentire  siffatta  leggenda,   ecco  un'  altra  leggenda, 
fecondo  il  Riccoboni  (Hisl.  du   Théàtre  it.  voi.  II,  p.  218)  i  due  zanni 
Iella  commedia   napoletana  corrispondenti    ai   due  zanni   veneti,  sareb- 
bero nati  a  Benevento,  quello  sciocco  nella  città  bassa,  il  furbo  in  quella 
Ita.  "  On  dit  que  cette  ville,  qui  est  moitié  sur  la  hauteur  d'une  monta- 
ne et  moitié  au  bas,  produit  les  hommes  d'  un  caractère  tant   diffé- 
ent.  Ceux  de  la  haute  ville  sont  vifs  et  très  actifs.  Ceux  de  la  basse 
ille  sont  paresseux,  ignorants  et  presque  stupides  ".  Leggende,  ripetiamo- 


....   :""  ,  .  .  ,< 

condriaci.  E  sciocco,  è  bastonato,  è  schiaffeggiato,  è 
preso  a  calci;  ma  egli  è  sempre  di  buon  umore,  ride 
e  fa  ridere.  E  mezzano,  truffatore,  bugiardo,  ingordo, 
ubbriacone,  poltrone,  vigliacco,  ma  tutti  codesti  suoi 
difetti  non  sono  che  motivi  di  riso.  Che  più  ?  Anche 
le  sue  disgrazie,  specie  se  coniugali,  fanno  ridere.  Non 
e  soltanto  goffo,  è  anche  triviale  ,  anzi  trivialissimo  ; 
il  suo  liuguaggio,  quando  non  sa  di  lupanare,  sa  d'  o- 
steria  e  di  stalla.  Se  non  che,  anche  qui  il  pubblico 
ride  ;  egli  gli  vuole  un  bene  matto.  Ed  Arlecchino  lo 
sa  :  di  qui,  il  suo  linguaggio  senza  misura,  il  suo  gesto,  j 
in  certi  momenti  ,  osceno.  E  il  beniamino  del  pub- 
blico, e  questo  non  solo  !'  ama,  ma  gli  sa  perdonare 
molte  cose. 

Ciò  nondimeno.  Arlecchino,  sebbene  fosse  una  ma- 
schera assai  popolare  ed  apprezzata,  non  era  che  un 
secondo  Zanni;  il  primo ,  cioè  ,  la  maschera  sagace, 
astuta,  salacissima  nel  linguaggio  se  non  più  ,  certa- 
mente, quanto  Arlecchino,  portò  diversi  nomi.  Si  chiame 
Brighella,  Coviello,  Zaccagnino,  Truffaldino,  Mezzet 
tino,  Gradellino,  Stoppino  ecc.  ecc.  Ma  parecchi  d 
codesti  nomi  non  ebbero  che  notorietà  regionale;  altri 
col  volgere  del  tempo,  furono  smessi  per  essere  sosti 
tuiti  da  altri;  il  più  celebre,  però,  fu  Brighella  e  il  su< 
regno  iu  anche  il  più  lungo,  il  più  assoluto  nell'Alt 
Italia,  ed  anche  nella  Centrale  ;  nell'Italia  del  Sud  (prò 
vincie  napoletane)  il  servo  astuto  portò  se  non  sempre 
quasi  sempre,  il  nome  di  Coviello. 

Un'avvertenza  è  qui  necessaria  :  non  sempre  la  d 
stinzione  fra  servo  astuto  e  servo  sciocco  era  manU 


—   127  — 

nuta  nettamente  nella  pratica.  Non.era^rai:0-ilcaso  che —         ^^ 
in  una  commedia  il  posto  di  Brighella  fosse  preso  da_  A^ 

Arlecchino,  e  viceversa.  Ciò  dipendeva  anche  dal  ca- 
priccio o  dalle  esigenze  dei  comici,  i  quali,  se  rap- 
presentavano parti  sciocche ,  non  si  sapeveno  frenare 
dal  mostrarsi  astuti,  e  se  recitavano  parti  astute,  dal 
mostrar  ch'erana  capaci  di  parere  goffi.  Il  Ferrucci  av- 
vertiva, difatti,  i  comici  del  suo  tempo  a  non  trasmo- 
dare ;  ognuno,  diceva,  si  contenga  nei  propri  confini. 
Ma  se  facile  è  dettare  precetti,  non  è  sempre  facile 
metterli  in  pratica. 

Un'altra  maschera,  che  non  è  ancora  morta,  e  forse 
non  morrà  ,  sebbene  relegata  in  poveri  teatrucoli  ,  è 
quella  di  Pulcinella.  E  una  maschera  prettamente  na- 
poletana. Anche  essa  ha  la  sua  storia  e  le  sue  origini 
si  fanno  risalire  ad  un  buffone  delle  Atellane,  Macco, 
il  quale  pare  che  in  quelle  farse  rappresentasse  un  ca- 
rattere non  diverso  dal  Pulcinella  napoletano  ,  come 
può  rilevarsi  dai  titoli  di  quelle  farse  stesse  {Maccus 
caupo,  Maccus  virgo,  Maccus  miles,  Macci  gemini);  la 
sola  cosa  rimastaci  di  tutto  quel  teatro  primitivo. 

Non  si  finirebbe  mai  se  si  dovesse  tener  conto  di  tutte 
le  ricerche  più  o  meno  ingegnose  fatte  per  assodare 
le  origini  di  Pulcinella  o  per  lo  meno  del  suo  nome. 
Per  esempio  :  il  Fainelli  (  Gior.  St.  della  Leit.  Ital. 
voi.  54,  p.  59)  fa  risalire  il  nome  della  maschera  napole- 
tana ad  un  Pulcinella  Dalle  Carceri,  veronese,  vissuto 
nel  secolo  XIII.  Il  suo  Dalle  Carceri  fu  persona  furba, 
mtrigante  ;  fu  anche  soldato  ;  imprigionato  ,  fuggì  dal 
1  carcere  ,  e  finche  visse  seppe  sottrarsi  ai   suoi  perse- 


—  128  - 

cutori.  Non  si  comprende  però  come  quel  Pulcinella 
sia  passato,  anche  nel  solo  nome,  da  Verona  a  Na- 
poli. Il  Levi  (Fr,  di  Vannozzo  e  la  lirica  nelle  Corti 
Lombarde  ecc.  Firenze,  1908,  pag.  381),  trova  l'ori- 
gine del  nome  di  Pulcinella  nei  versi  d*un  certo  De 
Bonis,  poeta  del  300,  il  quale,  parlando  della  discesa 
dell'  Imperatore  in  Italia  ,  vedeva  1'  aquila  imperiale, 
già  avvilita,  venire 

perseguendo  i  pulcinelli 

Perchè  voltati  mantelli 

E  mutansi  di  senno  in  ora  in  ora. 

Altri  non  fan  risalire  al  Medio  Evo  il  nome  di  Pul- 
cinella ,  il  quale  pare  che  per  la  prima  volta  abbia 
fatto  la  sua  comparsa  letteraria  in  un  poemetto  di  Giu- 
lio Cesare  Cortese,  napoletano,  il  Viaggio  di  Parnaso, 
stampato  a  Napoli  nel  1 62 1 .  Immagina  il  poeta  che 
in  una  commedia  rappresentata  nel  Parnaso,  Pulcinella, 
nel  Prologo,  metta  in  Cciricatura  i  pzu-latori  e  gli  scrit- 
tori toscaneggianti  (I).  Se  questa  fu  forse  la  prima 
apparizione  letteraria  o  poetica,  quella  teatrale  sembra 
che  sia  stata  in  una  commedia,  la  Colombina,  di  Vir- 
gilio Verucci,  romano,  e  stampata  la  prima  volta  a 
Foligno  nel  1628.  Pulcinella  vi  parla  in  dialetto  na- 
poletano, ma  soverchiamente  italianizzato  ed  è  il  servo 
del  Capitano.  Come  costui,  egli  è  spaccone,  vigliacco  ;  - 
è  mangione  ed  amico  del  bicchiere.  Probabilmente  il 
Verucci  non  sarà  stato  il  primo  commediografo  a  met- 

(1)  Croce,  op.   cit.  pag.  232. 


—   129  — 

teie  sulla  scena  Pulcinella,  servo   e  napoletano  ;  anzi 
l'avere  egli,  romano,  messo  in  bocca  al  suo  Zanni  il 
dialetto  napoletano  ,  fa  supporre  che  sulla    scena  del 
teatro  partenopeo,  non  lettercirio,  ma  a  soggetto,  quella 
maschera  fosse  piuttosto  comune.  I  caratteri  o  tipi  tea- 
trali ,  per  altro  ,  non  si  creano  a  un  tratto  nella  pie- 
nezza di  tutti  i  loro  particolari  ;  hanno  sempre  dei  pre- 
cedenti più  o  meno  incerti,  più  o  meno  oscuri  ed  appena 
abbozzati  sino  a  che  un  uomo  di  genio  non  ne  cavi  fuori 
una  figura  spiccata,  scultoria,  che  non  morrà.  E  qua- 
si* uomo  di  genio ,  per  la  maschera  di  Pulcinella ,  fu 
un  comico  napoletano  del  Seicento,  Silvio  Fiorillo,  che 
rappresentava  le  parti  di  Capitan  Matamoros,  il  quale 
nel   1632,  a  Milano,  scrisse  e  stampò  una  commedia: 
La  Lucilla  costante  con  le  ridicolose  disfide  e  prodezze 
di  Policenella.   Due  anni  dopo,  nel   1634,  Francesco 
Guerrini,  romano,  stampava  una  sua  commedia  intito- 
lata :  /  Cinque  Carcerati,  dove  uno  di  costoro  è  appunto 
Pulcinella  (1).  Ma  già  il  nome  di  Pulcinella  era  uscito 
dall'oscurità  e  le  commedie  dove  esso  figurava,  non  si 
contavano  più  ;  nel   1 664  la  maschera  di  tal  nome  era 
appresentata  dal  capo-comico  della  compagnia  che  re- 
stava al  teatro    S.   Bartolomeo    di    Napoli  (2).   Essa 
compendiava  la   commedia  napoletana. 

Ma  ai  grandi  inventori,  comò  si  sa  ,  non  si  rende 
empre  giustizia.  Cristoforo  Colombo  non  fu  che  uno 
li  codesti  grandi  disconosciuti.  Così,  nella  stessa  Na- 

(1)  Croce,  op.    cit.   p.  254. 

(2)  Croce,  loc.  cit. 

5V"e/  regno  delle  ^^aachere.  9 


—   130  — 

poli  che  diede  i  natali  a  Silvio  Fiorillo  e  che  lo  vide 
certamente  recitare  da  Pulcinella  ,  verso  la  fine  del 
Seicento ,  il  Ferrucci  scriveva  che  in  quella  città  si 
credeva  che  la  briosa  maschera  fosse  la  creazione  di 
un  giureconsulto,  certo  Andrea  Ciuccio,  che  nei  mo- 
menti in  cui  si  riposava  dalle  fatiche  del  fóro  recitava 
delle  parti  buffe  nei  teatri  partenopei;  se  non  che,  lo 
stesso  Ferrucci,  meno  ingiusto  dei  napoletani  dei  suoi 
tempi,  s'affretta  a  dire  che,  in  realtà,  la  maschera  era 
stata  una  creazione  del  Fiorillo,  e  solo  Andrea  Cal- 
cese, soprannominato  il  Ciuccio  (che  razza  di  sopran- 
nome per  un  dotto  giureconsulto  !),  morto  nella  pesti- 
lenza del  1656,  l'aveva  perfezionato  (1).  "La  quale 
maschera,  scrive  il  medesimo  autore,  accompagnando 
la  fisionomia  sciocca  con  Fazione,  s'è  fatta  così  usuale 
con  scherzare,  con  la  veste  eh'  è  di  canape  grosso,  e 
con  la  maschera,  che  nel  carnevale  altro  non  si  vede 
a  Napoli  che  Folicenelli,  volendo  far  del  grazioso  ". 
Fili  d' uno  ha  voluto  dare  la  definizione  di  Pulci- 
nella (2)  e  quindi  tracciare  nei  limiti  della  stessa  de- 


(1)  Op.  cit.,  pag.  293. 

(2)  Il  D'Ambra  nel  D/z/onar/o  Napoletano- 'toscano  (Napoli,  1873) 
ha  una  poesia  in  vernacolo  napoletano  ,  che  ha  la  pretesa  di  conte- 
nere il  ritratto  di  Pulcinella.  Eccola: 

Pollecenella  è  furbo  ; 
E  cheslo  non  se  fegne  ;  ' 

Ma  pe  n'avè  disturbo 
Chillo  fa  marcagegne. 

Si  pò  tra  gente  bone 
No  jorno  s'asciarrà, 


—    131   — 


finizione  il  carattere  della  maschera.  Il  Croce  (  I  )  dice 
che  Pulcinella  non  può  definirsi,  e  dice  bene  ;  ma  si 
potrebbe  anche  dire  lo  stesso  per  altre  maschere  ;  im- 
perocché, le  diverse  sfumature  d'un  carattere  o  d'un 


Nozente  qua  peccione 

Isso  addeventarrà. 
Pollecenella  è  tristo, 

Se  dice  p'ogne  lato 

Ma  quello   fa  1'  ntisto 

Pe  n'essere  accoppato. 

Lo  munno  è  na  coccagna, 

Ognuno  se  lo  sa. 

Lo  lupo  se  lo  magna 

Chi  pecora  si  fa. 

Pollecenella  è  smocco, 

Credono  pe  sta  terra  ; 

Ma  chillo   fa  lo  locco 

Pe  non  ghire  a  la  guerra. 
Aspetta  lo   minuto 

Che  pure  à  da  torna, 

P'addeventà  saputo 

E  farvi  straluna. 

Pollecenella  è  chiunzo, 

O  puro  è  nu  frabutto. 

Ma  chillo  s'era  abbrunzo, 

Nzi  a  no  sarriasi  strutto- 
Chi  non  se  fa  marmotta, 

E  sape   scimià. 

Abbotta,   abbotta,  abbotta, 

E  nfine  pò  crepa. 

{marcagegne,  furbo,  intrigante  —  peccione ,  piccione  —  ntisto ,   mole- 
sto —  smocco,   sciocco  —  chiunzo,   pigro). 
(1)  Op.  cit.  pp.    197  e  segg. 


—   132  — 

tipo  teatrale,  che  ha  avuto  una  esistenza  più  volte  se- 
colare ,  che  ha  subito  1'  influenza  d'  ambienti  diversi, 
nonché  di  correnti  letterarie  non  meno   diverse,  d'  a- 
dattamenti  e  rifacimenti  continui,  sebbene  qualche  volta 
lenti  o  quasi  insensibili,  non  può  definirsi,  o,  meglio» 
la  definizione  che  ne  vien  fuori,  anche  se  fatta  da  cri- 
tici eminenti,  per  esempio,  come  Francesco  De  Sanctis, 
che  volle  provarsi  a  dare  quella  della  nostra  masche- 
ra (I),  riesce  monca  o  falsa.   La  definizione  si  rende 
anche  più  difficile ,  perchè    Pulcinella  non  sempre  si 
presenta  sulla  scena  in  qualità    di    servo.   Negli  Sce- 
nari della  Nazionale,  di  Napoli,  come  in  altri ,  egli 
assume  mestieri,  professioni  e  qualità  che  nulla  hanno 
da  fare  coi  servo  :  è  fornaio,  oste,  guardiano  di  mo- 
nasteri ,  ortolano  ,  villano  ,  mercante ,  pittore ,   soldato, 
ladro,  bandito  ecc.  ecc.   Non  è  sempre  sciocco,  è  an- 
che furbo.  Se  non  che  ,   è  sempre  Pulcinella ,  anche 
quando  non  tutti  i  suoi  caratteri  corrispondano  al  tipo 
tradizionale.  Chi  lo  vede  agire,  anche  sotto  un  trave- 
stimento, lo  riconosce  subito  ed  esclama  :  è  lui,  è  Pul- 
cinella !  Ma  non  solo  s*  è  voluto    definire  Pulcinella, 
ma  più  d'uno  ha  domandato  :  che  cosa  rappresenta  ? 
E  la  risposta  è  stata  pronta  :  il  popolo  napoletanoTrra 
coloro  che  hanno  risposto  in  tal  modo  vi  è  il  Goethe. 
A  noi  sembra  che  tale  rassomiglianza  non  esista  che 
sino  ad  un  certo  punto.  Pulcinella  è  creazione  pura- 
mente napoletana  ,  ma  non  è  il  napoletano  plebeo  o 


(1)  "  Pulcinella  rappresenta  il  popolano  sciocco  e  borioso  ".  Scritti     ' 
inediti  e  rari,  pubblicati  da  B.  Croce;  Napoli,  Morano,  1898,  p.  196. 


—   133  - 

semiplebeo.  Certamente  fra  la  maschera  e  quest'ultimo 
i  punti  di  contatto  sono  parecchi  ,  ma  il  ritratto  non 
esiste.  La  plebe  napoletana  può  chiamarsi  pigra,  amante 
del  dolce  far  niente,  ghiottona,  credula,  superstiziosa; 
ma  non  tutto  un  popolo,  anche  se  con  questa  denomi- 
nazione si  voglia  intendere  la  sola  parte  cenciosa  dello 
stesso,  è  mezzano,  vigliacco,  ubbriacone,  ladro,  truffa- 
tore, doti  queste  non  belle  e  che  spesso  la  maschera 
possiede.  Tutto  al  più  in  Pulcinella  potrebbe  vedersi 
il  rappresentante  dei  vizi  della  plebe  napoletana. 

Come  per  le  altre  maschere  o  personaggi  della  com- 
media a  soggetto,  così  anche  per  Pulcinella  si  vollero 
disciplinare  e  preparare  le  Prime  uscite,  le  Tirate  ecc. 
affinchè  gli  artisti  recitando...  all'improvviso  attinges- 
sero la  loro  ispirazione...  al  premeditato,  come  scriveva 
il  Perrucci,  dal  libro  del  quale  riportiamo  una 

Prima  uscita 

nella  quale  Pulcinella  paragona  1'  innamorata  al  trot- 
toletto  chiamato  in  napoletano  strumholo. 

"  Addommannammo  'na  vota  a  no  masto  de  scola  che  cosa  fosse 
I  st  Ammore,  che  fa  muovere  lo  vermiciello  'nt'a  la  rocchia  ;  mime  de- 
cette  eh*  era  no  peccerillo  ,  che  sempe  pazzaja  ;  io  penzanno  a  che 
ghiuoco  va  ghiuocanno,  vego  che  non  ghiuocava  ad  autro  ch'a  lo  strum- 
molo.  Perchè  se  lo  strummolo  è  fatto  a  lo  tuorno  ,  lo  nnamorato  è 
posto  a  la  rota  de  fortuna:  a  lo  strummolo  se  'mpizza  nponta  no  flerro, 
e  a  lo  nnamorato  Ammore  le  schiaffa  ncuorpo  tanto  na  frezza.  Lo 
strummolo  s'arravoglia  con  la  fonecella,  lo  nnamorato  è  intorniato  de 
lazze  ;  lo  strummolo  sol'  essere  speretecchio ,  lo  nnamorato  spereta  pe 
la   gnora  ;  lo  strummolo  fa  na  fìtta  quann'  è  zitolo ,  lo  nnamorato  fé- 


—  134  — 

dele  non  se  parte  de  le  petrole  de  la  scrofa  ;  co  lo  strummolo  se  pia 
a  lo  rotiello,  a  tozzammuro,  a  parm'a  tuzzo,  a  bottare,  lo  nnamorato 

se  non  coglie  a  lo  rotiello  de    lo    core  de  la    nnamorata tozza  co 

la  capa  a  le  mura,  e  sempre  cerca  de  vottare.  Lo  strummolo  se  pi- 
glia mmano  ;  lo  nnamorato  se  serve  de  la  mmano  per  tozzolare  ;  chi 
perde  a  lo  strummolo  va  sotto  e  abbusca  pizzate;  lo  nnamorato  con 
tutto  ca  va  da  coppa  se  sta  da  sotto,  e  quanno  se  crede  co  le  piz- 
zate spacca  lo  strummolo  de  lo  contiento,  e  cacciarene  l' esca ,  trova 
chillo  de  la  gnor  a  de  decina  accossì  tosto  che  nce  lascia  la  ponta,  e 
pè'  chesto  cantaje  no  Pellegrino: 

"  Fatto  strumento  son  del  mio  destino  (1). 

Ecco  una  Prima  Uscita  dì  primo  Zanni  o  Coviello 
napoletano  : 

"  Ch'animale  sia  st'Ammore,  io  nzi  a  mo  non  aggio  ashiato  Dot- 
tore, Felosofo,  Poeta  o  Miedeco  che  me  lo  saccia  a  dicere  ,  perchè 
disse  non  saccio  chi  diaschine  fosse: 

"  Quid  sit  Amor  provole  oglie,  Cecala  poeta. 

"  Uno,  che  benneva  franfellicche,  decette  ch'era  n'Apa,  che  quanno 
te  cride,  che  te  dia  mele,  te  schiaffa  tanto  no  spungolo  ncuorpo  ;  se 
pogne  le  femmene,  le  fa  abbottare  la  panza,  e  dice  ca  ce  lo  mmez- 
zaje  no  speziale,  che  deceva: 

"  Picciola  è  l'Ape,  e  come  l'Ape  Amore, 

"  No  chianchiero  deceva  ch'era  na  mosca  ntista,  che  se  la  caccie, 
torna  ;  se  la  fa  a  tuorno  a  le  carogne,  addo  ve  lassa  le  vierme,  che 
rosecano  li  core  de  li  povere  nnamorate,  e  me  lo  decette  no  nchiajato  : 

"  Quanto  più  lo  discaccia,  tanto  piìi  torna. 
(1)  Op.  cit.,  p.   295. 


—   135  — 

"  No  varviero  decette,  ch'è  sangozuca,  che  s'attacca  a  lo  pretereto, 
ne  te  lassa  se  non  t'abbia  bevuto  na  botta  de  sangc;  accossì  Am- 
more  ne  sorchia  lo  denaro,  che  è  secunno  sango  de  1'  hommo,  e  lo 
'mparai  da  no  sangonacciaro,  che  deceva  : 

"  Succia   Lesbia  la  borsa  e  succia  il  core  ; 
Stolto  è  chi  compra  col  suo  sangue  Amore. 

"  Na  vecchia  deceva,  ch'era  na  polece,  pratteca  a  ncapparle  sotta 
le  pettole,  perchè  porta  le  arscelle,  mozzeca  e  fuje,  te  rompe  lo  suonno, 
e  te  trase  nto  l'orecchio  e  si  schiaffa  sotta  li  panne  de  le  femmine  e 
li  cazzune  dell'hommene,  e  lo  ghieva  cantanno  Porziello  vennenno  pi- 
gnate  : 

"  Sempre  intorno  di  voi,  Donne  m' aggiro. 

"  Nsomma,  chi  dice  ch'è  na  zecca  che  non  te  lassa  ,  no  chiattillo 
che  t' acciarra  ,  no  peducchio  che  te  sbreogna ,  na  pimmece  che  te 
nfetta,  no  lavano  che  te  stordesce  e  pogne  ;  ora  quale  sia  quest'  ane- 
male,  signure  mieje,  no  lo  saccio,  essendocene  confuso,  perzò  lo  gran 
Dottor  Chiajese  decette  (1)  : 

"  Or  chi  sa  questo  matto  interpretare  ? 

"  Ma  s'haggio  da  decere  la  intenzione  mia,  diciarria  che  sia  lo  verme 
peluso  che  stace  ucuorpo  a  nuje,  e  non  se  vede,  se  non  quanno  co 
la  sementella  de  la  grazia  ammorosa  non  lo  racove ,  e  si  no,  t'arriva 
a  fa  dolere  lo  stommaco  ,  e  te  roseca  lo  core  ,  e  che  perzò  decette 
non  saccio  se  cerurgeco  o  sagliemmanco  : 

"  E  un  verme  Amor,  che  rode  a  poco  a  poco. 
"  Che  pozza  schiaffa  de  sbianco  ", 

(1)  Il  Dottor  Chiajese,  scrive  il  Croce  (Op.  cit.,  p.  38)  fu  a  Na- 
poli una  celebrità  popolare  ,  una  specie  di  buffone  ,  che  fioriva  alla 
corte  del  Viceré  duca  d'Ossuna.  Fu  cantato  burlescamente  dal  Cor- 
lese,  poeta  napoletano  del  Seicento,  del  quale,  in  alcuni  esemplari  della 


—   136  — 

Oltre  le  T^rime  Uscite  e  erano  preparati  per  gli 
Zanni  anche  i  Saluti  alle  serve.  "  I  saluti  alle  serve 
sogliono  farsi  in  versi  come  se  il  servo  per  allettare 
o  lodare  la  sua  donna  volesse  imitare  i  poeti;  ben  è 
vero  che  alle  volte  sogliono  terminare  in  equivoci  di- 
sonesti e  questo  si  deve  evitare,  o  pure  farsi  che  non 
resti  scandalizzato  Y  innocente  ed  il  casto  ,  di  modo 
che  i  due  sensi  sieno  così  equivoci  che  non  s'intende 
chiaramente  lascivo,  ma  espresso  con  onestà  (1)  ". 

Diamo,  al  solito,  qualche  esempio  di  codesti  Saluti. 

a)  Saluto  napoletano. 

{Ss'  Ammore  è  fuoco  p' ahhroscià    lo   core). 

"  Tu  puro  cana  (e  chesta  ne  abbroscia) 

Tutto  de  fuoco  sì  pell'arma  mia: 

T'haje  la  neve  a  la  faccia,  e  ncuorpo  arzura. 

No  Tusco  diciarria:   Quel  volto  bello 

È  di  fiamme  e  di  nevi  un  mongibello. 

Doje  vrasere  de  fuoco 

So'  ss'  uocchie  che  m'abbrosciano  con  sfarzo: 

Vieneme  addorà  si  non  feto  d'arzo. 

Chisse  lavra  ncarnate 

So  tezzune  allumate, 

Che  no  me  fanno  no  luce  la  notte, 

Ma  a  dareme  tracuollo 

Me  fanno  luce  e  rompere  lo  cuoUo. 

So  belle  sse   mascè  se  mascelle 

Che  fanno  lommenaria, 

prima  edizione  del  Cunto  de  li    Cunti    (1636),  si  legge  una  canzone 
che  ha  per  titolo  :   Conziglio  dato  da  lo  Chiaiese  ad  una  persona  che 
l'addemanaje  qual  fosse  meglio  nzor arese  o  stare  senza  mogliera. 
(1)  Ferrucci,  op.  cit.  p.   286. 


—   137 

E  me  ne  fanno  ghl  nfonno  e  pell'aria, 

Nzomma,  sì  n'artefizio  natorale, 

Addò  dà  fuoco   Ammore,  e  l'arme  smacche 

Co'   truone,  cazzetiglie,  e  tricche-tracche. 

M'è  benuto  golìo 

Trasire  a  ssa  caverna, 

Gomme   no  tiempo  Prinio,  nzomma. 

Sì  bè  jettasse  fuoco  cchiù  che  Somma. 

Ed  io  so'  tanto   frieddo 

Che  si  me  scarfo  no  poco, 

No  me  ne  curo  niente,    o  gioia  cara, 

Si  bè  me  schiaffe  nto  a  la  Zolfatara(l)  ". 

Ed  ora  un   Saluto  in  bergamasco  ,   ma    in    verità  , 
un  bergamasco  parecchio  lisciato  : 

"  Front  più  bianca,  che  l' èl  cavial, 
Occi  bughi,  ove  stanz'  amor  crudel. 
Vis  che  set  del  formai  più  dolze  e  bel, 
Boca,  ti  de  le  Grazie,  e'  t  l'urinai. 

Per  ti  post  al  me  ved'  int'un  stivai, 
Per  ti,  cara,  ho  perdù  tutt'ol  zervel. 
Ed  entrandom'  amor  intre  '1  furél 
Se  ajudo  nò  me  ne  dat,  al  me  va  mal. 

Per  ti  son  post  de  le  bestie  al  rol, 
E  pormi  al  ziogo  non  haurò  per  vii. 
Purché  al  segno  d'ù  Tor  diventi  un  Sol. 

Groso  Amor   faza  el  so  cor  del  sotil , 
E  me  faza  con  ti  rompere  el  col. 
Mia  bela  Vaca,  Idolo  mio  zentil  (2).  " 

Gli  Zanni  con  tutta  la    loro    famiglia  avevano  dei 
modi  particolari  per  destare    nel    pubblico  il  riso  ,  il 

(1)  Perrucci,  op.  cit.,  p.  289. 

(2)  Perrucci,   op.  cit.,  p.  301. 


—  138  — 

riso  allegro,  pieno,  ridanciano,  da  far  sussultare  ,  nei 
suoi  scoppi  fragorosi,  tutta  la  persona  :  e  questi  modi 
si  chiamavano  lazzi.  Anche  questa  parola  {lazzi)  si 
volle  sottoporre  al  crogiuolo  dell'etimologia.  Ottorino 
Pianigiani,  nel  suo  Dizionario  etimologico,  presentò  un. 
saggio  dei  risultati  di  siffatte  pazienti  ricerche  :  dal 
latino  lax ,  fiode  ;  dallo  svedese  lat ,  gesto  ,  mossa  ; 
dall'ebraico  latzon  ,  burla ,  baia  ;  dall'  italiano  lazzo  , 
aggettivo,  di  sapore  aspro. 

Ma  noi  crediamo  che  la  parola  derivi  dal  latino  ae- 
do che  passando  attraverso  le  sue  derivazioni  {adi, 
gVacti,  V  atti,  V  azzi)  sia  divenuta  l' italiano  lazzo  o 
lazzi.  Difatti ,  nei  manoscritti  più  antichi  delle  com- 
medie dell'arte  {Scenari  della  Casanatense)  la  parola 
adoperata  dal  commediografo  è  adi  o  atti.  Questo 
per  r  origine  della  parola  ;  quanto  all'  origine  di  ciò 
che  sulla  scena  s' intende  per  lazzo  ,  si  disse  cosa 
tutta  napoletana  ;  il  che  trovò  poi  eco  e  diffusione  in 
in  tutto  il  teatro  a  soggetto  :  e  fu  questo  ritenuto  forse 
perchè  si  trovò  una  relazione  fra  lazzo,  lazzi  con  laz- 
zaro, lazzari,  ingiurioso  appellattivo  col  quale  si  volle 
designare  la  plebe    napoletana  (1).    Se    non    che,   il 

.  .      1 

(1)  Avendo  richiesto  qualche  chiarimento  a  Salvatore  di  Giacomo,'" 
questi  ci  ha  confermato  nella  nostra  opinione,  cioè,  che  lazzo  derivi  da 
actio.  H 

"  L'origine  di  lazzo  non  può  venire  da  lazzaro  certo  ;  io  credo  che  la 
parola  rampolli  da  actio  :  difatti  il  lazzo  è  un'azione  comica,  grottesca  ; 
talvolta  è  una  frase  a  doppio  senso.  Ma  per  lo  più,  un  atto  ". 

La  medesima  conferma  avemmo  dal  chiar.mo  prof.  N.  Zingarelli 
dell'  Università  di  Palermo. 


—  139  — 

lazzo  sulla  scena  comica  è  molto  più  vecchio  della 
commedia  dell'  arte.  Ma  ,  anzi  tutto  ,  che  cosa  è  il 
lazzo  ?  Sebbene  le  definizioni  sieno  sempre  da  sfug- 
gire ,  perchè  mai  o  quasi  mai  rendono  integralmente 
il  significato  della  cosa  che  definiscono,  pure  il  lazzo 
può  definirsi  in  un  atto  o  in  parecchi  atti  scherzosi, 
tale  da  far  muovere  il  riso  degli  spettatori  ,  con  ac- 
compagnamento di  parole,  e,  talvolta,  anche  senza  ac- 
compagnamento di  parola  alcuna,  perchè  il  lazzo,  quasi 
sempre,  sta  più  nell'atto  comico,  burlesco  che  fa  l'ar- 
tista, anziché  nelle  parole  di  lui.  Questi  lazzi  ,  nove 
volte  su  dieci,  accompagnati  dalla  scurrilità  della  peg- 
giore specie,  sono  spesso  piccoli  capolavori  di  mimica  ; 
qualche  volta  si  riducono  ad  una  frase,  a  uno  spunto 
di  dialogo  basato  sull'equivoco  ;  tal'altra  sono  dei  veri 
giuochi  di  parole,  doppi  sensi,  o  parole  o  frasi  inter- 
pretate a  sproposito.  "  Nous  appelons  lazzi  —  scrive 
il  Riccoboni  (1)  —  ce  que  1'  Arlequin  ou  les  autres 
acteurs  masqués  font  au  milieu  d'une  scène  qu'ils  in- 
terrompent  par  des  épouventes,  ou  par  des  badine- 
ries  étrangères  au  sujet  de  la  matière  que  l'on  traite, 
et  à  laquelle  on  est  pourtant  obligé  de  revenir.  Or 
ce  sont  ces  inutilités  qui  ne  consistent  que  dans  le 
jeu  que  1'  acteur  invente  suivant  son  genie,  que  les 
comédiens  italiens  nomment  lazzi  ".  Lo  stesso  Ricco- 
boni  ci  dà  un  esempio  di  codesti  lazzi.  "  Dans  la 
piece  Jìrlequin  dévaliseur  de  maisons  ,  Arlequin  et 
Scapin  sont  valets  de  Flaminia    qui    est    une    pauvre 

(1)  Op.  cit.,  voi.  I,  p.  65. 


—   140  — 

lille  éloignée  de  ses  parents,  et  qui  est  réduite  à  la 
dernière  misere.  Ailequin  se  plaint  a  son  camarade 
de  la  facheuse  situation  et  de  la  dite  qu*  il  fait  de- 
puis  long-tems.  Scapin  le  console  et  lui  dit  qu'il  va 
pourvoir  à  tout;  il  lui  ordonne  de  faire  du  bruit  de- 
vant  la  maison  :  Flaminia  attirée  par  les  cris  d'Arle- 
quin  lui  en  demande  la  cause  ;  Scapin  lui  explique 
le  sujet  de  leur  querelle  ;  Arlequin  crie  toujours 
et  dit  qu'il  veut  Tabandonner  ;  Flaminia  le  prie  de  ne 
point  la  quitter  et  se  recommande  à  Scapin,  qui  lui 
fait  une  proposition  pour  la  tirer  honnétement  de  la 
misere,  qui  Faccable;  pendant  que  Scapin  explique 
son  projet  à  Flaminia,  Arlequin  par  différents  lazzi  in- 
terrompt  la  scène;  tantot  ils'imàgine  d'avoir  dans  son 
chapeau  des  cerises,  qu'  il  fait  semblant  de  manger  et 
d'en  jeter  les  noyaux  au  visage  de  Scapin  ;  tantot  de 
vouloir  attraper  une  monche  qui  vole,  de  lui  couper 
comiquement  les  ailes  et  de  la  manger  ,  et  choses 
pareilles  ". 

Ma  come  già  dicemmo ,  il  lazzo  e  più  vecchio 
della  commedia  a  soggetto.  Il  teatro  d'Aristofane  ne 
contiene  parecchi.  Nei  Cavalieri ,  Plafagone  offre  a 
Popolo,  a  cui  fa  la  corte,  due  lepri  ;  ma  Salsicciaio, 
suo  rivale,  che  nulla  ha  da  offrirgli  ,  non  vuol  rima- 
nere da  meno,  e  fissando  gli  occhi  in  un  punto  die- 
tro a  Plafagone,  all'  improvviso,  esclama  : 

Non  mi  fa, 

Non  mi  ficca  !   Arrivano  ! 
PLAF.  —  Chi  arriva  ? 

SAL.  —  Gli  ambasciatori  coi  quattrini  a  sacca. 


—   141   — 

PAL.  —  Dov'è  ?  Dov'è  ? 

{si  volta  per  guardare) 
SAL.  —  Che  t' importa  ?  Lasciali. 

{gli  ghermisce  le  lepri  e  le  offre  a   Popolo) 
Oh  popoluccio, 
Che  belle  lepri  t'ho  portato,   vedi(l). 

Nelle  Rane,  Dioniso  spaventato  dal  rumore  della 
porta  dell'inferno  che  gli  sbatte  in  faccia  il  portinaio 
di  Pluto,  si  accoccola  e  dà  segni  evidenti  di  incoer- 
cibile paura  : 

ROSSO  —  Coso,  che  fai  ? 

DIONISO  —  L'  ho  fatta  I   Invoco  il  Nume  ! 

ROSSO  —  Oh  coso  buffo  I  Su,  rizzati  prima 

Che  qualcuno  ti  veda  ! 
DIONISO—  Adesso  svengo! 

Dammi  una  spugna,   che  sul  cuor  la  ponga. 
ROSSO  —  To',  mettila. 
DIONISO—  Ov'è? 

(la  piglia  e  ci  si  netta) 
ROSSO—  Dei  d'oro!  Il  cuore 

Ce  r  hai  costì  ? 
DIONISO  —  Lo  vedi  ?  Per  paura 

Mi  è  scivolato  in  fondo  alle  budella  (2). 

Negli  Uccelli ,  dello  stesso  Aristofane  ,  Cinesia, 
poeta,  arriva  nella  città  degli  Uccelli,  dove  incontra 
Gabbacompagno,  e  canta  : 

Tra  i  soffi  dei  venti  vagare 
Vorrei  sopra  i  flutti  del  mar... 

(1)  Trad.  di  E.  Romagnoli. 

(2)  Trad.  cit. 


—  142  — 

GABBAC.  —  Adesso  te  li  smorzo  io  questi  soffi. 

{prende  due  ali,  e  nascondendo  sotto  esse  il  bastone,  s 'avvicina) 
CINES.  —  Ed  ora  per  l'umide  strade  io  veleggio. 
{Gabbacompagno  gli   e    vicino  e  finge  di  assicurargli  le  ali;  Cinesia 
guarda   con  soddisfazione). 

Grazioso  e  fine  è  il  tuo  trovato,  o  vecchio  ! 
(Gabbacompagno  dandogli  una  bastonata) 

Questi   fremiti  d'ala   ti  soddisfano?  (1) 

La  commedia  greca,  che  passò  quasi  tutta  in  quella 
latina,  v'  introdusse  pure  il  lazzo.  E  un  lazzo  cer- 
tamente quello  che  contiene,  neW Asinaria,  di  Plauto, 
la  scena  in  cui  Libano  al  vecchio  Demenete  intima 
di  ripetere  quello  che  aveva  detto  : 

LIB.  —  E  ti  scongiuro 

Che  sputi  quel  ch'hai  detto. 
DEM.  —  Sarà   fatto  : 

Farò  a  tuo  modo. 
LIB.  —  Su,   su  via,  finché  | 

Abbi  la  gola  asciutta. 
DEM.  —  Ancora  ? 

LIB.—  Sì, 

Per   Ercole,  fin  dalle  più   profonde  fauci.  I 

DEM.  —  Ma  ancora  ? 

LIB.  —  Più.  j 

DEM,  —  Non  basta  ancora  ? 

LIB.  —  Voglio  fino  alla  morte  (2). 

Passando  alla  commedia  dell*  arte  ,  ecco  un  lazzo 
che  togliamo  dal  Pedante  (3)  di  Flaminio  Scala.  Lai 
scena  passa  fra  Arlecchino,  Pedrolino  e  Burattino. 

CI)    Trad.  cit. 

(2)  Trad.  di  G.  Finali. 

(3)  Giornata  XXXI,  p.  93. 


—   143  — 

"  A  r lece,  con  un  piatto  di  maccheroni  da  presen- 
tare a  Ped.  da  parte  del  Capitano  ,  glielo  dà  ;  Ped. 
piangendo  lo  riceve  dicendo  piangere  per  un  acci- 
dente venuto  a  sua  moglie,  e  così  dicendo  comincia 
a  mangiare,  jìrleee.  piange  anch'  egli  e  si  mette  a 
mangiare  piangendo  piangendo  ;  in  quello  Burat.  vede 
quelli  che  mangiano  i  maccheroni  piangendo;  si  mette 
a  piangere  e  piangendo  mangia  ancora  egli  ;  finito 
che  hanno  di  mangiare,  T^ed.  piangendo  dice  ad  Arleec. 
Baciate  da  parte  nostra  le  mani  al  Capitano ,  e  via  ; 
Burat.  dice  il  simile  ,  e  via  ;  jìrleee.  piangendo  e 
leccando  il  piatto,  via  ". 

Per  i  lazzi  non  accadeva  generalmente  quello  che 
accadeva  per  le  Prime  Uscite,  i  Saluti,  le  Chiuset- 
te ecc.  ecc.,  cioè,  essi  non  trovavano  d'ordinario  il  loro 
posto  in  quei  tali  Zibaldoni  parte  indispensabile  del 
bagaglio  d'ogni  comico  all'  improvviso.  Quasi  sempre 
non  si  tramandavano  da  una  generazione  d'artisti  ad 
un'altra  che  a  memoria.  Difatti,  i  Zibaldoni  non  con- 
tengono in  generale  nessuna  spiegazione  di  lazzi,  meno 
quello  della  Comunale  di  Perugia,  dove  il  p.  Adriani 
curò  di  spiegarne  quaranta  riunendoli  in  una  raccolta  a 
parte.  Gli  Scenari  non  hanno  che  un'indicazione  gè 
nerica  :  jìrlec.  fa  lazzi  ;  T^ulcinella  fa  lazzi  ;  sol- 
tanto r  indicazione  è  omessa  negli  Scenari  dello  Scala, 
il  quale  ,  all'  incontro ,  descrive  V  azione  del  comico, 
senza  mai  scrivere  la  parola  lazzo.  Di  rado  è  spie- 
gato il  lazzo  negli  altii.  Nel  Finto  Principe  degli  Sce- 
nari pubblicati  da  A.  Bartoli  abbiamo  il  lazzo  della 
circoncisione,  il  lazzo  che  Cola   dà    udienza  ,  quello 


—   144  — 


della  donna  pregna,  dell'asino,  del  creditore  e  della 
piazza  morta  ;  nello  scenario  dei  Tappeti  c'è  il  lazzo 
della  valigia;  in  altri  quello  del  nuovo  mondo,  della 


farina  ecc.,  ecc. 


Molti  ne  sono  indicati  negli  Scenari  del  Luccatello, 
della  ^Njizionale  di  Napoli,  della  Comunale  di  Pe- 
rugia. Ma  tutti ,  o  quasi ,  non  ne  portano  la  spiega- 
zione, e  quindi  per  noi  restano  perfettamente  sibillini. 
Il  Ferrucci  però  ne  spiega  qualcuno  ,  per  esempio, 
quello  di  "  torna  a  bussare  ".  Nella  commedia  o  sce- 
nario la  ^rappolaria,  il  Capitano  vedendo  Pulcinella 
che  gli  viene  ad  aprire  ,  sordido  e  straccione  ,  non 
crede  che  sia  il  mercante  che  egli  cerca  e  non  vuol 
parlare  con  lui.  Pulcinella  per  fargli  capire  che  è  pro- 
prio il  padrone,  il  mercante  che  egli  cerca,  gli  dice: 
"  Torna  a  bussare  " ,  e  glielo  ripete  a  sazietà  ;  allora 
il  Capitano  comprende  e  riconosce  in  Pulcinella  la 
persona  che  cercava  (1).  Ma,  ripetiamo,  di  molti 
lazziy  meno  di  quelli  spiegati  dall'Adriani  e  dei  quali 
diamo  un  saggio  in  una  delle  appendici  di  questo 
lavoro,  s' ignora  il  significato.  Che  vuol  dire,  difatti,  il 
lazzo  del  Pellegrino  o  quello  deW Aquila  a  due  teste, 
o  di  (Sgli  lo  sa,  o  V  altro  d'  Hermano,  yo  no  te  co- 
nosco ?  Spesso  anche  gli  artisti  medesimi  non  li  cono- 
scevano, ed  allora,  come  scriveva  il  Ferrucci  ,  il  co- 
rago  o  capo-comico  li  decifrava  e  spiegava  (2).  Però 


(1)  Op.  cit.  pag.  363. 

(2)  Op.   cit.,  p.  354.  Parecchi  lazzi  della  commedia  dell'arte,  morta 
questa,  passarono  nel  teatro  dialettale.   Per  esempio,  la  lettera  del  pa- 


-   145  — 

qualche  volta,  nello  stesso  scenario,  il  lazzo  era  con 
abbastanza  particolari  spiegato.  Nella  'trappolarla,  che 
Il  Ferrucci  pubblica  in  fine  deWArte  ecc.  il  lazzo  de\~ 
V Acqua  e  indicato  così»  "  Coviello  vede  la  schiava  sve- 
nuta, ricorre  per  acqua  col  lazzo  dell'  acqua  schietta 
o  di  fiori  ?  Di  cisterna  o  di  fonte  ?  Calda  o  fredda  ? 
Alla  fine  cade  colla  pignatta  e  finge  servirsi  dell'uri- 
na. Turchetta  scopre  esser  stata  venduta  ;  Fedelindo 
tramortisce,  grida  :  acqua  ;  Coviello  coli'  orina  ritorna 
ed  alza  il  vaso  dell'  orina,  e  poi  ascoltando  i  discorsi 
dei  due  amanti,  finge  tramortire  ;  quegli  gridano  acqua, 


drone  che  il  servo  ha  aperto  e  letto  e  poi  chiude  con  pane  masticato. 
Questo  lazzo  —  una  piccola  azione  comica  —  noi  l'abbiamo  visto  eseguire 
con  una  vis  comica  indiavolata  da  Salvatore  Tomasino,  l'ultima  delle  ma- 
schere (Pasquino)  del  vecchio  teatro  siciliano.  Pasquino  riceve  una  let- 
tera ;  è  pel  suo  padrone  :  la  curiosità  lo  spinge  a  conoscerne  il  con- 
tenuto ;  volge,  rivolge  la  lettera  fra  le  mani.  L'aprirà  o  non  l'aprirà? 
I  suoi  dubbi  cessano  ;  apre  la  lettera  :  qui  una  lettura  spropositata. 
Poi  richiude  la  lettera  ;  ma  come  sigillarla  ?  Non  ha  né  ostie,  né  ce- 
ralacca... Alla  sua  mente  balena  un'idea  che  gli  sembra  meravigliosa  ; 
e'  é  del  pane  nella  credenza  ;  tira  fuori  un  grosso  pane  e  ne  intacca  un 
pezzo  coi  denti.  Senonché,  il  pane  va  giù  ;  ne  stacca  un  altro  pezzo,  ma 
questo  va  a  raggiungere  l'altro.  Ecco  subito  un'altra  idea  :  egli  legherà 
con  una  cordicella  il  pane,  così  questo,  quando  l'avrà  masticato,  non 
andrà  giù  per  la  gola.  Lega  il  pane,  ne  incomincia  la  masticazione  fa- 
cendo sforzi  inauditi,  mercè  la  cordicella,  perché  non  prenda  la  via  dello 
stomaco.  Infine,  riesce  a  cavarne  un  grosso  pezzo  ridotto  a  poltiglia  e 
con  esso  chiude  la  lettera.  Ma  occorre  un  suggello,  che  cerca  invano  di 
qua  e  di  là  ;  gli  viene  una  terza  idea  :  mette  la  lettera  sul  tavolino  e  sul 
pane  che  ha  posto  per  chiuderla  batte  la  fronte.  Egli  alza  il  capo  ma  la 
lettera  non  é  più  sul  tavolino  :  spaventato,  corre  a  cercarla  dappertutto  ; 
infine,  scopre  che  gli  é  rimasta  incollata  sulla  fronte. 

•5Ve/  Regno  delle  JSCaschere.  IO 


—   146  - 

egli  vino".  E  un  lazzo,  come  tanti  altri,  tri  valissimo. 
Ma  spesso  non  erano  soltanto  triviali ,  erano  addirit- 
tura osceni.  Il  p.  Ottonelli  ,  uno  scrittore  seicentista, 
osservava  :   "  I  Zanni,  Covielli,  Pantaloni,  Gratiani  (I) 

et  simili vogliono  cavare  il  ridicolo  dall'oscenità 

L'anno  1635,  io  stavo  nella  clarissima  Catania....  Un 
giorno  da  un  comico  fu  fatto,  per  far  ridere  notabil- 
mente gli  spettatori,  un  gesto  di  tanta  indignità...  cui 
tutti ,  e  tutti  anche  i  più  licenziosi  ,  di  modo  si  ver- 
gognarono, che  calarono  unitamente  gli  occhi  alla  ter- 
ra (2)  ".  E  poiché  abbiamo  fatto  il  nome  dell'  Otto- 
nelli, lo  scrittore  seicentista  ci  richiama  alla  mente  una 
grossa  questione  che  fu  vivamente  dibattuta  ai  suoi 
tempi  ed  anche  dopo,  non  esclusi  i  nostri  :  quella,  cioè, 
della  moralità  negli  spettacoli  pubblici.  Sebbene  il 
Concilio  di  Trento  si  fosse  proposto  di  riformare  non 
solo  la  Chiesa  Cattolica,  ma  anche  i  costumi,  pure  le 
persone  pie  s'accorgevano  con  profondo  dolore  come 
il  demonio  possedesse  ancora  la  società  :  questa  più 
che  aspirare  al  cielo,  correva  a  precipizio  verso  l' in- 
ferno. Lamentavano  ,  sopra  tutto ,  codeste  anime  pie, 
r  immoralità  signoreggiante  sulle  scene  con  sconcie  pro- 
duzioni. Già,  gli  istrioni,  come  con  parola  di  disprezzo 
erano  chiamati  i  comici  dalle  persone  che  camminavano 
o  credevano  di  camminare  nelle  vie  del  Signore  (3), 

(  I  )   Facevano  lazzi  —  come  allora  si  diceva  —  anche  i  Vecchi  (Pan 
tcJone,  il  Dottore,  ecc.). 

(2)  Della  Christiana  moderatione   del   Theatro  ;  Fiorenza,    1646,1 
voi,  I,  p.  29. 

(3)  La  plebe,  che  sentiva  chiamare  istrioni  i  comici,  riteneva  che 


—   147   — 

erano  stati,   sotto   le  leggi    di  Roma    pagana,    bollati 
per  persone  infami,  e  quindi   messi   al   pari  delle  me- 
retrici e  dei    lenoni  ;    ne ,    innalzato    il    Cristianesimo 
a  dignità  di  religione  ufficiale,  erano  stati  trattati  me- 
glio :  le  ingiurie  più  atroci  erano  state  proferite  contro 
di  loro  dai  Padri  e  dai  Dottori  della  Chiesa,  i  quali 
in  ogni  comico  non  vedevano  che  un   predestinato  a 
fornir  materia  da  cuocere  alle  caldaie  di  pece  o  d'olio 
bollente.   Ma  il  diavolo  —  allora  molte  cose  si  spie- 
gavano col  diavolo,  specie  quelle  che  si  presentavano 
di  difficile  soluzione  —  ci  ficcava  dentro  non  si  sa  bene 
se  la  punta    d'  uno  dei  suoi  corni  o  della   sua  coda, 
e  gli  aborriti  e  maledetti    istrioni  ,  a  malgrado    delle 
scomuniche,  delle  ingiurie  e  delia  quotidiana  prospet- 
tiva di  andare  a  finire  arrostiti  sulle  graticole  infernali, 
continuavano  sempre  ad  essere    persone    gradite    non 
solo  al  pubblico  grosso,  ma  anche  a  quello  fine,  ari- 
stocratico, e,  quel  che  è  peggio,  ai  principi  ,  i  quali 
ultimi,  certamente ,  prendendo  a  proteggere  individui 
così  discreditati,  venivano  meno  alla  loro  missione  di 
conduttori  non  solo  di  corpi,  ma  anche  d'anime.  Di  qui, 
quindi,  il  bisogno  negli  intransigenti  ,  nei  fanatici,  di 
promuovere,  come  essi  la  chiamavano,  un  Istanza  per- 
chè il  pontefice,  supremo  ed  indiscusso  moderatore  dei 
costumi,  regolasse  la  materia  con  una  serie  di  precetti 
ai  quali  i  principi,  come  buoni  e  ferventi  cattolici,  fos- 


<)uesti  fossero  stregoni:  il  che  non  accresceva,  certamente,  la  stima  che 
il  pubblico  professava  pei  commedianti.  V.  Barbieri,  La  Supplica,  cli- 
icoTso  familiare  intorno  alle  commedie  mercenarie. 


—   148  — 

sero  tenuti  d'ottemperare.  S'intende  che  codesti  ener- 
gumeni, per  difendere  la  morale,  che  essi  ritenevano  in 
pericolo,  proponevano  quasi  l'aboHzione  degH  spettacoli 
teatrah,  specie  della  commedia  dell'arte,  la  quale,  in 
verità,  di  tutte  le  rappresentazioni  sceniche  del  tempo 
era  la  più  sfacciata,  la  più  sboccata.  Ascolti  il  signor 
lettore  ;  il  padre    Adamo  Contzen ,  della  Compagnia 
di  Gesù,  il  più  arrabbiato  di  tutti  i  nemici  del  teatro, 
fra  l'altro,  proponeva  non  solo  che  il  sentimento  amo- 
roso,  sotto  qualsiasi  forma,  anche  la  più  casta ,  fosse 
bandito  dalla  scena,  ma  con  esso  ne  fossero   bandite 
le  donne.  Il  pio  gesuita  —  un  vero  giannizzero  della 
morale  —  voleva  inoltre  che  sulla  scena    nemmeno  si 
vedessero  giovinetti  vestiti  da  donna  (1).  Si  vede  che 
il  p.   Contzen  ,  nella  sua  qualità  di  predicatore  ,   non 
amava  la  concorrenza  che  faceva  al  pulpito  il  teatro. 
Altri  reazionari,  però  meno  intransigenti  di  lui,  propone-' 
vano  —  e  l'Ottonelli  era  fra  costoro  —  che  soltanto  alle'' 
donne  e  ai  giovinetti  vestiti  da  donna,  fosse  proibito, 
di  salire  sulla  scena  :  le  parti  femminili,  anche   amo-f 
rose,  dicevano,  s'affidassero  ad  uomini,  s'intende,  dalla 
barba    diligentemente    rasa  ;  tutti ,  poi ,  concordavano!! 
che  non  si    rappresentassero  fatti  turpi ,  ne   si   usassel 
linguaggio  licenzioso.  E  il  padre  Ottonelli,  salendo  ì\\ 
pulpito  dell'  indignazione  —  parlandosi  d'un  seicentista'j 
l'ardita  metafora  non  è  fuor  di   luogo  —   esclamava  : 
"  Ma  in  quale  di  esse  (delle  commedie  di  flauto  e'I 


(1)  Ottonelli,  op.  cit„  pp.    1 99-200.  Negli  Stati  papali  era  proibii* 
alle  donne  di  mostrarsi  sulla  scena. 


—   149  — 

di  Terenzio)  si  vide  mai  che  sopra  un  palco  si  con- 
ducessero un  huomo  e  una  donna  involti  in  un  len- 
zuolo? Chi  ardì  mai  fra  gli  antichi  far  comparire  in 
iscena  un'  Europa  scoperta  ?  Quando  si  sopportò  mai 
anticamente  che  una  femmina  uscisse  sul  palco  e  sotto 
le  vesti  sue  tenesse  nascosto  un  huomo  ?  (1)  "•  Qui  il 
p.  Ottonelli  aveva  torto  marcio,  perchè  il  teatro  co- 
mico latino  tanto  da  lui  esaltato  in  ordine  a  castiga- 
tezza di  azione  e  di  linguaggio ,  era  forse  più  licen- 
zioso di  quello  ch'egli  criticava.  Difatti,  se  il  diavolo 
avesse  saputo  il  latino,  egli  avrebbe  potuto  dire  a  quel 
buon'uomo  di  gesuita  :  "  Piano  ,  piano ,  p.  Ottonelli; 
si  vede  che  lei,  sebbene  sapientissimo,  non  ha  letto 
Plauto  e  Terenzio  che  nelle  edizioni  espurgate  che  lei 
dà  in  mano  ai  suoi  allievi.  Ma  nel  testo  integro ,  in 
quello  che  non  si  fa  studiare  ai  giovinetti,  quanta  li- 
cenziosità di  azione  e  di  linguaggio  !  Senta  qua  e  non 
arrossisca  :  nella  Casina,  di  Plauto,  per  esempio ,  un 
vecchio  crede  di  giacere  in  letto  con  una  giovane  bel- 
loccia e  appetittosa,  e  si  trova  con  un  villanzone  fir- 
mato... lei  mi  comprende  ?...  Nella  Donna  d'Andria, 
di  Terenzio  (atto  2°) ,  il  pubblico  ode  i  lamenti  di 
elicerò  assalita  dalle  doglie  del  parto  ,  e  nel  éM!iles 
Qloriosus  del  primo  le  donne  vogliono  ,  nientemeno, 
tagliare  i  testicoli  —  proprio  i  testicoli  —  al  soldato- 
bravaccio  !...  " 

Ma  torniamo  alle  lamentazioni  del  p.  Ottonelli  ;  il 
quale  narrava  che  avendo  esaminato  gli  avvisi  teatrali 

I)  Op.  cit.,  p.  331. 


—   150  — 

d'una  compagnia  comica,  che  aveva  recitato  nel  1660 
in  una  delle  principali  città  d' Italia,  fra  l'altro,  aveva 
letto  i  seguenti  : 

a)  "  Signori,   si  recita  V  Amoroso  sfortunato  e   Bertolino  forrxaro 
geloso  e  becco  sventurato. 

b)  "  Signori,  si  recita    li    Amanti  favorevoli  con  la  consolazione 
del  ruffianesimo. 

e)      "  Signori,  si  recita   Ogni  aiuto  in  Amore  è  buono  con  Bertolino 
cortigiana  partoriente  (  1  )  ". 

Naturalmente,  non  tutti  la  pensavano  come  il  padre 
Contzer  o  il  padre  Ottonelli  :  e'  erano  gli  spiriti  illu- 
minati, e'  erano  i  mondani ,  i  comici ,  sopratutto,  che 
non  solo  non  dividevano  i  sentimenti  reazionari  dei 
nemici  più  o  meno  aperti  del  teatro  comico,  e  segna- 
tamente della  commedia  dell'  arte  ,  ma  dei  comici  e 
della  produzione  teatrale  del  tempo  assumevano  a  viso 
aperto  la  difesa.  A  costoro,  in  verità,  il  demonio  non 
incuteva  soverchia  paura.  Ritenevano  che  si  potesse 
andare  in  paradiso  anche  se  in  terra  si  avesse  avuto 
un  po'  di  dimestichezza  con  Satanasso.  I  comici,  come 
abbiamo  detto  ,  furono  coloro  che  misero  più  calore 
nella  difesa;  si  trattava  del  loro  pane  quotidiano  e  di 
quello  delle  loro  famigliuole  ,  e  quindi  impresero  a 
combattere  i  fanatici,  gli  ultra-moralisti,  ma  con  garbo 
ed  accorgimento ,  con  la  mano  guantata ,  perchè ,  al- 
lora, a  parlare  un  po'  bene  del  diavolo,  si  correva  il 
rischio  di  cadere  nelle  mani  del  Santo  Uffizio.  Fra^' 
cotesti  comici  apologisti,  ma  prudenti,  del  teatro   co- 

(I)  Op.  cit.,  p.  284. 


—   151   — 

mico,  vanno  in  modo  particolare  ricordati  Pier  Maria 
Cecchini  e  Niccolò  Barbieri ,  quest'  ultimo  più  cono- 
sciuto sotto  il  nome  di  Beltrame,  una  maschera  da 
lui  creata,  come  l'altro  era  conosciuto  sotto  il  nome  di 
Frittellino.  Il  Barbieri, fra  l'altro,  scriveva:  "  La  comme- 
dia è  lecitissima...  I  peccati  che  possono  commettere  i 
comici  recitando  sono  questi  :  lodare  il  vizio  ;  dir  pa  - 
role  fuor  di  modo  oscene  ;  far  gesti  tanto  lascivi  che 
possano  muovere  a  libidine  le  persone;  portar  ragioni 
hlosofìche  contro  la  fede;  deridere  le  cose  sacre;  rap- 
presentare religiosi  e  religiose  nella  favola  ;  recitare 
nella  quaresima,  fuor  che  per  accidente;  pronunziare 
bestemmie;  introdurre  casi  noti  che  possono  disonorare 
le  famiglie  ;  far  comparire  donne  con  parte  della  vita 
denudata,  et  altri  simili...  Levato  questo,  è  levato  il 
peccato  e  lo  scrupolo  ai  comici  di   peccare...  ". 

No,  rispondeva  il  p.  Ottonelli  (1),  perchè  a  mal- 
grado dell'  onesto  linguaggio  del  Beltrame  (2)  ,  nelle 
commedie  d'oggi  si  pecca,  "  poiché  in  essa  alle  volte  si 
lodano  le  fornicazioni,  i  rubamenti,  le  vendette  e  tanti 
peccati;  si  dicono  spesso  oscenità  mortali;  si  fanno  gesti 
provocativi  efficacemente  alla  libidine;  si  fanno  com- 
parir donne  tal'  bora  troppo  immodeste,  e  quasi  sempre 
s  introducono  innamoramenti  scandalosi  e  con  parti  di 
femminelle  impudiche  e  parlanti  lascivamente  con  gli 
amici  loro  ".  Tanto  il  Barbieri  quanto  il  Cecchini  mo- 
stravano di  aver  pratica  coi  padri  della  Chiesa,  di  cui 

(1)  Op.  cit.,  p.  41. 

(2)  Alludeva  alla  scrittura  del  Barbieri;  La  Supplica. 


-   152  — 

ripetevano  sentenze,  opinioni  a  favore  dei  comici,  giac- 
che alla  letteratura  patristica  ,  tutti  attingevano ,  e  se 
i  reazionciri  vi  trovavano  armi  per  combattere  gli  spet- 
tacoli, i  comici  ve  ne  trovavano  anche  per  difenderli. 
Questi  ultimi  però  la  vinsero.  Essi  avevano  dalla  loro 
non  solo  Sant'Agostino  e  San  Tommaso,  che  citavano 
a  tutto  spiano  nelle  loro  dissertazioni  come  se  fossero 
tanti  teologi,  ma  anche  i  principi  e  il  pubblico  :  e  a 
loro,  per  far  tacere  gì'  intransigenti,  bastava. 

Ma  ritorniamo  ai  personaggi  della  commedia  del- 
l' arte ,  la  cui  licenziosità  di  parlale  aveva  posto  per 
un  momento  a  repentaglio  la  vita  della  commedia 
stessa. 

Accanto  ai  personaggi  dei  due  Vecchi,  del  Capi- 
tano e  dei  due  Zanni,  ch'erano  maschere ,  s'  aggira- 
vano altri  ed  altri  personaggi ,  molti  dei  quali  come 
i  precedenti,  erano  maschere.  Fra  queste  ce  n'  erano 
molte  che  non  erano  che  doppioni,  derivazioni  delle 
prime  con  mutazioni  o  correzioni  non  sempre  profonde 
o  notevoli  ;  qualche  volta  non  era  mutato  che  il  nome 
e  tal'  altra  il  linguaggio  o  il  dialetto  che  la  maschera 
parlava.  Spesso  un  nome  che  aveva  servito  ad  indi-  1 
care  un  vecchio,  o  il  capitano,  passava  ad  indicare  lo 
Zanni.  Giangurgolo,  per  esempio,  fu  Capitano  Cala-  | 
brese,  poi  passò  a  rappresentare  le  parti  di  padre,  di 
oste  o  di  Zanni:  capricci  di  comici. 

Del  resto,  parecchi  di  codesti  nomi  non  fecero  che 
passare  sulla  scena  ;  alcuni ,  però  ,  ebbero  rinomanza 
più  duratura.  I  Pandolfì,  gli  Ubaldi,  i  Cola,  i  Burat- 
tini e  i  Mezzettini,  per  esempio,  ebbero  giorni  di  gloria . 


-   153  - 

nel  Seicento  ;  poi,  dove  più  dove  meno,  scomparvero  ; 
ma  non  scampariva  che  il  nome  ;  il  tipo  o  carattere 
restava.  Fra  codesti  nomi ,  che  rappresentavano  tipi 
derivati  da  altri,  acquistò  celebrità  Scaramuccia,  una 
maschera  creata  o  meglio  rimaneggiata  da  Tiberio  Fio- 
rillo, comico  napoletano,  forse  parente  dell'altro  Fio- 
rillo, Silvio,  creatore  della  maschera  di  Pulcinella  (1). 
Altre  maschere,  come  quelle  di  Frittellino  o  Fritellino 
e  di  Beltrame  ebbero  pure  una  certa  celebrità  dovuta 
più  all'arte  dell'  interprete  che  alla  novità  della  ma- 
schera stessa.  L'una  era  stata  creata  dal  Cecchini,  co- 
mico e  commediografo,  1'  altra  da  Niccolò  Barbieri, 
anche  lui  comico  e  commediografo,  e,  per  giunta,  co- 
me teste  abbiamo  visto,  difensore  dei  comici  e  del- 
l'arte loro  avanti  al  tribunale  degli  intransigenti  in  ma- 
teria di  moralità.  Se  non  che,  non  si  trattava ,  come 
sopra  abbiamo  detto,  di  maschere  o  tipi  assolutamente 
nuovi,  ma  di  rimaneggiamenti,  quando  non  si  trattava 
che  di  un  semplice  cambiamento  di  nomi.   Esagerava, 

(  1  )  Parecchi  hanno  ritenuto  che  Tiberio  Fiorillo  ,  nato  nel  1 608 
e  morto  più  che  ottantenne,  fosse  il  creatore  della  maschera  dello  Sca- 
ramuccia :   ma  la  maschera  era  più  vecchia  di  lui.  Difatti,  in  un  qua- 

;  dro  del  pittore  francese  Porbus,  dipinto  nel  1572,  e  in  cui  l'artista 
volle  ritrarre  i  principali  personaggi  della  Corte  di  Francia,  compreso 
il  re  Carlo  IX,  nei  costumi  della  commedia  italiana,  il  duca  di  Guisa, 
lo  Sfregiato,  è  rappresentato  in  quello  di  Scaramuccia,  (Rasi,  /  Comici 
Italiani;  Torino,  1901,  voi.  I,  pp.  888  e  segg.).  Del  resto,  lo  Sca- 
ramuccia del  Fiorillo  era  una  continuazione  con  ritocchi  e  modificazioni 
del    Capitano.  Col  Fiorillo  non  portò  più  la  maschera;  aveva  il  viso 

1  infarinato.  Continuò  ad  essere  fanfarone,  adoratore  delle  donne,  pol- 
trone.  (Sand,  op.  cit.   voi.  Il,  pp.   258-59). 


—  154  — 

quindi,  il  Camerini  quando  scriveva  :  "  La  creazione 
dei  tipi  nella  commedia  a  soggetto  era  continua  (1)  ". 
Ed  in  appoggio  al  suo  dire  citava  Iacopo  Callot ,  il 
quale  nei  suoi  ^allì  di  Sfessania  (2)  ne  riportava 
quarantanove,  non  avvertendo,  per  esempio,  che  pa- 
recchi di  quei  tipi  non  erano  che  delle  sotto  varietà 
e  forse  qualche  cosa  di  meno.  Difatti ,  che  diversità 
di  tipo  poteva  esistere  fra  Capitan  Bellavita  e  Ca- 
pitan Coccodrillo  ,  fra  Brighella  e  Mezzettino  ?  Era- 
no variazioni  sullo  stesso  tema.  Di  altri  personaggi, 
ricordiamo  Tartaglia,  il  quale  vive  ancora,  ma  oscu- 
ramente, sulle  scene  delle  marionette  di  città  e  borghi 
dell'  Italia  meridionale  insieme  a  Pulcinella  e  Colom- 
bina di  cui  quasi  sempre  è  il  padre.  Fu  maschera  na- 
poletana, o  almeno  ebbe  la  sua  origine  a  Napoli.  La 
sua  caratteristica  era  di  essere  balbuziente.  D*ordina- 

(1)  /  Precursori  del  Qoldoni ,  Milano,  Sonzogno,    1872,  p.  77. 

(2)  /  ^alli  di  Sfessania  del  Callot  contengono  ventiquattro  piccoli 
quadri  con  49  figurine  di  ballerini  ;  il  primo  ramo  ,  che  fa  da  fron- 
tespizio, ne  presenta  tre;  gli  altri  due.  (Croce,  op.  cit.  p.  210).  La 
Sfessania  era  un  ballo  popolare  napoletano. 

Esagerava,  e  molto,  il  Camerini  anche  quando  a  proposito  della 
commedia  all'  improvviso  scriveva  :  "  La  commedia  dell'arte  non  poteva 
essere  che  italiama.  Essa  fioriva  come  le  rose  e  gli  aranci  del  nostro 
molle  e  dilettoso  suolo.  Ma  la  sua  stessa  agevolezza  non  lasciava  pensare 
ai  soccorsi  dell'  arte  poetica  come  una  semplice  giovanetta,  che  sente 
fiorire  la  sua  bellezza,  non  va  ad  acconciarsi  allo  specchio....  L'artifizio 
non  si  trovò  sino  al  Goldoni  ".  (Profili  Letterari;  Firenze,  Barbera, 
p.  303).  Nello  stesso  Ottocento  lo  Stendhal  aveva  scritto  :  "  On  joucit 
au  palais  une  comèdie  deWarte,  c'est-à-dire,  où  quelque  personnage  in- 
vente  le  dialogue  à  misure  qu'il  se  dit.  Le  pian  de  la  comèdie  est  af- 
fiché  dans  la  coulisse  ".  La  Chartreuse  de  Parme,  Ch.  XXV. 


—   155  — 

rio  ,  rappresentava  le  parti  di  padre  ,  ma  faceva  un 
po'  di  tutto  •  l'usciere,  il  capo-birro,  il  farmacista,  il 
giudice,  il  notaio  ;  non  potendo  parlare  che  a  stento, 
egli  andava  in  collera  contro  se  stesso,  o  meglio  con- 
tro la  sua  lingua,  la  quale,  con  quegli  scatti  di  rab- 
bia, anziché  sciogliersi,  s' ingrovigliava  di  più  e  ren- 
deva Tartaglia  un  parlatore  disgraziato.  Generalmente 
quel  suo  muscolo  s' impuntiva  a  ripetere  all'infinito  le 
sillabe  delle  parole  che  offrivano  materia  ad  interpre- 
tazioni scurrili  od  oscene  ,  per  esempio,  cu-cu-cu  ,  o 
cor-cor-cor,  oppure  fic-fic-fic.  Il  suo  successo  però  era 
sicuro,  e  quasi  trionfale;  quando  rappresentava  la  parte 
di  giudice  ,  r  interrogatorio  dell'imputato  diventava  un 
capolavoro  d'  amenità.  Da  una  scena  riportata  dal 
Sand  (1),  togliamo  uno  spunto  di  dialogo  tra  lui  e 
Arlecchino.  Il  primo  è  notaio,  l'altro  gli  detta  il  suo 
testamento. 

ArlEQ.  Je  laisse  mon  cabinet  à  mon  cousin. 

TaRT.  ecrivant.   Mon  ca,   ca,  ca... 

ArlEQ.  Faites  vite  retirer  ce  notaire  ;  il  va  salir 
tous  les  meubles. 

Una  maschera  o  carattere  che  ebbe  nel  Cinque- 
cento molta  voga  non  solo  nel  teatro  comico  erudito, 
ma  anche  in  quello  a  soggetto,  fu  il  Pedante  (2).  Essa 
restò  a  lungo  nel  primo,  sicché  noi  possiamo  riscon- 
trare codesto  personaggio  nelle  commedie  del  Fagiuo- 


(l)Op.  cit..  voi.  II.  pp.  326-27. 

(2)  Arturo  Graf  ;  Attraverso  il  Cinquecento,   Torino,  1 888,  e   Cd.- 
merini,  I  Precursori  di  Goldoni,   Milano,   Sonzogno,  1872. 


—   156 

li  :  nella  commedia  dell'arte  scomparve,  dopo  i  primi 
suoi  successi,  gradatamente  sino  a  che  non  se  ne  trova 
più  traccia  negli  scenari  della  fine  del  Seicento  e  del 
principio  del  Settecento.  Forse  perchè  divenuta  noiosa 
a  furia  di  ripetersi,  o  forse  perchè  non  trovava  più  ri- 
scontro nella  vita  ?  Certamente  ,  alla  sua  origine  ,  fu 
una  satira,  o  meglio  una  caricatura  dell'umanesimo,  del- 
l'erudito, dello  studioso  dei  classici  greci  e  latini.  Essa 
faceva  mostra  della  sua  erudizione,  un'erudizione  af- 
fastellata all'impazzata,  pappagallesca;  più  tardi,  quando 
gli  umanisti  vennero  giù  di  moda  e  s'impancarono  a 
maestri  i  linguisti  cruscanti,  il  pedante  non  sputò  più 
sentenze  latine  ,  ma  toscaneggiò.  Infine  ,  il  teatro  a 
braccia  gli  chiuse  Tuscio  sul  viso  e  il  pedante  scom- 
parve dal  suo  repertorio.  La  sua  erudizione  grottesca 
restò  al  suo  amico  il  Dottore. 

Dopo  le  Maschere  ,  venivano  gli  Innamorati  e  le 
Innamorate,  che  recitavano  sempre  in  "  toscano  " ,  poi- 
ché allora  la  lingua  comune  letteraria  d' Italia  portava 
quel  nome,  forse  per  provare  che  gl'italiani,  anche  non 
toscani ,  avevano  qualche  abitudine  col  buratto  della 
famosa  accademia  della  Crusca.  Le  Amorose  porta- 
vano, d'ordinario,  il  nome  di  Flaminia,  d'Isabella,  di 
Lucinda,  di  Lavinia.  Molte  Amorose  perdevano  spesso 
il  nome  della  propria  famiglia  per  assumere  quello  del 
personaggio  che  rappresentavano,  come  oggi  parecchi 
attori,  specie  in  Francia,  entrando  in  arte ,  prendono 
uno  pseudonimo.  Gli  ^morosi  si  chiamavano  Lelio, 
od  Orazio,  o  Flavio.  Le  Rosaure  e  i  Florindi  non  ar- 
rivarono che  assai  tardi  sulla    scena    comica  italiana. 


—    157  — 

Parti  non  meno  importanti  delle  precedenti ,  seb- 
bene ritenute  secondarie,  erano  quelle  delle  servette^ 
che  nel  Cinquecento  e  in  parte  del  Seicento  si  chia- 
mavano fantesche.  Erano  fior  di  ragazze  o  di  don- 
nine che  avevano  tutta  la  spigliatezza  e  la  furberia  di 
Coviello  e  di  Brighella.  Non  erano  mai  sciocche  come 
Pulcinella  o  Arlecchino  ;  erano  mezzane  abilissime, 
ombra  dell'ombra  delle  loro  padrone,  delle  quali  se- 
guivano sempre  le  sorti,  come  ne  dividevano  le  sim- 
patie e  le  antipatie  :  fatte  per  amare  per  tutti  i  tre  atti 
della  commedia,  amano  disperatamente,  s'intende.  Bri- 
ghella o  Arlecchino,  Coviello  o  Pulcinella,  che  alla 
fine  dell'azione  scenica  sposano  come  le  loro  padrone 
sposano  i  Leli  e  gli  Orazi.  Sono  bugiarde,  e  in  que- 
st'arte sono  incomparabili,  ma  non  adoperano  la  bugia 
che  a  fin  di  bene ,  o  ,  meglio ,  per  coprire  gli  amori 
delle  loro  padroncine  sempre  avversate  da  un  padre 
burbero  o  avaro.  Maestre  nel  nascondere  un  biglietto 
amoroso  nel  petto  o  sotto  il  grembiule,  non  sono  meno 
maestre  nell'  arte  di  farlo  scivolare  nelle  mani  della 
padrona  senza  che  se  ne  accorga  un  amante  non  gra- 
dito o  un  genitore  sospettoso.  Precorrendo  il  telegrafo 
elettrico  e  il  telegrafo  senza  fili,  si  servono  delle  loro 
mani  come  dei  loro  occhi  per  parlare  un  linguaggio 
muto,  cbe  se  non  diceva  nulla  ad  un  marito  ingan- 
nato o  ad  un  padre  tagliato  alla  grossa,  aveva  il  suo 
eloquente  significato  per  un  innamorato  :  così  esse  sa- 
pevano scongiurare  a  tempo  un  pericolo,  far  cambiare 
opportunamente  discorso,  prevenire  l'arrivo  di  una  per- 
sona molesta,  far  pigliare  la  via  dell'uscio    ad  un  a- 


—   158  — 

mante  per  non  essere  sorpreso  in  un  colloquio  intimo. 
Ma  delle  mani  non  si  servivano  solo  per  parlare  co- 
desto loro  muto  linguaggio  ;  se  ne  servivano  anche  per 
picchiare  i  loro  amanti,  se  infedeli  o  ritenuti  infedeli, 
come  anche  le  loro  rivali  con  le  quali  spesso  si  az- 
zuffavano come  galletti.  Si  chiamavano  Pasquette,  Fran- 
ceschine,  Turchette,  Diamantine,  Riccioline,  Coralli- 
ne, Colombine.  Sotto  qualcuno  di  codesti  nomi ,  più 
d'una  attrice  divenne  famosa.  Tutta  una  generazione 
di  Colombine  fornì  la  famiglia  Biancolelli  che  recitava 
a  Parigi  :  Caterina  e  Teresa  Biancolelli.  La  più  ce- 
lebre fu  la  seconda  ,  figlia  di  Domenico  ,  detto  Do- 
minique, famoso  Arlecchino.  Era  piccola,  bruna,  di  a- 
spetto  piacente;  ma  possedeva  qualche  cosa  di  più  della 
bellezza  :  aveva  la  iìsonomia  intelligente,  l'aria  distinta,  i 
il  gesto  facile  ,  svelto  ,  la  voce  dolce  ,  graziosa.  Era 
nata  nel   1665,  e  si  ritirò  dalle  scene  nel   1697   (1).  - 


(I)  Sand,  op.  cit.  voi.  I,  pp.  213  e  segg. 


CAPITOLO  QUINTO 

Il  Costume  dei  Personaggi  della   Commedia  dell'Arte 


Il  costume  dei  personaggi  della  commedia  del- 
l'arte è  troppo  intimamente  legato  alle  vicende  della 
stessa  commedia  perchè  non  se  ne  discorra,  anche  bre- 
vemente, in  questo  nostro  lavoro.  Non  diremo  però 
cose  nuove,  e,  in  generale,  seguiremo  quanto  ne  scrisse 
Maurizio  Sand  nella  sua  opera  :   Masques  et  Buffons. 

Il  costume  ha  la  sua  importanza,  sopratutto,  perchè 
con  esso  si  volle,  in  un  certo  modo,  ritrarre  il  carat- 
tere del  personaggio  che  lo  indossava.  Ne  riassumeva 
quasi  le  linee  principali. 

Fra  tutti  i  costumi ,  quello  di  Pulcinella  ha  solle- 
vato maggiori  questioni  che  si  riattaccano  all'  origine 
o  provenienza  della  maschera  stessa.  Parecchi  scrit- 
tori ,  difatti  ,  vogliono  far  discendere  Pulcinella  dal 
Maccus  delle  Atellane,  il  mimus  albus,  non  solo  per 
certe  rassomiglianze  fra  l'uno  e  l'altro  personaggio,  per 
esempio,  la  maschera  col  naso  ad  uncino,  ma  anche 
pel  colore  (bianco)  dell'abito. 


—   160  — 

Ma  Benedetto  Croce,  che  non  crede  a  siffatta  discen- 
denza per  difetto  di  documentazione,  pur  riconoscendo 
come  più  d'un  tratto  del  personaggio  sia  comune  alle 
due  maschere,  dubita  che  Pulcinella  abbia  sempre  in- 
dossato Io  stesso  costume,  dopo  che  Silvio  Fiorillo  gli  | 
diede  celebrità  sulle  scene.  S*  ignora  ,  per  esempio, 
quale  fosse  il  costume  preciso  della  stessa  maschera 
fìorilliana.  Nei  Balli  di  Sfessania,  del  Callot,  al  Pul- 
cinella mancano  alcuni  tratti  caratteristici:  il  coppolonty 
cioè,  il  cappello  di  feltro  a  forma  conica  e  senza  tese 
manca  assolutamente  ;  non  porta  il  suo  bastone  ridi- 
colo, ma  la  daga,  ed  ha  i  baffi.  Il  camicione  e  i  cal- 
zoni sono  presso  a  poco  i  medesimi  che  in  seguito 
sempre  indossò,  e  la  maschera ,  o ,  meglio,  la  mezza 
maschera,  è  quella  da  tutti  conosciuta,  sebbene  nulla 
si  possa  dire  sul  suo  colore.  Sulla  fine  del  Seicento, 
il  Perrucci  ne  fece  la  seguente  descrizione  :  "  Tutto 
un  pezzo  ,  sgarbato  di  persona  ,  con  naso  adunco  e 
lungo  ,  sordido  e  melenso....  con  un  sacco  a  guisa 
di  villano  (1)  ".  Il  suo  costume  comincia  a  diventare 
non  dissimile  da  quello  moderno  nei  primi  anni  del 
Settecento,  come  si  può  vedere  in  una  incisione  del- 
VHistoire  du   Thèàtre  Italien,  di  Luigi  Riccoboni. 

Scrive  il  Sand  che  il  comico  Argieri,  romano,  nel  f 
Seicento ,  e  dopo  il  Fiorillo  ,  rappresentava  a  Parigi 
la  parte  del  Pulcinella  col  seguente   costume  :  cami- 
ciotto bianco  assai  largo  ;  calzoni  larghi  a  grandi  pie- 
ghe ;  scarpe    di   cuoio  ;  maschera  nera    con    barba   e 

(l)Op.  cit.  p.  200. 


—   161   — 

lunghi  baffi  ;  in  testa,  una  berretta  bianca  e  sopra  un 
enorme  cappello  largo  con  le  tese  rialzate  quasi  iden- 
tico ai  cappelli  che  si  portarono  sotto  Luigi  XI.  Ma, 
in  Francia,  Pulcinella  cambiò  quasi  subito  costume  : 
col  Barban^ois  (1645),  comico  della  compagnia  al  ser- 
vizio del  cardinale  Mazzarino,  Pulcinella  indossa  giub- 
ba e  calzoni  di  due  colori  ,  giallo  e  rosso  ,  orlati  di 
un  gallone  verde  ;  berretto  e  mantello  corto  all'  ita- 
liana ;  ha  sempre  la  maschera  nera  col  naso  ad  un- 
cino e  porta  i  baffi.  Sempre  lo  stesso  Sand  afferma 
che  allora  in  Italia  il  costume  di  Pulcinella  si  piegò 
verso  il  modello  francese  ;  il  brioso  personaggio  par- 
tenopeo fu  rappresentato  panciuto,  serrato  nel  suo  ca- 
micione  tutto  abbottonato  sul  davanti ,  calzoni  larghi 
alquanto  corti,  la  maschera  nera,  il  naso  protuberante 
con  in  cima  un  grosso  porro,  un  largo  colletto  bianco, 
cappello  grigio,  alto  e  con  le  tese  larghe,  e  bastone. 
11  vestito  è  tutto  in  tela  bianca.  Infine,  Carlo  Magnin 
citato  dal  Sand,  verso  la  metà  dell'Ottocento  descri- 
veva il  Pulcinella  del  San  Carlino  di  Napoli  nel  modo 
seguente  :  "  Le  Pulcinella  de  Naples  ,  grand  gargon 
aussi  droit  qu*  un  autre,  bruyant,  alert,  au  long  nez 
crochu,  au  demi-masque  noir,  au  bonnet  gris  et  pira- 
'  midal,  à  la  camisole  bianche,  sans  fraise,  au  large  pan- 
talon  blanc  plissé  et  serre  à  la  cinture  par  une  cor- 
delière  à  la  quelle  pend  une  clochette...  ".  E  il  co- 
stume che  da  quasi  due  secoli  Pulcinella  ha  indos- 
sato.  Il  Magnin  dimenticò  d'aggiungervi  il  bastone. 

Arlecchino ,  diciamo  così  ,  il  Pulcinella  dell'  Italia 
superiore,  come  quest'ultimo  è  l'Arlecchino  dell'Italia 

0\Cel  Regno  delle  JliCaschere  1 1 


—   162  - 

inferiore,  ha  un  costume  che  per  alcuni  risale  al  teatro 
comico  latino.  Secondo  costoro  esso  prenderebbe  ori- 
gine da  quello  che  indossava  il  mimus  centunculus,  il 
mimo  dall'abito  rattoppato  a  vari  colori.  In  una  inci- 
sione riportata  dal  Riccoboni  nella  sua  opera,  egli  porta 
una  giubba  aperta  sul  davanti  ed  allacciata  con  vec- 
chi nastri  ;  i  suoi  calzoni  sono  stretti ,  tutti  rattoppati 
con  stoffe  di  colori  diversi,  come  ugualmente  rattop- 
pata con  stoffe  multicolori  è  la  giubba.  Ha  la  barba 
corta,  ispida,  la  mezza  maschera  nera  e  un  berretto 
alla  foggia  di  quelli  in  uso  sotto  Francesco  1.  Non  ha 
camicia  sotto  la  giubba,  porta  alla  cintura  una  spada  di 
legno  e  una  borsa.  Correva  voce  che  la  maschera  de- 
gli Arlecchini  italiani  che  recitavano  a  Parigi,  fosse 
stata  disegnata  dal  divino  Michelangelo,  il  quale  ne 
avrebbe  preso  1*  idea  dalla  testa  di  un  vecchio  sa- 
tiro. Nel  Seicento,  e  propriamente  dopo  il  celebre  Do- 
menico Biancolelli  detto  Dominique,  il  costume  d'Ar- 
lecchino, in  Francia,  subì  alcune  modificazioni:  la  giub- 
ba, raccorciandosi,  diventò  giubbetto,  i  calzoni  si  fe- 
cero più  stretti ,  le  toppe  di  vari  colori  diventarono 
losanghe,  e  molto  grandi;  non  mutò  la  maschera,  ne  il 
cappello,  il  quale  conservò  sempre  come  segno  carat- 
teristico la  coda  di  conigHo,  ne  la  spada,  ne  il  cin- 
turino. 

Il  costume  di  Brighella,  nel  Cinquecento  e  nel  Sei-v 
cento,  si  componeva  d'un  giubbetto  e  di  larghi  cal- 
zoni di  tela  bianca,  d'un  berretto  con  gallone  verdi 
e  d'un  mantello  :  i  calzoni  e  il  giubbetto  erano  filet- 
tati d'un  galloncino  verde.   Portava    come    Pulcinelh 


—   163  — 

ed  Arlecchino  la  mezza  maschera,  ma  non  nera  ;  era 
d'un  color  olivastro  con  barba.  Più  tardi  il  costume 
subì  parecchie  modificazioni. 

Il  costume  del  Capitano  mutò  secondo  i  tempi,  con- 
servando però  nel  suo  insieme  una  certa  aria  milita- 
resca e  da  don  Giovanni  con  una  grossa  punta  di  ca- 
ricatura. Il  vecchio  capitano  portò  casco    o    morione, 
s' intende,  esuberantemente  piumato,  pettorale  di  pelle 
di  bufalo  e  spadone  come    quello    dei    guerrieri  me- 
dievali.   Venuto    poscia    di   moda    il    Capitano    spa- 
gnuolo  ,    il  suo    costume    fu    la  caricatura    di    quello 
degli  ufficiali   dell'  esercito    di    S.    M.    Cattolica.   Un 
Capitano  Tagliacantoni,  italiano ,   e  rappresentato  dal 
Callot  in  abito  stretto  alla  vita,  con  cappello  piumato 
e  nastri  annodati  con  galante  pretenzione  alle  gambe, 
pronto  a  sfoderare  il  suo  terribile    spadone    per  sbu- 
dellare Arlecchino    o    Burattino.    Sempre    nelle  inci- 
sioni del  Callot  ;  ecco     il  Capitano    Bombardone  :  ha 
gli  abiti  larghi,   stivali  dai  gambali   rovesciati ,   spada 
al  fianco,   cappello  piumato  ;  ecco    Capitan  Zerbino  : 
è  enormemente   impennacchiato  ,    porta    sul    viso  una 
maschera  con  occhiali,  mentre  con  la  punta  della  sua 
terribile  durlindana  minaccia  il  cielo  alzando  così  in- 
sieme al  suo  braccio  destro  una  parte    del    mantello. 
Ecco   ancora  due  altri  Capitani  ;  sono  il  Capitano  Bel- 
lavita  e  il  Capitano  Malagamba  :  portano  al  collo  im- 
mense  gorgiere  spagnuole  fortemente  insaldate  e  giar- 
rettiere sgargianti,  pompose. 

Il  Capitano  Spavento    (il    celebre    Francesco   An- 
dreini,  l'autore  delle  Bravure),  verso  il  1 577,  indos- 


—   164  — 

dossava  :  giustacuore  e  brache  a  strisce  gialle  e  rosse,  | 
bottoni  e  laccetti  dorati  ,  mantello  rosso  scarlatto  fo- 
derato di  stoffa  gialla  e  filettato  d'oro,  giarrettiere 
gialle  con  frangia  d'  oro  ,  scarpe  di  cuoio  giallo  con 
rosette  gialle,  calze  rosse,  cappello  di  feltro  rosso  orlato 
d'un  cordoncino  d'oro  con  piume  rosse  e  nastri  gialli, 
giubba  color  fragola  e  polsini  a  piccoli  cannelli,  duri. 

11  pittore  Bernardino  Poccetti  lo  introdusse  in  una 
lunetta  (la  ventesimaseconda)  del  Chiostro  della  SS. 
Annunziata  di  Firenze  :  l'  Andreini  (una  figura  alta, 
un  po'  stecchita,  col  capo  un  po'  inclinato  sulla  spalla 
destra)  veste  il  costume  spagnuolo  e  tiene  ferme  le* 
mani  sull'elsa  del  lungo  spadone  (1).  Ha  piuttosto 
l'aria  d'un  nobile  e  malinconico  gentiluomo  che  d'un 
istrione. 

Il  Capitano  Spezzaferro  (Giuseppe  Bianchi,  morto 
a  Parigi  nel  1680)  portava  il  costume  della  Corte  di 
Enrico  IV  :  cappello  rotondo  piumato,  baffi  e  barba, 
grande  gorgiera  ,  sottoveste  e  brache  larghe.  In  se- 
guito modificò  il  suo  costume  :  portò  legata  la  sua 
spada  ad  un  grosso  cinturone  di  cuoio  e  la  foggia 
degli  abiti  fu  quella  dei  gentiluomini  dei  tempi  di 
Luigi  XII  con  un  cappello  di  feltro  grigio  dalle  lar- 
ghe tese  rialzate  ed  una  piuma.  Più  tardi,  in  Fran- 
cia, il  costume  del  Capitano  si  foggiò  su  quello  dei 
soldati  del  tempo  :  tricorno  in  testa ,  capelli  lunghi 
trattenuti  in  una  reticella  da  un  nastro,  abito  a  falde 
rialzate. 

(1)  Rasi,  /  Comici  Italiani,  voi.  I,  p.  87. 


-   165  — 

Giangurgolo  ,  che  fu  anche  Capitano  (il  Capitano 
Calabrese),  portò  un  cappello  di  feltro  a  cono,  presso 
a  poco  come  più  tardi  furono  rappresentati  i  banditi 
delle  Calabrie,  spadone,  giustacuore,  brache  e  calze 
a  liste  gialle  e  rosse. 

L.' Innamorato  della  commedia  dell'  arte  corrispon- 
deva all'amoroso  e  al  primo  attor  giovane  della  com- 
media moderna,  come  l' innamorata  corrispondeva  alle 
nostre  prime  attrici  giovani  e  alle  nostre  amorose.  L' In- 
namorato ,  che  doveva  essere  sempre  giovane  e  di 
beli'  aspetto  ,  era  1'  elegante  ,  anzi  l' elegantone  della 
compagnia  e  indossava  abiti  del  miglior  taglio  possi- 
bile e  alla  moda  del  giorno  ,  salvo  nei  travestimenti 
allora  numerosi  sulla  scena  della  commedia  a  soggetto. 
"  Les  portraits  —  scrive  il  Sand  —  qui  nous  sont  par- 
venus  nous  montrent  des  beaux  hommes  ,  habilés  à 
la  dernière  mode  de  leur  temps  "  (1). 

Essendovi  sempre  nella  compagnia  oltre  Vlnnamo- 
rato  comico,  quello  serio,  il  costume  del  secondo  era 
più  ricco,  più  decoroso  ,  con  una  punta  di  dignitosa 
I  serietà,  che  non  faceva  venir  meno  la  sua  eleganza. 
Uno  dei  più  antichi  Innamorati  della  commedia  del- 
l'arte fu  certamente  Flavio  ,  nome  teatrale  di  Flami- 
nio Scala.  Codesto  nome  d'  amoroso  non  era  nuovo 
sulla  scena  italiana ,  poiché  un  giovane  Flavio  rap- 
presenta la  parte  d'amoroso  nella  %Jaccaria,  comme- 
dia del  Ruzzante  (1533)  ;  ma  questi  non  scrisse  com- 
medie a  soggetto.  Se  non  che  ,  nessun   ritratto  dello 

(I)  Op.  cit.,  p.  301. 


—   166  — 

Scala  in  costume  di  Lelio  è  pervenuto  a  noi  ;  d'un 
altro  Lelio,  però  dei  primi  anni  del  Settecento,  dà  il 
ritratto  Maurizio  Sand  :  cappello  di  feltro  nero  filet- 
tato d*un  cordoncino  d'oro  con  penne  bianche,  capelli 
senza  cipria  trattenuti  da  un  nastro  nero  ,  abito  di 
satin  nero  con  rovesci  ugualmente  di  satiny  ma  color 
rosso  ciliegia  ,  sottoveste  di  satin  bianco  ricamato  in 
oro  e  con  pagliuzze  parimenti  d'oro,  colletto  e  polsini 
bianchi  a  piccoli  cannelli,  brache  nere,  calze  bianche, 
scarpette  nere  con  fibbie  d'oro.  Un  costume  d' Ora- 
zio del  1645  :  questi  che  è  Marco  Romagnesi  ,  in- 
dossa il  costume  dei  tempi  del  Cardinale  Mazzarino  ; 
ha  maniere  d'un  perfetto  gentiluomo  :  ha  baffi  e  bcirba 
à  la  rodale,  taglio  di  barba  inventato  da  Luigi  XIII, 
il  quale  impose  ai  gentiluomini  della  sua  corte  che 
tutti  portassero  la  barba  tagliata  a  quel  modo  ,  cioè, 
riducendola  ai  soli  baffi  e  ad  un  moschettone  sul  mento; 
per  la  qualcosa  un  poeta  anonimo  cantò  : 

"  Hélas  !  ma  pauvre  barbe, 
Qu'est-ce  qui  t'a  faite  ainsi  ? 
C'est  le  grand  roi  Louis, 
Treizième  de  ce  nom 
,  Qui   toute  a  ébarbé  sa  maison  ". 

Per  completare  il  predetto  costume  aggiungiamo  i 
seguenti  particolari  :  giustacuore  color  celeste  tenero, 
con  rovesci  di  satin  bianco  ,  gallonato  e  ricamato  in 
oro  ;  nastri  di  seta  azzurro-cielo  ;  colletto  e  polsini  di 
trina  ;  porta  spada  azzurro-cielo  ed  argento  ;  brache 
di  satin  bianco  gallonate  in  argento  ,  calze  bianche  in 


-    167  - 

seta  ;  scarpe  di  pelle  bianca  ;  cappello  di  feltro  con 
galloni  d'argento  e  piume  bianche  ;  spada  con  fodero 
bianco  ;  bastone  dal  pomo  d'argento  ;  guanti  bianchi. 

Il  costume  di  Pantalone,  sebbene  in  qualche  parti- 
colare abbia  subito  ,  attraverso  i  tempi  ,  delle  varia- 
zioni, pure  per  parecchie  generazioni  d'artisti  fu  quello 
dei  vecchi  mercanti  veneziani  :  calzoni  e  calze  tutti 
d'un  pezzo,  stretti  ed  aderenti  al  corpo,  di  color  rosso  ; 
giubbetto  egualmente  rosso  serrato  alla  vita  ;  grande 
zimarra  che  fu  rossa  sino  alla  perdita  dell'  isola  di 
Negroponte  conquistata  su  Venezia  dai  Turchi ,  poi 
in  segno  di  lutto  nazionale,  nera;  scarpette  gialle,  di 
pelle,  con  la  punta  lunga  e  rialzata  ;  in  testa  un  ber- 
retto rosso  a  punta  ricurva^  arieggiante  un  po'  il  corno 
ducale.  Maschera,  o  mezza  maschera:  nera,  con  naso 
lungo,  adunco  :  baffi  e  pappafico  lunghi,  bianchi  ;  ca- 
pelli bianchi,  spioventi  sulle  spalle. 

Il  costume  del  Dottore  fu  quasi  sempre  quello  d'un 
giureconsulto  o  d'un  medico,  o  d'  un  professore  uni- 
versitario dei  tempi  in  cui  fiorì  la  commedia  a  sog- 
getto :  zimarra  nera,  brache  nere,  calze  nere,  cintura 
di  cuoio  con  borsa  ,  cappello  nero  o  berretta  dello 
stesso  colore.  In  un  disegno  degli  Scenari  della  Cor- 
siniana  di  Roma,  il  Dottore  porta  nella  destra  un  paio 
di  guanti  neri,  grandi;  ma  nel  1753,  a  Parigi,  Ago- 
stino Lelli  lasciò  il  vecchio  costume  ,  prese  i  calzoni 
corti,  la  sottoveste  alla  Luigi  XIV,  un  cappello  con 
le  tese  più  o  meno  stravagantemente  appuntate  ,  la- 
sciando l'antica  berretta  dottorale. 


—  168  - 

Il  costume  delle  Innamorate  e  delle  servette  era 
quello  dei  tempi. 

Infine  ,  ecco  come  il  Goldoni  ,  nel  cap.  XXIV, 
parte  seconda,  delle  sue  Memorie,  descrive  il  costu- 
me che  portavano  ai  suoi  tempi  le  quattro  principali 
maschere  della  commedia  :  Pantalone,  il  Dottore,  Bri- 
ghella ed  Arlecchino.  S' intende  ch'egli  parlava  della 
scena  comica  dell'Italia  superiore. 

Pantalone  ;  antico  costume  veneziano  ,  cioè  ,  veste 
nera,  berretto  di  lana  ,  camiciola  rossa  e  calzoni  ta- 
gliati a  mutande  con  calze  ugualmente  di  color  rosso, 
pianelle ,  barba  tagliata  con  caricatura  e  quindi  ri- 
dicola. 

Dottore  ;  abito  a  foggia  di  quello  dell'antica  curia 
bolognese,  maschera  che  copre  la  fronte  e  il  naso  con 
macchia  rossastra  su  d'una  guancia,  ricordo   del  viso 
d'un  vecchio  giureconsulto  bolognese  che  aveva  pre-    | 
cisamente  sulla  guancia  una  voglia  di  vino. 

Brighella  ;  livrea  e  maschera  nerastra. 

Arlecchino  ;  abito  da  straccione  con  toppe  di  di- 
versi colori,  cappello  vecchio,  gualcito  con  una  coda 
di  lepre,  alla  foggia  dei  contadini  del   Bergamasco. 


CAPITOLO  SESTO 

L'Arte  nella  Conimedia  dell'  Arte 


Per  "  figli  dell'arte  "  nel  linguaggio  del  palcosce- 
nico s'intendeva  e  s'intende  :  comici  nati  da  comici, 
nati  quasi  sulle  scene  e  in  queste  educati  nell'  arte 
dei  loro  genitori.  La  scena  è  così  per  loro  scuola, 
palestra  d'  educaziene  artistica.  L'  arte  ,  la  respirano 
quasi  nascendo. 

Tali  erano  i  comici  della  commedia  a  soggetto  ; 
e  forse  quasi  tutti,  poiché,  allora,  per  quella  nota  di 
indegnità  che  colpiva  il  mondo  comico  ,  questo  non 
facilmente  riceveva  dal  di  fuori  nuovi  elementi  :  esso 
era  diviso  dal  resto  della  società  da  una  specie  di 
muraglia  ;  viveva  da  se,  per  se.  Le  nuove  forze  non 
le  attingeva  che  dal  basso,  da  una  società  non  dissi- 
mile dalla  sua  e  non  meno  della  sua  disprezzata,  il 
piccolo  ed  oscuro  mondo  dei  saltatori  di  corda,  de- 
gli istrioni  da  piazza,  degli  acrobati,  ecc.  ecc.,  i  quali, 
se  forniti  di  buone  attitudini,  attingevano  spesso,  nel- 
l'arte, la  celebrità.  Ciò  nonostante  non  mancavano  co- 


—   170  — 

loro  —  e  chi  ci  legge  deve  essersene  accorto  —  che 
dettavano  o  raccoglievano  precetti  sul  modo  migliore 
di  recitare. 

Uno  di  codesti  precettisti  fu  Andrea  Ferrucci  ,  il 
cui  nome,  in  questo  nostro  lavoro,  è  stato  spesso  ci- 
tato. Nato  a  Palermo  nella  prima  metà  del  sec.  XVII, 
visse  quasi  sempre  a  Napoli  e  scrisse  pel  teatro. 
Scrisse  versi,  commedie  ,  pastorali  ed  anche  drammi 
sacri,  uno  dei  quali,  la  Nascita  del  X)erho  UmanatOy 
entrò  nel  repertorio  popolare  e  fu  rappresentato  a  Na- 
poli sino  a  pochi  anni  addietro,  la  notte  di  Natale  ; 
un  dramma  arieggiante  i  vecchi  Misteri  e  dove,  co- 
me ricorda  il  Croce,  la  parte  del  napoletano  era  rap- 
presentata da  Razzullo,  scrivano  del  tribunale.  Oltre 
deWylrte  Rappresentativa  premeditata  ed  improvvisa, 
che  mandò  alle  stampe  ,  scrisse  molto  per  quei  tali 
Zibaldoni  di  cui  abbiamo  spesso  parlato,  rendendosi 
così  utile  a  tanti  comici,  i  quali,  fìngendo  d'improv- 
visare, non  facevano  che  ripetere  la  prosa  del  nostro 
scrittore  ;  sembra,  anzi,  che  il  Ferrucci,  come  mani- 
polatore e  fornitore  di  ^rime  Uscite ,  Saluti  ecc., 
abbia  goduto  d'una  certa  celebrità,  se  egli ,  nel  suo 
libro,  scrisse  di  se  e  dei  suoi  lovori  come  appresso  : 
"  Tratto  ancor  io  dalla  corrente,  avendo  ritrovato  in 
uso  i  versi  che  allettano  l'orecchio  ,  mi  sono  indotto 
a  far  tutte  le  sudette  composizioni  alle  volte  in  versi, 
ritrovandosi  una  gran  quantità  di  mie  prime  uscite, 
disperazioni,  dialoghi  di  tal  maniera  ,  e  con  le  rime 
spesseggiate  ,  e  ne  danno  intorno  tante  ,  che  hanno 
infettato  non  solo   le  Accademie  ,    ma    anche  i  pub- 


—    171    - 

blici  teatri  ,  avendo  alle  volte  dovuto  con  pazienza 
ascoltare  in  bocca  di  stolti  e  d'  ignoranti  i  parti  del 
mio  povero  ingegno,  di  maniera  troppo  stroppii...  Oggi 
mi  par  che  non  solo  per  Napoli  e  Sicilia,  ma  forse 
per  tutta  la  Lombardia  ,  altro  non  si  ascolta  che  la 
T^rima  Uscita  del  Pensiero  che  comincia  :  Lasciate- 
mi ,  o  pensieri  ;  della  Speranza  :  CK  io  mi  pasca  di 
speme;  della  Gelosia:  Ardo,  misero,  e  gelo;  della 
Bellezza  della  sua  donna  ;  Oro  che  tratto  dall'indica 
miniera,  amo...  Che  dissi?  Adoro;  deW  Amante  ta- 
cito :  Ove  t'inoltri,  o  Luzio  ;  con  le  Disperazioni  :  A 
che  badi ,  a  che  pensi  ?  Occhio  mio  che  vedesti  ?  ed 
infinite  altre  composizioni  ,  che  per  compiacere  così 
al  proprio  genio ,  come  ad  istanza  d'  altri  mi  sono 
uscite  o  scappate  dalla  penna.  Così  i  Dialoghi  :  Che 
pensi  ?  Che  risolvi  ?  Che  vedo  ?  Che  miro  ?  del  Ri- 
tratto, quello  del  Pastor  Fido  che  comincia  :  Dimmi 
mia  vaga  Dea  (1).  " 

Di  codesto  scrittore,  dunque,  vogliamo  qui  presen- 
tare una  breve  raccolta  di  precetti,  i  quali  ci  daranno 
un'  idea,  molto  approssimativa,  s'  intende,  di  ciò  che 
fosse  un  artista  comico  del  secolo  XVII ,  o  meglio, 
come  si  disegnasse  la  figura  del  perfetto  artista  co- 
mico nella  mente  d*  uno  scrittore  di  regole  sull'  arte 
di  recitare  nel  secolo  XVII. 

Tralasciando  tutta  quella  parte  che  nell'opera  del 
Ferrucci  si  riferisce  ai  diversi  generi  teatrali  e  alla 
forma  dei  teatri,  saltiamo  subito  alla  regola  sesta  della 

(1)  Op.  cit.,  pp.  237-38. 


-  172  — 

^arte  prima  del  suo  trattatello.  Essa  s' intitola  :  T)ello 
scieglimento  dei  personaggi  atti  a  rappresentare.  Il 
Ferrucci  scrive  :  "  Letta  l'opera  è  di  mestieri  per  la 
scelta  dei  personaggi  atti  a  rappresentarla,  ed  in  ciò 
è  necessario  che  si  sottomettano  al  parere  di  chi  più 
ne  sa...  il  quale  conosca  in  che  riesca  buono  uno  e 
in  che  1'  altro...  ]-! Antagonista  o  Protagonista...  sarà 
quella  persona  che  avrà  più  parte  nella  faccenda,  o 
sopra  cui  cade  tutta  la  catastrofe  del  negozio...  giac- 
che non  sarà  la  parte  principale  il  primo  innamorato 
o  la  prima  dama  ma  quello  che  avrà  più  da  fare  e 
che  ha  più  luogo  nell'intreccio,  benché  fosse  vecchio 
o  buffone  o  ruffiano  ;  chi  dunque  avrà  la  voce  altera 
sarà  buono  per  un  Tiranno ,  purché  1'  accompagni  il 
personaggio  ;  chi  con  voce  flebile  accompagnerà  un 
volto  femminile,  sarà  atto  per  un  amante  appassio- 
nato ;  chi  avrà  la  voce  tenue  e  il  personaggio  gracile 
può  togliersi  la  parte  d'un  vecchio  o  d'una  vecchia; 
chi  sarà  bel  giovane ,  grazioso  ed  intendente  di  ciò 
che  dice,  si  può  prendere  la  prima  parte  degli  Eroi 
più  graditi...  A  tutti  però  v'è  d'uopo  accompagnarsi 
il  sapere,  altrimenti  saranno  tanti  pappagalli  o  scimie... 
Le  parti  graziose  e  ridicole  non  devono  darsi  ad  altri 
se  non  a  coloro  ai  quali  concesse  il  Cielo  per  spe- 
ciale benefìcio  la  grazia  ossia  le  pose  ;  perchè  un 
gesto  fatto  a  tempo,  un  motto,  un'atto  accompagnato 
dal  garbo  moverà  infallibilmente  al  riso  ;  chi  però  non 
è  condito  di  questo  sale,  dica  pure  i  motti  più  arguti, 
le  vivacità  più  belle ,    i    refrassi   (per    servirmi    d*  un 


—   173  — 

termine  spagnuolo)  più  reconditi,  gli  equivoci  più  mi- 
rabili, sarà  il  gettarsi  in  un  pozzo.  " 

Nella  Regola  Settima  il  Ferrucci  si  occupa  "  della 
pronunzia  più  atta  a  rappresentare  e  quali  difetti  si 
deggiano  avvertire  nei  diversi  idiomi  ".  Crede  che 
"  nella  nostra  Italia  non  vi  sia  chi  perfettamente  parli... 
1  fiorentini  son  tanto  difettosi  che  nulla  più ,  poiché 
oltre  che  proferiscono  nella  gola  dicendo  invece  di 
cavallo  xhavallo,  per  duca  duxha...  hanno  ancora  tanti 
vocaboli  astrusi  e  contesti  che  fanno  un  sentire  molto 
barbaro  all'orecchio...  Dunque ,  in  loro  non  è  buona 
la  lingua  naturale  se  dallo  studio  non  viene  coltivata. 
I  Senesi ,  i  Lucchesi  e  altri  toscani ,  anche  peccano 
nella  gola ,  benché  i  Senesi  qualche  poco  meno  dei 
Fiorentini.  I  Lombardi  come  sono  i  Milanesi,  i  Vi- 
centini ,  Modenesi ,  Mantovani ,  Cremonesi ,  Farmeg- 
giani ,  Bergamaschi ,  Veneziani  ed  altri  hanno  i  loro 
difetti,  non  proferendo  le  lettere  doppie...  Al  contrario 
in  alcuna  parte ,  che  richiede  la  lettera  semplice ,  la 
raddoppiano...  I  Napoletani  non  sono  senza  la  loro 
taccia,  poiché  oltre  che  proferiscono  con  gola  aperta 
facendo  che  molte  lettere  che  vanno  chiuse  aperte, 
e  molte  aperte  chiuse  con  e  largo,  quando  ha  da 
essere  stretto...  oltre  che  non  proferiscono  le  parole 
con  nd,  dicendo  monno,  profonno  per...  mondo,  pro- 
fondo... I  Siciliani  hanno  più  difficoltà  degli  altri  a 
proferire  nette  le  psu^ole  toscane...  Hanno  il  medesimo 
difetto  dei  Napoletani  del  nJ,  i  due  nn,  d'  allungar 
tutte  le  e  in  altero,  guerriero,  impero  e  Vo  in  mondo, 
gonna...  anzi  con  un'estimazione  così  grande  che  di- 


—  174  — 

cono  proferirle  bene,  non  accorgendosi  dell'enfasi  na- 
tiva... I  Bolognesi  e  Genovesi  gli  rilascio  alla  fatiga 
del  benigno  lettore ,  che  fatiga  ci  voglia  a  far  che 
sieno  sane  quelle  lingue  che  sono  mezze  per  natura  ? 
1  Romani...  non  v'  ha  dubbio  che  favellano  bene,  non 
già  la  plebe...  Quelli  della  Corte,  studiano  una  lin- 
gua pulita  ,  colta  e  svelta ,  ma ,  per  dirla,  alle  volte 
affettata...  La  lingua  dunque  più  tersa  e  buona  per 
rappresentare  in  buon  linguaggio  italiano  sarà  la  Se- 
nese per  li  vocaboli  affinato  nella  Corte  di  Roma  per 
toglierli  il  difetto  della  gola  "... 

La  Regola  Ottava  s'  intitola  T)ella  S^emoria  ed 
uso  di  essa  in  apprender  le  parti.  Ìl  Ferrucci  ci  fa 
conoscere  come  ai  suoi  tempi  Fazione  del  suggeritore 
non  fosse  continua  anche  nella  recita  della  commedia 
da  lui  chiamata  "  premeditata  ".  "E  ben  vero  che 
per  esser  la  memoria  abile  vi  è  necessario  chi  sug- 
gerisca o  soffii,  chiamati  anche  dagli  antichi  monito- 
res  ;  però  questi  hanno  da  servire  in  caso  di  bisogno, 
quando  il  rappresentante  intoppasse  o  sbagliasse  nel 
rispondere  o  proponere.  Per  mandcire  a  memoria  la 
parte  il  miglior  tempo  sarà  quello  della  sera  e  la  mat- 
tina sull'aurora  ripeterla,  perchè  le  fantasime  s' impri- 
mono con  1'  ombre  della  sera  e  poi  si  ravvivano,  ri- 
trovandosi lo  stomaco  scarico  di  umori  e  la  testa 
sgombra ,  che  esalando  dai  cibi  ingombrano  il  cer- 
vello... Deve  chi  manda  a  memoria  ricordarsi  con 
discorso,  e  pensare  contemplando  la  cosa  ripassandola 
con  intelletto  e  considerazione,  acciocché  poi  fìsso  gli 
resti    ciò  che  bave  appreso  per    poterlo  ridire,  onde 


—   175  - 

siamo  consigliati  a  notare  i  luoghi  e  le  imagini  con 
segno...  V.  gr.  se  si  tratta  di  cose  d'agricoltura, 
guerra  o  navigazione,  l'imagine  loro  saranno  la  zappa, 
la  spada,  l'aurora...  Se  il  discorso  sarà  lungo,  il  ri- 
medio sarà  dividerlo  in  particelle,  perchè  così  non  si 
confonde  nell'  immensità  la  memoria...  Il  maggior  ri- 
medio però  per  far  la  memoria  più  facile,  e  pronta,  è 
r  esercizio  e  la  fatiga,  perchè  lasciandola  stare  oziosa, 
appunto  come  il  ferro  s'  arruginisce  "... 

La  Regola  Nona  e  dedicata  a\V Azione,  la  quale 
scrive  il  Ferrucci ,  seguendo  Demostene  citato  da 
Cicerone,  è  la  voce,  il  giuoco  degli  occhi,  quello  del 
viso  e  il  gesto.  Nella  pegola  Decima  s'occupa  della 
Voce.  "  La  buona  voce  è  quella  eh'  è  dolce,  libera  e 
sonora,  uguale  al  tintinno  dell'argento  o  dell'acciaio, 
ma  che  non  faccia  uno  strepitoso  suono,  non  sia  vi- 
trea a  guisa  di  campane  rotte  e  stuonate ,  che  non 
può  in  alcun  modo  accomodarsi  all'  orecchio  anzi  lo 
offende.  I  suoi  vizii  sono  l' esclamare  urlando,  innal- 
zarsi senza  tempo,  oscurarsi  all'  improvviso,  divenir 
rauca...  Non  deve  la  voce  sempre  esser  la  stessa,  ma 
bisogna  mutarla  secondo  i  moti ,  le  passioni  dell'ani- 
mo, sarà  lucida  quando  si  proferisce  con  tutte  le  pa- 
role intiere,  e  deve  stare  attento  il  rappresentante  né 
a  precipitarle ,  ne  troncarle ,  né  confonderle  con  le 
seguenti ,  né  darci  molto  spazio  nel  distinguerle  ;  far 
che  degli  ultimi  accenti  se  ne  oda  chiaro  il  suono, 
ne  che  s' inghiottino,  o  si  tronchino  per  mancanza  di 
fiato  ;  ed  allora  che  il  periodo  sarà  lungo,  può  ritro- 
vare nel  mezzo  la  pausa  e  riposarsi...   La  voce  grande 


—   176  - 

è  tacciata,  e  deve  misurarsi  con  l'udienza  e  col  luogo 
per  non  esser  troppo  stridente,  che  stordisca,  ne  troppo 
piana,  che  non  s'intenda...  Al  contrario,  la  voce  troppo 
fragile  rende  inutile  il  rappresentante...  Deve  la  voce 
mutarsi  secondo  la  opportunità  del  tempo,  e  l'occasione 
variandosi  la  forma  del  parlare...  Dovendo  essere 
spiacevole,  ora  alta,  ora  umile,  or  gioconda,  or  dura; 
e  per  darne  qualche  distinzione  o  si  parla  con  amore, 
o  per  ira,  o  per  commiserazione,  o  con  riverenza,  o 
con  contrasto,  o  con  disperazione,  ed  essendo  la  voce 
r  interprete  della  mente,  quanto  saranno  i  moti  di  questa 
tanto  saranno  le  mutazioni  ;  così  nell'  amoroso  la  voce 
deve  portarsi  dolce  ed  alquanto  fievole  ;  nell'  ira ,  a- 
ti'oce ,  aspra  ed  interrotta  da  sospiri  ;  nella  commise- 
razione, patetica  e  grave  ;  nella  paura,  vergognosa  e 
tremula  ;  nella  forza,  veemente  ;  nel  diletto,  allegra  ; 
nell'arroganza,  alta  ;  nel  disprezzo,  più  distesa  ;  nella 
riverenza,  umile  e  piana  ;  nel  contrasto,  con  tutta  la 
forza  elevata, e  nella  disperazione  confusa...  Avanti  ai 
re  si  parli  con  rispetto,  ne  s' innalzi  la  voce  ;  e  con 
rispetto  ancora  si  parli  a  dame,  ai  maggiori,  ai  padri, 
ai  vecchi,  ai  nobili  ,  ai  padroni  ;  con  familiarità  con 
le  donne  amate,  e  con  gli  amici,  con  gli  uguali;  con 
gravità  con  i  servi  e  buffoni,  cogli  schiavi  e  sudditi, 
e  di  questa  maniera  osservando  il  costume  si  trasformi 
in  quel  personaggio  che  rappresenta...  Nei  dissensi 
sul  principio  la  voce  sia  tenue ,  nella  narrativa  più 
pronta  e  nelle  prove  più  agitata,  nelle  digressioni 
rimesse,  nella  persuasione  tenera,  nel  commuovere  a 
pietà  flebile...   Si  fugga  come  la  peste  la  cantilena  sì 


—   177  — 

perchè  offende  V  ascoltante,  sì  perchè  ha  dell'  impro- 
prio, dovendosi  rappresentare  appunto  come  si  favella... 
Si  avverta  ancora  di  cambiar  sempre  tuono...  e  se  la 
commedia  non  è  altro  che  il  decantato  specchio  della 
vita,  si  rappresenti  come  la  cosa  succedesse  e  si  parli 
come  comunemente  si  suole  per  la  città  ". 

La  Regola  Decima  è  consacrata  al  gesto.  "  11  ge- 
stire accompagnando  la  voce...  ed  essendo  un  muto 
parlare  alle  volte  più  esprime  un  atto  muto  ed  un 
gesto  che  la  parola  istessa...  Deve  alla  voce  susse- 
guire il  gesto,  ma  devono  uscire  ed  essere  così  riuniti 
a  tempo,  ed  ubbidire  alla  voce  il  gesto,  che  niente 
di  superfluo  vi  sia...  E  poiché  ogni  parte  del  corpo 
ha  di  mestieri  di  regola  sarà  necessario  che  di  cia- 
scuna di  esse,  si  faccia  menzione  particolare...  Si  co- 
minci dalla  testa.  Il  levarsi  del  cappello  deve  f£U"si 
con  grazia  e  con  nobiltà  accompagnata  con  la  rive- 
renza all'uso  però  del  personaggio  che  si  rappresenta 
di  qual  paese  si  sia,  cioè  lo  spagnuolo  col  portare  il 
cappello  al  petto,  con  la  concavità  al  di  dentro,  ac- 
ciocché non  paia  che  chieda  1'  elemosina  e  facendo 
riverenza  coi  piedi  incrocicchiando  le  gambe,  movendo 
il  piede  destro  in  circolo  al  tallone  sinistro  ,  quando 
si  fa  riverenza  al  cielo ,  e  quando  agli  uomini  dal 
sinistro  al  destro,  inchinandosi  con  star  diritto  il  petto 
e  la  testa.  Alla  Francese,  stando  fermo  coi  piedi,  op- 
pure, ritirandoli  l'uno  dopo  l'altro  un  poco  a  dietro, 
si  cava  il  cappello  portandosi  al  petto,  ed  incurvan- 
dosi con  la  testa  e  vita  verso  a  chi  si  fa  riverenza. 
All'Italiana  si  fa  un  misto  dei  due  costumi...  All' A- 

S^el  Regno  delle  S'iiCaschere.  12 


—  178  — 

siana    senza    togliersi  il  turbante  si  porta  la  mano  al 
petto  inchinandosi  con  la  testa  "... 

"  lì  volto  si  muta  cogli  affetti ,  a  cui  obbediscono 
gli  occhi,  le  palpebre,  le  guancie,  le  ciglia,  la  bocca; 
la  maggiore  espressione  però  la  faranno  gli  occhi.  Le 
ciglia  sono  viziose  allora  che  stanno  sempre  immobili,  M 
e  viziose  quando  troppo  si  muovono...  incurvarle  ed 
incresparle  si  fa  negli  atti  di  meraviglia,  ma  con  modo, 
che  non  ecceda  i  limiti...  Gli  occhi  sono  le  finestre 
del  cuore,  gli  specchi  dell'  anima,  gli  indici  dei  co- 
stumi... Ci  son  prova  gli  occhi  di  ciò  che  è  dentro 
nascosto  col  mostrarsi  o  lieti  o  mesti  o  benigni  o  se- 
veri o  stupidi  o  lascivi...  Sieno  per  tanto  gli  occhi 
gravi,  modesti  nelle  donne,  brillanti  negli  innamorati, 
arguti  nei  servi  astuti ,  dimessi  nei  servi  sciocchi  ; 
esprimano  con  vezzi  gli  amori ,  domandino  colle  la- 
grime pietà  "... 

"  Il  naso  e  le  labbra  non  si  devono  toccare,  mun- 
gere, ne  mordere,  ma  tenerli  sodi,  e  muoverli  a  tempo 
e  modo  ;  non  si  deve  forbire  il  naso,  od  in  caso  di 
necessità  lo  faccia  con  gentilezza  nel  fazzoletto,  senza 
strepito...  Così  non  si  permette  lo  sputo  se  non  nel 
moccichino;  non  si  rutti,  non  si  sbadigli...  e  se  fosse 
astretto  a  farlo.  Io  faccia,  coprendosi  la  bocca  con  la 
mano  in  modo  che  non  si  veda...  e  così  dico  delle 
altre  azioni  immodeste  e  illecite ,  lasciando  qualche 
licenza  ai  buffoni...  Stia  la  cervice  retta,  ne  il  collo 
si  distenda...  Gli  omeri  non  si  innalzino  e  si  abbas- 
sino perchè  è  un'azione  servile,  ed  un  gesto  da  Zan- 
ni.  Il  petto  stia  anche  diritto  e  non  incurvato,  se  non 


—   179  — 

quando  rappresentasse  un  vecchio...  Ma  perchè  l'arte 
del  gestire  consiste  sopratutto  nei  gesti  delle  mani 
e  delle  dita,  di  questi  alquanto  più  diffusamente  bi- 
sogna discorrere.  Del  muovere  le  braccia  si  abbia  ri- 
guardo a  farlo  con  moto  più  violento  nelle  contese , 
con  rimesso  nel  familiare...  Non  devono  le  mani  in- 
nalzarsi più  degli  occhi,  ne  scendendo  passare  il  petto; 
per  traverso  che  la  destra  non  trapassi  V  omero  sini- 
stro, la  mano  sinistra  non  gestisca  mai  senza  la  destra, 
ma  le  sia  come  compagna  e  serva...  Nel  maneggiare 
un  bastone,  dardo  o  altre  armi,  si  faccia  con  leggia- 
dria ,  appoggiandovisi ,  passandoli  dall'  una  all'  altra 
mano,  e  vi  si  possono  fare  bellissime  azioni...  I  gesti 
con  tutte  due  le  mani  si  fanno  quando  s'  innalzano 
al  cielo  per  adorarlo  o  quando  s'abbassano  per  sup- 
plicare... Batter  le  mani  e  ferir  il  petto  è  proprio 
delle  donne,  e  non  degli  uomini  particolarmente  saggi  ; 
mandar  fuori  il  petto  o  la  pancia  è  proprio  dei  stolti 
come  del  JTO/es  Qloriosus  di  Plauto  buffone  e  pa- 
rassito; quando  il  personaggio  parla  solo  seco  stesso  o 
esortandosi  o  commiserandosi ,  si  faccia  colla  mano 
curva  toccandosi  leggermente  con  le  dita  il  petto... 
Il  mover  le  dita  deve  esser  di  questo  modo,  il  medio 
deve  inchinarsi  verso  il  pollice  disteso,  e  gli  altri  tre 
allora  che  si  comincia  a  ragionare  con  un  moto  leg- 
giero da  una  parte  e  dall'altra  ;  guardisi  di  contrarre 
le  dita  di  mezzo  sopra  il  pollice  facendo  le  corna , 
essendo  un  gran  difetto.  Le  tre  dita  contratte  verso 
il  pollice  disteso,  disteso  l' indice,  vogliono  a  ripren- 
dere e  giudicare  ;  l' indice  riguardando  la  mano,  l' o- 


-   180  — 


mero  un  pò*  inclinato  afferma ,  volto  verso  la  terra 
costringe.  Nasconder  la  faccia  con  le  dita  leggermente 
approssimandole  alla  bocca ,  o  al  petto ,  è  gesto  da 
vergognoso,  indi  portandola  prona,  o  non  poco  distesa 


si  rilascia  " 


"  S'accompagni  il  gestire  col  verosimile,  e  nelle  di- 
mostrazioni volendo  dire  :  quest'  occhi  ecc.  s'  accenni 
e  non  l'affetti  toccandoli,  ma  con  un  semplice  moto 
di  dita...  1  piedi  si  muoveranno  secondo  1'  occasione 
con  chi  si  parla,  non  sempre  come  statue  star  collo- 
cati nel  medesimo  posto.  Si  dispensano  altresì  molte 
cose  ai  buffoni,  come  sarà  torcere  il  naso  o  il  collo, 
digrignar  i  denti,  contorcer  le  dita...  Non  debbono  però 
costoro  allontanarsi  di  modo  che  annichilino  le  regole, 
non  dovendo  appartarsi  dal  verosimile  ,  ne  far  mal- 
creanze  al  popolo,  voltando  sporcamente  il  tergo,  far 
certe  azioni  stomacose  ,  come  ammazzare  gli  animali 
schifosi,  e  mangiarli,  far  atto  di  far  le  ventosità  e  sopra 
tutto  atti  osceni  ed  impuri...  Insomma,  bisogna  in  tutto 
esser  modesto,  e  non  far  come  coloro  che  recitando  di- 
menano il  capo,  gestiscono  con  tutto  il  corpo  e  paiono 
morsicati  dalla  tarantola...  Si  deve  stare  in  scena  sodo, 
e  non  muover  le  natiche,  andar  saltando  pel  palco  e 
far  azioni  da  matto,  ne  i  gesti  esser  superflui,  ne  man- 
canti. Il  portar  le  mani  indietro  è  azione  viziosa...  Si 
esprima  ogni  cosa  con  tanta  espressione  come  se  fosse 
veramente  successa...  Nelle  confabulazioni,  chi  ascolta 
deve  star  immobile  ed  attento,  ne  divertirsi,  quasi  co- 
lui che  seco  parla,  seco  non  parlasse,  ma  all'udienza... 
ne  si  devono  mai  volgere  le  spalle  agli  spettatori,  ma 


—   181   — 

stando  tutto  al  cospetto  dell*  udienza ,  declinare  sola- 
mente la  testa  al  compagno  favellando  ,  volgendo  un 
poco  il  petto...  Nell'entrare  si  procuri  ancora  entrar  di 
fianco...  nel  camminare  non  si  affretti  il  corso ,  ne  si 
renda  con  tanta  flemma  misurando  i  passi...  Neil'  in- 
ginocchiarsi, nello  star  da  man  destra,  s'inginocchi  col 
ginocchio  destro  ed  a  sinistra  col  sinistro  acciò  che  si 
venga  a  star  sempre  col  petto  al  popolo.  La  donna 
nell'uscire  in  piazza  non  s'allontani  dalla  casa  che  un 
passo  parlando  con  altri ,  per  osservar  il  decoro  :  re- 
stando ella  sola,  è  padrona  del  palco.  Rappresentando 
in  camera  trascorra  a  sua  voglia  ;  ma  si  ricordi  d'es- 
sere donna  ". 

Nella  Regola  Decimaseconda,  il  Ferrucci  parla  di 
Alcune  azioni  apparenti  nel  recitare,  il  qual  titolo  egli 
spiega  così  :  "  Avviene  bene  spesso  che  alcune  azioni 
si  fanno  in  scena  che  se  non  sono  bene  rappresentate 
invece  di  muovere  V  udienza  ad  ammirazione ,  la  so- 
gliono muovere  al  riso...  Occorre,  quindi,  che  l'artista 
conosca  l'arte  della  scherma,  perocché,  occorrendo,  se 
ne  mostri  edotto,  e  in  un  duello  sulla  scena  si  com- 
porti in  modo  da  non  far  ridere  gì'  intendenti  di  cose 
cavalleresche...  Il  cavar  mano  alla  spada  in  ogni  altra 
occasione  ,  o  contro  il  servo  ,  o  per  dividere  ,  o  per 
altro,  si  faccia  anche  con  garbo,  avvertendo  che  una 
azione  di  queste  riuscendo  sbagliata,  o  ridicola,  fa  per- 
dere di  corretto  il  rappresentante...  Accade  anche  di 
avere  a  cadere,  e  questo  anche  si  faccia  in  modo  che 
non  volga  le  spalle,  il  tergo  o  altro,  cagione  di  riso; 
in  questo  anche  vi  bisogna   arte    per   far    cadute  con 


—    182  — 

tutta  la  vita,  da  fianco,  indietro  o  sul  volto  e  si  è  in- 
ventato ai  nostri  tempi  di  chi  fa  la  parte  di  Furia,  cioè. 
Amore,  il  cadere  nella  buca  col  capo  basso  ,  avanti 
o  indietro,  cosa  bellissima  a  vedersi,  ma  pericolosis- 
sima... Così  anche  pericolose  sono  le  cadute  da  un 
monte,  da  un  balcone,  da  scale,  dal  trono,  cose  che 
piacciono  molto  quanto  più  e*  è  di  pericolo... 

"  Gli  svenimenti  si  facciano  in  modo  che  sembri  il 
rappresentante  a  poco  a  poco  perdente  i  sensi  e  che 
vi  sia  luogo  di  appoggiarsi  se  sarà  in  camera  sedia, 
e  se  in  istrada  qualche  poggiuolo  ,  ove  con  pie  tre- 
mante, con  ambascia  di  fiato,  con  agitazione  di  petto, 
pian  piano,  come  per  appoggiarsi,  gli  venga  il  deli- 
quio, o  pure  che  ci  sia  persona  che  lo  sostenga... 

"  Deve  il  morire  in  iscena  ,  quando  s'  ha  da  fare, 
farsi  nobilmente  ,  ne  mi  dispiaceria  V  ultimo  atto  del 
morire  andarlo  a  terminar  dentro  ;  quando  però  si  fa- 
cesse fuori,  sia  la  morte  dei  tiranni  accompagnata  da 
atti  disperati  e  violenti,  e  negli  ultimi  palpiti  stentata 
e  con  dibattimenti  ,  travolger  di  luci  ed  impazienza  ; 
e  nella  morte  degli  innocenti  moderata...  Nella  morte 
degli  amanti,  o  persone  indifferenti,  s'accompagni  con 
li  gesti  ,  coi  quali  suole  arretrar  la  morte  un  animo 
commosso  ,  o  dalla  sua  volontà  o  dalla  sua  dispera- 
zione o  dalla  forza  dell'inimico  ferro...  ". 

Rammenta  il  Ferrucci  che  gli  antichi,  nei  pubblici 
spettacoli,  non  conobbero  "  le  metamorfosi  di  trasfor- 
marsi in  aquila,  leone,  serpente  ,  ed  altro...  Oggi  che 
l'arte  è  giunta  a  tanta  eccellenza  che  ci  fa  vedere  ciò 
che  r  occhio  appena  può  vedere...  queste  belle  stra- 


—  183  — 

vaganze  non  escluderei  dai  teatri,  essendo  atti  usuali 
e  tanto  comuni  che  fanno  stupire  lo  stesso  stupore... 
e  se  si  è  conosciuto  che  dilettano  ,  piacciono  e  rie- 
scono, si  accettino...  ". 

"  Il  pianto  e  il  riso  che  devono  farsi  in  iscena, 
hanno  da  mostrarsi  con  arte.  Negli  eroi  si  deve  sfug- 
gire il  pianto  ;  alle  volte  però  è  loro  concesso...  Ma 
questo  pianto...  deve  essere  castigato  dalla  modestia...". 
E  quanto  alle  donne  "  non  gli  si  deve  vietare  ,  ma 
concedere  il  pianto  ,  conforme  la  condizione  della 
donna,  che  non  sia  tumultuoso  e  stridulo  nelle  dame, 
e  concesso  più  alle  donne  vane  e  scaltrite  ,  perchè 
queste  :  Ut  flerent  oculos  erudere  suos  (Ovidio).  Si  deve, 
ne  può,  sfuggirsi  il  piangere,  se  l'amante,  il  padre,  pa- 
rente o  amico  è  morto.  Ma  agli  uomini  specialmente 
virtuosi  il  gridar  come  f emine  si  vieta...  Il  rider  fuor 
tempo  in  scena  è  difettoso,  onde  si  dee  star  sodo  in 
tutte  le  parti,  poiché  se  rappresenta  persona  grave  è 
disdicevole...  Così  anche  nelle  pau^ti  ridicole  lo  star 
sodo  muove  a  riso  l'udienza,  e  se  pure  qualche  ghi- 
gnetto  si  scappa,  si  sappia  raffrenare. 

"  L' irrisione,  o  scherzo  è  diviso  dai  latini  in  irri- 
sione e  subsannazione  ;  la  prima  delle  quali  si  fa  con 
l'arrugare  il  naso,  storcere  la  bocca,  dimostrare  i  denti... 
e  s*  irride  ancora  distendendo  il  dito  medio;  tenendo 
compressi  gli  altri  è  di  molto  improperio,  come  testi- 
fica Suida,  così  oggi  presso  i  Germani  è  fare  un  fico 
e  presso  gì'  Italiani  far  le  corna  con  l'indice  e  l'anu- 
lare eretti.  Quando  ciò  avvenisse  di  farsi  nel  rappre- 
sentare, si  guardi  a  chi  e  da  chi  si  faccia,  perchè  ai 


—  184  — 

buffoni  sarà  qualche  volta  lecito,  ed  illecito  alle  per- 
sone gravi...  Quando  si  sta  parlando  con  un  perso- 
naggio avviene  che  uno  deggia  parlare  a  parte,  e  ben- 
ché ciò  non  abbia  del  verosimile  ,  ad  ogni  modo  è 
necessario,  per  chi  non  avendo  altro  modo  d'intendere 
gì*  interni  affetti  e  pensieri  per  palesar  agli  astanti,  è 
forza  in  scena  di  farlo  a  questo  modo,  servendosi  co- 
me di  figura  apostrofe,  come  se  a  caso  e  non  ad  arte 
succedesse  con  voce  ne  tanto  alta  che  paja  che  s'ascolti 
il  confabulare,  ne  tanto  bassa  che  non  l'ascoltino  gli 
spettatori,  dovendo  il  compagno  far  mostra  di  star  al- 
lora divertito,  ne  ascoltar  ciò  che  a  parte  dice  il  com- 
pagno come  se  quello  affatto  non  vi  fasse  nel  discorso. 
L'accennare ,  v.  gr.  :  Ecco  il  tale  ,  non  si  faccia  di- 
stendendo il  dito  ,  perchè  è  fanciullesco  ;  basta  farlo 
con  un  cenno  di  testa,  o  semplicemente  di  mano... 

"  Occorrendo  di  doversi  mangiare  in  scena  da  per- 
sone gravi...  colui  che  ha  da  mangiare,  abbia  a  me- 
moria monsignor  Galateo  {sic)  e  non  faccia  da  pcira- 
sito  e  da  Epulone,  ma  da  persona  grave;  mostrando 
di  far  queir  azione  per  necessità  di  recita  non  per  fame 
che  lo  divora;  permettendosi  solo  ai  buffoni  qualche 
licenza,  purché...  non  passi  i  limiti ,  poiché  ,  benché 
il  fine  della  parte  ridicola  sia  il  far  ridere  ,  dice  il 
Minturno:  benché  al  comico  di  cianciare  liberamente 
e  di  sfrenatamente  motteggiare  si  conceda,  non  perciò 
tanto  che  non  abbia  modo  e  natura... 

"  L'uscita  in  scena  dee  farsi  col  pie  diritto  avanti 
e  dalla  scena  o  quinta  un  poco  rimoto  affinché  par- 
lando si  venga  a  portarsi  vicino  al    cospetto    dell'  u- 


—    185  — 

dienza ,  purché  qualche  necessità  non  richieda  che 
s'  esca  con  violenza  fuggendo ,  combattendo  ,  pre- 
cipitandosi... L'  entrata  sia  nella  quinta  o  scena  più 
prossima  al  prospetto,  e  di  maniera  che  le  ultime  pa- 
role non  si  dicano  in  mezzo  alla  scena  ,  ma  presso 
all'entrare,  perchè  altrimenti  si  venirà  a  fare  una  scena 
muta  finche  il  personaggio  non  entri.  Neil'  entrare  la 
persona  grave  venga  con  gravità;  chi  entra  disperato, 
con  furia;  cosi  chi  esce  con  fretta;  insomma,  bisogna 
ricordar  sempre  che  si  consideri  l' imitazione  del  vero, 
trasformandosi  in  tutto  e  per  tutto  al  personaggio  che 
si  rappresenta  ". 

"  Nel  far  violenza  come  da  un  tiranno  ad  una  donna, 
sia  con  espressione  decente,  e  non  impudica.  Nel  far 
dispetto,  con  ironia  che  dimostri  l' interno  dell'  animo 
alterato;  nei  dialoghi,  con  modo  familiare  e  composto; 
nel  fuggire  con  un  moto  regolato  e  violento  ,  essen- 
doli lecito  batter  col  piede  la  terra,  rivolger  gli  occhi 
al  cielo,  mordere  il  guanto  con  rabbia,  batter  legger- 
mente una  mano  con  l'altra  ". 

Nella  pegola  Decimaterza  il  Ferrucci  nota  i  di- 
fetti eh'  egli  rilevava  nella  recitazione;  difetti  eh'  egli 
distingue  in  naturali  o  derivanti  da  incuria.  "  Difetto 
naturale  è  1'  esser  bleso,  insulso,  che  abbia  cantilena 
precipiti  il  parlare,  sia  sinistro  nelle  azioni,  o  contraf- 
fatto di  persona  ;  or  se  a  costoro  non  si  possono  dal- 
l'arte togliere  i  difetti  con  far  che  proferiscano  bene... 
quando  i  difetti  non  possono  esser  vinti  dall'artifizio, 
sarà  meglio  escluderli  dal  recitare.  Essi  sono  quelli 
che  non  arrivano  a  pronunziare  come  Demostene  gio- 


—    186  — 

vinetto  la  R,  il  far  C  del  P  ecc.  Gli  insulsi  sono  certi 
uomini  che  hanno  una  voce  grossolana,  un  proferir 
sciocco...  La  cantilena  si  può  superare  da  chi  ha  giu- 
dizio... Altri  invece  di  parlare  latrano...  Vi  sono  di 
quelli  che  affrettano  la  pronunzia...  e  questi  devono 
correggersi,  perchè  nel  rappresentcìre  si  parla  appunto 
come  si  fa  coi  principi,  con  gli  amici ,  coi  familiari, 
insegnando  Andronico  che  la  commedia  sia  Speculum 
quotidianae  vitae.  Difetto  è  ancora  il  precipitare  e  con- 
fondere i  sensi...  Difetti  dell'  incuria  negh  attori  sa- 
ranno o  r  ignoranza  o  la  negligenza  :  l'ignoranza  è  il 
non  saper  come  si  dicano  le  parole  se  brevi  o  lunghe, 
negligenza  intralascicue  molte  cose  che  richiedono  le 
regole  sceniche...  Le  negligenze  sono  il  far  scena  vuota, 
restarvi  muto  ,  incontrarsi  con  personaggio  che  esce,: 
far  confusione  nel  parlar  molti  a  un  tempo,  uscir  dalla 
parte,  iai  qualche  solecismo  con  le  mani,  o  qualche 
mala  creanza.  Il  far  scena  vuota  e  un  grave  difetto, 
di  modo  che  riduce  l'udienza  a  gridare:  fuora,  fuora..<| 
Il  restar  mutolo  in  scena  è  anche  difetto  grande,  o 
sia  per  mancanza  di  memoria,  o  per  non  rispondere 
a  tempo ,  ne  altro  rimedio  si  potrà  ritrovcu^e  se  non 
accompagnarlo  con  qualche  azione  di  meraviglia  o  di 
attenuarsi  subito  all'improvviso...  L' incontro  col  per- 
sonaggio che  deve  uscire  è  anche  difettoso  ,  perchè 
alle  volte  s'incontra  con  taluno  che  si  deve  sfuggire..^] 
e  si  viene  a  fare  una  terribile  improprietà  ;  di  più 
volendo  questi  uscire  e  quegli  entrare  ,  si  lascia  la 
scena  vuota...  La  confusione  nel  parlare  succede  alle 
volte  nell'attaccarsi  uno  alla  parte  dell'altro,  di  modo 


-  187  — 

:he  favellino  a  due,  a  tre,  che  fanno  una  Babilonia... 
Jscir  dalla  parte  è  quando  vi  si  aggiungono  parole 
)Itre  quelle  che  ha  fatto  l'autore...  Far  solecismo  con 
e  mani  è  mostrar  cielo  per  terra...  e  contradirsi  il 
^esto  con  la  parola...  Far  mala  creanza  al  pubblico 
ara  volgerli  il  tergo,  sputar  sconciamente,  far  azioni 
'ili,  dovendo  tutte  esser  decorose...  " 

Nella  pegola  Decimaquarta,  il  nostro  scrittore  s'oc- 
upa  dei  personaggi  dei  diversi  generi  teatrali.  La- 
ciando  in  disparte  ciò  che  scrive  intorno  ai  perso- 
laggi  della  tragedia  ,  riportiamo  con  tagli  opportuni 
|uanto  soltanto  dice  a  proposito  dei  personaggi  della 
ommedia.  "  1  personaggi  in  essa  introdotti  e  che 
ono  oggi  in  pratica  saranno  :  giovani  innamorati  dis- 
ioluti,  prodighi,  rissosi,  viziosi,  o  virtuosi;  i  vecchi  la- 
civi,  avari  o  testardi,  o  accurati,  o  economi  ;  le  madri 
li  famiglia  virtuose,  e  alle  volte  lascive,  ma  occulte  ^ 
icendo  mostra  d'onestà;  donzelle  vergini  ed  amanti, 
lesiderose  di  marito,  oneste ,  prudenti ,  alle  volte  ri- 
essate ;  meretrici  lusinghiere  ,  bugiarde ,  ingannatrici, 
vide  ,  volubili ,  perfide  ,  ingorde  e  sentine  di  vizi... 
)ervi  astuti,  mordaci  e  solleciti;  oppure  sciocchi,  sem- 
plici, ignoranti,  codardi,  timidi  e  poltroni;  parasiti  in- 
ordi,  voraci,  seccanti,  spie  o  traditori  per  un  bicchier 
i  vino,  o  per  una  mangiata;  pedanti  affettati  e  sucidi, 
inamorati,  correttori  dei  vizi  altrui,  e  non  dei  propri 

gentaglia  presuntuosa;  bravi  d'orrido  volto,  di  gesti 
orribili,  tutti  parole,  di  grandi  promesse,  millantatori, 
la  in  verità  timidi,  pusillanimi,  conigli  ;  ruffiani,  ac- 
orti, insidiatori,  adulatori ,  rapaci  ;  serve  ,  scherzanti, 


1 


~    188 


innamoraticcie,  maliziose  e  vili.  Costoro  hanno  da  es- 
sere o  della  sfera  media,  come  sono  semplici  genti- 
luomini, dei  quali  erano  le  commedie  togate  o  prete- 
state e  tanto  bene  oggi  praticano  gli  Spagnuoli  chia- 
mandole di  cappa  e  spada...  Così  sono  i  Dottori  ci- 
caloni ,  i  Magnifici  o  Pantaloni ,  mercadanti  ,  artisti, 
tavernarì  ed  altre  persone  plebee...  o  introducendovi 
persone  di  contado...  Nel  rappresentarsi  si  osservi  an- 
che di  costoro  il  costume,  e  non  faccia  il  Vecchio  il 
Giovane,  l'Innamorato  il  Dottore...  I  servi  astuti  non 
diano  nella  sciocchezza,  e  i  servi  sciocchi  nella  sa- 
gacità  ed  arguzie;  i  Parassiti  non  sieno  tanto  affettati, 
ma  naturali;  i  Pedanti  non  attillati  e  galanti  nel  ve- 
stire... I  Bravi  sieno  di  persona  confacente  al  vanto 
ma  poi  neir  azione  pronti  alla  fuga...  i  Ruffiani  nor 
sieno  melensi,  ma  dimostrino  l'audacia...  Le  Serve  nor 
sieno  sfacciate  ,  senza  vergogna  e  scandalose ,  ma  h 
loro  vivacità  sia  accompagnata  da  una  grazietta  inci- 
tativa,   ma  coverta.  " 

Nella  seconda  parte  dell'opera,  il  Perrucci  s'intrattiem 
in  modo  diffuso  della  rappresentazione  all'  improvvise 
o  a  soggetto.  Già  in  un  precedente  capitolo,  noi  ab 
biamo  riportato  più  d'un  precetto  del  Perrucci  intorm 
alla  maniera  di  comporre  e  recitare  una  commedia  im 
provvisa  ;  in  ogni  modo ,    eccone  ancora  alcuni  altri 

"  Studino  (/  comici)  di  sapere  la  lingua  perfetta  ita 
liana  coi  vocaboli  toscani  se  non  perfettamente,  almen( 
i  ricevuti...  Si  sappiano  ancora  le  figure  e  i  tropi  tutt 
della  Rettorica,  perchè  con  questi  si  potran  fare  grand» 
onore...   Le  metafore  sieno  temperate  e  non  stralunate.. 


—    !89   - 

I  concetti  che  si  deve  apparecchiare  per  servirsene 
air  occasione,  devono  essere  raccolti  in  un  libro  con 
titolo  di  Cihaldone  Repertorio  ,  o  a  suo  beneplacito 
;coi  titoli  d'  Amor  corrisposto  ,  di  Sprezzo  ,  Priego, 
Scaccia,  Sdegno,  Gelosia,  Pene,  Amicizia,  Merito, 
Partenza  ecc.  "  Ha  cura,  però,  il  Ferrucci  di  ricor- 
dare al  comico  che  le  composizioni  meditate  eh'  egli 
vorrà  introdurre  nel  suo  dire  improvviso,  non  stonino, 
molto  con  questo.  "  Non  presentino  esse  tanto  l'aria 
d'intarsiature  ;  ma  le  une  e  l'altro  abbiano  una  cert'aria 
di  famiglia.  Diversamente,  la  disparità  di  stile  offen- 
derebbe l'orecchio  delicato  dello  spettatore  "  (1). 

E  poiché  nell'arte  di  ben  roppresentare  la  comme- 
dia a  soggetto  lo  Zibaldone  o  Cihaldone  di  cui  parla 
il  nostro  Ferrucci,  è  una  specie  di  forziere  dal  quale 
r  artista  comico  può  a  suo  talento  tirar  fuori  gemme 
per  incastonarle  nel  suo  dire  all'  improvviso,  come  bril- 
lanti o  smeraldi  in  un  anello  o  in  una  collana,  affinchè 
il  suo  porgere  non  riesca  troppo  povero  o  sciatto,  noi 
CI  permettiamo  d'  aprire ,  piano  pianino ,  codesto  for- 
ziere per  mettere  sotto  gli  occhi  dei  nostri  lettori  qual- 
cuno dei  tesori  che  racchiude. 

Cominciamo  dai  Concetti  che  il  Ferrucci  definisce 
con  una  sentenza  di  Torquato  Tasso:  "  Le  immagini 
delle  cose  le  quali  non  hanno  soda  e  reale  consistenza 
in  se  stesse,  come  le  cose,  ma  nell'animo  nostro  hanno 
un  certo  loro  essere  imperfetto  ,  e  quasi  dall'  imma- 
ginazione sono  formate  e  figurate...  " 


(I)  Op.  cit.  pp.  96-97. 


—   190  — 

CONCETTI 

(Di  Amore  corrisposto) 

"  Corri  tutto  negli  occhi  miei,  o  cuore,  per  beati- 
ficarti nella  vista  della  tua  cara,  e  s' egli  è  vero  che 
più  vivi  nell'oggetto  amato  che  in  te,  anima  mia  gioi- 
sci, rallegrati,  brilla,  scorgendo  chi  ti  dà  moto  e  vita". 

(Di  Priego) 

"  E  da  chi  avesti  il  latte,  già  che  sei  così  barba- 
ra ?  Forse  come  Paride  che  t'allattò  un'orsa,  mentre 
crudele  ti  esperimento,  o  come  Ciro  ti  die  le  poppe 
una  cagna,  mentre  sempre  arrabbiata  meco  ti  mostri; 
o  qual  Clorinda  suggesti  le  mamme  di  tigre  ircana , 
se  non  posso  colle  lusinghe  domesticarti  ? 

("Di  Gelosia) 

"  Io  son  gelato,  perchè  sono  amante  ;  o  strana  an- 
tiperistasi  !  Il  foco  d'amore  è  così  al  gelo  della  gelo- 
sia congiunto,  che  fanno  un  misto  a  tormi  la  vita,  e 
la  mia  passione  per  questi  due  barbari  e  un'infermità 
che  fa  che  io  geli  nell'esterno,  quando  una  violentis- 
sima ed  ardente  febbre  mi  consuma  le  viscere  ". 

fT>i  "Pace) 
"  E  chi  potrà  risanare  il  mio  cuore  morsicato  dalla 


—   191    - 

icrpe  velenosa  della  gelosia  altro  che  il  balsamo  del- 
'amorosa  corrispondenza  ?  E  quanto  fu  più  pericoloso 
1  morbo  tanta  più  cara  mi  è  la  restituita  salute;  onde 
.ospenderò  il  core  in  voto  al  tempio  della  tua  fede, 
:he  mi  ha  tolto  alle  fauci  della  morte  ". 

fT)i  Partenza) 

"  Parto,  o  bella  ;  ma  con  qual  core  lo  sa  solo  il 
)io  Cupido  ;  poiché  se  si  svelle  la  pianta  dal  natio 
erreno,  cadono  i  fiori,  illanguidiscono  le  frondi  ed  a- 
ido  rimane  ;  così  il  mio  cuore  svelto  da  quel  seno  da 
ui  esso  riceve  l'amoroso  alimento  e  la  vita,  perde  i 
ori  delle  gioie,  le  frondi  della  speranza  ed  arido  di- 
iene  ". 

L'ottimo  Ferrucci,  l'abbiamo  già  ricordato,  insegnava 
i  comici  dei  suoi  tempi  che  incastrando  qualcuno  di 
odesti  preziosi  Concetti  nel  suo  dire  ,  curasse  bene 
he  la  prosa  meditata  non  riuscisse  molto  diversa  da 
uella  improvvisa,  quasi  fosse  opera  possibile  dare  u- 
ica  veste  al  linguaggio  da  manicomio,  ch'era  quello 
ei  componimenti  dello  stesso  Ferrucci,  e  a  quello  delle 
ersone  sane  :  e  Io  stesso  nostro  scrittore  quasi  ne  con- 
sniva  ;  poiché  insegnava  anche  che  ad  un  concetto 
rampalato  bisognava  rispondere  con  un  concetto  non 
eno  strampalato.  Insomma,  codesti  Concetti  erano  co- 
e  le  ciliegie  ,  1'  uno  tirava  l'  altro.  Se  non  che  ,  le 
Lione  regole  volevano  che  fra  V  una  strampaleria  e 
iltra  corresse   un  legame.    "  Ai  Concetti  —   scriveva 

Ferrucci  —  si  deve  rispondere  a  proposito  ed  aver 


—   192  — 

giudizio  d'attaccarvi  il  suo  per  risposta,  e  non  far  come 
certi  tali  che  facendo  il  confabulatore  il  concetto,  v. 
gr.  di  paragonare  l'amicizia  al  sole,  gli  risponda  col 
paragonarla  ad  una  calamita  e  così  vengono  a  fcu^e  una 
sconnessione  così  grande  che  stonata,  navigando  uno 
per  levante  e  1'  altro  per  ponente  ;  se  uno ,  dunque, 
così  proponesse  :  "  L'amicizia  è  un  albero  che  produce 
1  frutti  d'un'amabile  gratitudine  " ,  si  risponda  :  "  E  se 
è  albero,  sarà  d'  alloro,  che  vanta  per  pregio  essere 
simbolo  d'immortalità  :  giacche  per  fredda  stagione  fo- 
glia non  perde  ;  così  l' amicizia  per  variar  di  fortuna 
il  suo  vigore  non  lascia.  Così  avranno  connessione  i 
due  diversivi  (1)  ". 

Tiriamo    ancora    fuori    del    forziere    qualche    altro 
gioiello. 

(T^rima  uscita  d'amante  corrisposto) 

"  E  da  che  nascono  le  passioni  amorose  in  due  cor 
amanti  e  corrisposti  ?  Se  giunge  l'amante  al  suo  fine 
quiete  non  ritrova  ?  Se  termina  al  suo  centro,  perchì 
non  sa  della  sua  quiete  godere  ?  Ah,  sì ,  l' intendo 
possono  le  anime  amanti  unirsi,  perchè  sono  spirituali 
i  corpi  desiderano  anche  come  le  anime  medesimars 
e  perchè  ciò  dall'  impossibile  gli  viene  interdetto,  ben 
che  corrisposti,  si  cruciano,  si  tormentano,  si  martiriz 
zano.  Felice,  o  Salmace,  che  potesti  medesimarti  co 


(1)  Op.  cit.  p.  201. 


-   193  — 

tuo  caro    Ermafrodito  ;  ed  ,  o    me  felice  ,  se  di  due 
individui 

Potesse  fare  Amore  in  una  salma 

Di  due  anime,  e  due  cori,  un  corpo  e  un'alma  I 

(Prima  uscita  d'  amante  tacito) 

"  Pensiero,  ove  ne  vai  ?  Cuore,  dove  voli  ?  Anima, 
dove  fuggi?  Sì,  pensiero,  tu  non  conoscendo  ad  es- 
sere abile  a  star  più  celato,  vuoi  palesar  gli  arcani  più 
occulti  al  tuo  bene  ;  sì  ,  cuore  ,  tu  non  potendo  più 
soffrire  la  ferita  che  ti  fece  il  pungentissimo  strale  di 
un  guardo,  vuoi  chiedere  il  rimedio  ;  sì,  anima,  tu  di- 
sperata vivendo  in  una  schiavitudine  sconosciuta,  vuoi 
ch'almeno  sappia  le  tue  catene  chi  ti  carica  di  esse, 
acciocché  le  compatisca.  Fermati  ,  o  pensiero  ;  trat- 
tienti,  o  core  ;  trattienti,  anima  mia.  Che  farai  se  essa 
sdegneratti,  o  pensiero  ?  Che  risolverai  se  maggiormente 
inasprisce  con  disprezzcirti,  la  piaga,  o  core  ?  A  che 
t'appiglierai  se  riderà  sulle  tue  catene,  o  anima  sven- 
turata ?  Eh ,  no  ;  volate  pure  a  quel  bello  che  v'  in- 
namora ;  scoprite  gli  arcani,  palesate  le  ferite ,  dimo- 
strate le  catene,  forse  ritroverete  pietà,  balsami  e  cor- 
tesia.  Così  mi  dice  Amore  : 

Che  in  quel  bel  seno  in  amorosa  calma 
Godranno  il  pensiero,  il  core  e  l'alma  ". 

(Soliloquio  con  tropi) 
"  O  Amore,  fuoco  che  l'anima  divori,   che  il  petto 

t^Cel  Regno  delle  C^aschere  \  3 


—  194  - 

mi  consumi,  tu  con  un  crine  mi  legasti  la  mia  libertà; 
ma  che  stupore  se  domasti  il  domatore  dei  mostri  ? 
Sono  brievi  le  mie  forze  per  resistere  alle  tue  vio- 
lenze. Più  volte  ho  veduto  i  prati  fiorire,  ne  pur  vedo 
con  essi  fiorire  le  mie  speranze.  Ma  se  tu  sei  la  ro- 
vina del  mondo,  che  potrò  io  spercire  da  un  Dio  bam- 
bino }  Sì,  sì,  non  altro  che  una  innocente  ferita.  Ah, 
sia,  tiranno, 

Invecchiato  è  il  tuo  male,   eterno  è  il  danno  ". 

(Soliloquio  con  figure  di  parole) 

"  Non  isperar  pace,  cuor  mio  ;  sendo  soggetto  alla 
tirannide  del  bello  ,  t'  abbarbagliò  la  luce  d' un  sole, 
ne  puoi  temperare  le  tue  pene.  E  chi  giammai  udìo 
pene  alle  mie  simili  ?  Alzai  templi  all'  Idolo  della 
fede  per  trovcU*e  un  parallelo  alla  mia  costanza  ;  ma 
vedo  che  tu,  allettando,  mi  tradisti;  e  quale  speme 
avrò  mai  io  ,  se  con  V  idolatria  d'  un  bel  sembiante 
non  spero  mercede  essendo  ributtate  le  umili  mie  pre- 
ghiere ?  Più  d*una  fiata  t' ho  raccontato  i  miei  dolori, 
ne  viene  una  volta  la  pietà  a  comparirti  su  gli  occhi, 
onde,  giacche  indarno  a  te,  mi  diedi  in  preda  a  di- 
sperato Averno  ". 

(Rimprovero  con  figure  ritrovate  per  aggiunger  vaghezza) 

"  E  questa  è  la  fede,  ingrata?  Questa  è  la  co- 
stanza promessa  ?  Questa  la  perseveranza  che  osservi  ? 
Come  dunque  da  te  la  fede  è  oltraggiata,  la  costanza 


-   195  — 

oltraggiata  e  la  perseveranza  anche  miseramente  oltrag- 
giata ?  Per  ritrovare  in  te  fede,  io  ti  consacrai  l'ani- 
ma ;  perchè  fusse  stata  in  te  costanza,  sì,  1'  anima  ti 
offrii  ;  perchè  perseverante  ti  ritrovassi ,  in  olocausto 
l'anima  ti  offrii ,  e  tu  dispietata ,  tu  dispietata  sì  ,  mi 
tradisti.  Lascia,  lascia  d'esser  bella,  giacché  sei  infe- 
dele, e  se  vuoi  (mentre  la  mia  morte  brami),  se  vuoi 
eh'  io  ti  soddisfaccia,  vieni  a  togliermi,  per  contentarti, 
la  vita.  La  vita,  sì,  che  a  te  sì  odiosa  si  rende.  Sì, 
sì,  petto  senza  cuore,  cuore  senza  anima  e  anima  senza 
fede...  Se  fiera  è  la  tua  bellezza,  fiere  le  tue  azioni  e 
il  tuo  procedere  è  fiero,  ed  io  ti  aborrirò  e  ti  sdegnerò 
per  sempre  :  e  tu  tiranno,  che  m'invitasti  a  godimento, 
a  delizie,  a  gioie,  a  contenti,  o  nume  lusinghiero,  o 
bambino  dispietato,  o  inesorabile  arciero  !  Nume  solo 
di  nome  per  cui  più  non  spero...  Forse  il  chiudere  gli 
occhi  alla  luce,  perdere  il  fiato,  restar  senza  moto  ed 
esalar  l'anima  dissolvendo  del  corpo  gli  elementi 

Sarà  un  termine  dare  ai  miei  tormenti  (1)  ". 

Dallo  Zibaldone  per    le  parti    ridicole    togliamo  il 
seguente  sonetto  : 

"  Recipe  di  malanni  due  trappesi, 
Un  oncia  di  catarro  o   tosse  asmatica  ; 
D'ernia  ventosa,  sanguigna  ed  acquatica 
Di   cancari  e  di  gotte  ana  due  pesi. 

(1)   Op.  cit.   pag.   211. 


-   196  — 

"  Misce  con  acqua  di  gomme  francesi 
Fior  di  descenzo  e  polvere  lunatica. 
Con  scrupoli  di  colica  e   sciatica 
Poni  di  male  Pasque  un  par  di  mesi. 

"  Vi  sien  gocce  sei  di  rabbia  canina 
Con  lebbra  buona  e  rogna  che  ti  gratti 
Con  l'anticore  e  peste  che  sia  fina. 

"  Sieno  in  rompiti  il  collo  indi  disfatti  : 
Credi,  se  piglierai  tal  medicina, 
O  che  sani,  o  che  crepi,  o  che  ne  schiatti  "  (1). 

Ecco  ora  un  esempio  di  parlare  a  sproposito  : 
"  Fermatevi,  siete  un  vulcano  che  con  quella  gamba 
storta  volete  acchiappare  alla  rete  quella  sgualdrina  di 
vostra  moglie  ;  mi  date  voi  nuova  se  i  grilli  del  Da- 
nubio hanno  mosso  guerra  ai  monti  Acrocerauni,  per- 
chè dicono  i  saggi  del  Circolo  Equinoziale,  che  chi 
pone  i  lumi  nel  cacio  prende  un  granchio  astrologico, 
facendo  che  il  mese  di  maggio  s'affitti  il  governo  delle 
zanzare  a  quattro  quattrini  la  botte  e  a  trecento  scru- 
poli il  moggio  ?  (2)  " . 

Passando  a  parlare  (P.  II,  l^eg.  terza)  delle  parti 
di  donne  innamorate,  il  nostro  Ferrucci  scrive:  "Tutte 
le  suddette  composizioni  (cioè,  quelle  di  cui  abbiamo 
dato  un  saggio)  possono  essere  comuni  alle  donne  col 
mutcìrle  il  genere.  Si  deve  bensì  avvertire  coloro  che 
rappresenteranno  da  donne,  o  siano  veramente  donne, 
o  giovani  che  le  fingano,  d' osservar  la  modestia  nei 

(1)  Loc.  cit. 

(2)  Loc.  cit. 


—   197  — 

gesti,  quando  parlano  con  altri  a  non  dilungarsi  dalla 
casa,  se  non  allora  che  sono  sole  per  osservare  il  de- 
coro donnesco  ".  Indi  prosegue:  "  Oltre  le  sudette 
comuni  con  le  parti  d'uomo,  possono  averne  delle  par- 
ticolari toccanti  a  donne  ".  E  qui  lo  scrittore  porge 
qualche  esempio  di  quei  certi  discorsi  preparati  che 
poi  sulla  scena  dovevano  aver  V  aria  d'  essere  detti 
air  improvviso  :  il  che  allora  era  cosa  molto  comune, 
come  afferma  lo  stesso  Ferrucci.  "  Ho  conosciuto  fa- 
mosi comici  aversi  fatto  fare  libri  (ed  io  gliene  ho 
fatto  quantità)  di  cose  adatte  a  tutte  le  occasioni,  an- 
che quali  a  dire  :  Oh,  di  casa  !  ed  aver  tanta  accu- 
curatezza  in  accomodarle  ,  che  sembrava  che  uscisse 
air  improvviso  ciò  che  s'avevano  da  molto  tempo  pre- 
meditato. Qui  sta  tutta  rcu*te,  il  nasconderla ,  perchè 
ciò  è  quello  che  genera  vaghezza  e  stupore  ,  come 
cantò  il  poeta  Tasso  : 

E  quel  che  il  bello  e  il  raro  aggiunge  all'opre, 
L'arte  che  tutto  fa,  nulla  si  scopre. 

D'ordinario,  le  Prime  Uscite  o  Soliloqui  di  parti 
d' innamorati  finivano  con  una  chiusetta  composta  di 
due  o  tre  versi  rimati.  "  11  portare  qualche  chiusetta, 
scrive  il  Ferrucci,  non  lo  stimo  disdicevole  ;  servendo 
queste  come  se  f ussero  sentenze...  poiché  s'  è  vero 
che  musicam  docet  Amor,  ad  ogni  amante  che  piaccia 
la  poesia,  portando  le  espressioni  dei  poeti  nel  dire, 
sentesi  sempre  in  bocca  quell'appassionato  distico  del 
Tasso  : 


—  198 

O  meraviglia  I  Amor,  ch'appena  nato, 
Già  grande  vola,   e  già  trionfa  armato  (  1  ). 

Esempi  di  chiusette  offerte  dal  Ferrucci  : 
(Di  Speranza) 

Dolcissima  Speranza, 
Nelle  guerre  del  cor  tu  sei  mia  Pace  ; 
Nelle  tenebre  mie  tu  sei  mia  face. 

(Contro  Fortuna) 

Oh  Dio,  che  l'alma  al  precipizio  arreca 
Una  donna,  eh'  è  pazza  e  sorda  e  cieca. 

(Salutando  la  Donna) 

In  vedere,  o  mia  cara,  il  Dio  d'Amore, 
Ti  condurrà,  in  un  guardo,  e  l'alma  e  il  core. 

(T)i  Scaccia) 

Gradir  l'affetto  tuo, 
E  non  posso,  e  non  voglio  ; 
E  all'  onda  dei  tuoi  pianti,  l' alma  ho  di  scogHo. 

(D'Amante  felice) 

Tariti  fiumi  di  grazia  Amor  mi  versa, 
Che  in  un  mar  di  gioir  l'alma  è  sommersa. 

(T)i  Partenza) 

Lasciando  l'alma,  il  duol  m'agita  e  ingombra. 
Né  porto  di  me  stesso  altro  che  un'ombra. 

(1)  Op.  cit.  p.   239. 


—  199 


("Di  Sdegno) 

Lungi  il  foco  d'Amor,  ch'io  sol  ricetto 

Rabbia  al  cor,  sdegno  agli  occhi  e  fìamma  in  petto. 

(T>i  Gelosia) 

Per  far  letal  la  piaga,   eh'  ho  nel  seno, 
Gelosia  mi  menava  il  suo  veleno. 

fDi  Costanza) 

Ai  venti  di  sospir  fermo  e  costante 
Colonna  io  son  di  solido  diamante  (I). 


Ma  nei  Repertori  i  comici  all'  improvviso  non  tro- 
vavano soltanto  degli  a  solo,  ma  anche  dei  dialoghi. 
Evidentemente  i  repertori  o  zibaldoni  del  genere  di 
quello  del  Ferrucci  dovevano  essere  affatto  sconosciuti 
a  Maurizio  Sand,  che  scrivendo  VAvant^T^ropos  che 
si  legge  in  fronte  all'opera  Masques  et  ^uffons  (2) 
riteneva  che  la  commedia  dell'arte  fosse  in  tutte  le  sue 
parti  (meno  lo  scenario)  improvvisata  sulla  scena,  senza 
concorso  di  parti  scritte  e  di  prove.  E  narrava,  quasi  a 
provare  che  la  cosa  fosse  facile,  o,  per  lo  meno,  non 
difficile  ,  che  in  un  inverno  ,  una  famiglia  (probabil- 
mente la  propria)  insieme  ad  alcuni  amici  immaginò 
di  rappresentare  alcune  scene  a  soggetto  :  e  vi  riuscì 
non  avendo  per  guida  che  il  semplice  scenario.  Nes- 

(1)  Op.  cit.  p.  242. 

(2)  Paris,  M.  Levy,    1862,  in  due  volumi. 


—  200  — 

suna  preparazione  accompagnava  la  recita;  si  stendeva 
lo  scenario  e  poi  subito  si  passava  alla  rappresenta- 
zione, "  Per  istinto,  fra  i  personaggi,  si  sviluppava  un 
genere  di  dialogo,  che  sembrava  una  esumazione  dei 
primi  saggi  teatrali  delFantichità...  era  il  dialogo  senza 
regole  delle  Atellane...  Erano  scene  briose  che  s'in- 
catenavano le  une  alle  altre  senza  premeditazione, 
ciascun  carattere  sentendosi  spinto  ad  agire  secondo 
la  propria  natura..,  ".  Questo  primo  saggio  essendo 
riuscito ,  si  pensò  di  recitare  ,  con  lo  stesso  sistema, 
delle  vere  commediole  col  semplice  aiuto  d'uno  sce- 
nario immaginato  e  scritto  qualche  ora  prima  della 
rappresentazione.  Più  d'una  volta  si  metteva  anche  da 
parte  il  soggetto  ;  ed  allora  c'era  del  nuovo.  "  Gli  in- 
cidenti s'accumulavano,  le  scene  si  succedevano  con 
molto  nesso  fra  loro...  ".  Se  non  che,  Maurizio  Sand, 
col  suo  racconto,  non  è  riuscito  a  provare  che  una 
sola  cosa  ,  cioè  ,  che  al  castello  di  Nohant  (perchè, 
certamente ,  quelle  geniali  riunioni  di  improvvisatori 
dovettero  aver  luogo  in  quel  castello  e  sotto  la  pro- 
tezione del  genio  loci,  Giorgio  Sand)  si  riuniva  una 
società  colta,  piena  di  spirito  e  capace  d' improvvi- 
sare una  commediola  sulla  semplice  falsariga  d'un  sog- 
getto. Ma,  come  abbiamo  dimostrato,  sui  palcoscenici 
della  commedia  dell'arte  avveniva  diversamente.  Non 
tutti  i  comici  possedevano  l'estro  della  improvvisazio- 
ne, né  la  coltura  necessaria.  Anche  la  recita  a  sog- 
getto era  disciplinata  e  l' improvvisazione  era  preme- 
ditata. 


—  201 


Ecco,  intanto,  un  saggio  di  T)ialoghi,  sempre  tratti 
dall'opera  del  Ferrucci: 

(T)ialogo  di  Sdegno  fra  Huomo  e  Donna) 


H. 

Partiti. 

D. 

D. 

Involati. 

H. 

Dadi  occhi  miei. 

H. 

D. 

Dal  mio  cospetto. 

D. 

H. 

Furia  con  volto  di  cielo. 

H. 

D. 

Demone  con  maschera  d'amore. 

D. 

H. 

Ch'io  maledico. 

H. 

D. 

Ch'io  detesto. 

D. 

H. 

Il  giorno  che  ti  mirai. 

H. 

D. 

Il  punto  che  ti  adorai. 

D. 

H. 

Hai  luci. 

H. 

D. 

Hai  fronte. 

D. 

H. 

Da  mirarmi  ? 

H. 

D. 

Da  starmi  presente  ? 

D. 

H. 

Non  ti  ricordi. 

H. 

D. 

Non  pensi. 

D. 

H. 

I  tuoi  mancamenti  ? 

H. 

D. 

Le  tue  scelleraggini  ? 

D. 

H. 

Che  ti  credi. 

H. 

D. 

Che  pensi. 

D. 

H. 

Ch'io  mi  fermi  per  rimirarti  ? 

H. 

D. 

Ch'io  mi  fermi  per  vagheggiarti? 

D. 

H. 

Non  posso  negare  che  sei  bella. 

H. 

D. 

Troppo  confesso  che  sei  vago. 

D. 

H. 

Ma  a  che  vale  la  bellezza. 

H. 

D. 

A  che  giova  la  leggiadria. 

D. 

H. 

Se  è  deturpata  dall'errore  ? 

D. 

Se    è    accompagnata    dall'  in- 

H. 

ganno  ? 

D. 

H. 

Non  me  lo  imaginava. 

H. 

Puoi  morire,  ma    non  l'aiscol- 

terai. 

T'amerei. 

T'adorerei. 

Se  fussi  fedele. 

Se  fussi  costante. 

Così  fussi  tu  sincera. 

Fussi  così  tu  pure. 

Com'  è  la  mia  fede. 

Com'è  l'amor  mio. 

M'inganni. 

Mi  tradisci. 

Dunque  parti. 

Dunque  vanne. 

E  che  sì  parto. 

E  che  sì  me  ne  rientro. 

Quale  incanto  mi  trattiene  ? 

Che  ignota  forza  m' inceppa  ? 

Sei  troppo  ingannatrice. 

Hai  troppo  potere  negli  occhi. 

La  speranza  mi  lusinga. 

La  bellezza  m' incoraggia. 

Che  ti  scopra  fedele. 

Che  non  ti  trovi  mancatore. 

Menti,  che  tal  non  fui. 

T'  inganni,  che  sempre  tal  mi 

vanto. 

E  l'amore  d'altri  ? 

Non  gradivi  altra  donna  ? 

T' ingannavi. 


—  202 


D. 

Non  me  Io  persuadeva. 

D. 

Fosti  tradito. 

H. 

Che  un  cielo  fosse  un  inferno. 

H. 

Te  amo. 

D. 

Che  un  Cupido  fosse   menzo- 

D. 

Te  gradisco. 

gnero. 

H. 

Te  adoro. 

H. 

Eppur  l'esperimento. 

D. 

Te  idolatro. 

D. 

Eppur   r  ho  ritrovato. 

H. 

Mia  spemo. 

H. 

Orsii,  dileguati. 

D. 

Amor  mio.               j^ 

D. 

Or  via,  disgombra. 

H. 

Mia  vita. 

H. 

Io  non  voglio. 

D. 

Mio  bene. 

D. 

Non  posso. 

H. 

Mia  luce. 

H. 

Non  so  chi  mi  trattiene! 

D. 

Mio  respiro. 

D. 

Ignota  forza  mi  trattiene! 

H. 

Mia  dea! 

H. 

Ma  non  è  amore,  vedi. 

D- 

Idolo  mio! 

D. 

Accertali  che  non  è  affetto. 

H. 

Ogni  altro  pensiero. 

H. 

E  che  ti  arresta  ? 

D. 

Ogni  altro  affetto. 

D. 

E  che  ti  ferma  ? 

H. 

Renunzio, 

H. 

Non  voglio  darti  questo  petto. 

D. 

Discaccio. 

D. 

Non  avrai  questo  piacere. 

H. 

Detesto. 

H. 

Ch'io  ti  dica. 

D. 

Aborrisco. 

D. 

Ch'  io  ti  palesi. 

H. 

Pace,  o  pupille  care! 

H. 

Che  ancora  t'amo. 

D. 

Pace,  bocca  amorosa  ! 

D. 

Ch  'io  di  te  non  posbo  dimen- 

H. 

Non  più  guerra,  o  cara  destra  ! 

ticarmi. 

D. 

Non  più  sdegni,  o  cari  sguar- 

H. 

Oibò,  non  Io  dirò  mai. 

di!  (1). 

Si  direbbe  il  dialogo  di  due  innamorati    asmatici  ;,i 
ma  dialoghi  simili  erano  allora  di  moda  sulla   scena,i 
perchè  nelle  diverse  sfumature  dei  sentimenti  (d*odio, 
di  gelosia,  di  dispetto,  d'amore,  ecc.)  che    presenta- 
vano, porgevano  occasione  ai  comici  di  far  sfoggio  di 
tutta  la  virtuosità  della  loro  arte. 


(1)  Op.  cit.  p.  233. 


-  203  - 

Ancora  un  Dialogo  e  non  più  : 

(D'Amore  corrisposto  concettoso  d* invenzione  di  parole) 
La  Donna  sopra  la  fame  ;  T  Homo  sopra  la  sete  : 

H.  Gli  occhi  miei  idropici  d'amore  vengono  al  fonte  della  vostra  bel- 
lezza per  bere  l'acqua  di  quelle  grazie  che  possono   ravvivarmi. 

D.  II  mio  cuore  digiuno  da  tanto  tempo  della  vostra  leggiadria,  come 
avvoltoio  affamato  vola  alla  mensa  apprestatagli  da  Amore  per 
saziar  le  brame. 

H.  Ma  che  acque  sono  queste  che  quanto  più  ne  bevono  i  lumi  as- 
setati, tanto  più  sento  avanzarmi  la  sete  ? 

D.  Ma  che  cibo  è  questo  che  quanto  più  Io  gusta  l'occhio  innamo- 
rato tanto  più   la  fame  s'aumenta  ? 

H.   Un  uomo  assetato  mai  si  scizia  con  gli  sguardi. 

D.  Un  affamato  desio  non  si  nutrisce  col  solo  mirare. 

H.  Aprite  dal  duro  sasso  della  vostra  indeficiente  vena  di  corrispon- 
denza, perchè  l'assetato  cervo  del  mio  ferito  cuore  ritrovi  la  bra- 
mata abbondanza. 

D.  Non  fate  voi  che  il  Tantalo  veda  fugar  quei  frutti  che  ponno  ri- 
storare il  mio  famelico  affetto. 

H.  lo  vorrei  nuovo  Prometeo  pascere  l'acqua  del  vostro  desiderio  col 
i  mio  cuore. 

D.  Io  vorrei  trasformarmi  nuova  Aretusa  in  fonte  per  togliervi  affatto 
l'amorosa  sete. 

H.   E  che  manca  a  saziarmi  ? 

D.   Trovare  i  mezzi  opportuni  con  parlare  a  mio  padre. 

H.  Precipiterò  gì'  indugi  perchè  si  consoli  il  mio  febbricitante  cuore. 

D.  Fra  tanto  pensa,  o  caro... 

H.   In  questo  mentre,   vorrei  che  avessi  in  pensiero... 

D.  Che  il  mio  desiderio  è  camaleonte... 

H.  Che  l'amor  mio  è  un  augel  di  paradiso... 

(1)  Op.  cit.  p.  226. 


-  204  - 

D.  Che  si  pasce  d'aria... 

H.  Che  vive  della  rugiada  della  speranza. 

D.  Spero  di  saziare  il  mio  desio. 

H.  Voglio  in  te  dissetarmi,  o  fonte  mio. 

Fin'ora  abbiamo  seguito  il  Ferrucci  per  penetrsu^e 
nei  misteri  del  dietro-quinte  della  scena  comica;  ma 
l'arte  del  ben  porgere,  o  meglio,  i  precetti  che  costi- 
tuivano il  modo  di  recitare  e  di  condursi  sulla  scena 
non  avevano  aspettato,  in  Italia,  il  Ferrucci  per  esse- 
re disciplinati  e  riuniti  in  appositi  trattatelli.  Quasi  un 
secolo  e  mezzo  prima  di  lui,  un  comico  ed  impresario 
di  spettacoli  teatrali,  un  ebreo  mantovano  (allora  Man- 
tova dettava  leggi  in  siffatta  materia),  Leone  de  Somi, 
scrisse  appunto  tre  Dialoghi  sull'arte  di  ben  recitare 
in  un  italiano  di  gran  lunga  superiore  a  quello  bar- 
baro e  secentista  per  giunta  del  Ferrucci.  Qualcuno 
dei  suoi  precetti  si  direbbe  quasi  copiato  da  questo 
ultimo.   Eccone  un  saggio  estratto  dal  terzo  Dialogo  : 

"  ...  M' ingegno  di  averli  (/  comici)  prima  di  buona  pronuntia  ,  et 
questo  più  che  altro  importa,  et  poi  cerco  che  sieno  d'aspetto  rap- 
presentante quello  stato  che  hanno  da  imitare  più  perfettamente  che 
sia  possibile,  come  sarebbe,  che  un  innamorato  sia  bello,  un  soldato 
membruto,  un  parassita  grasso,  un  servo  svelto,  et  così  tutti.  Pongo  poi 
gran  cura  alle  voci  di  questi  perchè  io  la  trovo  una  delle  grandi  e 
principali  importanze,  che  vi  sieno,  né  darei  (potendo  far  di  meno)  la 
parte  di  vecchio  ad  uno  che  avesse  la  voce  fanciullesca,  né  una  parte 
da  donna  (o  da  donzella  maxime)  ad  uno  che  avesse  la  voce  grossa. 
E  se  io,  poniam  caso,  avessi  a  far  recitare  un'ombra  in  una  tragedia, 
cercherei  una  voce  squillante...  De  le  fatture  dei  comici  non  mi  cu- 
rerei poi  tanto  potendosi  agevolmente  supplire  con  l'arte  ove  manca  la 
natura,  col  tingere  una  barba,  segnare   una  cicatrice,  far  un  viso  pai- 


—  205  — 

lido  o  giallo,  ovvero  farlo  parer  più  vigoroso  ,  et  rubicondo ,  o  più 
bianco,  o  più  bruno...  Ma  non  mai  però  in  alcun  caso  mi  servirei  di 
maschere  (1),  né  di  barbe  posticce,  perchè  impediscono  troppo  il  re- 
citare, et  se  la  necessità  m'astringesse  far  fare  a  uno  sbarbato  la  parte 
d'un  vecchio,  io  li  dipingerei  il  mento  sì  che  paresse  raso,  con  una  ca- 
pigliatura (parrucca)  canuta  sotto  la  berretta,  li  darei  due  tocchi  di 
pennello  su  le  guance,  et  su  fa  fronte  talché  non  solo  lo  farei  parere 
attempato,  ma  decrepito...  " 

"  ...  é  da  avvertirsi  a  dir  forte,  senza  però  alzar  la  voce  in  modo 
da  gridare,  ma  alzarla  tanto  temperatamente  quanto  basti  a  farsi  udire 
comodamente...  " 

"  Come  vizio  pestilente  poi,  li  proibisco  lo  affrettarsi,  anzi  li  co- 
strmgo,  potendo,  a  recitar  molto  adagio,  et  dico  molto,  facendoli  espri- 
mere con  tardività  solo  le  ultime  sillabe  senza  lasciarsi  mancare  la  voce 
come  molti  fanno,  onde  spesso  lo  spettatore  perde  con  gran  dispiacere 
la  conclusione  de'.la  sentenza... 

"  Circa  poi  agli  altri  precetti  o  modi  di  recitare...  diremo,  presup- 
posto che  il  recitante  abbia  bona  pronunzia,  bona  voce  ed  appropriata 
persona,  naturale  od  artificiata  che  sia,  bisogna  ch'egli  s'ingegni  di  va- 
llar gli  atti  secondo  le  varietà  nelle  occasioni,  et  imitare  non  solamente 
li  personaggio  ch'egli  rappresenta,  ma  anche  lo  stato  in  che  quel  tale 
SI  mostra  d'  essere  in  quell'  ora...  Non  basta  che  uno  faccia  la  parte 
(por.iam  caso)  d'un  avaro,  il  tener  sempre  la  mano  sulla  scarsella,  in 
tentar  spesso  se  li  é  caduta  la  chiave  dello  scrigno,  ma  bisogna  anco 
che  sappia,  occorrendo,  imitar  la  smania  ch'egli  avrà,  verbigrazia,  in- 
tendendo che  il  fìgliuol  li  abbia  involato  il  grano...  Et  se  farà  la  parte 
d'un  servo,  in  oceasione  d'una  subita  allegrezza,  saper  spiccare  a  tempo 
un  salto  garbato  ,  in  occasione  di  dolore,  stracciare  un  fazzoletto  coi 
denti,  in  caso  di  disperóizione,  tirar  via  i  capelli...  Et  se  farà  la  parte 
d  uno  sciocco,  il  rispondere  mal  a  proposito...  bisogna  che  certi  tempi 
sappia   anche   fare  di   più  lo  scimunito,   pigliar  delle   mosche,   cercar   le 


(1)  Si  vede  che  il  De  Somi  scriveva  piuttosto  pel  teatro  erudito, 
premeditato,   come  scriveva  il  Ferrucci,  che   per  la  commedia  a  sog- 

setto. 


-  206  — 

pulci...  Et  se  farà  la  parte  d'una  serva,  nell'uscir  di  casa,  saper  scuotersi 
la  gonnella  lascivamente,  se  l'occisiorie  lo  comporta,  ovvero  mordersi 
un  dito  per  isdegno...  i 

"  ...  il  recitante  dee  portar  sempre  la  persona  svelta,  le  membra 
sciolte,  et  non  annodate  ed  intiere.  Dee  fermare  i  piedi  con  appro- 
priata maniera  quando  parla,  et  muoverli  con  leggiadria  quando  gli  oc- 
corre J  servar  col  capo  un  certo  moto  naturale,  che  non  paja  ch'egl 
l'abbia  affissato  al  collo  coi  chiodi,  et  le  braccia  e  le  mani  (quando 
non  facci  bisogno  il  gestir  con  essi),  si  deeno  lassar  andare  ove  la  na- 
tura li  inchina,  e  non  far  come  molti,  che  volendo  gestir  fuor  di  pro- 
posito par  che  non  sappiano  che  se  ne  fare.  Servando  però  semprt 
negli  atti  maggiore  o  minor  gravità  secondo  lo  stato  del  personaggic 
richiede,  e  così  nnche  nel  suono  delle  parole  ora  arrogante,  ora  pla- 
cido, or  con  timidezza  ed  or  con  ardire  esplicare...  ed  osservando  i 
naturale  di  quelle  qualità  di  persone  che  si  rappresentano.  Et  sopra 
tutto  fuggire  come  la  mala  ventura  un  certo  modo  di  recitare  dirò  pe- 
dantesco... simile  al  ripetere  che  fanno  nella  scuola  i  fanciulli  (1)  ". 


(l)  Rasi,  I  Comici  italiani,  voi.  I,  pp.  106  e  segg.  Il  Rasi  affcr 
ma  d'aver  riprodotto  il  Dialogo  da  un  manoscritto  della  R.  Universit 
di  Parma.  Anche  il  comico  Cecchini  scrisse  un  discorso  sull'Ari 
Comica,  rimasto  inedito.  V.  Rasi,  op.  cit.  voi.  I.  p.  624. 


CAPITOLO  SETTIMO 

Il  pubblico   della  Commedia  dell'Arte. 


Generalmente  gli  storici  del  teatro,  ed  anche  quelli 
^",  d'un  solo  genere  di  spettacolo  teatrale  ,  dimenticano 
il  pubblico;  essi  fanno  la  storia  della  scena,  ma  non 
quella  della  platea.  O  meglio  ,  essi  si  ricordano  an- 
che di  questa,  ma  solo  per  prendere  nota  degli  ap- 
plausi o  dei  fischi,  o,  per  lo  meno,  degli  sbadigli  (il 
successo  di  stima  dei  moderni)  coi  quali  fu  accolta 
dall'  "  udienza  "  come  direbbe  il  Ferrucci,  la  trage- 
dia o  la  commedia  che  dinanzi  alla  stessa  si  recitava. 
Di  rado,  e  fugacemente,  quasi  non  fosse  materia  de- 
gna d'attirare  l'attenzione  d'uno  storico,  è  stata  presa 
ad  esame  la  psiche  degli  spettatori  ;  quasi  che  sif- 
fatto esame  fosse  perfettamente  inutile  a  chi  volesse 
entrare  davvero  nello  spirito  dello  spettatore.  All'  in- 
contro ,  si  sa  ,  che  questo,  quasi  sempre,  non  riflette 
che  i  sentimenti  del  pubblico,  il  quale,  in  tal  modo, 
diventa  inconsapevolmente  un  collaboratore  del  com- 
mediografo, mentre,  alla  sua  volta,  questo  oscuro  ed 
ignorato  collaboratore,  spesso,  non  foggia  l'animo  suo 


208  — 


I 

che  su  sentimenti  o  idee  che  emanano  dalla  scena. 
Ed  in  vero  ,  dal  giorno  in  cui  il  primo  comico  col 
volto  tinto  di  nero  ,  da  un  carro  da  fiera  ,  recitò  al 
suo  pubblico  ragunaticcio  e  cencioso  a  quello  in  cui 
i  suoi  successori ,  calzando  il  coturno  o  il  socco  ,  o 
semplicemente  un  par  di  scarpette  di  vitello  o  di  co- 
pale, parlarono  ad  uno  scelto  uditorio  riunito  in  una 
sala  più  o  meno  riccamente  decorata ,  si  stabilì  ,  fra 
scena  e  platea,  una  doppia  corrente  di  sentimenti  ed 
impressioni,  una  delle  quali  partendosi  da  questa  in- 
vesti e  pervase  la  scena  ,  mentre  V  altra  staccandosi 
dalla  stessa  scena  avvolse  e  conquistò  la  platea.  Scena 
e  platea  si  suggestionarono  scambievolmente.  Così, 
per  citare  qualche  esempio  antico  ,  se  le  commedie 
d'Aristofane  ritraggono  la  vita  d'Atene  dei  tempi  del 
commediografo  ,  non  è  infondato  il  credere  che  le 
^Njihi  abbiano  formato  una  corrente  ostile  ai  filosofi 
con  a  capo  Socrate,  e  i  Cavalieri  un'altra  contro  i 
democratici.  E  per  non  fermarci  che  all'  azione  che  i 
la  platea  esercita  sullo  spettacolo,  possiamo  affermare 
ch'essa  è  di  sua  natura  talmente  irresistibile,  che  av-  | 
volge  ed  anche  trascina  gli  scrittori  più  resti  a  subir- 
la ,  compresi  coloro  i  quali  si  rifugiano  con  la  loro 
opera  fra  tempi  ed  uomini  scomparsi.  In  questo  caso, 
codesti  scrittori,  col  sussidio  della  storia  e  dell'archeo- 
logia, credono  in  buona  fede  d'aver  dato  forma  sulla 
scena  ad  una  vita  diversa  da  quella  da  essi  stessi  ei 
dal  loro  pubblico  vissuta;  ma  non  è  che  una  illusione  : 
raschiate  la  vernice  storica  ed  archeologica  che  copre) 
la  loro  opera  ,  e  sotto  troverete  ,  più    o    meno  vital- 


—  209  — 

mente  riprodotti,  gli  uomini  fra  i  quali  vive  l'autore, 
con  tutte  le  loro  idee,  con  tutte  le  loro  passioni. 

Plauto  ,  sebbene  molte  sue  commedie  non  fossero 
che  riduzioni  dal  greco,  e  in  parecchie  espressamente 
indicasse  come  luogo  dell'  azione  città  greche,  è  nel- 
l'opera sua  sempre  romano  :  egli  scriveva  per  la  plebe 
di  Roma  e  1'  anima  di  questa  trasfondeva  nelle  sue 
commedie. 

Il  Racine,  sebbene  cavasse  gli  argomenti  delle  sue 
tragedie  dalla  storia  di  Grecia  e  di  Roma  o  dal  Vec- 
chio Testamento,  è,  nel  suo  teatro,  prettamente  fran- 
cese ;  così  gli  eroi  e  le  eroine  delle  sue  tragedie,  a 
malgrado  dei  loro  nomi  classici  o  biblici  ,  hanno  i 
sentimenti  delle  gentildonne  e  dei  gentiluomini  della 
corte  di  Luigi  XIV.  Anche  1'  Alfieri,  che  volle  coi 
personaggi  delle  sue  tragedie  respirare  V  aria  dei  li- 
beri fóri  della  vecchia  Roma  e  delle  libere  agore 
della  vecchia  Grecia,  quando  fa  parlare  i  suoi  odia- 
tori di  tiranni  ,  non  mette  loro  sulle  labbra  che  pa- 
role o  frasi  che  gli  spettatori  già  conoscevano  per 
averle  lette  nei  libri  del  Voltaire,  del  Rousseau,  del 
D'Alembert  e  del  Diderot.  Più  recentemente  il  tea- 
tro storico  di  Vittor  Hugo  ,  a  malgrado  della  esat- 
tezza dei  particolari  della  scena  e  degli  abiti  ,  non 
rispecchia  Tanima  delle  generazioni  che  videro  Car- 
lo V,  Francesco  I,  Luigi  XII,  il  cardinale  Richelieu, 
Cromwell,  Maria  Tudor,  ma  sibbene  I'  anima  roman- 
tica francese  dei  tempi  di  Ccirlo  X  e  di  Luigi  Fi- 
lippo. Ruy  Blas,  Hernani,  Angelo,  donna  Sol,  Ma- 
rion de  Lorme,  non  sono  che  romantici. 

C^Cel  Regno  delle  ^aichere  14 


—  210 


Air  incontro  ,  se  noi  analizzassimo  certi  atteggia- 
menti d'animo,  certe  idee  prevalenti  in  un  dato  tempo 
presso  una  società,  troveremmo  la  loro  origine  negli 
spettacoli  pubblici  ,  in  certe  correnti  spirituali  ema- 
nanti dalla  scena.  A  rendere  m.eno  ostili  le  anime 
nostre  alla  cortigiana  e  a  credere  alla  sua  redenzione 
mediante  l' amore  ,  è  valso  più  il  dramma  di  Ales- 
sandro Dumas  figlio,  la  Signora  dalle  Camelie  ,  che 
il  perdono  di  Gesù  a   Maddalena. 

Laonde  lo  studio  del  pubblico,  per  valutare  il  va- 
lore d'un  teatro,  per  spiegarne  il  trionfo  o  la  deca- 
denza, s'impone:  in  questi  casi,  anzi,  il  suo  studio  è 
una  necessità. 

Uno  dei  nostri  pregiudizi  meglio  radicati  è  quello 
di  credere  che  la  società  italiana  della  metà  del  se- 
colo XVI  (fu  allora  che  cominciò  a  fiorire  la  com- 
media dell'arte)  fosse  una  società  completamente  evo- 
luta, una  società  in  cui  il  sentimento  dell'  arte  cam- 
minasse di  pari  passo  con  quello  morale,  la  genialità 
spesso  creatrice  dei  poeti,  dei  pittori  e  degli  scultori 
con  la  raffinatezza  dei  costumi  e  la  mitezza  delle 
passioni.  Abituati  a  studiare  il  Cinquecento  attraverso 
gli  splendori  della  Corte  di  Leone  X,  di  quelle  mi- 
nori dei  duchi  di  Urbino  ,  di  Mantova  ,  di  Ferrara, 
attraverso  i  poemi  di  Ludovico  Ariosto  e  di  Tor- 
quato Tasso  ,  le  tele  di  Raffaello  e  di  Tiziano  ,  le 
statue  di  Michelangelo  ,  le  oreficerie  di  Benvenuto 
Cellini,  la  prosa  del  Machiavelli,  del  Castiglione,  del 
Guicciardini,  del  Bembo,  del  Caro,  noi  non  ci  siamo 
fatta  che  un'idea  assai  incompleta  di  quei  tempi.  Ora 


—  211    - 

noi  pensiamo  che  giammai  società  presentò,  nella  sua 
vita,  tanto  contrasto  di  bene  e  di  male,  di  luce  e  di 
ombra  ,  quanto  quella  del  Cinquecento.  Il  grandioso 
quadro  in  cui  quest'ultimo  ha  scritto  la  sua  storia,  si 
direbbe  quasi  dipinto  da  due  pittori  di  stile  affatto 
diverso  ;  da  un  lato  Paolo  Veronese  con  tutta  la  ma- 
gnificenza del  suo  colorito,  dall'altro  il  Rembrandt  con 
tutto  il  contrasto  dei  suoi  chiaroscuri.  C'è  luce  e  te- 
nebre insieme  ;  Cesare  Borgia  sta  a  fianco  di  Raf- 
faello ,  che  ne  fa  il  ritratto  ;  Michelangelo  ,  austero, 
accanto  a  Pietro  Aretino  ,  scrittore  turpe  ;  si  creano 
nuovi  santi,  ma  si  onorano  anche  cortigiane. 

Difatti,  Vittoria  Colonna,  donna  d'altissimo  ingegno, 
ma  pia  ,  non  ebbe  meno  onoranze  d'  Imperia  e  di 
Tullia  d'Aragona,  prostitute  ,  che  per  via  d' infamia, 
acquistarono  celebrità. 

Di  codesto  quadro,  noi  non  vediamo  che  il  primo 
lato,  quello  pieno  di  luce  ;  Y  altro ,  lo  trascuriamo 
completamente.  E  appunto  in  quest'  ultimo  lato  che 
noi  possiamo  trovare  la  ragione  d'  essere ,  la  ragione 
dei  subiti  trionfi  d'uno  spettacolo  teatrale  qual'era  la 
commedia  dell'arte,  che  se  muoveva  1*  ilarità  del  pub- 
blico, era  spesso,  se  non  quasi  sempre,  triviale,  gros- 
solano. 

In  verità,  il  Cinquecento  conservava  in  se  parec- 
chi di  quei  germi  di  grossolanità  ,  di  rozzezza  ,  che 
aveva  ereditato  dal  Medio  Evo.  Sotto  una  brillante 
superfìcie  conservava  ancora  gusti  ignobili ,  una  mo- 
ralità molto  rilassata  ,  passioni  terribili.  C'era  ancora 
della  barbarie    in    quella  società.   Accanto  ai   grandi 


—  212  — 

artisti ,  ai  grandi  poeti ,  ai  filosofi  imbevuti  di  filoso- 
fia greca  ,  e'  erano  dei  grandi  malfattori,  non  coperti 
di  cenci,  sperduti  fra  la  plebe  delle  grandi  città  o 
randagi  per  le  campagne,  ma  indossanti  abiti  di  seta 
e  di  velluto,  tutta  gente  temuta  ed  anche  rispettata 
ed  adulata  da  poeti,  da  artisti,  da  una  folla,  che,  alla 
sua  volta,  vestiva  anche  di  seta  e  di  velluto.  S'ingan- 
nerebbe, per  esempio,  chi  ritenesse  1'  alta  società  di 
quei  tempi  tutta  modellata  sul  Cortegiano  di  Baldas- 
sarre Castiglione.  Questo  libro  che  pur  acquistò  tanta 
fama  non  appena  vide  la  luce  (nel  1528,  a  Vene- 
zia) ,  più  che  a  rappresentare  il  gentiluomo  italiano 
dei  tempi  dell'autore,  si  direbbe  che  fosse  scritto  piut- 
tosto per  farne  la  satira.  Il  "  cortegiano  "  italiano  di 
quei  tempi  era  assai  diverso  da  quello  che  il  Casti- 
glione volle  dipingere  nel  suo  libro.  Per  altro,  l'au- 
tore stesso  comprendeva  che  più  che  un  gentiluomo 
reale,  vivente,  non  creava  che  un  gentiluomo  ideale. 
Egli  voleva  che  questo  suo  perfetto  "  cortegiano  " 
fosse  nato  nobile  e  di  generosa  famiglia  "perchè  molta 
men  si  disdice  ad  un  ignobile  mancar  di  far  opera- 
zioni virtuose,  che  ad  un  nobile  ,  il  quale  se  desvia 
dal  cammino  dei  suoi  antecessori,  macula  il  nome  della 
famiglia";  voleva  che  da  natura  avesse  "non  solamente 
lo  ingegno,  e  bella  forma  di  persona  e  di  volto,  ma 
anche  una  certa  grazia,  e,  come  si  dice  ,  un  sangue  f 
che  lo  faccia  a  primo  aspetto  a  chiunque  lo  vede  grato 
ed  amabile  ",  ma  "  non  così  molle  e  f eminile  come 
si  sforzano  d'aver  molti  che  non  solamente  si  crespano  ! 
i  capelli  e  spelano  le  ciglia,  ma  si  strisciano  con  tuttii 


—  213  — 

•quei  modi  che  si  faccian  le  più  lascive  e  disoneste 
femine  del  mondo  ";  che  conoscesse  tutti  gli  esercizi 
elei  corpo,  compresa  la  lotta,  "  perchè  questa  accom- 
pagna molto  tutte  l'arme  da  piedi...  "  Ed  aggiungeva: 
^  Conveniente  è  ancor  saper  nuotare,  saltare,  correre, 
gittar  pietre...  perchè...  s'  acquista  bona  estimazione, 
massimamente  nella  moltitudine...  "  Doveva  il  perfetto 
cortegiano  ",  inoltre,  possedere  in  tutti  i  suoi  atti,  come 
in  tutta  la  persona,  la  "  grazia  ",  la  quale  non  deve 
essere  affettata,  ma  naturale,  e  pensando  alle  doti  della 
mente  ,  voleva  il  Castiglione  che  il  suo  gentiluomo 
parlasse  bene,  in  buono  italiano,  che  conoscesse  il  la- 
tino e  il  greco,  la  musica  e  il  disegno,  senza  che  per 
questo  cessasse  la  sua  principale  occupazione,  quella, 
cioè,  delle  armi.  Infine  occorreva  che  questo  suo  ca- 
valiere ideale  fosse  "  come  si  dice,  omo  da  bene  in- 
tiero che  in  questo  si  comprende  la  prudenzia,  bontà, 
fortezza  e  temperanzia  d'animo,  e  tutte  le  altre  con- 
dizioni che  a  così  onorato  nome  si  convengono  (  1  )  " . 
Ma  codesto  ritratto  d'un  cavaliere  perfetto  non  era,  co- 
me abbiamo  detto,  che  quello  d'un  cavaliere  ideale.  La 
realtà  era  diversa,  anche  perchè  delle  doti  richieste  dal 
Castiglione  per  formare  un  perfetto  cavaliere,  talune  s'a- 
dottavano a  meraviglia  anche  ad  un  cattivo  cavaliere, 
anzi  a  tutti  quei  capitani  di  ventura  che  infestavano 
1  Italia,  e  parecchie  altre  erano  così  vaghe  ,  come 
r  "  omo  da  bene  ed  intiero  "  ,  che  con  un  pò  di  li- 
bertà di  fantasia,  si   sarebbero  potute  applicare  anche 

(I)   //  Cortegiano;   Lib.  I. 


—  214  - 

a  Cesare  Borgia.  Un  altro  libro,  all'incontro,  il  Pr/n- 
cipe ,  il  cui  autore  ,  Niccolò  Machiavelli  ,  morì  un 
anno  prima  (1527)  che  il  Cortegiano  vedesse  la  luce, 
sebbene  non  sia  che  il  manuale  d'un  uomo  di  Stato, 
e  quindi  essenzialmente  politico,  pure  occupandosi  del 
modo  di  acquistare  e  mantenere  gli  Stati  ,  ci  rivela 
la  vera  indole  di  quella  società  ,  anzi  di  quella  so- 
cietà in  cui  il  perfetto  gentiluomo  ideato  dal  Casti- 
glione avrebbe  dovuto  fare  sfoggio  dalle  sue  belle 
qualità:  e  codesta  società  ci  si  mostra  inquinata  di 
tutte  le  più  ributtanti  passioni  erompenti  in  inaudite 
scelleratezze,  che  la  politica  battezzava  come  neces- 
sità o  ragione  di  Stato.  Non  bisogna  dimenticare  che 
erano  i  tempi  di  Alessandro  VI  ,  di  Cesare  Borgia, 
di  Ludovico  il  Moro  ed  anche  di  qualcuno  di  quei 
duchi  d'Urbino  nel  cui  castello  ricco  di  meraviglie 
artistiche,  ospitale  ricovero  di  filosofi  ,  di  eruditi  ,  di 
poeti  e  d' artisti,  il  Castiglione  immaginò  che  si  riu- 
nissero insieme  alla  duchessa  Eleonora  Gonzaga,  Ga- 
spar  Pallavicino,  Cesare  Gonzaga,  fra'  Serafino  Aide- 
rigo,  Ottaviano  Fregoso,  Giuliano  de'  Medici,  Pietro 
Bembo,  Lodovico  da  Canossa,  Lodovico  Pio,  l'Unico 
Aretino  ed  altri  cavalieri  ed  uomini  di  lettere  per  ra- 
gionare intorno  alle  qualità  necessarie  per  formare  un 
perfetto  cortegiano.  Sebbene  nella  seconda  metà  del 
Cinquecento,  e  più  propriamente  verso  la  fine,  l'anima 
italiana  avesse  subito  una  grave  crisi  spogliandosi,  in 
seguito  alla  reazione  cattolica  o  contro-riforma  avve- 
nuta per  opera  del  Concilio  di  Trento,  di  molte  sco- 
rie, e  r  arte  (e  questa  intesa  nel  senso  più  largo)  si 


—  215  - 

fosse  informata  al  nuovo  indirizzo  ,  pure  la  società , 
nelle  sue  linee  generali,  rimase  la  stessa  con  molta 
bacchettoneria  di  più  per  giunta. 

La  gentilezza  dei  modi,  la  mitezza  d'animo,  lo  spi- 
rito di  tolleranza,  l'odio  della  violenza  e  della  prepo- 
tenza, l'orrore  pel  sangue,  tutte  queste  virtù  delle  so- 
cietà veramente  civili,  non  formavano  allora  che  il  pa- 
trimonio di  pochi  solitari.  I  delitti,  anche  i  più  atroci, 
non  si  consumavano  dalle  plebi  delle  città  e  delle  cam- 
pagne; n'era  inquinata  l'alta  società.  Nell'anima  italiana 
ribollivano  ancora  i  germi  della  vita,  tutta  prepotenza, 
tutta  barbarie  ,  del  Medio  Evo.  Certamente  non  è 
questo  il  luogo  di  scrivere  la  storia  della  vita  italia- 
na di  quei  tempi  ;  ma  un  breve  saggio  d'analisi  della 
stessa  vita  ,  o  meglio ,  della  psiche  collettiva  italiana 
di  quei  tempi,  ch'erano  ancora  quelli  dei  grandi  poeti, 
dei  grandi  prosatori,  dei  grandi  artisti ,  e  pur  neces- 
sario per  conoscere,  e  non  superficialmente,  il  pubblico 
che  assisteva  alle  rappresentazioni  della  commedia  a 
soggetto. 

Diremo  dunque  che  codesta  psiche  ,  compresa 
quella  delle  classi  più  elevate ,  delle  classi  che  oggi 
si  chiamerebbero  dirigenti ,  presentava  delle  sorpren- 
denti deficienze  ,  delle  profonde  lacune.  Mentre  si 
compiaceva  della  correttezza  del  disegno  d'una  tela 
o  del  felice  sviluppo  delle  linee  d'un  edificio,  o  della 
freschezza  d'immagini  d'un  sonetto  o  d'una  canzone, 
o  andava  in  estasi  alla  recita  d'  un'  azione  modellata 
sullo  stile  di  monsignor  Giovanni  della  Casa  o  di 
Pietro  Bembo  ,    conservava    tutta  la  violenza  propria 


-  216 

della  barbarie  dalla  quale  era  di  recente  uscita.  Senza 
parlare  del  divino ,  del  maraviglioso  Pietro  Aretino, 
il  più  laido  di  tutti  i  più  laidi  scrittori  del  cinque- 
cento, che  ride  a  sentir  raccontare  certe  oscene  avven- 
ture delle  proprie  sorelle,  già,  uno  degli  artisti  più 
geniali,  Benvenuto  Cellini,  che  aveva  dato  splendida 
prova  della  vigoria  del  suo  ingegno  nel  Perseo  e  della 
fine  squisita  raffinatezza  del  suo  gusto  in  minuscoli 
capo-lavori  d'oreficeria,  è  un  delinquente.  Egli  non 
ha  senso  morale;  tira  colpi  di  spada  o  di  pistola,  è  ac- 
cusato di  pederastia.  Monsignor  della  Casa  ,  autore 
d'un  famoso  trattato  di  buone  usanze,  è  anche  un  laido 
narratore  di  cose  oscene,  ne  men  disonesto  narratore 
d'avventure  non  caste  è  un  altro  vescovo,  Matteo  Ban- 
dello.  Anche  il  Castiglione,  che  sognava  un  cavalier 
perfetto,  nelle  prime  redazioni  del  suo  Cortegiano 
introdusse  cose  che  avrebbero  fatto  arrossire  non  il 
suo  immaginario  cavaliere,  ma  il  suo  valletto.  L' im- 
moralità ,  anzi ,  non  faceva  allora  arrossire  ne  genti- 
luomini, ne  dame.  Anche  coloro  che  non  commette- 
vano azioni  turpi,  se  ne  sentivano  parlare,  rimanevano 
indifferenti  ,  quando  loro  non  era  motivo  di  riso  :  il 
narrare  cose  disoneste  ,  brutte  e  sconcie  avventure 
d'alcova,  anche  per  le  persone  più  gravi ,  era  argo- 
mento di  conversazione  lecita,  quando  non  serviva  di 
riposo  ad  una  seria  occupazione.  Il  Machiavelli,  che 
scrisse  i  T)iscorsi ,  le  Storie  ,  e  il  Principe ,  scrisse 
pure  la  non  casta  Mandragora.  Le  dame  più  colte, 
le  principesse  più  illustri,  leggevano,  e  non  di  nascosto, 
novelle  e  poemi   licenziosi;  nessuno  riteneva  che  simili 


—  217  — 

letture  offendessero  la  moralità  o  il  decoro  d'una  dama 
o,  peggio,  che  fossero  segno  di  propria  scostumatezza. 
E  la  licenziosità  non  era  velata,  sottintesa  ;  lo  scrittore 
le  cose  sue,  anche  le  più  triviali,  le  spiattellava  come 
gli  venivan  giù  dalla  penna,  coi  loro  nomi,  sicuro  che 
non  avrebbero  fatto  arrossire  ne  cavalieri ,  ne  dame. 
11  Bandello  ,  in  una  sua  novella ,  narra  d' un  curioso 
appuntamento  intimo  che  una  donna  maritata  aveva 
dato  al  suo  amante:  il  luogo  dello  stesso,  oggi,  dalle 
classi  elavate,  si  chiamerebbe  con  una  doppia  parola 
inglese,  ma  allora  si  chiamava  con  un  nome  che  com- 
prendeva anche  la  plebe,  perchè,  anche  essa,  non  ne 
adoperava  uno  diverso.  All'ora  convenuta,  la  donna, 
che  già  si  trovava  a  letto  col  marito ,  chiede  a  co- 
stui il  permesso  di  recarsi  in  quel  certo  posto  per 
soddisfare  una  sua  necessità  corporale  ;  e  il  marito, 
che  nulla  sa  degli  intrighi  della  moglie,  l'  accorda. 
Tosto  egli  udì  dei  rumori,  che  certamente  non  ave- 
vano nulla  di  comune  con  la  necessità  corporale  ac- 
cusata dalla  moglie  ;  ma  il  buon'  uomo  riteneva  che 
fossero  una  conseguenza  di  quella  tale  necessità.  Tutto 
ciò  è  narrato  senza  circonlocuzioni  ;  una  vera  trivia- 
lità, non  è  vero  ?  Ma  nessuno  ne  restava  stomacato. 
Vittoria  Colonna,  marchesana  di  Pescara,  poetessa  il- 
lustre, donna  di  costumi  esemplari,  lesse  ,  prima  che 
fosse  dato  alle  stampe,  il  Cortegiano  del  Castiglione, 
e,  certamente,  in  una  versione  non  ancora  dal  suo 
autore  espurgata  di  parecchie  laidezze:  ebbene,  l'il- 
lustre e  pia  dama  trovò  l'opera  perfetta  e  non  ebbe 
nessuna    parola    per    protestare    contro  la  licenziosità 


—  218  -  1 

del  linguaggio.  Così  portavano  i  tempi:  non  solo  fra 
i  gentiluomini  non  erano  rari  coloro  che  sapevano  il 
latino  e  il  greco,  ma  anche  parecchie  donne  posse- 
devano in  sommo  grado  la  coltura  classica;  se  non  che, 
questa  non  era  arrivata  a  far  detestare  tanto  dagli  uni 
quanto  dalle  altre  la  trivialità  e  V  immoralità. 

Come  dicemmo,  a  metà  inoltrata  del  Cinquecento 
la  reazione  cattolica  frenò  molti  abusi ,  smussò  molti 
caratteri  angolosi;  certa  licenziosità  di  linguaggio  scom- 
parve o  scemò  dai  libri  già  sottoposti  a  censura.  Il 
nuovo  ordine  religioso ,  la  compagnia  di  Gesù,  s'era 
costituita  in  gendarme  dello  spirito  pubblico  e  privato. 
Quella  specie  di  quiete  in  cui  s'adagiò  l'Italia  dopo 
la  prevalenza  assoluta  della  Spagna  nelle  terre  e  nelle 
faccende  d'Italia,  imbavagliò  molte  audacie,  rese  im- 
possibili certe  ribellioni,  educò  al  giogo  ,  tanto  stra- 
niero quanto  interno,  le  plebi  e  con  queste  anche  le 
classi  superiori.  Ma  la  vecchia  anima  italiana,  attra- 
verso quella  quiete  che  qualcuno  chiamò  da  cimitero, 
continuò  a  pulsare,  sebbene  in  un  ritmo  meno  sensi- 
bile. La  delinquenza,  a  base  barbarica,  di  violenza, 
continuò  ad  infestare  in  modo  spaventevole  la  intiera 
penisola.  Al  Nord  non  si  stava,  sotto  questo  aspetto, 
meglio  che  al  Centro;  ne  al  Sud  peggio  del  Nord  e 
del  Centro.  Erompeva  il  delitto  anche  spaventevol- 
mente  dalle  classi  superiori,  dirigenti.  Quella  società, 
che  le  vecchie  violenze  ora  copriva  con  un  velo  d'ipo- 
crisia, assai  di  frequente  era  funestata  da  delitti  ter- 
ribili. Tra  la  fine  del  Cinquecento  e  il  principio  del 
Seicento,  due  nobili  famiglie  romane,  quella  dei  Cenci 


-  219  ~ 

e  l'altra  dei  Santa  Croce,  vedono  parecchi  dei  loro  com- 
ponenti salire  il  patibolo  per  parricidio;  sempre  a  Roma, 
sede  del  papato,  e  quasi  nello  stesso  tempo,  un  Troilo 
Savelli  ,  nobile  ,  sale  il  patibolo  per  assassinio  ;  due 
fratelli  Massimi  (ed  anche  questi  nobili)  uccidono  la 
matrigna,  e  uno  di  loro,  il  minore  ,  avvelena  il  pri- 
mogenito capo  di  casa;  nel  1 383,  perchè  i  birri  ave- 
vano arrestato  presso  gli  Orsini,  in  luogo  d'asilo,  un 
bandito,  i  vassalli  della  potente  famiglia  patrizia  s'ar- 
mano, danno  la  caccia  ai  birri,  e  ne  ammazzano  pa- 
recchi ,  anche  dentro  il  palazzo  del  papa.  Codesti 
Orsini,  che  ebbero  tanta  parte  coi  Colonna  nella  storia 
di  Roma  medievale,  anche  cessata  la  barbarie,  con- 
tinuarono ad  essere  qualche  cosa  fra  il  masnadiero  e 
l'assassino:  nel  1336,  Vulpio  Orsini,  signore  di  Li- 
cenza, strozza  la  propria  moglie  Porzia;  Paolo  Orsini, 
scoperta  rea  la  moglie  Isabella,  figlia  di  Cosimo  dei 
Medici,  tra  gli  abbracci  coniugali  ,  la  strangola  ;  lo 
stesso  Paolo  innamoratosi  di  Vittoria  Accoramboni 
moglie  d'un  Peretti  nipote  di  Sisto  V,  fa  assassinare 
il  marito  per  sposarla;  e  difatti  la  sposò  ,  ma  morto 
lui,  la  vedova,  a  Padova,  per  cupidigia,  è  strangolata 
da  un  altro  Orsini.  Ne  minori  esempi  di  delinquenza 
offre  la  famiglia  rivale,  quella  dei  Colonna  :  Pompeo 
Colonna  uccide  una  propria  parente,  Livia  Colonna; 
un  altro,  Sciarra  Colonna,  nel  1  339,  strangolò  Isabella 
duchessa  di  Paliano  ;  sempre  nelle  famiglie  patrizie 
di  Roma,  Giovanni  Savelli,  nel  1362,  uccide  la  pro- 
pria moglie  ;  nel  1 390  una  Massimo  è  uccisa  dal 
proprio  figlio.  Altrove,  discendenti  d' illustri  famiglie 


—  220  — 

si  sporcano  le  mani  di  sangue  o  si  buttano  alla  cam- 
pagna facendo  i  masnadieri  all'ingrande  non  potendo 
fare,  perchè  cambiati  i  tempi  ,  i  capitani  di  ventura. 
A  Firenze,  Iacopo  Salviati  ha  per  ganza  una  popo- 
lana, una  Canacci;  la  moglie.  Veronica  Cybo,  guada- 
gna col  denaro  un  cOstei  fìghastro,  il  quale  uccide  la 
matrigna  e  ne  porta  la  testa  alla  moglie  gelosa  ;  a 
Ravenna,  una  fanciulla  della  nobile  famiglia  dei  Ra- 
sponi  è  violata  da  un  tale,  che  poi  sposò;  ma  il  fra- 
tello di  lei,  per  vendicare  il  nome  della  famiglia,  rac- 
coglie cento  banditi  —  una  merce  che  nel  mercato 
della  delinquenza  d'allora  non  faceva  difetto  —  assalta 
e  scala  le  mura  della  città,  aggredisce  la  casa  degli 
sposi  che  trucida,  e  con  loro  un  fratello,  una  sorella, 
il  padre  e  i  servi  dello  sposo:  poi  ,  esula.  Alfonso 
Piccolomini,  duca  di  Montemarciano,  assolda  banditi 
e  diventa  il  terrore  dell*  Umbria;  assalito  ,  ripiega  in 
Toscana,  e  per  mezzo  del  granduca ,  come  se  fosse 
una  potenza,  patteggia  la  pace  col  papa,  Gregorio  XIII: 
venuto  a  Roma  per  V  assoluzione,  presenta  tal  lista 
d'assassini,  di  stupri,  di  rubamenti,  d'incendi,  che  il 
pontefice  ne  inorridisce.  Di  codesti  nobili,  fattisi  ma-i, 
snadieri,  qui  potremmo  fare  molti  e  molti  nomi,  non 
escluso  quello  di  quel  signorotto  lombardo  che  al 
Manzoni  servì  per  creare  il  personaggio  dell'  Innomi- 
nato; ma  tale  esposizione  ci  trarrebbe  assai  lungi  dal 
nostro  argomento.  Solo  diremo  che  in  Lombardia  le 
famose  grida  contro  i  banditi  riboccavano  di  nomi 
appartenenti  a  illustri  famighe  :  i  Martinenghi  di  Val- 
sesia,   i  Visconti  di  Bregnano,  i  Benzoni  di  Crema,  i 


-  221   - 

Vimercati,  i  Balbiano  di  Belgiojoso,  un  marchese  Ma- 
laspina,  i  conti  di  Paico,  i  Torelli,  i  Thiene,  i  Lam- 
pugnani  ed  altri  :  tutto  o  quasi  tutto  il  patriziato  aveva 
sulla  strada  maestra  i  suoi  rappresentanti.  Altri  nobili, 
senza  darsi  alla  campagna,  commettevano  gravi  delitti 
in  città,  quasi  sempre  rimanendo  impuniti.  Spesso  co- 
desti reati  assumevano  forma  singolare  per  non  dire 
addirittura  pazzesca.  A  Roma,  un  giorno,  un  Caffa- 
relli  con  altri  gentiluomini  ,  si  pone  a  rotolare  dalla 
lunga  scalinata  d'Ara  Coeli,  una  botte  piena  di  sassi, 
la  quale,  scendendo  giù  a  precipizio,  ammazza  pa- 
recchi popolani,  che  ivi  stavano  a  dormire.  S'ammaz- 
zava o  si  concorreva  negli  ammazzamenti  per  ispirito 
di  solidarietà  di  classe:  un  Vitelli,  sempre  a  Roma, 
mentre  rincasa,  è  assalito  da  sette  persone  ed  ucciso; 
nello  stesso  tempo,  circa  altri  trenta  individui ,  tutti 
armati,  quasi  si  trattasse  d'uno  spettacolo,  presenziano 
la  strage.  Il  brigantaggio,  intanto,  assumeva  propor- 
zioni epiche.  Vi  furono  briganti  che  la  leggenda  in- 
nalzò a  dignità  d'eroi,  eroi  da  strada  maestra,  s'intende, 
ma  eroi.  Marco  Sciarra,  a  capo  di  seicento  masnadieri, 
regnò  indisturbato  ,  per  sette  anni  ,  fra  la  campagna 
romana  e  gli  Abruzzi:  un  giorno  gli  capitò  fra  i  piedi 
un  viaggiatore,  che  rilasciò  subito,  e  con  molte  scuse 
pel  caso  toccatogli  e  molte  frasi  landative  pel  suo  in- 
gegno divino,  quando  seppe  che  quel  viaggiatore  era, 
nientemeno,  Torquato  Tasso,  1'  autore  della  Gerusa- 
lemme Liberata,  eh'  egli,  l' intellettuale  bandito  ,  leg- 
geva nei  suoi  momenti  d'  ozio.  Alla  morte  di  Gre- 
gorio XIII,  i  banditi  s'impossessarono  quasi  di  Roma; 


—  222  — 

svaligiarono  la  chiesa  di  Santa  Maria  del  Popolo  e 
quella  della  Minerva  ;  furono  ugualmente  svaligiate 
cinque  case  di  cardinali;  alcuni  nobili  con  bande  di 
malfattori  correvano  per  la  città  rubando,  stuprando, 
assassinando.  Alla  loro  volta,  i  governatori,  i  vice-de- 
legati ne  approfittarono  per  scarcerare  i  delinquenti, 
vendere  la  giustizia,  e  spogliare  i  cittadini.  Sotto  il  se- 
vero governo  di  Sisto  V,  un  prete  Quercia  si  dà  alla 
campagna  e  diventa  padrone  della  Comarca;  fra  l'altro 
deve  render  conto  di  quattordici  omicidi,  si  pente  ed 
è  assolto  del  terribile  pontefice.  Ma  subito  uccide 
due  suoi  amici,  fugge,  ma  Sisto  gli  mette  una  grossa 
taglia,  è  ucciso,  se  ne  porta  la  testa  al  papa,  il  quale 
la  fa  esporre  a  Ponte  Sant'Angelo  (1).  A  Napoli, 
verso  il  1 660,  un  abate ,  Cesare  Rinaldi  ,  uccide  il 
duca  di  San  Paolo,  scappa,  si  mette  alla  testa  d'una 
banda  di  malfattori,  svaligia  procacci  ed  impedisce  il 
trasporto  della  neve  in  città  non  che  quello  del  grano 
per  ottenere  il  perdono.  I  banditi,  per  altro,  non  de- 
stavano quell'orrore  che  poi  destarono  e  che  tuttavia 
destano  :  in  caso  di  bisogno  ne  assoldavano  il  papa,  il 
granduca  di  Toscana,  i  viceré  spagnuoli  per  farsi  danno 
fra  loro.  Il  Cantù  (2)  trovò  un  bando  che  in  una  sola 
volta  ne  poneva  fuori  legge  milletrecento.  Un  curioso 
gruppo  di  delitti    commessi  in  occasione    di    rappre- 

(')  Per  la  delinquenza  italiana  dei  secoli  XVI  e  XVIII,  si  veda 
C.  Cantù  nella  Storia  degli  italiani  e  nel  suo  commento  ai  Promessi 
Sposi. 

(2)   Nel  commento  ai  Promessi  Sposi,  Gap,   1. 


-  223  - 

sentazioni  teatrali  presenta  Corrado  Ricci  nel  suo  li- 
bro: Storia  dei  teatri  di  Bologna  nei  secoli  XVII 
e  XVIII  (1):  per  aver  ricevuto  un  urto  in  teatro, 
Aurelio  Ercolani  sfida  il  méirchese  Angelelli  e  lo  uc- 
cide (p.  37);  un  comico  litiga  con  uno  spettatore  che 
vuol  godersi  di  frodo  lo  spettacolo,  ma ,  nella  notte, 
il  povero  commediante  e  aggredito  ed  ha  tagliato  la 
faccia  (p.  25);  nel  1604  una  certa  Vittoria  è  ammaz- 
zata dal  fratello  perchè,  di  nascosto,  andava  a  teatro 
con  due  gentiluomini  (p.  21);  nel  1667,  nel  palco 
d'un  certo  Pellegrini,  la  corte  sequestrò  dieci  libbre 
di  polvere  da  schioppo  con  canne  cariche  a  palla 
oltre  una  scritta  con  minaccie  e  si  ritenne  che  tutta 
quella  roba  fosse  stata  posta  lì  per  far  saltare  in  ciria 
il  bargello,  che  aveva  il  palco  sotto  quello  del  Pel- 
legrini (p.  37).  Altri  delitti  narra  il  Ricci ,  il  quale 
esclama  :  "  Si  potrebbe  chiedere  se  questa  è  una 
storia  del  vecchio  teatro  o  non  piuttosto  una  storia  di 
delitti  e  di  sciagure.  Le  cronache  bolognesi  del  sei- 
cento non  presentano  in  proposito  che  tali  aneddoti" 
(pp.  22-23). 

Anche  la  vita  dei  dotti,  dei  letterati  e  degli  artisti 
fu  contaminata  da  delitti  :  il  poeta  Chiabrera  uccise 
un  gentiluomo  ;  lo  storico  Davila  un  altro  ;  come  a 
tutti  è  noto,  Torquato  Tasso  con  la  stessa  facilità  con 
che  scriveva  versi  tirava  colpi  di  spada;  un  altro  poeta, 
il  Murtola,  s'accapiglia  col  Marini  e  corre  fra  loro 
qualche  colpo  di  fucile;  un  poeta  siciliano,  Giuseppe 

(I)    Bologna,  Successori  Monti  editori.    1888. 


—  224  — 

Artale,  per  la  sua  vita  delittuosa,  è  detto  il  cavalier 
sanguignario  ;  un  Panigarola,  divenuto  in  seguito  pre- 
dicatore famoso,  trovandosi  a  studiare  all'università  di 
Pavia  ,  volle  scrivere  la  sua  vita,  e  di  se  ,  studente, 
narrò  cose  da  malfattore  provetto;  un  Domenico  Moni, 
che  fu  certosino,  filosofo,  giureconsulto  ed  infine  pit- 
tore d'una  certa  rinomanza  a  Ferrara,  uccise  un  abate 
perchè  inavvertitamente,  in  istrada,  l'aveva  urtato.  Ma 
anche  ingegni  insigni  furono  vittime  dell'altrui  malva- 
gità. Paolo  Sarpi  teologo  e  storico,  e  preso  a  colpi  di 
stile,  e  si  disse,  per  mandato  della  Curia  Romana; 
Tra]  ano  Boccalini  è  battuto  a  morte  con  sacchetti  di 
sabbia  perchè  l'azione  delittuosa  non  lasci  segni  die- 
tro di  sé;  Alessandro  Stradella  ,  insigne  compositore 
di  musica,  napoletano,  fu  pugnalato  a  Torino,  e  poi 
ucciso  a  Genova  ;  Elisabetta  Sirani ,  pittrice,  allieva 
di  Guido,  fu  avvelenata. 

Con  tale  spirito  sovversivo  e  violento,  con  tali  cor- 
renti di  delinquenza  in  alto  ed  in  basso  ,  i  costumi 
anche  senza  essere  qualche  volta  in  aperto  contrasto 
col  codice  penale,  non  potevano  esser  che  grossolani, 
sebbene  pochi  solitari  con  le  loro  concezioni  filosofiche, 
letterarie  ed  artistiche  la  grossolanità  stessa  caprissero 
con  la  luce  che  si  sprigionava  dalle  loro  opere.  Si  ri- 
deva allora,  e  molto;  ma  quel  riso  era  volgare,  come 
volgari,  triviali,  se  non  scurrili,  erano  le  facezie  o  le 
burle  che  lo  stesso  Castiglione  riteneva  che  potessero 
prender  posto  in  un  cenacolo  principesco  o  intellet- 
tuale. La  frase  fine,  leggermente  mordente,  l'allusione 
sapiente,  riguardosa,  il  fatterello  di  cronaca  scandalosa 


—  225  - 

prudentemente  velato  ,  erano  cose  allora  sconosciute. 
Misser  Giovanni  Boccaccio  con  tutta  la  sua  salacità 
di  novellatore  del  Trecento  continuava  a  regnare  e 
ad  imporsi. 

Ne  in  Francia,  dove  la  commedia  delF  arte,  tutta 
cosa  italiana,  mise  subito  radici  profonde ,  la  società 
era  più  evoluta  della  italiana.  Questa  a  paragone  di 
quella  era  più  raffinata  ;  essa  era  tutta  pervesa  dai 
nuovi  sentimenti  che  la  Rinascenza,  assai  prima  che 
in  Francia,  aveva  fatto  germogliare  negli  animi.  1  fran- 
cesi erano  più  soldati  di  noi  nell'animo  e  nei  modi; 
il  che  significava  che  le  forme  grossolane  come  i  sen- 
timenti triviali,  il  linguaggio  scurrile  dovevano  abbon- 
dare più  da  loro  che  da  noi.  E  tali  appunto  erano 
apparsi  i  francesi  sin  dalla  loro  infausta  calata  in 
Italia  con  Carlo  Vili.  Uno  dei  loro  più  grandi  scrit- 
tori, sagace  ed  intelligente  osservatore,  il  Montaigne, 
Io  riconosceva,  sebbene  indirettamente ,  quando  scri- 
veva: "  Quand  notre  Roy  Chcirles  Vili,  quasi  sans 
tirer  l'épée  du  fourreau  se  vit  maìstre  du  royaume  de 
Naples  ,  et  d'  une  bonne  partie  de  la  Toscane  ,  les 
seigneurs  de  la  suite  attribuérent  cette  inespérée  fa- 
cilité  de  conqueste  à  ce  que  les  prences  et  la  no- 
blesse  d'Italie  s'amusaient  plus  à  se  rendre  ingénieux 
et  s^avant  que  vigoreux  et  guerriers  (I)  ".  E  il  Ca- 
stiglione, per  quanto  riguardava  gli  italiani,   ribadiva: 


0)  Essais;  liv.  I,  eh.  24.  Si  consulti  pure  Burckhandt.  {La  Ci- 
viltà nel  T^inascimento ;  Firenze,  Sansoni,  1 899)  per  ciò  che  riguarda 
la  morale  e  i  costumi  del  secolo  XV  e  di  parte  del  secolo  XVI. 

5V"e/  Regno  delle  ^^aschere.  15 


-  226  -  i 

"  Non  vorrei  già  che  qualche  avversario  mi  adducesse 
gH  effetti  contrari  per  rifiutar  la  mia  opinione  {cioè,  la 
necessità  che  un  perfetto  cavaliere  fosse  molto  versato 
nelle  lettere  e  nelle  arti),  allegandomi  che  gli  italiani 
col  lor  saper  lettere  aver  mostrato  poco  valor  nel- 
l'arme da  un  tempo  in  qua:  il  che  pur  troppo  è  più 
che  vero  ;  ma  certo  ben  si  porla  dir,  la  colpa  d'alcuni 
pochi  aver  dato,  oltre  al  grave  danno,  perpetuo  biasmo 
a  tutti  gli  altri  ;  e  la  vera  causa  delle  nostre  ruine  e 
della  virtù  prostrata,  se  non  morta,  negli  animi  nostri, 
esser  da  quelli  proceduta  ;  ma  assai  più  a  noi  saria 
vergognoso  il  pubblicarla,  che  ai  Francesi  il  non  saper 
lettere  (1)  ". 

Con  Francesco  1,  che  amò  le  arti ,  e  con  queste 
gli  artisti  italiani,  la  Francia  cominciò  a  dirozzarsi;  ma 
lenti  ne  furono  i  progressi  se  anche  sotto  Enrico  II 
i  gentiluomini  della  corte  si  asciugavano  ancora  il  naso 
sulla  manica  dei  loro  vestiti  di  seta  o  di  velluto.  Fu 
assai  più  tardi,  e  non  prima  del  regno  di  Luigi  XIV, 
che  la  rozzezza  francese  si  cambiò  in  quella  genti- 
lezza d'animo,  in  quella  cortesia  di  modi  di  cui  la 
stessa  Francia  fu  maestra  e  modello  a  tutta  l'Europa. 
Ma  durante  quel  travagliato  periodo  della  storia  dei 
nostri  vicini  d'oltre  Varo,  che  va  dalla  strage  di  san 
Bartolommeo  ai  torbidi  della  Lega  e  da  questa  al- 
l'uccisione di  Enrico  IV  e  alla  Fronda  (1 572-1648), 
la  società  francese  in  genere  e  la  Corte  in  particolare 
erano  ancora  grossolane.  In  quest'ultima,  soprattutto,  dove 

(1)  //  CorUgiano,   !ib.   I. 


—  227  — 

gli  avventurieri  italiani  della  peggior  specie  rappre- 
sentavano le  parti  più  losche  e  criminose  ,  dove  le 
principesse  fiorentine  con  l'amore  per  la  poesia  ,  per 
le  belle  tele,  per  le  belle  statue,  per  l'antichità  clas- 
sica avevano  anche  portato  l'arte  sapiente  degli  in- 
trighi, la  politica  del  Principe  del  Machiavelli  e  la  mi- 
steriosa preparazione  di  veleni  sottili  ,  la  commedia 
dell'arte  con  le  sue  grosse  facezie,  col  suo  osceno 
linguaggio,  coi  suoi  lazzi  spesso  d'  una  trivialità  sto- 
machevole (ricordiamo  quello  che  consisteva  nell' ac- 
chiappare, a  volo,  una  mosca,  e  trangugiarla  come  se 
fosse  un  confetto),  non  poteva  avere  che  accoglienza 
amica  e  festosa.  I  sovrani  della  Francia  di  quel  tempo 
non  solo  applaudivano  gli  artisti  venuti  dall'Italia,  ma 
non  sdegnavano  d'entrare  con  loro  in  una  certa  intima 
familiarità.  Ne  questi,  nella  libertà  del  loro  costume, 
si  preoccupavano  di  trattarli  in  modo  più  riguardoso 
che  non  facessero  coi  re  e  con  le  regine  del  palco- 
scenico. Tristano  Martinelli  ,  il  famoso  Arlecchino, 
scrivendo  alla  regina  Maria  de'  Medici  (moglie  di 
Enrico  IV)  la  chiamava  buffonescamente  :  Mia  Co- 
mare ;  ne  alla  regina  sembrava  irrispettoso  quello 
scherzo,  giacche  rispondeva  al  comico  suo  compatriotta 
chiamandolo,  alla  sua  volta:  Jlrlecchino  mio compare(\). 
Tallemant  des  Réaux  descrive  la  visita  che  lo  stesso 
Martinelli  fece  ad  Enrico  IV:  "  Harlequin  et  sa  troupe 
vinrent  à  Paris  en  ce  tems  là  et  quand  il  alla  saluer 
le  Roy  ,  il  prit  si  bien  son   tems  ,   car    il    estait    fort 

(1)   Baschet,  op.  cit.  p.    194. 


—  228  — 

dispos,  que  sa  Majestè  s'estant  leve  de  son  siége,  il 
s'  en  empara,  et  comme  si  le  Roy  eust  été  Harlequin: 
Eh  bien,  Harlequin,  luy  dit-il,  vous  éstes  venu  icy 
avec  votre  troupe  pour  me  divertir  ,  j'  en  suis  bien 
aise,  je  vous  promets  de  vous  protéger,  de  vous  don- 
ner  tant  de  pension  etc.  etc.  Le  Roy  ne  Tosa  desdire 
de  rien,  mais  luy  dist:  Holà,  il  y  assés  longstems  que 
vous  faictes  mon  personage;  lassez  le  moy  faire  à  ceste 
heure  (1).  "  Ne  le  burle,  Arlecchino,  le  faceva  sol- 
tanto, in  iscena,  ai  suoi  compagni  ;  le  faceva  anche 
al  re.  Un  giorno  egli  fece  ad  Enrico  IV  omaggio 
d*una  sua  opera  intitolata:  Compositions  de  Rhétorique 
scritte  da  Monsieur  Harlequin,  comicorum  de  Civitatis 
NovalensiSy  corregidor  de  la  bona  langua  francese  et 
latina  condufier  ae  comédiens,  connestahle  de  messieurs 
les  badauxs  de  Paris,  capital  ennemi  de  tous  les  la- 
quais...  "  II  volume  era  di  settanta  pagine,  di  formato 
elegante,  in  quarto,  delle  quali  cinquantanove  bianche 
inquadrate  in  doppi  filetti  neri.  La  parte  stampata 
consisteva  nel  titolo  dell'opera  e  nella  seguente  de- 
dica :  "  Au  magnanime  Mgr.  Mr  Henry  de  Bourbon, 
premier  bourgeois  de  Paris,  chef  de  tous  les  Messieurs 
de  Lyon,  amirai  de  la  mer  de  Marseilles,  maistre  de 
la  moitié  du  pont  d'Avignon  et  bon  ami  du  maistre 
de  Tautre  moitié,  depensier  liberal  de  cournades,  ter- 
reur  du  Savoyard,  épavent  des  Espagnols,  secrétaire 
secret  du  plus  secret  gabinet  de  madame  Maria  de* 
Medici,  grand    Tresorier    des    comédiens    italiens  et 

(1)  Baschet,  op.  cit.   p.    199. 


—  229  — 

prince  plus  que  tout  autre  digne  d*  estre  engravé  en 
medaille.  "  Spirito,  come  si  vede,  abbastanza  grosso- 
lano, ed  anche  licenzioso,  uguale  a  quello  dei  lazzi 
spacciati  sulla  scena.  Eppure,  quel  secrétaire  secret 
du  plus  secret  gahinet  de  M.  Maria  de'  Medici,  se 
non  deve  aver  fatto  ridere  quest'  ultima  ,  deve  aver 
divertito  abbastanza  il  marito  !  Ma  nella  stessa  Francia 
qualche  spirito  eletto  già  trovava  abbastanza  scurrile 
codesto  spirito.  11  Malherbe,  uno  dei  poeti  della  Pleiade 
francese,  non  divideva  l'entusiasmo  dei  suoi  compa- 
triotti  pei  comici  italiani.  Già  i  comici  spagnuoli  non 
lo  divertivano;  quanto  agli  italiani,  ritornava  a  casa, 
dopo  una  recita,  col  dolor  di  capo.  Togliamo  dal  suo 
diario  i  seguenti  appunti  : 

"  6  sept.  1613.  Les  coméndiens  italiens  sont  arrivés;  nardi  ils  joue- 
ront  au  Louvre;  l'on  n*  en  dit  rien  à  personne,  à  fin  que  ce  il  soit  en 
petite  compagnie  à  cause  du  lieu,  qui  est  petit  et  que  la  saison  estant 
chaude  Leurs  Majestéz  pourroient  estre  incomodez...  ". 

"  Arlequin  est  certaiment  bien  different  de  ce  qu'  il  a  été,  et  aussi 
Petrolino:  il  premier  a  cinquante  six  ans  et  ledernier  quatre-cinq  et  sept; 
ce  ne  sont  plus  àgés  propries  du  théàtre...  Ils  jouent  la  comédie  qu'  ils 
appellont  Dui  Simili  qu'  est  les  Menecmi  de  Plaute.  le  ne  sais  se  les 
sauces  ètaient  mauvaises  en  mon  goùt  corrompu,  mais  j'  en  sortis  sans 
autre  contentement  que  l'honneur  que  la  Reine  me  fit  de  vouloir  que 
j'  y  futz  (1)  ". 

Ma  non  tutto  il  pubblico  francese ,  che  assisteva 
alle  rappresentazioni  dei  comici  italiani ,  era  del  pa- 
rere del  Malherbe.  Gli  uomini  di    spada  ,    gli  stessi 

(I)  Baschet,  op.  cit.  pp.  242-44. 


—  230  — 

gentiluomini  della  Corte ,  non  esclusi  i  prelati  ,  non 
avevano  che  un  gusto  grossolano  ,  come  grossolane 
erano  le  loro  maniere.  Parecchi  di  loro  erano  anche 
violenti ,  conservavano  sotto  una  certa  vernice ,  che 
pretendeva  d'essere  pura  Rinascenza,  tutte  le  asperità, 
tutti  i  cattivi  gusti  di  personaggi  medievali.  Ad  ogni 
momento  codesta  rozzezza  si  rivelava  in  incidenti  di- 
sgustosi, talvolta  anche  di  sangue.  Trajano  Guiscardi, 
ministro  del  duca  di  Mantova  presso  la  corte  di  Fran- 
cia, in  un  dispaccio  al  suo  signore,  narrava  che  una 
sera,  alla  porta  del  teatro  (teatro  di  Corte  !),  si  pre- 
sentò un  gentiluomo,  s'intende,  francese:  uno  dei  co- 
mici italiani,  Battistino,  l'invitò  a  presentare  il  biglietto 
d'ingresso,  ma  l'altro  come  un  teppista  o  un  mafioso 
dei  nostri  giorni,  volendosi  godere  lo  spettacolo  senza 
metter  fuori  il  becco  d'un  quattrino,  gli  rispose  con 
uno  schiaffo.  Il  comico,  di  buona  razza,  afferrò  però 
collo  il  gentiluomo;  quindi  tutti  e  due  si  picchiarono 
ben  bene  rotolandosi  sulla  terra;  infine,  furono  divisi. 
Battistino  tornò  a  chiedere  il  biglietto  d'ingresso,  ma 
l'altro,  testardo  come  un  gentiluomo  d'allora,  rispose: 
"  Te  l'ho  dato  insieme  allo  schiaffo  !  "  Ma  Battistino 
(il  suo  casato  era  Austoni)  non  sapeva  soltanto  far 
ridere  dal  palcoscenico  le  Loro  Maestà  il  re  e  la 
regina  di  Francia  e  di  Navarra,  sapeva  anche  menar 
dei  buoni  pugni,  e  ne  appioppò  uno,  e  poderoso,  sul 
naso  del  gentiluomo.  Questi,  per  un  momento,  restò 
disorientato,  il  sangue  gli  veniva  giù  dalle  narici  spor- 
candogli i  merletti  e  il  velluto  del  giustamore  ,  ma 
tosto  si  rimise  e  cavò  fuori  la  spada:    altri    gentiluo- 


—  231  — 

mini,  presenti,  la  cavarono  pure.  Battistino  non  ne  ebbe 
sgomento  ;  aiutato  da  Pedrolino  ,  da  Frittellino  ,  da 
Arlecchino,  da  Mezzettino,  tutto  il  sesso  forte  della 
compagnia  ,  tenne  per  un  pezzo  fronte  a  tutti  quei 
gentiluomini;  poi,  sopraffatto  da  questi,  scappò.  Al- 
cuni giorni  dopo,  i  gentiluomini  andarono,  di  sera,  ad 
aggredirlo  in  casa;  ma  Battistino  si  asserragliò  nella 
sua  stanza,  indi,  dalla  finestra,  si  mise  a  tirare  schiop- 
pettate sugli  aggressori.  Fortunatamente  non  ci  furono 
ne  morti  ne  feriti,  e  il  re  accomodò  ogni  cosa  (I). 
Soltanto  in  siffatta  società  di  gentiluomini  maneschi  e 
soverchiatori ,  di  gusti  e  maniere  che  rasentavavano 
la  piazza  e  la  stalla,  poteva,  per  esempio,  accadere  il 
fatto  seguente.  Correva  il  1610,  ed  era  ambasciatore 
di  Venezia  in  Francia  Antonio  Foscarini  ,  il  quale 
avendo  assistito  a  San  Dionigi  insieme  al  nunzio  pon- 
tifìcio airincoronazione  di  Maria  de'  Medici,  presentò 
i  suoi  ossequi  a  don  Pietro  di  Toledo  ambasciatore 
di  Spagna.  Se  non  che,  a  quei  tempi  ,  sembra  che 
gli  ambasciatori  di  potenze  straniere  accreditati  presso 
la  stessa  Corte  potessero  esercitare  il  loro  ufficio  senza 
conoscersi  l'un  V  altro.  11  Toledo ,  che  appunto  non 
conosceva  il  Foscarini  ,  gli  domandò  dell'  esser  suo, 
ed  avendo  appreso  eh'  era  l'ambasciatore  di  Venezia 
gli  rise  sul  muso  esclamando  con  tono  sprezzante:  Ah 
l'ambasciatore  di  Pantalone!  11  rappresentante  della 
terra  del  Cid  non  poteva  essere  più  villano  ;  non  è 
vero }  Ma   la  risposta  del  compatriotta  di  Pantalone, 

(I)  Baschet,  op.  cit.  p.  170. 


—  232  — 

se  fu  anch'essa  villana,  fu  però  calzante.  11  Fosccirini 
alzò  il  piede  ed  assestò  una  formidabile  pedata  a 
don  Pietro  di  Toledo  e  precisamente  in  un  posto  che 
il  galateo  vieta  di  nominare.  Il  Nunzio  s'adoperò  per 
mettere  fine  a  quel  disgraziato  incidente  (Ì). 

Senza  pretendere  di  voler  far  la  storia,  anche  in 
succinto,  della  grossolanità  del  caratteae  francese  di 
quei  tempi,  e  segnatamente  del  linguaggio  abbastanza 
sboccato  e  plebeo  che  si  adoperava  non  solo  dalle 
classi  medie,  ma  anche  nei  circoli  di  Corte,  riportia- 
mo qui  alcuni  aneddoti,  che  uno  scrittore  francese  re- 
cente ricavò  da  diari  e  cronache  dei  tempi  di  Luigi 
XIII  e  della  giovinezza  di  Luigi  XIV. 

Ecco  un  dialogo  fra  un  gentiluomo  e  Luigi  XIII, 
quasi  fanciullo,  ma  già  fidanzato  ad  una  infante  di 
Spagna. 

"  Monsieur,  aimez-vous  V Infante}  lui  demande  un 
jour  M.r  de  Vendelot.  —  Non. —  Monsieur,  pourquoi  ? 
Parcequ'  elle  est  espagnolle  —  Monsieur,  elle  vous 
fera  roi  d' Espagne  et  vous  la  farez  reine  de  France. 
Il  répond  en  sourient,  comme  de  chose  oìi  il  eùt 
plaisir  :  Elle  couchera  donc  avec  moi  et  je  le  lui 
farai  un  petit  enfant.  —  Monsieur,  comment  le  ferez- 
vous  ? 

—  Avec  mon  guillery,  dit-il  bas  et  avec  honte.  Mon- 
sieur, la  baiserez  vous  bien  ?  Ouì,  comme  cela  dit-il 
en  se  jetant  à  corps  perdu   la  face    contre  le  traver- 
ei) Molmenti,  Studi  e  Ricerche  di  Storia  e  d'Arte;  Torino — Roma, 
Roux,  1892;  p.  183. 


—  233  — 

sin  (1).  "  S'ignora  se  codesto  M.r  de  Vendelot  fosse 
il  precettore  o  governatore  o  sotto  governatore  del  re 
minorenne. 

Ancora  Luigi  XIII.  "  Le  jour  20  janvier  1619, 
eut  lieu  la  cerimonie  du  mariage  du  due  d'Elboeuf 
avec  m.Ile  de  Vendome.  La  nuit  arrivée  le  roi  si  fit 
introduire  dans  la  chambre  nutiale.  Bien  mieux,  il  vou- 
lutétre  prèsent  sur  le  propre  lit  des  deux  époux  ,  à 
fin  de  voir  se  consommer  le  mariage,  acte  qui  fut 
reiteré  plus  d'  une  fois  au  grand  applaudissement  et 
au  goùt  de  Sa  Majestè...  On  afferme  que  m.lle  de 
Vendome...  aurait  méme  dit  à  cette  occasion  :  Sire, 
faitez  vous  aussi  la  méme  chose  avec  la  Reine  (// 
re  per  ritrosia  non  aveva  ancora  potuto  consumare  il 
matrimonio)  et  bien  vous  ferez  (2)  " .  Evidentemente 
codesti  personaggi  dovevano  essere  sforniti  di  senso 
morale.  Più  che  un  fatto  di  cronaca,  si  direbbe  una 
lubrica  concezione  di  Pietro  Aretino. 

Passiamo  alla  giovinezza  di  Luigi  XIV.  "  Chate- 
rine,  veuve  de  sieur  de  Brevais,  première  femme  de 
chambre  de  la  mere  reine,  était  fort  lubrique,  et 
payoit  grassement  ses  amants.  Car,  com'  elle  étoit 
vieille,  laide,  borgneuse,  ses  charmes  ne  les  attiroient 
pas,  il  est  certain  qu'  elle  avoit  en  néammoins  le 
ipoucellage  du  roi  Louis  XIV,  affreuse  qu'elle  ètoit, 
car  le  prime  était  fort  jeune  elle  lui  mit   un    jour  la 

(  I  )   Cabanès ,   Cabinet    secret  de  la   Histore  ;    Prem.    serie  ;   Paris, 
Albin  Michel.    1905.   p.   97. 
(2)   Id.  id.  p.    125. 


—  234  — 

main  dans  les  chausses  l'avant  trouvé  seul  à  1*  ecart 
dans  le  Louvre,  oìi,  pour  ensi  dire  elle  le  viola  (1)  ". 
Se  non  che,  verso  la  seconda  metà  del  secolo  XVII, 
prima  sotto  l'energico  ed  intelligente  governo  del  car- 
dinale di  Richelieu ,  poi  sotto  lo  stesso  Luigi  XIV, 
la  Francia  cominciò  a  subire  una  rapida  trasforma- 
zione. 11  suo  linguaggio  cominciò  a  dirozzarsi,  forse 
troppo  a  dirozzarsi  tanto  che  si  cadde  nel  "  prezio- 
sismo ",  un  linguaggio  affettato,  leccato,  pieno  di  ve- 
recondie anche  per  cose  che  non  ne  avevano  bisogno, 
e  flagellato  dai  poeti  satirici  e  dai  commediografi  con 
a  capo  il  Molière.  Fu  nei  salotti  parigini  del  tempo 
del  Richelieu ,  e  più  propriamente  nelle  conversa- 
zioni del  palazzo  Rambouillet  che  la  lingua  francese 
cominciò  a  perdere  ogni  sua  grossolanità  diventando 
così  uno  dei  più  fini  e  stupendi  strumenti  per  esprimere 
le  proprie  idee.  La  Francia,  intanto,  con  le  sue  vit- 
torie stabiliva  il  suo  primato  su  tutta  1'  Europa  cen- 
trale e  meridionale.  Incominciava  il  secolo  che  fu  detto, 
e  si  dirà  sempre ,  di  Luigi  XIV.  La  luce  veniva 
dalle  sponde  della  Senna.  Parigi  era  la  città- /um/ère 
anche  prima  che  fosse  designata  con  tal  nome.  L'e- 
loquenza toccava  la  perfezione  col  Bossuet,  col  MaS- 
sillon,  col  Bourdaloue,  col  Fléchier;  la  lingua,  già  così 
limpida,  così  lucida,  nella  prosa  di  cotesti  scrittori,  di- 
ventava la  lingua  diplomatica  prendendo  il  posto  della 
latina,  che  l' aveva    occupato    sin'  allora.  Il  Corneille, 

il  Racine  creavano  il  teatro  tragico,  come  il  Molière  I 

1 
i 

(I)  Id.  id.  p.  129. 


-  235  — 

creava  quello  comico  ;  la  filosofìa  usciva  dalla  pastoie 
scolastiche  col  Cartesio  ;  il  Rameux  riformava  la  mu- 
sica ;  il  Poussin  e  Claudio  di  Lorena  illustravano  la 
pittura,  il  Puget  e  il  Legros  la  scultura,  il  Mansard 
e  il  Perrault  1'  architettura.  Molti  romanzieri ,  alcuni 
dei  quali  godettero  allora  d'  una  grande  celebrità,  in- 
dirizzavano le  anime  verso  amori  ideali ,  più  che 
amori,  veri  idilli  :  si  riabilitava  la  natura  poetizzando- 
la ,  si  creavano  pastorelli  sentimentali  e  pastorelle 
non  meno  sentimentali  mettendo  nel  loro  cuore  affetti 
d*  una  estrema  delicatezza ,  sulle  loro  labbra  un  lin- 
guaggio molto  elevato.  Aprì  il  fuoco  il  D'  Urfè  con 
YAstrée,  un  romanzo  ch'ebbe  uno  strepitoso  successo, 
che  la  posterità  non  confermò ,  come  non  confermò 
quello  ottenuto  dai  romanzi  che  seguirono  l' Jlstrée. 
Fra  tutti ,  quelli  di  madamigella  Scudery  si  sparsero 
per  ogni  angolo  della  Francia  ;  essi  furono  i  libri  di 
lettura  preferiti  dalle  dame  e  dai  cavalieri,  dalle  mo- 
deste borghesi  come  dai  commessi  di  negozio,  dagli 
scrivani  degli  studi  degli  avvocati,  dei  procuratori  e  dei 
notai.  Per  più  d'una  generazione  gli  innamorati  e  le 
innamorate  di  Francia  non  parlarono  che  col  linguaggio 
dolciastro  dei  romanzi  della  Scudery.  Non  si  diceva: 
quei  due  giovani  s'amano,  ma  sibbene  :  navigano  sul 
fiume  Tenero.  Oggi  quel  linguaggio  farebbe  ridere 
o  ci  addormenterebbe  ;  ma  allora  era  un  fattore  di 
raffinamento  ,  di  civiltà.  A  codesta  raffinatezza  di 
linguaggio  aveva,  soprattutto,  contribuito  il  vocabo- 
lario dell'  Accademia  istituita  dal  Richelieu.  Come 
scrive  il  Taine ,  il   vocabolario  si  alleggerì  di  parole 


—  235  — 

ed  espressioni  crude  e  grasse  non  che  d'una  infinità 
di  frasi  familiari  brusche ,  di  tutta  la  metafore  arri- 
schiate e  pungenti,  in  omaggio,  certamente,  a  quanto 
diceva  il  Vaugelas ,  cioè,  che  basta  una  sola  parola 
per  far  disprezzare  una  persona  in  una  compagnia  (1). 
In  una  conversazione  di  dame  distinte  e  di  cavalieri 
nessuno  avrebbe  più  ardito  infiorare  il  proprio  discorso 
con  una  delle  cento  esclamazioni  pittoresche,  ma  anche 
crude,  che  il  buon  re  Enrico  IV,  a  malgrado  della 
sua  galanteria,  amava  tanto.  Per  fermo,  cotesta  evo- 
luzione della  psiche  francese,  tanto  individuale  quanto 
collettiva,  non  si  compiva  tutta  d'un  tratto,  dalla  sera  alla  [ 
mattina,  ma  a  grado  a  grado,  quasi  insensibilmente.  Qua 
e  là,  soprattutto  nel  teatro  comico,  compreso  quello  del 
Molière,  si  sente  ancora  lo  spirito  della  vecchia  Gal- 
lia,  che  non  era  quello  di  Atene.  Le  grossolanità, 
che  tanto  piacevano  sotto  i  regni  di  Carlo  IX  e  di  * 
Luigi  XII ,  di  Luigi  XIII  e  di  Enrico  IV,  fanno  i 
ancora  capolino  e  fan  ridere  anche  duchesse  e  cava-  ' 
lieri.  Era  del  vecchio  spirito  paesano ,  e  un  po'  di 
buona  accoglienza  gli  si  doveva  pur  fare. 

Dinanzi  a  codesto  quadro  delle  due  società  (ita- 
liana e  francese)  in  cui  la  commedia  dell'  arte  rac- 
colse i  suoi  maggiori  applausi ,  si  comprende  come 
essa,  durante  la  sua  lunga  vita,  potesse  ottenere  tanti 
trionfi  :  essa  non  faceva  che  rispecchiare  quelle  due 
società;  era  la  riproduzione  spirituale  dello  stato  d'a- 
nimo dei  suoi  spettatori.    La  scena  non  era  che  una 

(1)  Taine,  Aden   7^eg/me,  liv,  III  eh.  II. 


—  237  - 

succursale  della  platea ,  se  non  n'  era  addirittura  la 
continuazione.  La  stessa  ingenuità  d' intreccio  predi- 
letta dagli  autori  dei  "  soggetti  ",  non  poteva  riuscire 
fastidiosa  o  deficiente  ad  un  uditorio  che  del  teatro 
comico,  in  Italia,  non  conosceva  che  la  commedia 
letteraria  abbastanza  noiosa  e  calcata  sulla  falsariga 
del  teatro  classico  e,  in  Francia,  le  povere  e  magre 
farse  dell'  antica  letteratura  paesana.  Quegli  inganni 
spesso  sciocchi ,  infantili ,  quei  travestimenti  inverosi- 
mili, quegli  incontri  non  meno  inverosimili,  quelle  finte 
pazzie,  quelle  continue  agnizioni  che  risolvevano  le 
situazioni  critiche  più  disperate  ,  quel  linguaggio  che 
sentiva  il  fango  della  strada,  l'odore  dell'  osteria  e  il 
lezzo  del  lupanare,  quella  risata  grassa,  larga,  briosa, 
che  mostrava  tutti  i  denti  della  bocca  o  congestio- 
nava il  viso  dello  spettatore,  quei  lazzi  che  correvano 
pazzamente  dall'  oscenità  alla  scurrilità ,  da  questa  a 
quella ,  insomma,  tutto  ciò  che  costituiva  il  bagaglio 
del  teatro  comico  dell'arte,  o  improvviso,  era  ritenuto 
verosimile,  pien  d' interesse,  faceto,  ed  anche  corretto, 
perchè  in  esso  si  rispecchiava  l' anima  del  pubblico. 
Comici  e  spettatori ,  durante  la  rappresentazione,  an- 
davano a  braccetto.  Nulla  veniva  dalla  scena  che 
non  fosse  accolto  come  cosa  propria,  naturale  dalla 
platea,  come  nulla  si  diceva  da  questa  che  non  fosse 
ritenuta  una  legittima  espressione  dei  sentimenti  del- 
l'altra. 

La  commedia  dell'arte  non  cominciò,  dunque,  a  de- 
cadere che  quando  si  manifestò  un  dissidio  fra  la  scena 
e  la  platea,  e  precisamente  quando  per  le  cambiate  con- 


—  238  - 

dizioni  sociali,  l'anima  dello  spettacolo  non  battè  più 
all'  unisono  con  quella  del  pubblico.   In   Francia,  co- 
desto dissidio,  fu  composto  dal  Molière.  Il  suo  teatro, 
sebbene  in    parecchie    parti    risentisse    1'  influenza    di 
quello  dell'arte,   seppe  rispecchiare  la  nuova  società;  ^ 
in  Italia,  dove  la  commedia  dell'arte  nacque,  quando 
la  società  cominciò  a  svecchiarsi,  a  raffinarsi,  e  l'anima  ; 
del  pubblico  ad  assumere    nuovi    atteggiamenti    sotto 
r  influenza  francese,  eh'  era  pur  quella  del  secolo  di  ; 
Luigi  XIV,  il  dissidio  perdurò  più  a  lungo.  Essa  non 
ebbe  che  più  tardi  il  suo   Molière  nella    persona    di 
Carlo  Goldoni.  Con  costui,  l'accordo  fra  scena  e  pub- 
blico, già  rotto,   si    ristabilì.   La    commedia    dell'arte, 
come    un  detrito  del  passato,  scomparve.   Essa  aveva 
fatto  il  suo  tempo. 

Parecchi  scrittori  hanno  voluto  indagare  le  ragioni  : 
del  tramonto  e  della  morte  della  commedia  dell'arte;  ' 
e  ne  son  venuti  fuori  pareri  diversi.  Qualcuno  ha  rite- 
nuto che  lo  spettacolo  all'  improvviso  fosse  morto    di 
morte  violenta,  e  1'  omicida  sarebbe  stato  il  Goldoni, 
il  quale  l'avrebbe  meditato  lì  per  li,  tra  le  qumte  del 
palcoscenico  del  teatro  Sant'Angelo,  a  Venezia,  dopo   , 
la  caduta  d'  una  sua  commedia;   e  a  questo  concetto  1 
evidentemente  s'ispirò  Paolo  Ferrari  scrivendo  la  sua 
bella  commedia,  anzi  il  suo  capolavoro,  Carlo  Goldoni 
e  le  sue  sedici  commedie  nuove;  altri    scrittori    hanno 
ritenuto  che  si  fosse  spenta  per    mancanze    di    forze, 
per  esaurimento  senile,  quasi  che  un  teatro  a  cui  con- 
corrono sempre  nuove  forze  col  succedersi  delle  gene- 
razioni possa  paragonarsi  ad  un  organismo  umano;  e 


—  239  — 

in  questo  caso,  il  Goldoni  non  avrebbe  occupato  (ed 
anche  senza  fatica)  che  un  posto  lasciato  vuoto.  Er- 
nesto Masi,  dopo  d'  aver  detto  che  i  comici  furono 
sempre  veduti  dalla  Chiesa  per  gente  immorale  e  degna 
dei  suoi  fulmini  spirituali  e  quindi,  per  un  pregiudizio 
religioso,  tenuti  dalla  società  lungi  dal  suo  seno  —  quasi 
che  codesto  stato  d'abbiezione  in  cui  i  comici  erano 
tenuti  avesse  impedito  che  la  commedia  dell'arte  per 
tanto  tempo  non  avesse  avuto  i  suoi  trionfi  —  aggiunge  : 
"  È  per  questa  via  d'  umiliazione  e  di  anatema  che 
la  commedia  dell'arte  ridiscende  a  poco  a  poco  dalla 
luce  nelle  tenebre...  Fondata  sul  burlesco,  non  vinco- 
lata da  nessun  antecedente  letterario,  obbligata  ad  ac- 
,  Gettare  il  favore  d'  un  pubblico  vario  di  gusto  e  di 
j  condizioni,  non  tenuto  in  freno  dalla  presenza  delle 
donne  (?),  che  cosa  può  impedire  la  sua  decadenza  ? 
Nulla,  ed  essa  torna  via  via  ai  suoi  cenci  "  (1). 
L*  inglese  Addington  Symonds  (2)  scrive  :  "  Affidata 
tutta  al  genio  degli  attori,  la  commedia  dell'cu-te  morì 
di  languore,  quando  questo  genio  fu  incaminato  per 
altre  vie".  Il  Baschet  (1),  all'incontro,  quasi  non  può 
credere  alla  scomparsa  della  commedia  dell'arte  e  nel 
ricordare  i  comici  all'  improvviso  s'abbandona  ad  un 
lirismo  perfettamente  inopportuno  : 


(1)  Studi  sul   Teatro  Italiano  nel  sec.  XVIII;    Firenze,    Sansoni, 
1891,  p.  232. 

(2)  Citato  dal  Masi  nell'op.  cit.  p,  230.  Il  Symonds  è  autoie  di  :  The 
Memoirs  of  count  Carlo  Gozzi  translaied  info  english,  Sendon,  1  890. 


—  240  — 

"  N'avaient-ils  pas,  en  effet,  les  qualités  premiéres  qui  faisaient  un 
acteur  excellent  dans  les  comédies  jouées  à  l'improntu  ?  L'esprit  le  plus 
enjouè,  le  tour  le  plus  piquant,  le  nature!  admirable,  la  précision  par- 
faite,  pour  les  réparties  et  répliques,  la  gràce  et  le  nerf  dans  la  satire, 
et  tous  les  motifs  de  rire  le  plus  entrainant,  trouvés  à  la  fois  dans  les 
propos  courants  du  gros  bon  sens  et  dans  les  inventions  buffonnes  de 
la  fantaisie  plus  libre  ?  (I)  ". 

No  ;  la  commedia  dall'arte  moriva  perchè  intorno 
a  se  s'era  fatto  il  vuoto  ;  essa  non  trovava  più  la  sua 
ripercussione  nell'anima  del  pubblico.  Nata  nel  Cin- 
quecento innamorato  di  tutte  le  belle  cose  ma  anche 
innamorato  di  tutte  le  grossolanità  d'una  vita  troppo 
legata  alla  materia ,  paganeggiante  sotto  torme  cri- 
stiane, epicureo,  evidentemente  portato  alla  grossa  ri- 
sata, alla  risata  schietta,  piena,  rumerosa;  cresciuta  in 
mezzo  ad  una  società  che  stentatamente  si  svolgeva 
per  vie  che  dovevano  condurla  ad  un  modo  di  vivere 
più  raffinato,  più  nobile,  ad  una  concezione  della  stessa 
vita  assai  diversa  da  quella  che  negli  splendori  della 
Rinascenza  ne  eveva  avuto  colui  che  al  secolo  aveva 
dato  il  suo  nome  (2),  essa  non  trovò  più  abbastanza  os- 
sigeno per  respirare  nella  nuova  società.  Verso  la  metà 
del  secolo  XVIII,  e  precisamente  quando  Carlo  Goldoni 
aveva  già  cominciato  a  fare  i  suoi  primi  passi  nella  car- 
riera teatrale,  il  distacco  fra  lo  spettacolo  comico  ed  il 
pubblico  era  divenuto  sensibilissimo.  L'  Italia,  che  du- 
ci) Op.  cit.  p.  336. 

(2)  Corse  fama  che  il  cardinale  Giovanni  de'  Medici  (Leone  X), 
innalzato  alla  dignità  suprema  della  Chiesa  avesse  detto:  "  Godiamoci 
il  Papato  ;   Iddio  ce  1'  ha  mandato  ". 


-  241   — 

rante  il  Seicento  s'era  posta  a  camminare  sulle  orme 
della  Spagna,  ora  camminava  su  quelle  della  Francia. 
In  quel  cambio  essa,  senza  dubbio,  vi  guadagnava,  so- 
prattutto dal  lato  del  teatro.  Il  Molière  non  solo  aveva 
creato  un  teatro  comico  ma  aveva  anche  avuto  dei 
felici  e  geniali  continuatori,  il  Regnard  e  il  Marivaux 
soprattutto;  il  primo  dei  quali  su  un  vecchio  tema,  / 
Menecmi ,  seppe  infondere  uno  spirito  comico  tutto 
nuovo,  che  non  aveva  nulla  da  fare  con  quello  gros- 
solano e  spesso  scurrile  della  vecchia  commedia  a 
soggetto.  In  codesti  scrittori  il  linguaggio  dei  personaggi 
è  già  quello  della  "  commedia  moderna  ",  esso  è  an- 
che depurato  di  quelle  salacità  improntata  al  vecchio 
sale  galois  dal  quale  lo  stesso  Molière  non  era  andato 
del  tutto  esente.  Ecco  uno  spunto  di  dialogo  tolto  dal 
Bai  del  Regnard,  dove  lo  spirito  più  arguto,  più  cau- 
stico sa  mantenersi  nei  limiti  della  più  stretta  decenza  : 

LlSETTE 
J'  ai  fait  voeu  d' étre   vevue  ;  et  je  veut  tenir. 

Merlin 

Ouì-dà  ;   l'état  de  veuve  est  une  douce  chose  : 
On  a  plessieurs  maris  sans  que  personne  en    giose  ; 
Et  Fon  fait  justement,  du  soir  jusq*  au   matin, 
Gomme  ces  fins  gurmets  qui  vont  goùter  le  vin. 
Sans  acheter  d'aucun,  à  chaque  piece  on  tate  : 
On  laisse  celui-ci,  de  peur  qu'  il  ne  se  gate  : 
On  ne  veut  pas  de  l'un,  parce  qu'  il  est  trop  couvert  ; 
D'un  tal  vin  le  couloir  est  malade  e  bizarre  ; 
Cet  autre,  dans  le  chaud,  pieut  tourner  à  la  barre  ; 

^"e/  Regno  delle  ^^aszhere  16 


—  242  — 

L'un  est  trop  plat  au  goùt,  l'autre  trop  petilant; 
Et  cet  dernier  enfin  a  trop  peu  de  montant; 
Ainsi,  sans  rien  choisir,  de  tout  en  fait  éprouve  : 
Et  voilà  justement  comme  fait  une  veuve, 

Un  altro  spunto  di  dialogo  ,  sempre  del  Regnard 
{Les  Folies  Amoureuses)  : 

CRISPIN 

Il  faut  savoir  d'abord  si  dans  la  forteresse 
Nou  s  nous  introduirons  force  ou  par  adresse  ; 
S' il  est  plus  à  propos,   pour  nos  desseins  con^us, 
De  faire  un  siège  ouvert,  ou  former   un  blocus. 

.   En  tenter  les  affaires, 
La  téle  doit  toujours  agir   avant  le  bras. 
Quand  on  veut,  voyez-vous,  qu'  un  siège  réusisse, 
11  faut,  primièrement,  s'empaver  des  approches, 
Connoltre  les  entroits,  les  faibles  et  les  forts. 
On  ouvre  la  trancheé,  on   canonne  la  place, 
On  renverse  un  rempart,  on  fait  bréche:  aussitot 
On  avance  en  bon  ordre.  et  s'ordonne  Tassaut. 
C'est  le  méme  à  peu  prés  quand  on  prend  une  fìlle. 

(Atto  I,  se.   8.) 

Crispino  non  è  che  un  servo  ;  ma  qual  differenza 
fra  il  suo  linguaggio  e  quello  dei  servi-mezzani  della 
commedia  dell'  arte  !  Tutto  nei  suoi  consigli  è  fine- 
mente espresso.  Quel  Crispino  si  direbbe  un  servi- 
tore d'una  casa  aristocratica  moderna,  in  abito  nero  e 
cravatta  bianca. 

Dal  Regnard  passiamo  al  Marivaux.  In  qualcuna 
delle  commedie  di  costui    abbiamo   ancora  Arlecchi- 


—  243  - 

no;  ma  quale  Arlecchino  !  Egli  non  è  il  servo  sciocco, 
che  tutti  prendono  a  colpi  di  bastone  o  di  piede,  coi 
suoi  lazzi  volgari  e  il  suo  linguaggio  non  meno  vol- 
gare dei  suoi  lazzi  ;  ma,  col  Marivaux,  Arlecchino  e 
divenuto  un  innamorato  sentimentale,  che  sa  esprimere 
i  suoi  sentimenti  in  una  forma  appassionata  ed  anche 
elegante.  Nella  T)ouble  Incostance,  una  commedia  la- 
vorata su  un  canovaccio  che  risente  ancora  la  sem- 
plicità dei  soggetti  del  teatro  a  braccia,  il  principe  ha 
posto  gli  occhi  su  Silvia  amante  di  Arlecchino  e  vuol 
farla  sua.  Un  cortigiano  cerca  di  persuadere  quest'ul- 
timo di  non  opporsi  alla  volontà  del  principe,  il  quale 
lo  avrebbe  generosamente  ricompensato  non  solo  con 
denaro,  ma  anche  con  una  casa  in  città  e  una  villa 
in  campagna. 

ARLEQUIN 

Ah,  que  cela  est  beau  !  il  n'  y  a  qu'  une  chose,  qui  m'embarasse; 
<ju'est-ce  qui  habitera  ma  maison  de  ville,  quand  je  serai  à  ma  mai- 
son de  campagne  ? 

TRIVELIN  (/•/  Cortigiano) 
Parbleu  !  Tes  valets  ! 

ARLEQUIN 

Mes  valets  ?  Qu'  ai-je  besoin  de  faire  fortune  par  ces  cainalles  ?... 
Dites-moi,  fait-on  autre  chose  dans  sa  maison  que  'asseoir,  prendre  ses 
rcpas,  se  coucher  ?  En  bien  I  Mon  bon  lit,  ma  bonne  table,  ma  dou- 
zaine  de  chaises  de  paille,  ne  suis-je  pas  bien  meublé  ?...  Oh,  moi  n'  ai 
point  de  carrosse  !  (en  montrant  ses  jamhes).  Ne  voilà-t-il  pas  un  équi- 
page  que  ma  mère  m'a  donne  ?  Alerte,  alerte,  paresseux,  laissez  vos  che- 


—  244  - 

veaux  à  tant  de  honnèts    laboureurs  qui  n'en  point  ;  ce  là  vous    fera 
fair  e  du  pain  ", 

(Atto  I,  Se.  IV) 

La  letteratura  francese,  non  esclusa  la  teatrale,  con- 
tava già  in  Italia  ammiratori  e  seguaci.  Si  traduceva 
dal  teatro  francese.  Il  Gigli,  come  vedremo  nella  se- 
conda pcirte  di  questo  nostro  lavoro,  scriveva  il  sua 
Don  Pilone,  che  non  è  che  il  tartufo  del  Molière» 
meno  poche  scene.  Morta  d'assideramento  la  comme- 
dia erudita,  o  letteraria,  classica,  non  rispecchiando  più 
quella  dell'cirte  la  società  del  tempo,  l'avvento  della 
nuova  commedia  non  poteva  essere  che  vicino.  E  il 
suo  creatore  non  tardò  a  fcU'e  la  sua  compcu^sa  sulla 
scena  comica. 

Era  Carlo  Goldoni. 


FINE  DELLA   PARTE  PRIMA 


CAPITOLO  PRIMO 

I    tempi    di    Carlo    Goldoni. 


Quando  il  25  febbraio  1 707,  in  Venezia,  "  in  una 
grande  e  bella  abitazione  situata  fra  il  ponte  di  Nomboli 
e  quello  di  Donna -Onesta,  al  canto  di  via  di  Cà  Cen- 
t'anni, nella  parrocchia  di  San  Tommaso  "  (1),  nacque 
Carlo  Goldoni,  la  grande  repubblica  veneta,  la  "  Sere- 
nissima "  come  comunemente  era  chiamata,  era  in  piena 
decadenza.  La  sua  agonia,  che  doveva  trascinarsi  per 
quasi  tutto  quel  secolo,  era  già  incominciata.  Se  non 
che,  la  gloriosa  vincitrice  di  Lepanto  rassomigliava  al- 
quanto a  quelle  belle  donne,  le  quali,  sebbene  stieno  per 
varcare  la  quarantina,  pure  un  po'  per  l'incipiente  pin- 
guedine che  stirando  la  pelle  dà  a  loro  una  specie  di 
seconda  giovinezza,  un  po'  per  i  cosmetici  sapiente- 
mente adoperati,  si  conservano  fresche  ad  anche  ap- 
petitose: così  Venezia,  la  quale,  sebbene  dell'antica 
gloria,  e,  soprattutto,  dell'  antica  potenza  non  conser- 
vasse che  i  rimasugli,  pure  nella    sua    vita    esteriore, 

(1)  C.   Goldoni,  t5^emor/e,   Par.   1,   Cap.   I. 


—  246  — 

nei  suoi  rapporti  con  gli  altri  Stati,  nelle  sue  feste, 
nei  suoi  tripudi,  nei  suoi  costumi,  conservava  un  sa- 
pore di  giovinezza,  che  la  collocava  fra  le  città  più 
caratteristiche  dell'Europa  del  secolo  XVIII.  Giammai 
un  organismo  politico,  come  quello  veneto,  seppe  meglio 
nascondere  sotto  le  apparenze  della  più  rigogliosa,  più  j 
esuberante  vita  i  germi  della  sua  dissoluzione.  Gli  am- 
basciatori della  "  Serenissima  "  prendevano  ancora  pos- 
sesso con  pompa  del  loro  ufficio  presso  i  sovrani  dei 
grandi  Stati  d'Europa  :  erano  i  nomi  gloriosi  dei  Mo- 
cenigo,  dei  Correr,  dei  Guerini,  dei  Zeno,  dei  Conta- 
rini  che  risuonavano,  pronunziati  dai  maestri  di  ceri- 
monie, nelle  corti  di  Sua  Maestà  Cattolica,  di  Sua 
Maestà  Cristianissima  o  di  Sua  Maestà  Imperiale  Reale 
Apostolica,  o  in  quelle  d'  Inghilterra  o  di  Costanti-  '[ 
nopoli.  Le  flotte,  sebbene  scarse  ed  invecchiate,  pure 
veleggiavano  nell'Adriatico,  mare  tutto  veneto,  esclusi- 
vamente veneto,  e  nei  mari  di  Levante,  dove  il  leone 
di  San  Marco,  nell'orifìamma  di  seta,  sventolava  dalle 
mure  delle  città  e  dagli  spalti  dei  forti.  Nelle  sue  co- 
lonie lungo  le  coste  della  Dalmazia  e  nelle  isole  del 
mare  Jonio,  Venezia  sentiva  ancora  fremere  la  sua 
vita  :  dappertutto  si  sentiva  risuonare  il  suo  dolce  e 
molle  dialetto  ;  sui  frontoni  dei  palazzi,  sugli  archi, 
sui  torrioni,  dal  fondo  bianco  del  marmo,  occhieggiava 
l'alato  leone  col  vangelo  di  San  Marco  spiegato  da- 
vanti, grave,  sereno,  non  sospettando  la  non  lontana 
ruina.  Le  cerimonie  pubbliche,  le  feste  religiose  con-  [ 
servavano  ancora  la  loro  antica  pompa,  l' antico  loro 
fasto;  quelle  popolari  continuavano  ad  essere  impron- 


-  247  - 

tate  all'antica  gaiezza.  Ogni  anno,  il  Bucintoro,  ricco  di 
dorature,  di  stendardi,  di  velluti,  trasportava  il  Doge 
sulla  laguna  per  sposare,  col  simbolico  anello,  il  mare  ; 
codesto  doge,  nello  stesso  suo  splendido  paludamento, 
che  ricordava  l'an.xo  Oriente,  teatro  di  glorie  per  la 
repubblica,  continuava  ad  essere  il  prigioniero  volon- 
tà! io  d'  una  oligarchia,  che  adorava  il  passato  come 
un  selvaggio  del  Centro  d'Affrica  un  feticcio;  imembii 
del  Senato,  i  componenti  del  terribile  tribunale  dei 
Dieci,  i  pregadi,  il  procuratore  di  San  Marco,  conti- 
nuavano a  salire  e  scendere  gravemente,  con  solen- 
nità ieratica,  la  scala  dei  Giganti,  tutta  marmo  ed  oro, 
a  radunarsi  in  consiglio,  a  discutere  di  pace  e  di 
guerra,  ad  ascoltare  la  lettura  delle  relazioni  che  gli 
oratori  della  repubblica  mandavano  da  Roma,  da  Pa- 
rigi, da  Madrid,  da  Londra,  da  Vienna,  da  Costan- 
tinopoli. Il  potere,  sebbene  in  poche  mani,  pure  era 
esercitato  paternamente;  i  misteri  dei  Pozzi,  le  ter- 
ribili segrete  di  Stato,  non  trovavano  più  posto  che 
nella  fantasia  dei  denigratori  della  repubblica  :  mas- 
sima precipua  di  governo  era  di  occuparsi  poco  di 
Dio  e  nulla  del  principe  ;  e  le  popolazioni,  alle  quali, 
per  altro,  si  lasciava  ampia  libertà  di  divertirsi,  non 
s  occupavano  affatto  di  quest'ultimo,  ed  assai  poco  del- 
1  altro.  Così  esse,  da  un  lato,  scansavano  la  forca,  e 
dall'altro,  se  non  il  rogo,  che  a  Venezia  non  si  innal- 
zava, le  carceri  degli  Inquisitori  di  Stato.  La  loro  fede 
religiosa  era  abbastanza  tiepida  e  l'aver  visto,  ai  tempi 
di  fra  Paolo  Sarpi,  le  classi  dirigenti  del  loro  paese 
sollevarsi    contro  il  pontefice  e  sfidare    serenamente  i 


—  248    - 

sul  berretto  e  il  bastoncino  in  mano  per  contenere 
una  folla  che  oggi  un  nugolo  di  carabinieri  difficil- 
suoi  fulmini,  aveva  infuso  nelle  loro  coscienze  una 
punta  d'amabile  scetticismo,  che  senza  rasentare  la  ir- 
religiosità, rendeva  i  veneziani  assai  tolleranti  delle 
altrui  opinioni  :  il  che  rendeva  ai  forestieri  più  gradita 
la  vita  di  Venezia.  Non  è  quindi  da  meravigliarsi  del 
loro  frequente  accorrere  sulle  lagune. 

Quella  specie  di  serenità  che  regnava  nella  vita 
pubblica,  aveva  la  sua  eco  in  quella  privata.  Nelle 
famiglie,  la  podestà  paterna  era  rispettata,  ma  si  eser- 
citava blandemente,  con  quella  bonomia,  che  formò 
sempre  la  caratteristica  principale  del  padre  di  famiglia 
veneziano.  Non  monacazioni  forzate,  non  fughe  di  fan- 
ciulle per  sottrarsi  ai  rigori  paterni  :  la  storia  delle 
famiglie  veneziane  non  presenta  ne  monache  di  Monza, 
ne  Beatrici  Cenci.  Le  fanciulle  crescevano  nel  rispetto 
dei  genitori  ;  amoreggiavano,  di  sicuro,  ma  con  la  dolce 
timidezza  delle  giovinette  :  non  scale  di  seta  per  ratti 
romantici,  non  disperazioni  profonde  da  finire  col  sui- 
cidio. Una  certa  indolenza,  una  certa  fiacchezza,  aveva 
tutto  smussato,  tutto  appiattito.  Si  camminava  sui  tap- 
peti ed  anche  coi  piedi  infilati  nelle  babbucce.  Il  ca- 
rattere, tanto  in  alto  quanto  in  basso,  aveva  perduto 
parecchie  angolosità:  s'intende,  non  grandi  passioni,  non 
grandi  ribellioni.  Tutti  navigavano  in  un  mare  di  giu- 
lebbe. La  stessa  plebe  nascondeva  la  sua  rozzezza 
sotto  una  vernice  di  bontà  che  in  altre  città  si  sarebbe 
cercata  invano.  Nelle  grandi  feste,  in  piazza  San  Marco, 
bastavano  quattro  donzelli  coi  colori  della  repubblic 


—  249  — 

mente  saprebbe  tenere  a  freno.  Venezia,  allora,  non 
pensava  che  a  divertirsi;  e  si  divertiva.  Era  la  città 
più  ricca  di  divertimenti  di  quei  tempi.  Le  villeggiature 
erano  lunghe  ;  le  sue  ville  signorili,  splendide,  ricche 
di  pitture,  di  stucchi,  di  specchi,  di  dorature,  sorge- 
vano sulle  sponde  della  Brenta,  a  Mestre,  sui  colli 
trevigiani.  La  sua  vita  era  un  lungo  tripudio.  Le  feste 
mondane  prendevano  il  passo  alle  religiose  ;  il  che 
non  accadeva  ne  a  Roma,  ne  a  Napoli,  ne  a  Milano. 
Già  quasi  sei  mesi  su  dodici ,  si  poteva  andare,  in 
bautta  per  la  città,  nei  caffè,  nei  ridotti,  nei  teatii. 
La  bautta  (1),  si  prestava  a  meraviglia  agli  intrighi, 
alle  scappatelle,  alle  sorprese  ;  agevolava  la  maldi- 
cenza, acuiva  lo  spirito  rendendolo  ingegnoso,  giacche 
di  sotto  alla  bautta  non  era  vietato  l'ammonire  garba- 
tamente anche  persone  di  classe  elevata  o  ricoprenti 
alti  uffici,  e  il  serbare  l'anonimo  era  quindi  divenuto, 
con  la  necessità,  arte  raffinata  non  solo  d'attacco,  ma 
anche  di  difesa.  Le  feste,  per  altro,  costituivano  un'arte 
di  Stato;  d'inverno  i  teatri,  le  maschere,  i  ridotti,  dove 
si  giuocava  a  tutto  spiano;  d'estate,  le  feste  religiose, 
quella  del  Redentore,  soprattutto,  era  una  meraviglia, 
di  giorno,  di  luce,  di  colori,  di  gondole  imbandierate, 
strascicanti  sulle  acque  tappeti  di  seta  e  di  velluto,  di 
notte,  una  visione  fantastica  di  lumi  d'  ogni  forma  e 
colore  riflettenti  la  loro  luce  sulle  acque  oscure,  oulle 
linee  architettoniche  dei  palazzi,  sugli  archi  dei  ponti, 

(  1 1    Era   la    maschera    ordinaria    veneziana    e    si    componeva    à'  un 
mantello,    d' un  cappello  e   di   mezza   maschera   nera   sul   volto. 


—  250  — 

sui  marmi  delle  chiese.  Nelle  grendi  feste,  la  repub- 
blica (allora  si  diceva  il  "  Principe  ")  invitava  il  po- 
polo a  banchetti  pubblici  :  erano  pasti  singolarissimi 
in  cui  il  popolano,  arsenalotto  od  operaio,  era  servito 
in  piatti  d'argento  con  lo  stemma  della  "  Serenissima  " 
e  da  camerieri  i  quali  non  erano  che  scudieri  e  ca- 
valieri della  repubblica.  Una  affettuosa  domestichezza 
regnava  fra  popolo  e  governanti.  Nella  festa  delle 
Marie  qualsiasi  popolano  poteva  baciare  sulla  guancia 
il  doge.  Venezia,  poi,  era  la  città  d'  Italia  meglio 
dotata  di  teatri;  ai  tempi  della  prima  giovinezza  del 
Goldoni,  essa  ne  teneva  aperti,  per  una  buona  parte 
dell'  anno,  sino  a  sette.  Il  teatro  principale  (oggi  si 
direbbe  il  "  Massimo  ")  era  quello  di  San  Giovanni 
Grisostomo,  poiché  allora  i  teatri,  come  le  navi  da 
battaglia,  le  corsie  degli  ospedali  ,  quasi  tutte  le  vie 
delle  città,  gli  alberghi,  prendevano  nome  dai  santi,  j 
e  vi  si  dava  opera  seria.  Più  tardi  prese  il  primo 
posto  quello  di  San  Benedetto;  venivano  dopo  il  teatro 
di  San  Samuele,  quello  di  San  Luca,  infine,  quello 
di  San  Cassiano  e  1'  altro  di  San  Moisè.  Di  codesti 
cinque  teatri,  due  si  aprivano  all'opera  buffa,  tre  alla  , 
commedia.  I  patrizi  non  sdegnavano  di  farsene  gl'im-  I 
presari  quando  non  si  costituivano  protettori  delle  com- 
pagnie che  vi  recitavano.  A  Roma,  quasi  nello  stesso 
tempo,  non  c'erano  che  tre  teatri,  quello  di  Tor  di  Nona, 
il  Capranica  e  il  d' Alibert  ;  più  a  Milano  e  a  NapoH, 
ma  meno  di  Venezia.  Apostolo  Zeno,  un  veneziano, 
aveva  fatto  assurgere  a  dignità  d'opera  d'cirte  il  me- 
lodramma spogliandolo  di  tutte  le  sconcezze  e  le  bar- 


—  251    — 

barie  di  cui  V  aveva  rivestito  il  Seicento.  Lo  stesso 
Zeno,  col  fratello  Caterino,  pubblicava  il  miglior  gior- 
nale letterario  che  allora  vedesse  la  luce  in  Italia.  Le 
tipografie  veneziane,  sebbene  in  quei  tempi  fossero 
già  superate  dalle  francesi  per  la  bellezza  e  nitidezza 
dei  caratteri,  pure  erano  ritenute  le  migliori  della  pe- 
nisola e  da  esse  uscivano  opere  d'erudizione  diligen- 
temente curate  ed  illustrate  da  patrizi  dotti  o  amanti 
degli  studi,  come  il  Foscari  e  i  due  Foscarini.  Ricche 
biblioteche  possedevano  famiglie  private  ;  la  pittura, 
la  gloriosa  pittura  veneta  dal  maraviglioso  colorito,  get- 
tava il  suo  ultimo  lampo  con  Giambattista  Tiepolo, 
l'ultimo  dei  grandi  artisti  veneziani,  mentre  col  Longhi 
riproduceva  interni  di  case  e  costumi  e  col  Canaletto 
vedute  di  palazzi,  di  ponti,  di  viuzze,  di  lagune,  insomma 
tutta  la  città  di  San  Marco  sfilante  sulla  tela  ora  nelle 
sue  albe  vaporose,  ora  nei  suoi  pomeriggi  d'oro,  tal'altra 
nella  chiara  luminosità  dei  suoi  giorni  estivi.  La  mu- 
sica era  rappresentata  da  Benedetto  Marcello,  allora 
detto  "  il  principe  della  musica  "  ;  e  tale  e  rimasto.  Se 
l'architettura  sbadigliava  nelle  accademie,  l'ingegneria 
iniziava  un'  opera  meravigliosa,  diretta  a  sottrarre  la 
città  alla  furia  delle  onde  iniziando,  nel  1 744  per 
compierla  nel  1781,  1'  opera  dei  Murazzi  (ausu  ro- 
mano, aere  veneto).  L'industria  dei  vetri  non  che  quella 
dei  merletti,  vivevano  ancora,  sebbene  meno  celebrate 
di  prima.  Ma  la  letteratura,  se  ne  togli  Apostolo  Zeno, 
il  Conti,  che  aveva  cercato  di  dare  all'  Italia  la  sua 
tragedia,  come  il  Corneille  e  il  Racine  l'avevano  dato 
alla  Francia,  Scipione   Maffei  a  Verona,  autore  della 


-  252  — 

Merope,  saggio  di  buona  tragedia,  e  qualchedun'altro, 
non  dava  che  poveri  fiori  :  discorsi  d'occasione,  sonetti, 
odi,  canzoni  per  monacazioni,  per  elezioni  a  dignità 
pubbliche,  per  lauree,  infine,  per  cantare,  sulla  cetra 
d'Arcadia,  amori  senza  passione,  pastorellerie  senza 
ingenuità.  Era  ancora  il  Seicento,  ma  senza  le  sue 
gonfiezze,  le  sue  ampollosità,  le  sue  stravaganze. 

Sebbene  Venezia  fosse  la  città  più  teatrale  d'Italia, 
pure  nella  letteratura  comica  non  contava,  prima  del 
Goldoni  ,  uno  solo  scrittore  di  qualche  riputazione; 
lo  stesso  Goldoni  narra  come,  nella  sua  infanzia,  il 
commediografo  più  conosciuto  ed  apprezzato  fosse  il 
Cicognini  :  non  dice  chi  fosse  codesto  Cicognini,  se 
ii  padre,  Jacopo  o  il  figlio  Giacinto  Andrea,  entrambi 
toscani  ed  autori  di  drammi  e  commedie.  Probabil- 
mente sarà  stato  il  secondo,  perchè  Jacopo,  nel  primo 
ventennio  del  Settecento,  per  le  sue  stravaganze  spa- 
gnolesche, dopo  d'essere  stato  tanto  in  auge,  ed  aver 
ricevuto  le  lodi  di  Lope  de  Vega,  coi  quale  carteg- 
giava, era  caduto  in  un  completo  oblio  ;  all'  incontro, 
l'altro.  Giacinto  Andrea,  senza  raggiungere  la  celebrità 
che  aveva  circondato  una  volta  il  nome  dei  padre, 
s' era  fatto  un  po'  di  strada  nel  mondo  comico  con 
lavori  la  cui  caratteristica  era  di  mantenere  l'attenzione 
del  pubblico  sempre  sospesa  sino  allo  scioglimento. 
Difatti,  ecco  come  scriveva  il  Goldoni.  "  Questo  autore 
fiorentino,  pochissimo  conosciuto  nella  repubblica  delle 
lettere,  aveva  fatto  parecchie  commedie  d'  intreccio, 
sparsi  di  sentimenti  noiosi,  patetici  e  di  facezie  tri- 
viali:  vi  si  trovava  nulladimeno  molto  diletto  ed  aveva 


—  253  — 

l'arte  di  mantenere  la  sospensione  e  di  piacere  con 
lo  scioglimento  "  (1).  Aggiungiamo  che  quasi  tutta 
la  sua  produzione  drammatica  è  un  rifacimento  o  una 
imitazione  di  drammi  e  commedie  spagnuoli  (2).  Un 
altro  commediografo  toscano,  di  cui  il  Goldoni  ebbe 
conoscenza  nella  sua  giovinezza  fu  Girolamo  Gigli. 
Di  costui,  in  verità,  non  trovansi  a  stampa  che  due 
sole  commedie.  Don  Pilone,  ovvero,  il  Falso  Bacchet- 
tone e  La  Sorellina  di  Don  Pilone.  Il  Giudice  Impaz- 
zito, imitazione  d'una  commedia  del  Racine,  e  qualche 
altra  sua  commediola  giacciono,  nei  loro  originali,  negli 
archivi  toscani.  Il  Don  Pilone,  ai  suoi  tempi,  ebbe 
molta  voga  in  Italia  ;  ma  errano  coloro  (e  sono  molti) 
i  quali  credono  che  sia  una  commedia  originale.  Don 
Pilone  non  e  che  una  traduzione  del  Tartufo  del 
MoHère;  il  Gigli  soltanto  condensò  i  cinque  atti  del 
commediografo  francese  in  tre  ed  aggiunse  di  suo  una 
lunga  scena  al  secondo  atto  (1'  ottava  fra  Valerio  e 
Sapino)  e  sette  (la  nona,  decima,  undecima,  dodice- 
sima, decimaterza,  decimoquarta  e  decimoquinta)  al 
terzo  atto:  scene  che  nulla  hanno  aggiunto  alla  india- 
volata vis  comica  di  messer  Poquelin.  Il  Gigli  cambiò 
non  solo  il  titolo,  ma  anche  i  nomi  di  alcuni  perso- 
naggi; Tartufo  divenne  Don  Pilone;  Orgone,  Buona- 
fede ;  Damide,  Sapino  ;  Leale,  il  servo  di  Tartufo, 
cambiò  anche  sesso  e  divenne  Dorina.  La  chiusa  della 


{])  Mem.  Par.    I,  Cap.   I. 

(2)  Ved.  su    G.  A.  Cicognini  un  recente  lavoro  di  R.  Vere:   G. 
A.    Cicognini;   Catania,  Giemnotta,    1912. 


—  254  - 

commedia,  alquanto  modificata,  rivela  che  il  Gigli  scri- 
veva sotto  un  governo  che  in  materia  di  bacchetto- 
neria era  un  po'  parente  di  Tartufo,  poiché,  a  dissi- 
pare gli  scrupoli  delle  coscienze  timorate,  forse  troppo 
scandolezzate  di  veder  bistrattato  sulla  scena  un  servi- 
tor  di  Dio,  sebbene  falso,  ci  fa  sapere  che  Don  Pi- 
lone non  è  che  un  ebreo  passato  fintamente  alla  reli-  [ 
gione  cattolica.  Poveri  ebrei  !  Uno  di  loro  soltanto 
poteva  essere  un  finto  bacchettone  !  La  Sorellina  di 
Don  Pilone,  all'  incontro,  e  quasi  tutta  farina  del  Gi- 
gli, ma  è  anche  una  derivazione  del  Tartufo.  Il  Gigli  ' 
inorgoglito  del  successo  riportato  dal  Don  Pilone,  volle 
continuarlo  in  una  seconda  edizione  parecchio  ritoc- 
cata e  modificata.  C'  è  un  bacchettone,  ma  non  si  t 
chiama  ne  Tartufo,  ne  Don  Pilone  ;  si  chiama  Don 
Pilorgio,  il  quale,  come  gli  altri  due  falsi  devoti,  alla 
fine  della  commedia,  resta  scorbacchiato  insieme  alla 
moglie  di  Geronio,  anch'  essa  fior  di  bacchettona  e 
nella  quale  il  pubblico  volle  vedere  riprodotta  (e  forse 
a  ragione)  la  moglie  dello  stesso  Gigli.  Se  non  che, 
sebbene  quest'ultima  commedia  dello  scrittore  toscano 
ricordi  quella  del  Molière,  pure  non  manca  d'  una 
certa  vis  comica,  che  non  s' incontra  mai,  o  quasi  mai, 
nelle  commedie  letterarie  del  tempo,  e  contiene  una 
macchietta,  quella  della  vecchia  serva  Credenza,  che 
a  ogni  costo  vuol  trovare  marito,  eh'  è  veramente 
deliziosa.  Nella  sua  prima  giovinezza,  a  Perugia,  il 
Goldoni  recitò  appunto  in  Sorellina  (1). 

(1)  Mem.  Par.   I,   Gap.  VII. 


—  255  — 

Fama  di  valente  commediogrr^o   ebbe    l  a    la   fine 
del  seicento  e  i  primi  anni  del    settecento ,  un    altro 
toscano,  Giambattista    Fagiuoli,    che  la    leggenda  poi 
trasformò  anche  iu  buffone  di  Corte.   I  suoi    contem- 
poranei, soprattutto  in  Toscana,  lo  chiamarono  'Terenzio 
redivivo,  o    Terenzio    toscano.    La  posterità    non  con- 
fermò tale  titolo.  Il  Goldoni,  nelle  sue  Memorie,  non 
lo  ricorda;  ma  ciò  non  vuol  dire  che  non  l' abbia  co- 
nosciuto, anche  perchè,  in    quei  tempi,  la  fama    del 
commediografo  toscano  era   molto   diffusa    nella   peni- 
sola e  più  d'  una  sua  commedia  scritta  era  servita  di 
canovaccio  per  soggetto  della  commedia  dell'  arte.  Di- 
fatti, il  soggetto  della  raccolta  del  p.  Adriani  :  ^on 
essere,  ovvero.  La  Donna   può  ciò  che  vuole,    non  è, 
meno  poche  soppressioni  e    qualche   piccolo   cambia- 
mento, che  una  commedia    del    Fagiuoli  :  Aver    cura 
di  donne  è  pazzia  ,  ossia ,   il    cavaliere   Parigino    (  1  ). 
Un  merito  però  ebbe  il  Fagiuoli,  quello,  cioè,  d'aver 
caputo  ritrarre  con  certa  arguzia  qualche    vizio    della 
società  che  fu  sua:  prima  ancora  del  Goldoni  e  del 
arini,  egli  seppe  mettere  in  caricatura  il  cicisbeismo. 
Fra  i  precursori  del    Goldoni,    costoro  furono    cer- 
amente  i  principali,  ma  non  crearono  nulla.   Il  crea- 
ore  della  commedia  italiana  doveva    venire    da  Ve- 
ìezia. 


D 


(1)  V.  in:   Rivista  d'Italia,    agosto    191  1,  un  nostro   studio:    Un 
^ommediografo  dimenticato. 


CAPITOLO  SECONDO 

Carlo    Goldoni   e  la   Commedia  dell'  arte. 


Secondo  una  leggenda,  Carlo  Goldoni,  il  domani 
dell'  insuccesso  d'  una  sua  commedia  (/'  Erede  Fortu- 
nata), avrebbe  di  punto  in  bianco,  colle  sue  sedici 
commedie  nuove  scritte  e  recitate  in  un  anno,  rifor- 
mato il  teatro  comico  italiano,  creando  la  nuova  com- 
media. Codesta  leggenda  è  stata  accreditata  anche  da 
buoni  scrittori;  ma  non  è  così.  Leggenda,  e  nient'al- 
rro.  E  vero  che  dopo  la  caduta  della  commedia  VE- 
rede  Fortunata  con  la  quale  si  chiudeva  la  stagione 
teatrale,  il  Goldoni  per  impedire  cha  il  pubbblico  ab- 
bandonasse col  nuovo  anno  il  teatro  ,  anche  perchè 
uno  dei  migliori  artisti  della  compagnia,  anzi  il  suo 
principale  sostegno  ,  il  celebre  Darbes ,  insuperabile 
nelle  parti  di  Pantalone,  aveva  lasciato  Venezia  per 
entrare  ai  servizi  del  re  di  Polonia,  promise  che  per 
la  nuova  stagione  comica  avrebbe  fatto  recitare  se- 
dici sue  nuove  commedie  (I);  è  vero,  che  egli    con 

M)  Mem.  Par.   II;  Gap.  VII.  "^   S 


—  257  — 

uno  sforzo  prodigioso  d' ingegno  e  con  un  non  mi- 
nore sforzo  prodigioso  di  volontà  mantenne  la  donchi- 
sciottesca promessa,  ma  è  anche  vero,  ch'egU  aveva,  as- 
sai prima  della  caduta  dell'  Erede  Fortunata,  mrnato 
con  r  opera  sua  le  fondamenta  del  vecchio  edifìcio 
della  commedia  dell'  arte.  De!  resto,  le  grandi  rifor- 
me non  si  fanno  che  per  gradi  ;  nulla  procede  per 
salti  o  per  momentanea  ispirazione.  Una  riforma  com- 
prende sempre  un  lavoro  di  preparazione. 

Il  genio  del  Goldoni  fu  per  eccellenza  riformato- 
re; esso  non  s'  adagiava  che  a  stento  e  di  malavoglia 
nelle  forme  teatrali  preparategli  e  trasmessegli  dai  suoi 
predecessori.  Anche  dando  i  suoi  primi  passi  nella 
via  teatrale,  egli  mostrò  di  stare  a  disagio  nell'  orga- 
nismo già  fossilizzato  della  commedia  dell'  arte.  La 
riforma  del  teatro  comico,  gli  balenò  alla  mente  an- 
che prima  che  con  pensiero  maturo  ritenesse  che 
fosse  possibile.  Come  tutti  i  geni ,  egli  era  nato  a 
creare,  e  non  peteva  creare  che  riformando  ,  o  me- 
glio, distruggendo  ciò  che  allora  costituiva  la  forma 
e  il  contenuto  dello  spettacolo  comico  italiano.  Nel 
Belisario,  che  fu  il  suo  primo  lavoro  dopo  Y Ama- 
lasunta  consegnata  alle  fiamme  e  che  precedette  di 
quindici  anni  la  caduta  dell'  Erede  Fortunata ,  trat- 
tando un  argomento  già  sfruttato  dalla  commedia  a 
soggetto,  ebbe  cura  di  tenersi  lontano  dalle  scurrilità 
dei  commediografi  del  suo  tempo.  Finalmente  il  pub- 
blico poteva  vedere  venir  innanzi  sulla  scena  Belisario 
senza  la  compagnia  d'  Arlecchino  che,  fra  un  lazzo 
e  r  altro,  lo  bastonava.    "  Gli  intendenti  non  poterono 

y^Jel  Regno  delle  r^aschere  1  7 


—  258  — 

astenersi  dall'  applaudire  quest'opera,  benché  ne  rile- 
vassero le  imperfezioni.  Vedendo  essi  la  superiorità 
della  mia  composizione  sulle  farse,  sulle  solite  pue- 
rilità dei  comici,  presagivano  da  questo  primo  passo 
un  seguito  capace  di  svegliare  l'emulazione,  spianare  la 
via  alla  riforma  del  teatro  italiano  (1)".  Nel  Don  Gio- 
vanni Tenorio  o  il  T)issoluto,  egli  che  già  conosceva 
nel  Molière  uno  dei  più  grandi  scrittori  comici  mo- 
derni, cercò  di  rendersi  il  meno  possibile  pedissequo 
di  quest'  ultimo,  che  aveva  scritto  sullo  stesso  argo- 
mento una  commedia ,  come  ugualmente  cercò  d'  e- 
vitare  tutte  le  buffonate  della  commedia  dell'  arte. 
Questa,  manco  a  dirlo,  s' era  già  impadronita  da  un 
pezzo  dell'  argomento,  il  quale,  come  narra  lo  stesso 
Goldoni,  faceva  le  delizie  del  pubblico  chiamandolo 
in  folla  al  teatro.  "  N'  erano  meravigliati  i  comici 
stessi,  e,  o  per  burla,  o  per  ignoranza,  alcuni  di  loro 
dicevano  che  1'  autore  del  Convitato  di  Pietra  aveva 
fatto  il  patto  tacito  col  diavolo  perchè  lo  sostenes- 
se (2).  "  Nella  commedia  a  braccio  la  statua  del 
commendatore  parla,  cammina  ;  Arlecchino  si  salva 
dal  naufragio  mediante  due  vesciche  gonfie ,  e  il 
protagonista ,  don  Giovanni  ,  esce  fuori  dalle  acque 
senza  che  i  suoi  abiti  e  i  suoi  capelli  sieno  bagnati. 
Neil'  atto  quarto,  al  momento  del  convito  al  quale 
era  stato  invitato  il  commendatore  (di  pietra),  i  lazzi  ^ 
d'Arlecchino  si  moltiplicano  all'infinito;  un  vero  fuoco 


(l)Mem.   Part.  I;    Gap.   XXXVL 
(2)  Moland,  op.  cit.  Gap.  XI, 


—  259  - 

d'  artificio.  Mentre  stanno  per  mettersi  a  tavola,  Ar- 
lecchino grida  al  fuoco  ;  tutti  s'  alzano,  si  precipitano 
fuori  della  sala;  Arlecchino  ne  approfitta,  rimasto  solo, 
per  vuotare  affrettatamente  i  piatti  e  le  bottiglie.  Ri- 
torna Don  Giovanni,  ma  il  suo  servitore  non  si  dà 
per  vinto;  sotto  pretesto  di  cacciar  via  dal  naso  del 
padrone  una  mosca,  gli  ruba  un  pollo;  prende  a  schiaffi 
i  camerieri,  i  quali  non  trovano  conette  le  sue  beffe. 
Don  Giovanni,  infine,  lo  fa  sedere  a  tavola  con  lui. 
Arlecchino  prende  posto  accanto  al  padrone  e  grida 
ai  camerieri  :  "  Serviteci.  "  Il  suo  cappello  V  imba- 
razza e  lo  mette  in  testa  a  don  Giovanni,  che  lo  getta; 
quindi  condisce  a  modo  suo  V  insalata  versandovi  so- 
pra una  bottiglia  d'  aceto  e  tutto  il  sale  e  il  pepe  che 
che  può  trovare  sulla  tavola  non  che  V  olio  delle  lam- 
pade, rimescolando  il  tutto  col  suo  bastone.  Ma  l'ora 
tragica  s'  avvicina;  s'  ode  bussare  alla  porta;  un  val- 
letto corre  ad  aprire,  ma  subito  rincula  sbigottito  : 
anche  Arlecchino  corre  alla  porta,  ma  preso  dalla 
paura  indietreggia  buttando  a  terra,  V  uno  dopo  l'altro, 
quattro  camerieri.  Se  non  che  ,  a  malgrado  del  suo 
sbigottimento,  balbettando,  può  dire  a  don  Giovanni 
che  la  persona  (la  statua  del  commendatore)  che  a- 
aveva  accettato  l' invito  a  pranzo,  è  fuori  e  va  a  na- 
scondersi. Don  Giovanni,  senza  punto  commuoversi, 
introduce  la  statua  e  la  invita  a  sedere  a  tavola,  poi 
prende  per  un  orecchio  Arlecchino  e  lo  fa  pure  se- 
dere. La  statua,  con  immenso  stupore  d'Arlecchino, 
imangia  e  beve:  la  maschera  fa  un  mondo  di  lazzi, 
compreso    quello    del    bicchiere  del   vino  consistente 


—  260  - 

in  uno  sveltissimo  salto  all'  indietro  senza  che  si  versi 
una  sola  goccia  del  vino  contenuto  nel  bicchiere  che 
si  tiene  in  mano.  Neil'  ultima  scena  dell'  atto  quinto, 
mentre  il  pavimento  della  stanza  sprofonda  e  don  Gio- 
vanni precipita  giù,  tra  le  fiamme  dell'  inferno,  Arlec- 
chino gli  corre  dietro  e  gli  grida  :  "  Per  carità ,  e  i 
miei  salari  ?  Vorreste  eh'  io  vi  seguissi  all'  inferno  per 
farmi  pagare  ?  (1).  " 

Ma  il  Goldoni,  se  sentiva  la  necessità  della  riforma 
del  teatro  comico,  sentiva  pure  che  i  tempi  non  e- 
rano  ancora  maturi  e  ritornò  alla  vecchia  commedia 
col  cM^omolo  Cortesan;  ma  non  vi  tornò  che  in  parte, 
poiché  se  le  parti  secondarie  di  questa  sua  commedia 
sono ,  come  in  quelle  del  teatro  a  soggetto ,  appena 
indicate  ,  è  scritta  invece  ,  quella  del  protagonista. 
Anche  a  questo  conservò  la  mezza  maschera  ;  ma 
quanta  differenza  fra  il  Pantalone ,  che  recitava  la 
parte  del  Cortesan,  e  il  Pantalone  dei  vecchi  scenari 
della  commedia  dell'  arte  ! 

In  questi  Pantalone  è  sempre  un  vecchio,  ora  pa- 
dre, ora  marito  ingannato,  tal'  altra  consigliere  ridicolo 
o  innamorato  non  meno  ridicolo,  un  impasto  di  buf- 
fonate e  di  trivialità,  gareggiante,  nei  lazzi,  con  Ar- 
lecchino o  con  Pulcinella  ;  nel  Cortesan  e  un  carat- 
tere, un  carattere  umano,  non  un  tipo  irrigidito  nelle 
forme  consacrate  dalla  tradizione  teatrale.  Il  Goldoni 
nel  suo  personaggio  volle  dipmgere  un  uomo  di  mondo, 
tipo  di  probità,  capace  di  rendere  servizi    e    cortese; 

(1)  Moland,  op.  cit.  Gap.  XI. 


-  261  — 

è  un  uomo  generoso  senza  essere  prodigo ,  allegro 
senza  esser  leggiero,  corteggia  le  donne  ma  modera- 
tamente, senza  che  il  suo  decoro  ne  resti  offuscato; 
prende  parte  a  tutti  gli  affari,  non  per  malsana  infram- 
mettenza, ma  pel  bene  altrui:  ama  la  tranquillità,  de- 
testa la  sopraffazione.  Qui  non  e'  è  più  il  personaggio 
stereotipato  della  vecchia  commedia;  è  la  persona  viva. 

Il  Goldoni  sin  dai  primi  passi  della  sua  carriera 
teatrale,  non  solo  sentiva  il  bisogno  d*  una  riforma, 
ma  aveva  già  fissato  il  suo  sguardo  sull'  uomo  le  cui 
orme,  più  tardi,  avrebbe  calcato  per  lasciare  alla  po- 
sterità un  monumento  letterario  non  meno  glorioso  di 
quello  di  quest'  ultimo.  Noi  abbiamo  pronunziato  il 
nome  del  Molière. 

Il  nostro  lettore  non  creda  che  noi  si  voglia  man- 
care di  rispetto  all'  illustre  memoria  del  riformatore 
della  commedia  italiana,  se  diamo  a  costui  il  Molière 
come  guida  e  il  suo  teatro  come  punto  di  partenza 
della  riforma  stessa.  Le  grandi  riforme,  come  abbiamo 
già  detto ,  non  si  compiono  tutte  in  una  volta  e  senza 
che  attraverso  le  stesse  riforme  non  si  ritrovi,  qua  e  là, 
il  vecchio.  Non  e'  è  opera  letteraria  e  artistica,  anche 
la  più  originale,  che  non  abbia  il  suo  addentellato  in 
un'  opera  o  in  altre  opere  precedenti.  Nulla  in  arte  è 
slegato,  indipendente.  Lo  stesso  Molière,  a  malgrado 
della  sua  grande  originalità,  in  parecchie  parti  dell'opera 
sua,  non  è  che  un  continuatore  del  teatro  spagnuolo  o 
italiano;  senza  venir  meno  all'  originalità,  egli  saccheg- 
giava allegramente  questi  due  ultimi  teatri  e  non  lo 
nascondeva,  anzi  ne  menava    vanto    e  diceva   che  il 


—  262  — 

bello  non  ha  padrone,  ed  è  preda  di  chiunque  ;  pro- 
prio, res  mullius.  Se  non  che,  il  fatto  bottino  egli  sa- 
peva trasformare  in  cosa  tutta  sua,  portante  l'impronta 
della  propria  individualità  :  il  che  non  avviene  ai  vol- 
gari saccheggiatori. 

Ma  per  ritornare  al  Goldoni,  l'opera  da  lui  ini- 
ziata e  compiuta  in  Italia  fu  presso  a  poco  simile  a 
quella  iniziata  e  compiuta  dal  Molière  in  Francia  ; 
però  l'italiano,  scrivendo  quasi  tre  quarti  di  secolo 
dopo  il  francese,  potè  trarre  profitto  non  solo  dell'o- 
pera di  questo,  ma  anche  di  quella  dei  suoi  fortunati 
successori,  come  il  Regnard,  il  Le  Sage,  il  Panard,  il 
Marivaux  ed  altri,  sbarazzandosi  con  maggior  facilità 
di  molti  detriti  del  passato,  che  il  Molière  non  seppe 
o  non  volle  respingere.  Questi,  ai  suoi  tempi,  aveva 
trovato  che  la  commedia  dell'arte  regnante  in  Francia 
non  rispondeva  più  ai  gusti  raffinati  dell'  alta  società; 
le  dame  e  i  gentiluomini  che  si  commovevano  alle  tra- 
gedie del  Corneille  e  del  Racine,  andando  al  teatro 
della  commedia  con  I'  orecchio  ancora  risonante  de- 
gli alessandrini  del  Cid  o  di  Fedra,  non  potevano 
accettare  come  spirito  di  buona  lega  le  trivialità  d'Ar- 
lecchino o  di  Brighella  o  le  pagliacciate  delle  farces 
paesane.  Se,  sotto  il  regno  di  Luigi  XIII,  i  Malherbe 
che  ritornavano  a  casa  dal  teatro  italiano  stomacati 
dalle  grossolanità  dei  comici  della  Corte  di  Mantova 
o  di  Firenze,  si  contavano  sulla  punta  delle  dita,  sotto 
Luigi  XIV,  in  mezzo  a  tanta  fioritura  di  galanteria, 
di  raffinatezza,  di  buon  gusto,  erano  diventati  legione. 
Il  Molière  comprese  che  il  gusto  del  pubblico  non  era 


—  263  — 

più  quello  di  prima  e  che  da  Plauto  bisognava  saltare 
a  Terenzio,  dalla  commedia  sboccata  alla  commedia 
corretta,  fine.  Lo  spettacolo  comico  più  che  un  in- 
trigo rallegrato  da  lazzi,  da  buffonate,  intramezzato  da 
situazioni  strane,  inverosimili,  doveva  essere  sincera 
rappresentazione  della  vita;  i  personaggi  dovevano  es- 
sere non  maschere,  non  tipi  fossilizzati  tramandati  nella 
loro  rigida  immobilità  da  una  generazione  all'  altra 
di  comici,  ma  veri  esseri  umani  ,  non  dissimili  per 
nulla  da  quelli  che  vivono  e  si  muovono  nelle  piazze, 
nelle  vie,  nelle  case  del  popolo  come  nei  palazzi  dei 
signori.  La  commedia  di  costume  o  d'  ambiente  o  di 
carattere  doveva  definitivamente  sostituire  quella  del- 
l'arte. In  quest'  ultima,  la  vita  artificiale  era  oramai  tutto; 
essa  doveva  rientrare  ad  ogni  costo  in  quella  reale. 
Di  qui ,  Tartufo  ,  Arpagone  ,  Giorgio  Dandin ,  Ar- 
nolfo e  Crisaldo  della  Scuola  dei  mariti,  Alceste  del 
S^isantropo,  Argante  dell*  Jlmmalato  immaginar  io. 
Lena  e  Caterina  delle  T^reziose  Ridicole.  In  tutti  co- 
desti personaggi,  si  sente  il  calore  della  vita;  non  e'  è 
più  il  tipo  fissato  dalla  tradizione.  Il  Goldoni  sapeva 
tutto  ciò,  e  nelle  sue  Memorie,  a  più  riprese,  mani- 
festa la  sua  grande  ammirazione  pel  genio  del  com- 
mediografo francese.  Quando  compose  il  Momolo 
Cortesan  pel  comico  Golinelli  ,  egli  già  fantasticava 
sulla  riforma  del  teatro  comico  italiano:  "Eccomi... 
nella  migliore  condizione  ;  abbastanza  ho  lavorato  su 
temi  rancidi,  ora  bisogna  creare,  bisogna  inventare.  Ho 
tra  mani  attori  che  promettono  molto  ;  ma  per  impie- 
garli utilmente,  è  necessario  rifarsi  dallo  studiarli;  eia- 


-  264  — 

scuno  ha  il  suo  carattere  naturale  e  se  1'  autore  ne 
assegna  al  comico  uno  che  sia  appunto  analogo  al  suo 
proprio,  la  riuscita  è  sicura.  Su  via  (continuavo  nelle 
mie  tante  riflessioni)  ecco  forse  il  momento  di  tentare 
quella  riforma  avuta  in  mira  da  sì  luogo  tempo.  Sì, 
bisogna  trattare  soggetti  di  caratteri;  sono  essi  la  sor- 
gente della  buona  commedia;  da  questo  appunto  in- 
cominciò la  sua  professione  il  gran  Molière  e  felice- 
mente giunse  a  quel  grado  di  perfezione  dagli  antichi 
solamente  indicatoci  e  non  eguagliato  ancor  dai  mo- 
derni: facevo  io  male  ad  incoraggiarmi  così?  (1)  ". 

"  Riprodurre  caratteri,  "  oppure  "  riprodurre  la  na- 
tura ",  cioè,  la  vita  quale  essa  realmente  si  svolge 
intorno  al  commediografo  ;  ecco  il  segreto  del  teatro 
comico,  ecco  la  meta  a  cui  mira  sempre  il  Goldoni, 
saltuariamente  per  un  pezzo,  nella  prima  parte  della 
sua  carriera  teatrale,  quasi  costantemente  nella  secon- 
da, dopo  la  caduta  dell'-EreJe. 

La  commedia  a  cui  egli  voleva  dar  vita,  era,  dun- 
que, diversa,  radicalmente  diversa  da  quella  che  al- 
lora dominava  sulle  scene  italiane,  la  commedia  del- 
l'arte. 

Già,  non  occorre  più  osservare  dopo  quanto  scri- 
vemmo nella  prima  parte  di  questo  lavoro  ,  come  il 
carattere  essenziale  della  commedia  a  soggetto  più  che 
nella  improvvisazione  del  dialogo  stèsse  nel  contenuto. 
D*  ordinario,  quest'  ultimo  s'  imperniava  nelle  masche- 
re, le  quali,  ai  tempi  del  Goldoni ,  almeno  nell'Alta 

(1)  Mem.  Part.  I,  Gap.  XL. 


—  265  — 

Italia,  erano  quattro:  Pantalone,  il  Dottore,  Arlecchino 
e  Brighella  ;  altrove,  qualche  nome  cambiava,  ma,  in 
sostanza  ,  erano  due  vecchi  e  due  servi  ,  ed  anche 
questi  due  ultimi  pur  quando  perdevano  momenta- 
neamente la  loro  qualità  di  servitori,  le  linee  princi- 
pali del  loro  carattere  rimanevano  le  stesse.  Ma  non 
erano  persone,  erano  tipi,  come  abbiamo  detto,  tipi 
convenzionali,  consacrati  dalla  tradizione,  la  quale,  im- 
mobilizzandoli, aveva  loro  tolto  financo  la  parvenza 
della  vita.  Gli  scrittori  di  commedie  a  soggetto  e  i 
loro  interpreti,  i  comici,  per  quanto  V  ingegno  dei  primi 
fosse  fertile  e  l'arte  dei  secondi  versatile,  non  uscivano 
quasi  mai  dai  confini  loro  segnati  dalla  tradizione. 

Pantalone  non  poteva  essere  che  Pantalone,  cioè, 
un  vecchio  più  o  meno  sciocco,  più  o  meno  corbel- 
lato dalle  donne,  più  o  meno  ingannato  dai  servi,  più 
o  meno  disobbedito  dai  figli  ;  il  Dottore  non  poteva 
essere  che  il  Dottore,  cioè,  un  giureconsulto  o  un  me- 
dico ignorante,  parolaio,  sputa-sentenze,  espettoratore 
di  sproloqui  recitati  con  la  velocità  del  lampo  ;  così 
si  dica  delle  altre  maschere.  Rappresentavano  nell'arte 
comica  ciò  che  in  quella  della  pittura  bizantina  fu- 
rono i  tipi  jeratici.  Quei  certi  Cristi  ,  quelle  certe 
Madonne,  quei  certi  Santi  che  popolavano  le  pareti 
I  delle  chiese  bizantine,  erano  figure  allampanate,  orri- 
bilmente irrigidite  nelle  loro  linee  ,  che  ricordavano 
piuttosto  lo  scheletro  anziché  una  persona  di  carne  ed 
ossa;  esse  erano  passate  attraverso  le  generazioni  senza 
che  nessuno  artista  avesse  potuto  svegliarle  dal  loro 
sonno  più  volte  secolare.  Così  la  commedia  dell'arte  : 


—  266  - 

qualche  scrittore  poteva  creare  una  "invenzione"  felice, 
una  maschera  poteva  creare  un  nuovo  lazzo  ,  ma  in 
fondo  lo  spettacolo  rimaneva  lo  stesso.  Pel  pubblico 
erano  sempre  le  stesse  commedie  d' intreccio  amoroso, 
le  stesse  maschere.  Erano  sempre  le  vecchie  cono- 
scenze d' ieri,  d' ieri  l'altro,  della  precedente  genera- 
zione. Rendiamo  la  vita  a  codesti  tipi  invecchiati,  fos- 
sili ,  pensò  il  Goldoni  :  alla  vecchia  ed  eterna  com- 
media d' intreccio  facciamo  seguire  quella  di  carattere 
o  d'ambiente  ;  sia  sempre  la  natura  la  nostra  guida, 
il  nostro  modello. 

Per  "  natura  "  il  Goldoni  intendeva  "  vita  " .  Cer- 
tamente tutti  coloro  che  creano  un'opera  d'arte  hanno 
o  hanno  avuto  di  mira  il  vero.  Nessuno  di  proposito 
deliberato  si  fa  riproduttore  del  falso,  di  qualche  cosa 
che  non  creda  che  sia  il  vero.  Anche  i  più  strampa-  i 
lati  scrittori  seicentisti ,  a  malgrado  della  loro  grotte- 
sca gonfiezza,  delle  loro  stravaganti  metafore,  ritene- 
vano di  riprodurre  il  vero,  d'  imitare  la  natura.  Ma 
non  era  che  un'  illusione.  Anziché  imitare  la  natura, 
essi  non  riproducevano  che  certi  atteggiamenti  del  loro 
spirito  smanioso  di  novità,  certi  stati  della  loro  anima 
guidati  da  una  fantasia  che  si  spingeva  fino  allo  stra- 
vagante, nemica  d'ogni  freno.  Fra  loro  e  la  natura  si 
interponevano  codesti  atteggiamenti  di  spirito,  codesti 
stati  d'animo  che  impedivano  loro  di  vederla  nel  suo 
aspetto   genuino. 

11  genio  del  Goldoni  era  eminentemente  equilibrato; 
le  esuberanze  di  fantasia,  la  ricerca  rabbiosa  del  nuo- 
vo, del  complicato,   dell'  involuto,  del  diffìcile  ch'era 


-  Idi  — 

stata  la  caratteristica  dell*  età  che  precedette  quella 
che  fu  la  sua,  aveva  fatto,  per  altro  ,  il  suo  tempo  ; 
il  pubblico  n'  era  stufo.  Al  suo  spirito,  quindi,  man- 
cavano le  spinte  o  le  occasioni  per  uscire  dalle  vie 
diritte ,  regolari  e  prendere  quelle  di  traverso.  Era, 
inoltre,  dotato  d'uno  spirito  d'osservazione  straordina- 
rio; nelle  cose  vedeva  di  là  dal  loro  esteriore,  nelle  per- 
sone vedeva  di  là  dalla  loro  forma.  Sapeva  acutamente 
penetrare  nel  fondo  delle  anime  ed  analizzarne  i  senti- 
menti. 11  suo  sguardo  si  spingeva  là  dove  altri  non  sa- 
peva spingere  il  proprio  :  il  che,  anziché  tarpargli  la 
fantasia,  che  aveva  abbondante,  rendeva  questa  pru- 
dente, calcolatrice.  Insomma,  egli  aveva  tutte  le  qua- 
lità per  studiare  la  natura  e  d'esserne  l'interprete  fe- 
dele, sincero.  "  La  commedia  —  egli  scriveva  —  altro 
non  è  che  una  imitazione  della  natura  (  I  )  " .  E  seri 
veva  pure  :  "  Cercavo  di  tenere  dietro  alla  natura  per 
tutto,  trovandola  sempre  bella...  quando  in  ispecial 
modo  mi  somministrava  modelli  virtuosi  e  sentimenti 
della  più  sana  morale  (2)  ".  Imperocché,  il  Goldoni, 
sempre  ispirandosi  al  vero,  nella  natura  non  amava, 
come  si  diceva  allora,  che  il  bello  :  il  triviale,  l'osce- 
no. Io  metteva  volentieri  da  parte  o  presentava  con  velo 
pudico,  quale  eccezione  alla  regola,  anche  perchè  un 
certo  indirizzo  moralizzatore  cominciava  a  prevalere 
nella  letteratura  :  ma  il  primo  ne  esagerava,  ne  altri- 
menti falsificava.  Lo  rendeva  nel  suo  vero  aspetto. 

(1)  JUCem.,  Par.  II.  Gap.  III. 

(2)  A/em..  Par.  II.  Gap.  IV. 


—  268  - 

Non  diciamo  ch'egli  sempre  cogliesse  codesto  vero; 
no  :  ma  quasi  sempre  imberciava  nel  segno  come  lo 
mostra  chiaramente  tanta  parte  dell'opera  sua,  la  quale, 
se  si  ragge  ancora  sulle  scene,  è  appunto  perchè  con- 
tiene ciò  che  il  suo  autore  cercava  con  tanto  studio  : 
la  vita.  Laonde,  non  poteva  egli  unirsi  al  gregge  dei 
laudatori  dei  tempi  antichi  per  ritenere  che  le  "  ma- 
schere u  esprimessero  ancora  la  vita  contemporanea 
italiana.  Egli,  del  resto,  giudicava  severamente  lo  spet- 
tacolo comico  dei  suoi  tempi ,  che  si  componeva 
"  di  farse  triviali  e  abbiette  e  di  produzioni  gigan- 
tesche "  (1).  Egli,  come  già  abbiamo  notato,  aveva 
voluto  porvi  riparo  sin  dal   suo  esordire  sulla    scena.  '^■ 

Abbiamo  accennato  al  Momolo  Cortesan,  dove  la 
maschera  del  Pantalone  è  trasformata  in  un  carattere  ;  \ 
ecco  il  Prodigo  in  cui  la  stessa  maschera,  che  sino  I 
allora  era  stata  fonte  d'  infrenabile  riso,  ha  accenti 
umani  e  nulla  ha  più  di  comune  col  vecchio  Panta- 
lone della  commedia  a  soggetto.  Il  Goldoni  ricavò 
codesto  nuovo  carattere  —  come  poi  scrisse  egli 
stesso  (2)  —  non  dalla  classe  dei  viziosi,  ma  da  quella 
dei  ridicoli.  "  Il  mio  Prodigo  non  compariva  gioca- 
tore, dissoluto,  splendido.  La  sua  prodigalità  altro  non 
era  che  debolezza  ;  dava  pel  solo  piacere  di  dare,  ed 
aveva  un  fondo  di  cuore  eccellente.  La  sua  dabbe- 
naggine unitamente  alla  sua  credulità  lo  esponevano 
al  disordine  e  alla  derisione.  Questo  carattere  era  af-  • 


(i)   Mem.   Par.    II.  Gap.    IH. 
(2j   Mem.   Par.    I.  Gap.  XLI. 


—  269  - 

[atto  nuovo,  ma  ne  conoscevo  gli  originali,  e  li  avevo 
veduti  e  studiati  in  riva  alia  Brenta,  fra  gli  abitanti 
di  quelle  deliziose  e  magnifiche  ville,  ove  spicca  l'opu- 
lenza e  si  rovina  la  mediocrità  „.  Lo  stesso  Panta- 
lone umanizzato,  tolto  al  gelido  amplesso  della  tradi- 
zione teatrale,  egli  ci  mostra  nell'  Uomo  Prudente, 
commedia  in  prosa,  scritta  pel  Darbes  ,  che,  avendo 
fatto  fiasco  nel  Tonin  Bella-grazia  dove  aveva  voluto 
recitare  senza  maschera,  questa  volle  riprendere  nella 
nuova  commedia  ;  nella  quale  sebbene  Pantalone  si 
mostri  col  viso  coperto,  pure  è  un  carattere  per  ec- 
cellenza umano  ed  affatto  diverso  da  quello  conven- 
zionale degli  Scenari.  Come  in  questi  ultimi,  egli  è 
un  negoziante  veneziano,  rimaritato  con  Beatrice  e  della 
prima  moglie  ha  due  figli,  Ottavio  e  Rosaura.  Bea- 
trice è  civetta,  il  figlio  è  libertino,  la  figlia  sebbene 
sciocca,  pure  coltiva  un  intrigo  amoroso.  Pantalone 
con  la  sua  bontà  e  la  sua  prudenza  cerca  di  metterli 
sulla  via  del  bene  ;  ma  è  tempo  perso.  Prova  con  la 
severità,  ma  non  fa  che  inasprirli.  La  moglie  pensa 
di  disfarsi  del  marito  col  veleno  e  trova  un  complice 
nel  figliastro  ;  !a  giustizia  interviene  ed  arresta  Bea- 
trice ed  Ottavio  ;  ma  Pantalone  nasconde  il  corpo  del 
reato  (la  zuppa  cosparsa  d'arsenico  a  lui  destinata)  e 
■>!  la  energico  difensore  dei  due  colpevoli;  questi  sono 
osoluti  :  ravveduti,  piangenti,  si  gettano  nelle  braccia 
del  loro  salvatore.  Dov'è  più  il  Pantalone  della  com- 
media dell'arte  ? 

Uomo  d'animo  nobile  e  prudente  è  ancora  Panta- 
lone nella  Putta  Onorata.,  commedia  in  prosa  ;  ne  di- 


—  270  — 

verso  è  Pantalone  dell'altra  commedia,  ugualmente  in 
prosa,  la  Buona  Moglie,  seguito  della  prima.  Panta- 
lone, il  quale  ha  ritrovato  un  suo  figlio  smarrito  in  Pa- 
squalino, che  ha  sposato  Bettina,  una  bella  ed  onesta 
popolana,  resta  profondamente  addolorato  quando  ap- 
prende che  il  suo  figliuolo  forma  l' infelicità  della 
moglie:  è  dissoluto,  giuocatore,  ha  dato  fondo  a  tutto 
il  suo.  Pantalone,  invece  di  sgridarlo,  ricorre  alle  buone 
maniere  ;  gli  dipinge  al  vivo  il  carattere  dei  cattivi 
amici  che  lo  circondano,  il  torto  che  fa  al  suo  nome, 
a  quello  del  padre,  all'affetto  della  moglie  virtuosa  e 
prudente;  Pasqualino  dapprima  fa  il  sordo,  poi  la  dolce  , 
eloquenza  del  padre  comincia  a  penetrargli  nell'animo,  P 
ne  e  pienamente  investito,  si  getta  ai  piedi  di  Panta- 
lone e  chiede  perdono,  che,  s'  intende,  ottiene  tanto 
dal  padre  quanto  dalla  moglie.  Non  è  più  un  Panta- 
lone ritoccato,  rimaneggiato  ;  è  un  nuovo  personaggio  : 
col  vecchio  non  ha  comune  che  il  solo  nome. 

Laonde,  non  è  esatto  il  dire  che  il  Goldoni  riformò 
tutto  in  una  volta  il  teatro  comico  italiano,  iniziando  la 
riforma  arditamente  con  le  sue  sedici  commedie  nuove 
annunziate  nella  stessa  sera  in  cui  al  teatro  di  Sant'An- 
gelo cadeva  la  sua  Erede  Fortunata.  A  tale  riforma  egli 
s' era  già  preparato  gradatamente  in  precedenza,  con 
parecchie  commedie  tutte  scritte  o  in  parte  scritte. 
Con  le  sue  sedici  commedie  nuove  egli  proseguì  con 
più  ardore,  con  più  sicurezza,  con  più  unità  di  con- 
cetto la  sua  riforma  percorrendo  la  sua  via  senza  soste, 
senza  ritorni,  senza  pentimenti.  Certamente  egli  con- 
servò, in  questo  suo  secondo  periodo  d'attività  comica, 


—  271    — 

se  non  sempre  ma  quasi  sempre  i  nomi  delle  vecchie 
maschere,  ma  soltanto  i  nomi.  Sotto,  non  c'erano  più 
i  vecchi  personaggi. 

Abbiamo  già  parlato  della  maschera  del  Pantalone 
di  alcune  commedie  goldoniane  che  precedettero  la 
così  detta  "  riforma  ".  Con  questa,  Pantalone  assume 
un  carattere  sempre  più  umano,  più  vero. 

Nel  Teatro  Comico,  la  prima  delle  sedici  commedie 
nuove.  Pantalone  recita  nella  commediola  :  //  padre 
rivale  di  suo  figlio,  che  si  dà  in  prova  ;  sebbene  anche 
qui  Pantalone  porti  la  maschera,  pure  non  è  più  il 
personaggio  ridicolo  degli  Scenari  dello  Scala  e  d'altri 
scrittori  di  soggetti  ;  egli  fa  ancora  ridere,  ma  quando 
s'accorge  che  il  proprio  figliuolo  ama  la  donna  da  lui 
adorata,  sagrifica  senza  lazzi,  senza  boccacce,  ma  no- 
bilmente, l'amor  suo  a  quello  del  giovane.  Il  pubblico 
non  ride  più  ;  egli  resta  commosso  dinanzi  a  quel  sa- 
grificio.  -'' 

In  molte  delle  sue  successive  commedie,  il  Goldoni 
soppresse  anche  il  nome  del  Senex  dei  vecchi  Sce- 
nari; per  esempio,  se  nel  Padre  di  Famiglia,  rappre- 
sentato a  Venezia  nel  1751,  si  chiama  Pancrazio,  nel 
Burbero  Bene^co,  rappresentato  a  Parigi  nel  1771,  si 
chiama  Geronte.  Fra  queste  due  date,  quante  volte 
Pantalone,  nell'  opera  del  Goldoni,  non  portò  più  il 
suo  vecchio  nome  !  Ma  ripetiamolo  :  poco  importa  il 
nome;  il  "  Vecchio  "  di  Plauto  e  di  Terenzio,  quello 
della  commedia  dell'  arte,  col  Goldoni  si  trasforma 
completamente  e  diventa  multiforme.  Esso  rappresenta 
r  uomo  maturo  in  tutte  le  posizioni  sociali,  con  tutte 


-  272    - 

le  sue  passioni,  i  suoi  vizi,  e  spesso  anche  con  tutte 
le  sue  virtù  ;  non  è  più  una  figura  rigidamente  disegnata 
sulla  carta  e  poi  accuratamente  ritigliata  con  le  forbici,! 
ma  è  persona  viva.  Ride,  piange,  si  commuove,  ha 
debolezze,  ha  vizi,  ma  sa  correggersi,  è  capace  di  com- 
piere sagrifici ,  atti  virtuosi.  A.nche  nel  riso  è  cor- 
retto. L'artista  che  in  lui  s'impersona  ne  risente  l'in- 
flusso  benefico  ;  sotto  il  suo  abito,  si  comprende  che 
non  c'è  più  l'antico  istrione,  l'antico  saltatore  di  corda, 
l'antico  suonatore  di  tromba  o  di  tamburo  delle  piazze 
e  delle  fiere.  E  come  è  vario  questo  nuovo  Panta- 
Ione  goldoniano  !  E  avaro  nel  Vero  Amico,  nell'Alvaro 
e  neW Avaro  Fastoso;  e  pieno  di  giusto  rigore  nel 
Padre  di  Famiglia  ;  è  cattivo,  sebbene  in  fine  si  rav- 
veda, e  burbero,  nel  Fodero  Brontolon  ;  è  burbero, 
ma  dal  cuore  d'  oro,  nel  Burbero  Benefico  ;  è  padre 
debole  nella  Serva  Amorosa;  è  credulo  nella  Finta 
Ammalata;  è  zimbello  dei  capricci  della  moglie  nella 
Sposa  Sagace  ;  e  cerimonioso  sino  al  ridicolo  negli 
Innamorati  ;  e  credulo  e  buono  nel  Bugiardo  ,  dove 
conserva  insieme  alla  maschera  e  al  vecchio  vestito 
il  suo  nome  tradizionale  ;  nel  Poeta  Fanatico  e  ta- 
gliato all'antica,  non  ama  le  raffinatezze  moderne ,  tra- 
scura gli  affari  di  casa  per  le  Muse,  che  ama  alla 
follia,  sebbene  egli  stesso  non  sia  poeta  ;  nella  Casa 
Nova,  è  custode  geloso  del  principio  dell'obbedienza 
passiva  dei  figli  verso  i  genitori  ;  nella  Figlia  Ubbi- 
diente e  credulo,  fatuo  ;  nel  Curioso  Accidente,  e  vit- 
tima d'un  inganno  ordito  da  lui  stesso. 

Soprattutto  egli  è  il  rappresentante  del  buon  senso, 


—  273  - 

anzi,  questo  è  incarnato  in  lui.  Gli  altri  personaggi 
della  commedia  possono,  chi  più,  chi  meno,  fare  uno 
strappo  a  quest' ultimo,  ma  lui  s'aggrappa  ad  esso  e 
non  falla,  o  quasi  mai.  Ne  la  parola  "  aggrappare  " 
sarebbe  veramente  propria  nei  suoi  riguardi,  perchè 
parrebbe,  con  l'idea  di  sforzo  che  esprime  la  parola 
medesima,  eh'  egli  temesse  di  perdere  il  buon  senso  ; 
ma  Pantalone  questo  timore  non  1'  ha  mai.  Il  buon 
senso  e  lui  sembrano  nati  ad  un  parto.  E  il  vero  tipo 
del  veneziano,  o  almeno,  del  vecchio  veneziano  per- 
vaso di  buon  senso  dalla  testa  ai  piedi.  Ecco  un 
saggio  del  buon  senso  del  Pantalone  goldoniano.    ^ 

(Panialqne  a  Florindo). 

"  Amar  !a  muger  xè  cossa  bona,  ma  non  bisogna  amarla  a  costo 
della  propria  rovina.  Un  marìo,  che  ama  troppo  la  muger,  e  che  per 
Ito  troppo  amor  se  lassa  tor  la  man,  se  lassa  orbar  ;  el  xè  a  pezo  condi- 
zion  d' un  omo  perso  per  una  morosa.  Perchè  dalla  morosa,  illumina 
eh'  el  sia,  el  se  ne  poi  liberar,  ma  la  muger  bisogna  co  el  1'  ha  segondada 
a  principio,  eh*  el  la  sopporta  per  necessità,  e  se  la  morosa  per  conservar 
la  grazia  dell'  amigo,  qualche  volta  la  cede,  la  muger  cognossendo  aver 
dominio  sul  cuor  d'^1  marìo,  la  comanda,  la  voi,  la  pretende,  e  el  po- 
ver'omo  xè  obligà  accnodarghe  per  forza  quello  che  troppo  facilmente 
el  gh'à  accorda  per   amor  "   (I). 

Dell'altro  Senex  dell'antica  commedia,  del  dottor 
Graziano  Ballazon,  nel  teatro  goldoniano  non  è  rimasta 
traccia  alcuna.  C'è  ancora  un  secondo  vecchio,  d'or- 
dinario, padre  di  Lelio  o  di  Florindo,  oppure  di  Ro- 

0)  La  Donna  Prudente,  Atto  li,  Se.   1. 
!ACel  Regno  delle  SìiCaachere.  18 


—  274  — 

saura;  ma  non  assorda  o  addormenta  il  pubblico  coi 
suoi  sproloqui  infarciti  di  pseudo-sentenze,  di  citazioni 
latine,  di  ricordi  classici  e  mitologici.  Era  quest'ultimo 
personaggio  una  maschera  perfettamente  sconclusionata, 
che  se  nella  sua  prima  giovinezza  poteva  essere  una 
geniale  caricatura  del  giureconsulto  o  del  medico  di 
quei  tempi,  nella  sua  tarda  vecchiezza  era  divenuta 
triviale  e  noiosa.  Nel  teatro  del  Goldoni,  il  Dottore 
è  un  personaggio  secondario,  è  un  Pantalone  (nuova 
edizione)  assai  ridotto,  una  parte  che  non  decide 
mai  del  successo  o  della  caduta  d'una  commedia  del 
grande  veneziano.  Questi,  come  aveva  fatto  per  Panta- 
lone, dal  campo  delle  maschere,  dei  tipi  consacrati 
dalla  tradizione,  la  fece  rientrare  nel  campo  delle  per- 
sone viventi.  Se  spesso  è  giureconsulto  o  medico,  non 
è  più  consigliere  di  re  o  imperatori  immaginari  di  non 
meno  immaginari  regni  o  imperi  ;  non  e  più  battuto 
da  Arlecchino  o  da  Brighella,  e  se  qualche  volta  spro- 
posita, lo  fa  con  garbo  ed  anche  con  spirito.  S'intende, 
non  fa  più  lazzi  ne  da  solo,  ne  con  Pantalone,  ne 
tanto  meno  coi  servi. 

Le  maschere  dei  servi  (Arlecchino  e  Brighella,  ge- 
neralmente) subiscono  nelle  commedie  del  Goldoni 
le  medesime  sorti  delle  altre  due  maschere.  Esse, 
dalla  riforma  goldoniana,  vengono  fuori  completamente 
trasformate,  anche  perchè  cessano  di  essere  entrambe 
parti  principali  della  commedia. 

Coi  servitori  del  Goldoni  s'inizia  la  serie  dei  servi- 
tori moderni;  non  sono  più  tipi  convenzionali,  e  con-' 
servando  qualche  volta  la  maschera,  non    conservano 


—  275  — 

affatto  il  grossolano  e  rumoroso  spirito  d'  una  volta. 
Non  bastonano  più  i  padroni,  e  nemmeno  essi  sono 
bastonati.  Non  sono  più  l'uno  (Arlecchino)  eternamente 
sciocco,  e  l'altro  (Brighella)  eternamente  furbo.  Il  primo, 
è  vero,  conserva  ancora  un  po'  dell'antica  sua  inge- 
nuità, ma  è  ingenuità  umana,  non  inverosimile  ;  il  se- 
condo conserva  sempre  la  sua  vecchia  furberia,  ma 
questa  è  anche  umana,  cioè,  non  la  fa  a  calci,  non 
diremo  col  buon  senso,  ma  col  senso  comune,  soprat- 
tutto che  sparendo  dalla  scena  i  personaggi  perfetta- 
mente stupidi,  certe  "  invenzioni  "  che  potevano  met- 
tere in  imbarazzo  soltanto  gli  sciocchi,  sono  anche 
scomparse.  I  servi  goldoniani  quasi  sempre  non  sono 
che  macchiette  ;  sono  i  servi  quali  ognuno  li  può  ve- 
dere nelle  anticamere,  nei  servigi  che  rendono  ai  loro 
padroni,  nei  loro  convegni,  nei  loro  intrighi  di  cucina 
o  di  portineria.  C'è  ancora  il  servo  che  fa  da  mez- 
zano al  padroncino  o  che  si  fa  gabbare  dal  suo  com- 
pagno meno  sciocco  o  più  furbo  di  lui;  ma  è  il  servo 
che  s'incontra  dappertutto.  Se  non  che,  non  s'addor- 
menta più  sulla  strada  mentre  il  padrone  parla  con 
l'amante,  né,  svegliatosi,  torna  a  riaddormentarsi,  anche 
se  preso  a  pedate  o  per  un  orecchio;  non  gli  si  dà 
più  a  credere  che  le  viti  si  legano  con  le  salsiccie, 
né  che  i  fiumi  portano  al  mare  non  acqua,  ma  vino; 
del  resto,  se  è  chiamato  a  portar  dell'acqua  per  ispruz- 
zarla  sul  viso  della  padrona  svenuta,  egli  non  porta 
più  dell'orina  ;  se  ne  guarderebbe  bene.  Con  ciò  non 
vogliamo  dire  che  di  tanto  in  tanto  il  vecchio  servo 
coi   suoi    lazzi    non   faccia  capolino  ;  no  ;  ma    è    una 


—  276  — 

breve  e  timida  apparizione.  Ma,  quasi  sempre,  in  lui 
si  disegna  perfettamente  il  nuovo  servitore. 

Uno  di  codesti  servi  è  certamente  Trastullo ,  nel 
Padre  di  Famiglia.  Ecco  una  scena  fra  servo  e  pa- 
drone (Pancrazio)  che  non  rassomiglia  affatto  a  nes- 
suna delle  scene  fra  servi  e  padroni  della  vecchia 
commedia  a  braccia  : 

TRAST.   Illustrissimo... 

PANC.  Zitto  con  questo  illustrissimo  ;  non  mi  stare  a  lustrare,  che 
non  voglio. 

TRAST.  La  mi  perdoni  ;  sono  avvezzo  di  parlar  così  e  mi  pare  di 
mancar  al  mio  debito,  se  non  Io  fo. 

PANC.  Avete  servito  dei  conti  e  dei  marchesi  ,  ma  io  sono  mer- 
cante e  non  voglio  titoli. 

TRAST.  Ho  servito  delle  persone  titolate,  ma  ho  servito  anche  gente 
che  sta  a  bottega,  fra  i  quali  un  pizzicagnolo,   un  macellaio... 

PANC.     E  a  questi  davate  dell'  illustrissimo  ? 

TRAST.  Sicuro ,  particolarmente  la  festa  ;  sempre  illustrissimo. 

PANC.  Oh  questa  è  graziosa  !  Ed  essi  se  lo  bevevano  il  titolo  senza 
difficoltà,  eh  ? 

TRAST.  E  come  !  Il  pizzicagnolo  particolarmente  dopo  d'aver  fatto 
addottorare  un  suo  figlio  ,  gli  pareva  li'  esser  diventato  un 
gran  signore. 

PANC.     Se  tanto  rigonfiava  il  padre,  figuratevi  il  figlio  1 

TRA.ST.  L' illustrissimo  signor  Dottore  ?  Consideri  !  In  casa  si  faceva 
il  pane  ordinario,  ma  per  lui  bianco  e  fresco  ogni  mattina. 
Per  la  famiglia  si  cucinava  carne  di  manzo  e  qualche  volta 
un  capponcello;  per  lui  c'era  sempre  un  piccion  grosso,  una 
beccaccia,  o  una  quaglia.  Quando  egli  parlava,  il  padre,  la 
madre,  i  fratelli  tutti  stavano  ad  ascoltarlo  a  bocca  aperta. 
Quando  volevano  autenticare  qualche  cosa  dicevano  :  1'  ha 
detto  il  Dottore  ;  il  Dottore  1'  ha  detto  ,  e  tanto  basta.  Io 
sentivo  dire  dalla  gente  che  il  Dottore  ne  sapeva  pochino  ; 


—  277  — 

ma  però  hanno  speso  bene  i  loro  denari,  perchè  con  l'ac- 
casione  della  laura  dottorale  sono  diventati  illustrissimi  anche 
il  padre  e  la  madre,  e  se  io  stavo  con  loro  un  poco  più, 
diventavo  illustrissimo  anch'  io. 

(Atto  I,  Scena  VI) 

Trastullo  è  proprio  il  servo  moderno,  che,  lasciato 
il  servizio,  dice  male  del  padrone. 

Il  servo  del  teatro  goldoniano  non  conduce  più  l'a- 
zione, non  è  più  il  Deus  ex  machina  dell'  intreccio, 
non  mette  tutto  capo  a  lui,  ne  lo  svolgimento  della 
commedia  sta  nelle  mani  di  lui.  E'  sempre  un  per- 
sonaggio secondario,  a  meno  che  non  si  tratti  di  serve, 
poiché  in  questi  casi  il  Goldoni  non  ritenne  che  la 
sua  riforma  si  dovesse  spinger  sin  là:  e  ci  diede  la 
Serva  ylmorosa,  per  non  citare  che  il  suo  capolavoro 
nel  genere  predetto.  Del  resto,  le  serve,  nel  teatro  del 
grande  veneziano,  hanno  conservato,  anche  senza  es- 
sere il  pernio  dell'  azione  comica ,  tutta  l' importanza 
che  avevano  nel  teatro  dell'arte  ;  soltanto  ,  non  sono 
sempre  civette,  sempre  mezzane,  sempre  volgari  come 
in  quest'  ultimo.  Egli  ha  saputo  creare  il  tipo  della 
serva  am.orosa,  della  serva  di  spirito,  della  serva  one- 
sta. Abbiamo  già  citato  la  Serva  Amorosa  ed  ora  ad 
essa  possiamo  aggiungere  la  Cameriera  grillante  e 
la  Castalda.  Nella  prima  è  una  serva  che  col  suo  af- 
fetto, la  sua  devozione  e  la  sua  prudenza  rimette  la 
tranquillità  nella  famiglia  del  suo  antico  padrone;  nella 
seconda.  Argentina,  cameriera  di  Pantalone,  col  suo 
spinto    inesauribile    costiinge  costui  a  dare  alle    due 


-  278  — 

figlie  per  mariti  due  giovanotti  che  le  amavano  ar- 
dentemente ;  nella  terza,  infine,  una  serva  con  le  sue 
buone  maniere  e  la  sua  buona  condotta  arriva  a  farsi 
§posare  dal  padrone. 

La  maschera  che  il  Goldoni  abolì  completamente 
nel  suo  teatro  fu  quella  del  Capitano.  Questi  che  col 
suo  cappello  piumato  e  il  suo  spadone  aveva  glorio- 
samente calcato  le  scene  per  parecchie  generazioni, 
riempiendo  l'orecchio  degli  spettatori  con  l'eco  dei  suoi 
bellicosi  sproloqui,  fu  sostituito  dal  Goldoni  con  l'uf- 
fiziale  leggermente  scapato  com'  è  Don  Garzia  nello 
Amante  (Militare,  o  tenero  ed  innamorato  come  è  don 
Alonzo  nella  stessa  commedia,  o  il  signor  De  La  Cot- 
terie  nel  Curioso  Accidente.  Capitan  Coccodrillo  e 
Capitan  Spavento  di  Valle  d' Inferno  si  umanizzavano, 
dal  campo  della  caricatura  e  del  grottesco  passavano 
in  quello  della  realtà,  della  vita. 

Come  già  notammo  nella  prima  parte  di  questo  stu- 
dio, la  commedia  dell'arte  fu  sempre  una  commedia 
d' intreccio,  sempre  o  quasi  sempre  amoroso.  Il  Gol- 
doni riformatore  accordò  tutte  le  sue  preferenze  alle 
commedie  di  carattere  ,  e  quando  la  sua  commedia 
seguì  altra  via,  fu  d'ambiente,  di  costumi. 

Abbiamo  già  visto  che  cosa  fosse  un  "  intreccio  " 
nella  commedia  dell'arte  ;  un'avventura  quasi  sempre 
d'una  semplicità  infantile  ,  ma  spesso  sovraccarica  di 
incidenti  1'  uno  più  strano  o  inverosimile  dell'  altro  ; 
un'azione  che  mai  si  distingueva  per  la  sua  origina- 
lità, ma  ritardata  o  sospesa,  nel  suo  svolgimento  ,  da 
"  invenzioni  ",  cioè,  da  intrighi  che  ne  ingarbugliava- 


—  279  — 

no  le  file,  il  tutto  con  copioso  condimento  di  buffo- 
nate, di  trivialità,  di  lazzi.  Il  Goldoni  passò  un  frego 
su  tutto  ciò,  e  non  volle  riprodurre  che  caratteri  ,  o 
dipingere  la  vita  reale  nel  modo  come  a  lui  si  pre- 
sentava. La  commedia  di  carattere  tanto  da  lui  curata 
e  accarezzata,  era  da  lui  ritenuta  come  il  non  plus 
ultra  dell'arte  comica,  forse  spinto  a  questa  sua  con- 
cezione dell'arte  dall'esempio  del  Molière  ;  il  quale, 
nelle  sue  migliori  commedie,  non  fu  che  il  riprodut- 
tore di  caratteri.  Anche  quando  il  disegno  d'una  ri- 
forma del  teatro  comico  italiano  non  si  presentava  alla 
sua  mente  che  come  una  visione  confusa  ed  indeter- 
minanta,  egli  amava  la  commedia  di  carattere.  Ab- 
biamo già  tenuto  parola  di  ^M^omolo  Cortesan^  del 
Prodigo,  dell'  Uomo  Prudente  ;  ecco  ancora  altre  com- 
medie di  carattere  :  la  T)onna  di  Qarbo,  Tonin  Bella 
Qrazia ,  la  Vedova  Scaltra  ,  la  Putta  Onorata ,  la 
^uona  moglie,  il  Cavaliere  e  la  T)ama,  tutte  scritte, 
come  le  tre  precedenti,  prima  che  il  nostro  autore 
si  mettesse  risolutamente  sulla  via  della  riforma.  Nel- 
l'ultima, il  Goldoni  mette  in  iscena  e  punzecchia  il 
cicisbeismo  con  più  arguzia,  con  più  vis  comica  del 
fiacco  e  slavato  Fagiuoli.  Proclamata  arditamente  la 
riforma,  egli  alternò  le  commedie  di  carattere  con  quelle 
di  costumi  o  d'ambiente. 

Ciò  che  la  commedia  dell'  arte  ignorò  completa- 
mente fu  la  vita  reale.  Lo  spettacolo  comico  ,  che 
aveva  per  base  le  maschere  ;  coi  suoi  tipi  dove  l' in- 
verosimile prevaleva  sul  vero,  il  grottesco  sul  comico, 
la  caricatura  sulla  satira ,  non    poteva    avere  il  senso 


—  280  — 

della  vita  qual'  è  ;  la  vita  non  era  da  esso  compresa 
che  attraverso  le  maschere  stesse,  cioè,  attraverso  un 
prisma  fatto  di  tradizioni,  di  pregiudizi  teatrali,  di  ca- 
pricci o  fantasie  di  comici ,  di  rimaneggiamenti  fatti 
alla  luce  falsa  della  ribalta.  Sfuggiva  così  ad  esso  il 
senso  di  ciò  che  di  palpitante  ,  di  vivo  si  svolgeva 
intorno  al  pubblico  e  agli  attori  stessi  ;  all'  incontro, 
il  Goldoni  portò  il  suo  osservatorio  in  mezzo  al  pub- 
blico medesimo,  nella  strada,  nella  casa  come  nel  pa- 
lazzo. Volle  vedere  con  gli  occhi  propri  e  non  con 
quelli  degli  altri,  studiare  da  se  sul  corpo  vivo  e  non 
sul  corpo  morto,  o  peggio,  sui  libri.  Nelle  sue  com- 
medie di  costumi  e  d' ambiente,  cioè,  di  vita  reale, 
quasi  sempre  popolare  o  borghese,  come  nei  Quattro 
Rusteghi ,  nelle  baruffe  Chiozzotte  ,  nel  Campielo , 
nella  Casa  Nova,  nella  trilogia  le  Smanie  della  X)il' 
leggiatura,  le  avventure  della  Villeggiatura  e  Ritorrìo 
dalla  Villeggiatura,  nella  Bottega  del  Caffè,  nel  Veti- 
taglio,  nel  Burbero  benefico  ed  in  tant'altre  gli  uomini 
e  le  donne  sono  persone  viventi,  non  trapiantate  sulla 
scena  da  vecchi  soggetti  o  peggio  dal  campo  della 
fantasia  ;  egli,  tutte  codeste  persone ,  non  solo  le  ha 
veduto ,  ma  le  ha  udito  discorrere  ,  ha  assistito  allo 
svolgersi  delle  loro  passioni,  ne  ha  studiato  l' animo. 
Sono  persone  che  l'autore,  il  giorno  prima  di  mettersi 
a  tavolino  per  scrivere  la  sua  commedia,  ha  avvicinato 
al  caffè,  all'albergo,  in  piazza,  in  villa,  in  una  botte- 
ga, nello  studio  d'un  avvocato,  al  ridotto,  in  una  con- 
versazione tenuta  da  una  dama,  o  al  canto  d'  una  via 
dove  alcune  popolane  parlavano  delle  loro  piccole  fac- 


—  281    — 

cende  di  famiglia  o  tagliavano  i  panni  addosso  alle 
vicine.  Delle  classi  popolari  egli  ha  studiato  insieme 
ai  costumi  il  linguaggio.  Nelle  sue  commedie  ve  neziane 
o  nelle  "parti"  veneziane  delle  sue  commedie  italiane, 
la  Venezia  del  popolo  vi  si  specchia  con  tutto  il  brio, 
con  tutta  l'arguzia  del  suo  dolce  ed  un  po'  effeminato 
dialetto.  Il  Goldoni  completa  il  Canaletto  e  il  Longhi; 
la  commedia  iategra  la  pittura,  quando  non  ne  e  il 
migliore  commento.  Date  un'occhiata  alle  tele  di  codesti 
due  pittori,  leggete  il  teatro  "  veneziano  "  dell'  altro 
e  voi  vedrete  sorgere  dinanzi  alla  vostra  mente  Ve- 
nezia del  Settecento. 

Si  scostò  il  Goldoni  dalla  commedia  dell'arte  an- 
che pel  luogo  dell'azione.  Già  sappiamo  quale  fosse, 
generalmente,  quest'ultimo  (1).  Il  Ferrucci,  che  s'i- 
spirava alla  regola  ordinaria,  eh'  era  la  classica,  de- 
rivata dai  precetti  aristotelici  ed  oraziani,  insegnava  : 
"  Che  nella  commedia  deggia  la  scena  regolarsi  a 
modo  di  strada  di  città  con  case  particolari...  concor- 
do col  Minturno...  Che  vi  debba  essere  la  piazza  per 
passeggiarvi  i  recitanti  è  necessario  e  larga  quanto  si 
possa  per  avervi  spazio  di  camminarvi,  e  vi  aggiungo 
le  diverse  uscite,  come  strade,  acciocché  non  si  fac- 
ciano incontrature  di  scena  tanto  aborrite  e  contrarie 

(  1  )  La  commedia  dell'  arte,  oltre  la  commedia  propriamente  detta, 
abbracciò  anche  altre  forme  di  composizioni  sceniche  sia  comiche  sia 
tragico-comiche,  o  di  natura  pastorale,  o  mitologica,  o  spettacolosa.  Vi 
entrò  anche  la  drammatica  spagnuola  o  spagnoleggiante  con  le  sue  com- 
medie di  cappa  e  spada  ecc.  In  tutte  codeste  composizioni  la  stabilità 
della  scena  scomparve. 


/" 


-  282  — 

al  verosimile...  Nelle  case  della  commedia  sono  ne- 
cessarie le  finestre  e  le  porte  per  diversi  accidenti  che 
sogliono  nascere  nella  tessitura  della  favola  "  (1).  Eb-| 
bene,  a  malgrado  dell'amore  del  "  verosimile  "  tanto 
da  riuscire  abborrite  le  "  incontrature  di  scena  " ,  pure 
ai  commediografi  del  teatro  dell'arte,  mai,  o  quasi  mai, 
era  apparsa  come  cosa  inverosimile  per  luogo  d'azione 
d'una  commedia  una  pubblica  piazza  con  case  e  stra- 
de. Ne  diversamente  pensavano  i  letterati  scrittori  di 
commedie  sostenute.  Essi  si  erano  tenacemente  attac-  • 
cati  alla  tradizione  classica,  ne  vollero  mai  abbando-  I 
narla,  anche  quando  altri  scrittori  spagnoleggianti,  non 
avversati  dal  pubblico,  avevano  messo  a  dormire  i  vec-  | 
chi  precetti.  Di  codesta  disposizione  classica  della 
scena  (piazza  con  case  particolari  e  strade)  già  no-; 
tammo  i  difetti,  ch'erano  soprattutto  d'inverosimiglianza 
e  ai  quali  il  commediografo  cercava  di  sfuggire  con 
ripieghi  diremmo  quasi  fanciulleschi  ;  il  che  non  sol- 
levava ne  critiche  ,  ne  proteste  ,  poiché  il  pubblico, 
che  s'era  abituato  a  quella  disposizione  di  scena,  non 
sapeva  più  distinguere  il  verosimile  dall'  inverosimile. 
Il  Goldoni  ,  all'  incontro  ,  rimettendo  la  commedia 
nella  realtà,  volle  che  il  luogo  dell'azione  non  fosse 
più  stabile,  o  meglio,  volle  che  la  disposizione  della 
scena  non  fosse  sempre  quella  che  insegnava  il  Fer- 
rucci ai  commediografi  del  suo  tempo.  Al  suo  buon 
senso  ripugnava  che  le  azioni  più  intime  della  vita, 
le  scene  di  famiglia,  avessero  luogo  sulla  piazza,  sulla 

(I)  Op.  cit.,  p.  28. 


—  283  — 

strada,  davanti  alla  porta  d'una  casa.  Che  valeva  ci- 
tare Plauto  che  nella  (^Costellarla  (Atto  II,  Scena  1) 
presenta  una  cortigiana  che  fa  la  sua  "  toilette  "  di- 
nanzi l'uscio  della  propria  casa,  quasi  che  quel  tratto 
di  marciapiede  fosse  il  suo  "  boudoir  "  ?  La  "  dispo- 
sizione di  scena  "  perrucciana  si  prestava  a  troppi  in- 
convenienti perchè  potesse  ancora  resistere  alla  critica. 
Già,  in  Francia,  prima  col  Molière,  poi  coi  continua- 
tori dell*  opera  sua  ,  la  scena  stabile  ,  la  scena  con 
piazze,  case  e  strade,  aveva  perduto,  in  parte,  la  sua 
riputazione  d'una  volta  ;  vi  si  contravveniva  facilmente. 
Anche  in  Italia,  col  Gigli,  col  Fagiuoli,  con  altri,  essa 
aveva  perduto  il  suo  prestigio  di  dogma.  Il  Goldoni 
diede  ad  essa  l'ultimo  colpo.  L'azione  della  comme- 
dia goldoniana  si  svolge,  quindi,  quasi  sempre  in  casa, 
in  famiglia.  Le  signore  dell'aristocrazia  non  tengono 
conversazione,  non  ricevono  i  loro  cicisbei  che  nei  sa- 
lotti ;  le  fanciulle,  se  hanno  da  parlare  coi  loro  inna- 
morati, non  vengono  alla  finestra  o  non  escono  fuori 
dell'uscio,  senza  troppo  discostarsi  da  questo,  come 
prescriveva  il  Ferrucci,  per  non  farsi  pigliare  per 
donne  da  trivio.  Anche  nelle  commedie  popolari  non 
sempre  l'azione  si  svolge  sulla  strada.  Vero  è  che 
qualche  volta  la  scena  si  svolge  nella  piazza,  e  più  di 
una  volta  Rosaura  o  Beatrice,  oppure  semplicemente 
la  serva.  Corallina,  fanno  conversazione  coi  loro  in- 
namorati dalla  finestra  ;  ma  è  già  in  linea  d'eccezione 
e  quando  accade  il  commediografo  ne  ha  le  sue 
buone  ragioni  ;  il  che  rende  verosimile  la  scena. 
Citiamo  a  caso:  la  bottega  del  Caffè,   dove  l'azione 


—  284  ^ 

si  svolge  con  la  massima  naturalezza  sulla  piazza 
tra  la  bottega  del  cafiettiere,  la  casa  del  biscazziere 
e  r  albergo  dove  va  ad  alloggiare  Placida  ,  la  mo- 
glie di  Flaminio,  e  la  casa  della  ballerina  Lisausa  ; 
le  baruffe  Chiozzotte,  dove  V  azione,  in  gran  parte, 
ha  luogo  sulla  strada  fra  barcaiuoli ,  mogli  e  figlie 
di  barcaiuoli  ed  altra  simile  gente  ,  che  ,  meno  la 
notte,  vive  quasi  sempre  all'aria  aperta;  il  Ventaglio, 
in  cui  l'azione  si  svolge  sulla  piazza,  fra  le  case  e  le 
botteghe  dei  principali  personaggi  della  commedia;  il 
Campkloy  dove  la  piazzetta  col  suo  vario  movimento, 
con  le  sue  ciarle,  coi  piccoli  intrighi  della  gente  umile, 
è  la  vera  protagonista  della  favola.  La  vita  popolare 
italiana,  che  nella  bella  stagione  pulsa  all'  aperto, 
in  piena  aria,  su  codeste  scene  non  vi  si  sente  a  di-i 
sagio  ;  vi  scorre  naturalmente,  come  nel  proprio  am-' 
biente,  senza  che  il  commediografo,  per  rendere  ve- 
rosimile l'entrata  o  l'uscita  dei  personaggi,  il  loro  in- 
contro o  i  loro  discorsi,  abbia  bisogno  di  ricorrere  a 
mezzucci,  a  spedienti,  a  spiegazioni  qualche  volta  di 
una  ingenuità  fenomenale ,  come  ,  pur  troppo ,  prima 
del  Goldoni,  facevano  i  compilatori  di  Scenari  e  prima 
di  costoro  i  cinquecentisti  eruditi  con  le  loro  comme- 
die calcate  con  cura  religiosa  su  quelle  del  teatro  co- 
mico latino. 

Ebbene,  come  già  notammo,  col  dilagare  in  Italia 
del  teatro  spagnuolo  o  spagnoleggiante  i  nostri  pub- 
blici sebbene  fossero  già  abituati  a  vedere  trasportare  il 
luogo  dell'azione  da  una  città  all'altra,  dalla  città  alla 
campagna,  o  svolgersi  quest'ultima  in  un  tempo  mag- 


—  285  — 

giore  di  ventiquatt'ore,  pure  i  rigidi  custodi  dei  pre- 
cetti classici  non  mancarono  di  criticare  severamente  il 
Goldoni  pel  poco  conto  in  cui  teneva  le  classiche  re- 
gole dell'  arte.  Nelle  (Memorie  il  nostro  scrittore  ne 
parla  così  :  "  Riguardo  ali'  unità  dell'  azione  e  a  quella 
del  tempo,  nulla  avevano  da  rimproverarmi...  preten- 
devano bensì  che  avessi  mancato  solamente  all'unità 
del  luogo.  L' azione  delle  mie  commedie  però  suc- 
cedeva sempre  nella  città  medesima,  o  i  personaggi 
non  uscivano  mai  da  essa  ;  scorrevano,  è  vero,  diversi 
luoghi,  ma  costantemente  dentro  la  cerchia  delle  stesse 
mura;  credetti  per  ciò,  come  tutt'ora  credo,  che  così 
l'unità  del  luogo  fosse  mantenuta  bastantemente  (1)  ". 
Ma  le  differenze  fra  la  commedia  dell'  arte  e  quella 
del  Goldoni  non  si  fermavano  qui.  Abbiamo  già  detto 
come  la  prima  non  solo  fosse  triviale,  grossolana,  ma 
anche  immorale.  Sebbene  la  gente  di  chiesa  e  le 
anime  timorate  invocassero  i  fulmini  del  cielo  ed  una 
più  accurata  e  severa  censura  da  parte  dei  governi 
sugli  spettacoli  comici,  questi  continuavano  ,  quando 
più  quando  meno,  ad  essere  in  generale  in  guerra  se 
non  con  la  morale,  certamente  con  la  decenza.  Gli 
Zanni,  soprattutto,  usavano  un  linguaggio  che  oggi  fa- 
rebbe arrossire  uno  stallino.  Il  Goldoni  tagliò  corto, 
e  air  immoralità  dell'argomento  e  alla  trivialità  e  scon- 
cezza del  dialogo  sostituì  la  moralità  e  la  decenza. 
Volle  assolutamente  che  il  teatro  fosse  scuola  edu- 
catrice, o  per  lo  meno,  non  fosse  complice  compia- 
ci) Par.  II;  Gap.  Ili, 


u 


—  286  — 

cente  d'immoralità  o  di  rilassatezza  di  costumi.  Nel 
dipingere  il  vizio  o  il  ridicolo,  egli  sempre  si  pro- 
pose il  precetto  d' Orazio,  di  castigare  ridendo,  ne 
perchè  la  sua  sferza  cadesse  meglio  sulle  spalle  dei 
dei  colpiti  e  ne  arrossasse  la  pelle  volle  che  la  lubri- 
cità d'argomento  o  di  dire  gli  venisse  in  aiuto.  Egli  en- 
trava così  arditamente  in  quella  corrente  settecentesca, 
educatrice  di  tutta  una  generazione,  che  verso  la  metà 
del  secolo  XVIII  intraprese  la  rigenerazione  dell*  a- 
nima  italiana,  precedendo  o  aiutando  con  l'opera 
sua  quella  del  Parini,  dell'Alfieri  e  di  tanti  altri  scrit- 
tori di  quel  tempo.  Nessuna  delle  sue  commedie  può 
dirsi  che  sia  estranea  ad  un  insegnamento  morale,  e 
tutto  il  suo  teatro  può  recitarsi  senza  che  una  sola 
signora  sia  costretta  ad  abbasscire  gli  occhi  o  a  farsi 
schermo  al  viso  col  ventaglio.  Gli  stessi  sensi  doppi 
che  formavano  la  delizia  delle  vecchie  platee,  non  vi 
trovano  che  scarso,  anzi  scarsissimo  seguito;  quelli  ar- 
ditissimi, sconcissimi  degli  Scenari  di  Flaminio  Scala 
non  sono  per  lui  che  cose  sepolte  da  un  pezzo  ;  egli 
voleva  sì  che  il  pubbHco  ridesse,  ma  senza  che  lo 
scherzo  fosse  cosparso  di  sale  grossolano.  La  salacità 
di  Giovanni  Boccaccio,  dell'Aretino,  o  quella  del  suo 
contemporaneo  e  conterraneo  Baffo  (un  poeta  dialet- 
tale veneto  di  fama  più  che  lubrica)  non  aveva  per 
lui  nessuno  allettamento. 

La  moralità  del  suo  teatro  fu  ampiamente  ricono- 
sciuta dai  suoi  stessi  comtemporanei.  Clemente  Van- 
netti  scrisse  che  il  Goldoni,  inferiore  a  Terenzio  per 
l'intreccio  (?)  e  a  Plauto    pel    brio  comico,    vinceva 


—   287    - 

Tuno  e  l'altro  per  la  moralità  (I).  Pietro  Verri  tro- 
vava nelle  commedie  del  veneziano  un  fondo  di  vir- 
tù vera,  di  umanità,  di  benevolenza,  d'amor  del  do- 
vere che  riscalda  gli  animi  di  quella  pura  fiamma  che 
si  comunica  per  tutto  ove  trova  esca  (2);  infine,  il 
Roberti,  gesuita,  che  non  nutriva  pel  teatro  l'odio 
del  p.  Contzen,  ne  quello  meno  feroce  del  p.  Otto- 
nelli,  in  un  poemetto  :  La  Commedia,  indirizzato  allo 
stesso  Goldoni,  cantava  non  senza   eleganza  : 

"  So  che  la  tua  mercè,  oggi  non  debbe 
Santa  onestà  lanciare  il  suo  turbato 
Candido  vai  sopra  del  volto  tinto 
Di  vermiglia  vergogna  :  e  so,  che  giusto, 
Quasi  a  donzella  di  pregiata  fama 
Ornò  con  bende  la  modesta  fronte 
Alla  Commedia  tua,  quel  grave  e  illustre 
Per  saper  vero,  per  canuto  senno 
E  per  religione  intatta  e  pura 
Maffei (3)  ". 

Qualche  volta,  è  vero,  i  suoi  personaggi  commet- 
tevano cose  disoneste;  ma  egli  subito  ne  para  i  tristi 
effetti  con  apportune  spiegazioni.  E  vero  anche  che 
qualcuno,  in  questo  caso,  potrebbe  dire  :  la  buona  in- 
tenzione, nell'autore,  di  non  deviare  dal  retto,  e'  è,  e 
bisogna  tenergliene  conto.   Così   nella  Sposa    Sagace 

(1)  Operette  It.  e  Lat.  Venezia,    1831;   voi.  Vili;   p.    191. 

(2)  Nel   Caffk;    Venezia,    1760;  I.  p.    53. 

(3)  Opere;  Bassano,  1797;  voi.  IX,  p.  210.  Vedi  pure  Guido 
Mazzoni  in:  Prefazione  all'opera  di  E.  Caprin,    Goldoni  ecc. 


—  288  — 

(atto  111,  scena  ultima),  Barbara,  che  malvista  dalla 
matrigna,  ne  abbastanza  protetta  dal  padre  debole  e 
zimbello  della  moglie,  s'  è  segretamente  fidanzata  al 
giovane  che  ama ,  chiede  perdono  del  suo  malfatto  : 

"  La  mia  sagacitade  so  che  non  merla  lode. 
L'  onestà,  la  prudenza  è  nemica  della  frode. 
Delle  mie  debolezze,  degli  error  miei  mi  pento. 
Domando  al  padre  mio,  novel   compatimento; 
E  lo  domando  a  tutti,  e  con  umil  rispetto 
Del  pubblico  perdono  un  contrassegno    aspetto.  " 

'  Nella  Bottega  del  Caffè,  don  Marzio,  il  maldi- 
cente riuscito  a  tutti  inviso  e  da  tutti  cacciato  via, 
esclama:  "  Sono  avvilito...  tutti  m'  insultano,  tutti  mi 
vilipendono,  ninno  mi  consola,  ognuno  mi  scaccia  e 
mi  ammonisce  ;  ah,  sì,  hanno  ragione,  la  mia  lingua 
o  presto  o  tardi  mi  doveva  condurre  a  qualche  pre- 
cipio  ".  Nel  Curioso  Accidente,  Giannina  che  ottiene 
di  sposare  il  giovane  da  lei  amato  mediante  una  frode, 
a  cui,  per  altro,  il  padre,  inconsapevolmente,  concorse, 
ne  domanda  perdono  al  pubblico  :  così  tutti  i  tipi 
viziosi,  tutti  i  frodatori  della  morale  sui  quali,  al  ter- 
z*  atto,  cade  il  sipario.  Oggi  riuscirebbe  noioso  e  sa- 
prebbe parecchio  di  sagrestia;  ma  ai  tempi  del  Gol- 
doni non  era  così.  Si  usciva  dalle  sconcezze  e  dal 
cinismo  della  commedia  dell'  arte ,  e  quella  ventata 
di  moralità  che  veniva  dalla  scena,  faceva  bene  al 
pubblico.  Questo  la  respirava  a  pieni  polmoni. 

Fin  qui  abbiamo  considerato  la  riforma    introdotta 
dal  Goldoni  nella  commedia    nella    parte    in  cui    lo 


/ 


—  289  — 

scrittore  veneziano  con  1*  opera  sua  batteva  una  via 
diversa  da  quella  seguita  dalla  commedia  dell*  arte; 
ci  si  permetta  ora  di  considerare  V  opera  stessa  in 
quei  punti  —  e,  fortunatamente,  sono  pochi  —  in  cui, 
quasi  sopravvivenza  del  vecchio,  essa  rispecchia  tut- 
tavia, in  certo  modo,  gli  scenéiri  dello  Scala,  del  Loc- 
catelli,  del  Riccoboni  e  d' altri. 

Si  badi  ;  noi  ,  qui,  intendiamo  parlare  di  quella 
péute  dell'  opera  goldoniana  che  lo  stesso  suo  au- 
tore ritenne  informata  alle  idee  di  riforma  da  lui 
professate;  poiché,  come  si  sa,  il  Goldoni,  nei  primi 
tempi  della  sua  Ccu-riera  teatrale,  pur  aspirando  a 
nuove  forme  e  in  qualche  parte  attuandole,  seguì  le 
traccie  dei  suoi  predecessori. 

Di  codeste  sopravvivenze  della  vecchia  commedia 
a  soggetto  anche  nella  parte  più  corretta  ed  evoluta 
dall'opera  goldoniana ,  parecchie  riguardano  i  carat- 
teri, altre  l'argomento,  altre,  infine,  il  dialogo.  Ec- 
cone un  saggio. 

Nella  commedia  :  Gli  Innamorati,  Succianespole, 
servo  di  Fabrizio,  è  ancora  un  po'  il  servo  della 
commedia  antica  ;  e  un  po'  Arlecchino,  un  po'  Bri- 
ghella, cioè,  ora  sciocco,  tal'  altra  astuto.  Lo  stesso 
suo  padrone,  Fabrizio,  uno  spiantato  che  vuol  fare  la 
figura  del  gran  signore,  rassomiglia  troppo  al  vecchio 
tipo  di  Pantalone  corto  a  quattrini  ma  dalle  idee 
grandiose,  perchè  non  se  ne  scorga  subito  la  deriva- 
zione. Ecco  un  dialogo  tra  padrone  e  servo  che 
sembra  scritto  sotto  la  dettatura  d'  un  comico  del- 
l'arte  del  secolo  XVII. 

3\rel  Regno  delle  Maschere  19 


—  290  — 

Per  r  intelligenza  delio  stesso  dialogo  è  da  pre- 
mettere che  Fabrizio,  il  quale  non  ha  denari  ma  vuole 
mostrarsi  e  farsi  credere  un  signorone,  ha  invitato  a 
pranzo  un  forestiere,  un  gentiluomo,  che  nella  sua 
smania  di  tutto  ingrandire,  uomini  e  cose,  proclama 
d'essere  il  primo  gentiluomo  d'  Europa.  Chiama  il 
servo  per  ordinare  il  pranzo. 

FAB.      Succianespole  ! 

SUCC.  Signore, 

FAB.     Come  stiamo  in  cucina? 

SUCC.  Bene. 

FAB.      E'  acceso? 

SUCC.  Gnor  no, 

FAB.       Perchè  non  è  acceso  ? 

SUCC.   Perchè  non  e'  è  legna. 

FAB.      Non  mi  stare  a  far  lo  scimiotto,  che  oggi  devo  dare  un  pranzo 

ad  un'  Eccellenza. 
SUCC.  Ci  ho  gusto. 

FAB.      Succianespole,  che  cosa  daremo  da  pranzo  a  Sua  Eccellenza  ? 
SUCC.   (ridendo  con  confidenza)  Tutto  quello  che    comanda  Vostra 

Eccellenza. 
FAB.       Qualche  volta  mi  faresti  arrabbiare  con  questa  tua  flemmaccia 

maledetta. 
SUCC.  Io  son  lesto. 

FAB.      Lo  sai  fare  il  pasticcio  di  maccheroni  ? 
SUCC.   Gnorsì. 

FAB.      Una  zuppa  con  V  erbuccie  ? 
SUCC.  Gnorsì. 
FAB.      Con  le  polpettine  ? 
SUCC.  Gnorsì, 
FAB.      E  coi  fegatelli? 
SUCC.  Gnorsì. 

FAB.     Hai  danaro    per  spenderlo  ? 
SUCC.  Gnornò. 


—  291  — 

FAB.  T*  ho  pur  dato  un  zecchino. 

SUCC.  Quanti  giorni  sono  ? 

FAB.  L'  hai  speso  ? 
SUGC.  Gnorsì, 

FAB.  E  non  hai  più  un  quattrino  ? 

SUCC.  Gnornò. 

FAB.  Maledetto  sia  il  gnorsì  e  il  gnornò  I   Non  si  sente  altro  da  te, 

SUCC.  Insegnatemi  che  cosa  ho  da  dire. 

FAB.  Bisogna  pensare  a  trovar  danari. 

SUCC.  Gnorsì. 

FAB.  Quante  posate  ci  sono  ? 

SUCC.  Sei,  mi  pare. 

FAB,  Si,  erano  dodici;  sei  l'hai  impegnato;  restano  sei.  Siamo  in  quat- 
tro; impegnane  due. 

SUCC.  Gnorsì. 

FAB.  Va  al  Monte,  spicciati. 

SUCG.  Gnorsì. 

FAB.  Non  mi  fare  aspettare  due  ore. 

SUCC'  Gnornò, 

FAB.  C  è  vino  ? 

SUCC.  Gnomo. 

FAB.  C*  è   pane  ? 

SUCC.  Gnornò. 

FAB.  Che  sii  maledetto!  " 

(Atto  I;   Scena  VII). 

Nella  Figlia  ubbidiente,  il  conte  Ottavio,  carattere 
di  gentiluomo  stravagante,  s'  abbandona  ad  atti  d'  una 
eccentricità  singolare.  Egli  fa  la  corte  ad  Olivetta, 
ballerina,  figlia  di  Brighella,  già  suo  servitore,  ora  pa- 
dre fortunato  e  troppo  compiacente  d'una  discepola  di 
Tersicore,  la  quale  non  ha  che  un  difetto  ,  quello, 
cioè  di  farsi  profumatamente  pagare  i  suoi  vezzi.  Il 
conte  che  si  è  installato  nelle  stesse  stanze  mobigliate 


-  292  — 

dove  alloggia  Olivetta  col  padre,  volendo  fare  un  atto 
di  generosità  verso  il  suo  antico  servitore,  si  cava 
r  abito  e  lo  butta  addosso  a  Brighella  ;  questi  fa  le 
sue  meraviglie,  perchè  non  crede  eh*  egli  possa  ser- 
vire da  attaccapanni  al  suo  antico  padrone.  Il  conte 
lo  fa  subito  ricredere. 

"CON.  Ve  lo  dono. 

BRIG.  (riflettendo)  Non  so  cossa  dir.  L'è  un  affronto,  ma  el  se  pò 
sopportar  sto  abito  ;  ma  cussi  ricco,  lo  possio  portar  ?  Sior 
sì,  sono  padre  d'una  vertuosa.  "  (Atto  I;  Scena  XVIII) 

Nella  stessa  commedia,  il  conte  si  fa  portare  dal 
cameriere  la  pipa,  e  fuma;  poi  chiama  il  suo  servi- 
tore, Arlecchino,  il  quale  avendo  visto  che  il  pa- 
drone aveva  dato  un  zecchino  al  cameriere  che  gli 
aveva  portato  l'occorrente  per  fumare,  spera  di  ca- 
vargli qualche  cosa  per  se. 

^  CON.  Arlecchino? 

ARL.  Signor. 

CON.  Senti. 

ARL.   La  comandi.   {S'  arresta) 

CON'   Qli  getta  una  boccata  di  fumo  sul  viso. 

ARL.  Ai  altri  la  ghe  dà  dei  danari  e  a  mi  la    me  fa    sti  affronti  ? 

Cossa  songio  mi  ? 
CON.   (gti  tira  forte  la  barba) 
ARL.   {da  se)  El  vien. 
CON.  Va  in  collera. 
ARL.  Corponon,  sanguessonl 
CON.  Va  in  collera. 
ARL.   Son  in  furia,  sono  in  bestia  I 
CON.  Non  sai  andare  in  collera   (vuol  riporre  la  borsa). 


-  293  — 

ARL.    La  aspetta...   A  mi  sti    affronti  ?   Razza  maledetta  !    Fiol  d' un 

becco  cornù  I 
CON.   {ride  e  gli  dà  una  moneta) 
ARL.  Porco,  aseno,  carogna! 
CON.   {gli  dà  un' altra  moneta) 
ARL.   Ladro,  spion  ! 
CON.   {gli  rompe  la  pipa  sulla  faccia) 
ARL,  Eh,   non  voglio  altro...  Basta  cussi. 
CON.  Cameriere! 
CAM.  Comandi. 
CON.   Un'altra  pipa. 
CAM.  Subito   {via) 
ARL.  Comanda  altro  ? 
CON.  Vien  qua. 
ARL.  {con  paura)  Signor... 
CON.  {con  collera)  Accostati. 
ARL.   Son  qua. 

CON.  {gli  dà  un  calcio  e  lo  fa  saltare) 
ARL.   Grazie. 

CON.   {gli  dà  una  moneta)   Un'altra  volta. 
ARL.  Un'altra  volta. 
CON.   {gli  dà  ancora  un  calcio) 
ARL.   {dopo  d' aver  sostato)   Ghè  niente? 
CON.   Un'altra  volta  {senza  tirare  la  borsa) 
ARL.  Basta  cussi.   " 

In  un  altra  scena,  Arlecchino  ritenta  il  giuoco, 
ma  questa  volta  i!  conte  lo  sputa  in  viso  senza  met- 
ter mano  alla  borsa,  ed  egli,  asciugandosi  la  faccia, 
riflette  :  "  Se  non  ho  avuto  sta  volta  el  zecchin,  l'ho 
incaparrà  per  un'altra  (atto  I  ;  scena  X). 

Codeste  scene  dove  lo  spirito  non  aveva  per  base 
che  la  più  sconcia  trivialità,  erano  per  se  stesse  trop- 
po plebee  perchè  il  Goldoni  non  se  ne  accorgesse  e 


-  294  — 

non  le  mettesse  a  dormire    insieme  a  tutto  i!  bacato 
bagaglio  della  commedia  a  soggetto. 

Nelle  Donne  Puntigliose,  Arlecchino  è  ancora  la 
maschera  della  vecchia  commedia.  Egli  è  sempre  ser- 
vitore, ma  moro.   Ecco  uno  spunto  di  dialogo: 

"  ROS.  Chi  è  di  là  ? 

SCENA  VII. 
Arlecchino  e  detti. 

ARL.     Comandar. 

ROS.      Porta  la  cioccolata. 

BEAT.  Che  grazioso  moretto  ! 

ARL.      Mi  star  grazioso  moretto,  e  ti  star  graziosa  bianchetta. 

BEAT.  Come  ti  chiami  ? 

ARL.     Mi  chiamar  con  bocca. 

ROS.      Via  di  qua,  impertinente. 

LEL.      Lasciatelo  dire...  E'  il  più  caro  moro  del  mondo. 

ARL.      (a  Lelio)   Per   ti  star    caro. 

LEL.      Per  me  sei  caro  ?  Perchè  ? 

ARL.     Perchè  non  aver  quattrini  per  mi  comprar. 

BEAT.  Bravo  moretto,  bravo  ! 

ARL.      (a  beatrice)   O  quanto  ti  star  bella!   Mi  volerti  bene.  Mi  ti 

voler  far  razza  mezza  bianca  e  mezza  mora. 
ROS.     Va  via,  briccone  ! 

(Atto   I;   Scene  VI   e  VII) 

Qui  (chi  non  lo  vede  ?)  il  vecchio  Arlecchino^ 
sciocco  e  spiritoso,  insolente  e  salace,  è  tuttavia  vivo. 
Soltanto  non  fa  uno  o  due  salti  all'  indietro,  o  non 
acchiappa  una  mosca  per  distaccarle  delicatamente 
le  ali.... 


CAPITOLO  TERZO 


La  Nuova  Commedia 


La  "  nuova  commedia  "  quella,  cioè,  che  prese  il 
posto  della  "  commedia  dell'  arte  "  o  "  a  soggetto  " , 
si  sa  ,  è  la  commedia  di  Carlo  Goldoni  ,  la  quale, 
dopo  una  lotta  che  soltanto  l' intervento  d*un  ingegno 
più  che  poderoso  ,  bizzarro  —  abbiamo  già  fatto  il 
nome  di  Carlo  Gozzi  —  potè  per  poco  far  sembrare 
piena  di  vitalità,  finì  con  1*  adagiarsi  tranquillamente 
sulle  rovine  dell'altra,  senza  che  questa  potesse  mai 
più  rialzarsi  dalla  sua  caduta. 

In  che  consisteva  questa  "  nuova  commedia  '?  "  Quale 
n'era  lo  spirito,  quale  era  l'anima  che  l'informava'/ 
Quali  erano  i  suoi  caratteri  sostanziali,  quelli  che  dif- 
ferenziandola da  ogni  altro  precedente  spettacolo  co- 
mico, le  davano  una  fisionomia  propria? 

Esiste  nel  nostro  linguaggio  teatrale  o  letterario  più 
d' una  parola  o  frase,  che  pur  volendo  indicare  i  ca- 
ratteri o  qualcuno  dei  caratteri  della  riforma  goldo- 
niana, attesta  la  profondità  del  solco  che  lasciò  il  pas- 


—  29b  — 

saggio  del  grande  veneziano  attraverso  il  campo  del- 
l'arte  comica  italiana.  Si  dice  ancora  "  commedia 
goldoniana  ",  oppure  "  personaggi  o  caratteri  goldo- 
niani ",  o  anche  "  scene  goldoniane.  "  Ma  per  fer- 
marci alla  "  commedia  goldoniana  "  in  che  essa  con- 
siste ? 

Il  Guerzoni,  nel  Teatro  Italiano  nel  secolo  XVIII (\) 
si  propose  la  stessa  domanda  e  ritenne  di  aver  dato 
una  risposta  esauriente  con  la  seguente  definizione  : 

"  Essa  non  è  la  commedia  greco-latina,  ne  la  imi- 
tata del  Cinquecento,  ne  tompoco,  sebbene  più  ras- 
somigliante, quella  di  Molière,  ne  quella  dell'arte,  seb- 
bene sua  nepote;  molto  mene  quella  di  Scribe  o  di 
Dumas  figlio.  Il  primo  giudizio  che  si  dà  della  com- 
media goldoniana  è  che  essa  non  imita  nessuna  altra 
e  che  è  per  se  stessa  un  tipo  originale.  E  il  primo 
e  più  visibile  segno  di  questa  sua  originalità  è  la  sua 
indipendenza  assoluta  da  tutte  le  forme  più  accettate 
della  commedia  antecedente  italiana  ed  anco  princi- 
palmente della  così  detta  commedia  erudita  del  Cin- 
quecento... ". 

In  sostanza,  il  Guerzoni  nulla  definì,  e  la  sua  do- 
manda resta  ancora  senza  risposta;  dappoiché  ,  come 
di  leggieri  può  ognuno  accorgersene,  la  definizione  guer- 
zoniana  è  semplicemente  negativa:  da  essa,  in  vero, 
s'apprende  più  d'una  cosa;  ma  che  s'apprende?  Ecco, 
che  la  commedia  goldoniana  non  è  quella  d'Atene  e 
di  Roma  antiche,  ne  la  la  cortigiana  ed  erudita  del  se- 

(1)  Pag.  209;  ediz.  di  Milano;  Fr.  Treves. 


—  297  — 

colo  di  Leone  X,  ne  quella  del  Molière,  ne  quella 
dell'arte,  ne  quella  di  Guglielmo  Shakspeare,  ne,  in- 
fine, quella,  che  ai  tempi  del  Goldoni  era  nella  mente 
di  Dio,  dello  Scribe,  o  di  Alessandro  Dumas  figlio. 
S'apprende,  inoltre,  eh'  essa  non  è  derivata ,  ne  imi- 
tata, ma  costituisce  un  tipo  a  se,  originale  :  ma  quando 
si  è  saputo  tutto  questo  ,  non  e  sempre  il  caso  di 
domandare  :  che  cosa  è  la  "  commedia  goldoniana  "  ? 

Noi,  certamente,  non  siamo  tanto  presuntuosi  da  ri- 
tenerci in  grado  di  dare  l'esatta  definizione;  ma  poiché 
l'argomento  da  noi  trattato  e'  impone  l'obbligo  di  darne 
una,  noi  la  compendiamo  nei  termini  seguenti,  salvo 
a  svilupparla  in  seguito. 

La  "  commedia  goldoniana  "  è  la  rappresentazione 
scenica  del  lato  comico  della  vita  italiana,  e  in  modo 
particolare  veneziana,  del  secolo  XVIII.  Codesta  rap- 
presentazione essendo  poggiata  sull'osservazione  viva, 
diretta  —  è  questo  il  carattere  principale  del  teatro 
goldoniano  —  e  non  di  seconda  mano ,  in  base  alla 
tradizione  teatrale  o  al  documento  letterario,  s'esplica 
mediante  tipi  perfettamente  umani,  presentati  in  tutte 
le  loro  sfaccettature,  in  tutte  le  loro  gradazioni  o  sfu- 
mature, oppure,  mediante  quadri  di  vita  vissuta  tra- 
piantati dalla  piazza,  dalla  strada,  dalla  casa  del  po- 
polano come  da  quella  della  borghesia  e  del  patriziato 
sulla  scena. 

La  "  commedia  goldoniana  "  fu  ai  suoi  tempi  un 
vero  specchio  riflettente  la  vita  d'allora,  soprattutto  ve- 
neziana, e  trattandosi  di  commedia,  s'intende  che  co- 
desta vita  non  poteva  rispecchiarsi    che    dal  lato  co- 


—  298  — 

mico  ,    intimo  ,     famigliare.   Su  questo  carattere  della 
commedia  del  Goldoni  bisogna  insistere ,  sempre  in- 1 
sistere,  in  quanto  che  esso  costituiscala  sua  fisionomia,  I 
e  con  questa  la  sua  originalità.    Quando  si  dice  che 
la  commedia  del  Goldoni  non  rassomiglia  a  quella  di 
Pluto,   o  dell'Ariosto,  o    del  Molière  ,  o   agli  scenari 
della  commedia  dell'arte,  si  è  detto  nulla,  poiché  la 
sua  originalità  sta  in  quello    eh'  essa    realmente  è,  in  | 
quello  che  essa    rappresenta.    Dunque,    rappresenta- 
zione della  vita  italiana,  ed  in  ispecie  veneziana,  del 
secolo  XVIII.   Oggi  parrebbe  cosa  quasi  da  nulla  lo 
studio  dal  vero,  che  dal  vero  procede  o  si  crede  prò-  \ 
cedere  ogni  nostro  studio.  Chi  dei  nostri  commedio- 
grafi, dei  nostri  novellieri  ,  dei  nostri    romanzieri  non 
crede  di  riprodurre  uomini  e  cose  dal  vero?  Eppure», 
ai  tempi  del    Goldoni,    era  la  cosa  più  difficile  ,   di-^ 
remmo  quasi  impossibile.   Sebbene  tutti  i  compilatori 
di  rettoriche,  copiandosi  l'un  1'  altro,  dicessero,  ripe-, 
tendo  a  sazietà  un  precetto  d'Aristotile,  l'arte  non. 
essere  che  una  imitazione  della  natura  ,  pure  il  pre-, 
cetto  del  filosofo  greco  per  tutti  gli  scrittori   rimaneva 
lettera  morta,  anche  perchè  i  signori  retori,  dopo  d'aver 
spiegato  il  precetto,  chiudevano  il  loro  commento  con 
invitare  gli  scrittori  tanto  di  prosa    quanto  di  poesia, 
a  seguire,  a  imitare  i  maestri,  i  classici.    Di  qui  ,  la 
venerazione  spinta  sino  al  feticismo  verso  gli  antichi; 
di  qui,  la  fossilizzazione  delle  foime  letterarie;  di  qui, 
quella  certa   "  imitazione  della  natura  "   che    non  era 
che  riproduzione  di  forme  vecchie,  cristallizzate,  dietro 
le  quali,   da  un  pezzo,  forse  da  secoli ,    non  pulsava 


-  299  — 

più  la  vita.  Se  non  fosse  stato  questo  esagerato  ri- 
spetto verso  gli  antichi,  l' Italia  avrebbe  avuto  la  sua 
commedia,  originale,  nazionale,  sin  dal  Cinquecento, 
con  la  riproduzione  di  quella  sua  vita  così  varia,  così 
esuberante,  di  cui  diedero  un  saggio  i  suoi  novellieri, 
il  Bandello  soprattutto  ;  ma  no,  Plauto  e  Terenzio , 
quest'ultimo  segnatamente  imperavano  nelle  scuole,  e 
la  commedia  non  fu  che  una  povera  riproduzione  di 
persone  e  di  cose  scomparse.  Il  pubblico,  come  si  sa, 
l'abbandonò  ed  andò  a  ridere  alle  facezie  della  com- 
media dell'  arte.  Il  Grazzini ,  detto  il  Lasca  ,  vissuto 
nella  seconda  metà  del  secolo  XVI,  nel  Prologo  della 
commedia:  La  Gelosia  ,  scriveva:  "  E'  gran  cosa.... 
che  in  quante  commedie  nuove  dell'  assedio  (di  Fi- 
renze) in  qua...  si  sono  recitate...  in  tutte  quante  in- 
tervengano ritrovi ,  tutte  finiscano  in  ritrovamenti  :  la 
qual  cosa  è  tanto  venuta  a  noia  e  in  fastidio  ai  po- 
poli che  come  sentano  nell'  argomento  dire  che  nella 
presa  di  alcuna  città  o  nel  sacco  d'un  castello  ven- 
nero smarrite  o  perdute  bambine  o  fanciulle  ,  fanno 
conto  d'averle  udite  ,  e  volentieri ,  se  potessero  con 
loro  onore,  se  ne  partirebbero.  E  di  qui  si  può  co- 
noscere quanto  questi  cotali  manchino  di  concetti  e 
d'invenzione...  e  peggio  ancora  che  essi  accozzano 
il  vecchio  col  nuovo,  e  l'antico  col  moderno...  e  fa- 
cendo la  scena  città  moderne,  e  rappresentando  i  tempi 
d'oggi,  v'introducono  usanze  passate  e  vecchie...  e  si 
scusano  col  dire  :   così  fece  Plauto  (  1  )  "    Ma  il  Graz- 

(1)    Teatro   Comico  Fiorentino,   voi.   Ili,  Firenze,    1750. 


-  300  — 

zini  se  predicava  bene,  razzolava  male,  precisamente 
come  il  padre  Zappata;  e  le  sue  commedie  non  sono 
meno  prive  di  vita  e  di  vis  comica  di  quelle  dei  suoi  ' 
contemporanei  eruditi  ed  ammiratori  di  Plauto. 

Il  Goldoni,  intelletto  superiore,  dotato  d'uno  spirito 
osservatore  d'una  finezza  straordinaria  ,  opinò  saggia- 
mente che  la  nuova  commedia  perchè  cacciasse  dalla 
scena  la  vecchia,  quella  a  soggetto  ,  dovesse    soprat-  ' 
tutto  fare  assegnamento    sull'  osservazione  diretta.   La 
commedia  dell'arte  cascava  nello  stesso    difetto  della 
commedia  erudita,  letteraria:  s'era  fossilizzata  ;  l' intrec-  ; 
ciò  dell'una,  su  per  giù,  era  l' intreccio  dell'altra,  i  per-  ' 
sonaggi  non  potevano   comparire  in  iscena  senza  che 
il  pubblico  non  ne  indovinasse  immediatamente  i  di-' 
scorsi,   i  lazzi.   La  natura  è  per  eccellenza  varia;  qua-  ' 
sto  pensò  il  Goldoni  e  volle  ad  essa,  e  ad  essa  sol- 
tanto, ispirarsi.  Il  suo  occhio  non  doveva  fissare  per-/' 
sone  e  cose  che  spoglio    d*  ogni    ricordo    classico,  o 
tradizionale,  denudato    d' ogni  pregiudizio    di    scuola 
o  di  scena.   Che  cosa    erano  le  maschere?    Finzioni, 
tipi  di  persone  forse  vive  in  origine,  ma  sopra  i  quali 
l'arte,  la  tradizione  o  il  capriccio  e  l'ignoranza  degli 
autori  e  dei  comici,  caricando  esageratamente  le  linee, 
avevano  sparso  una  specie  d' intonaco  che  finì  col  ren- 
derli immobili,  irrigiditi.  Via,  dunque,  le  maschere  dal 
teatro,   esclamò  il  Goldoni;  spalanchiamo  le  porte  della 
scena  all'aria  pura,  fresca,  alla  vita;  salgano  la  scena 
non  più  personaggi  convenzionali,  ma  vivi;  non  è  vero 
che  la  società  non  offra  più  nulla  di  nuovo  da  ripro- 
durre  sulla  scena:    l'uomo,  sebbene  vecchio,  e  così 


-  301   — 

vario  che  non  occorre  sempre  un  grande  intelletto,  un 
genio,  per  afferrarlo  in  qualche  suo    aspetto  ,  se  non 
perfettamente  nuovo,  non  frusto,  non  comune.  Come 
non  c'è  fisionomia  d*  uomo  che  trovi  il  suo  riscontro 
perfetto  in  quella  d'  un  altro ,  così  non  e'  è  carattere 
:he  si  riscontri  in  modo  perfetto  con  un  altro.   Basta 
saper  cogliere  questo  carattere    in  un  dato  momento, 
sotto  un  certo  punto  di  luce,  perchè  ci  appaia  disc- 
ente da  uno  simile  ,    ma    studiato  in  circostanze  di- 
verse. Gli  stessi  vizi  si  prestano  a  codesto  studio  vario; 
dappoiché,    sebbene  a  farne  il  catalogo  non    occorra 
Tiolto  (Dante  allogò  tutti  i  viziosi  in  due  cantiche  del 
5U0  poema),  pure  lo    stesso  vizio   può  prestarsi  a  pit- 
ure  diverse,  senza  che  chi   venga  dopo  sia   costretto 
i  calcare  le  orme  del  suo  predecessore^^  11  vizio  del- 
'avarizia,  per    esempio,  fu  riprodotto  da    Plauto  nel 
:arattere  di  Euclione  ,    neW  A  ulularla  ;  i  comici    del 
Cinquecento,  come  quelli  del  Seicento  ,  riprodussero 
juel  carattere  battendo  chi  più  chi  meno  la  via  aperta 
lai  commediografo  latino.   Era  necessario?  Era  forse 
saurito  quel  tipo  dell'avaro  con  la  riproduzione  plau- 
ina?  Ma  no,  no;  bastava    dimenticare  Plauto  e  stu- 
iare  dal  vero  perchè  ne  saltasse  fuori  una  figura  d'a- 
aro  non  imitata,  né  derivata.  Ce  ne  porge  uno  spìen- 
ido  esempio  lo  stesso  Goldoni,  il  quale  trattando  per 
en  tre  volte  lo  stesso  tema,  non    seguì    le  orme  né 
i  Plauto,  né  del  Molière,  che,  con    iscarsa  origina- 
ta, aveva  dato  alle  scene  l'avaro.  E'  noto  l'argomento 
e\Y  A  ulular ia\  Euclione  non  rappresenta  l'avarizia  che 
elle  sue  linee  comuni,  volgari    e  precisamente  come 


-   302  -  , 

H 

poteva  intenderla  un  poeta  in  uno  stato  d'  arte  poco 
evoluto.  C  è  la  cassetta  col  tesoro  posta  dal  suo  pos- 
sessore in  un  nascondiglio  ;  ma  1*  avaro  teme  sempre 
per  essa;  teme  di  tutti,  anche  di  quelli  della  sua  fa- 
miglia. In  certi  momenti  le  sue  smanie  toccano  il  cul- 
mine; ha  una  figlia  da  maritare,  ma  non  le  vuol  dar  la 
dote  per  paura  che  mettendo  fuori  il  danaro,  non  lo  cre- 
dano ricco;  e  i  ladri  non  frugano  che  nei  fortieri  dei 
ricchi.  Il  MoHère  riprodusse  la  figura  di  Euclione  nel 
suo  Arpagone;  ma  il  Goldoni  se  ne  scostò  in  modo  as- 
soluto. La  prima  volta  che  egli  trattò  quell'argomento 
fu  nel  1733  con  V Avaro  Geloso.  Come  quasi  sempre, 
egli  ritrasse  dal  vero  il  protagonista  della  sua  com-,1 
media.  "  Mi  riuscì  —  egh  scrisse  (1)  —  di  dipingerei 
il  protagonista  nella  vera  sua  natura.  Fu  appunto  in 
Firenze  ove  a  scorno  dell'umanità  viveva  quest'uomo,  1 
e  me  ne  fu  fatta  la  genuina  storia  e  il  ritratto.  Costui 
era  dominato  da  due  vizi  ugualmente  odiosi,  e  per  il 
contrasto  delle  sue  passioni  si  trovava  spesso  in  con- 
dizioni veramente  comiche.  E*  una  cosa  ben  bizzarra 
il  vedere  un  marito  eccessivamente  geloso  ricevere 
egli  medesimo  un  vassoio  d'  argento  con  cioccolata, 
una  boccetta  d'oro  piena  d'acqua  odorosa,  e  poi  tor- 
mentar la  moglie  dicendole,  aver  essa  dato  motivo  ai 
suoi  adoratori  di  farle  simili  donativi.  "  La  seconda  volta 
fu  con  V Avaro,  commedia  in  un  atto,  che  faceva  parte 
d'un  teatro  di  conversazione,  e  precisamente  per  quello 
del  marchese  Albergati  Capacelli,  di  Bologna.  Il  Gol- 

(1)  Mem.   Part.  II.  Gap.  XVII. 


—  303  - 

doni  ne  narra  Targomento  così:  "  Apre  la  scena  don 
Ambrogio,  facendo  da  solo  a  solo  alcune  considera- 
zioni sul  proprio  stato.  Ha  di  recente  perduto  il  pro- 
prio figlio  ucciso;  sente  al  cuore  la  voce  della  natura, 
ma  siccome  il  mantenimento  di  questo  figlio  gli  co- 
stava caro  ,  gli  riesce  meno  difficile  il  consolarsene. 
Si  trova  nell'impaccio  di  dover  pensare  alla  nuora, 
ch'è  tuttavia  in  casa  di  lui,  e  riguarda  questa  spesa 
come  insopportabile;  vorrebbe  disfarsene;  ma  siccome 
bisogna  restituire  la  dote  ,  non  può  determinarvisi. 
Questa  vedova  è  giovane,  ne  le  mancano  partiti.  L'a- 
varo li  accetta  tutti,  ma  venuto  al  proposito  della  dote, 
non  ne  manda  avanti  alcuno.  Sostiene  inoltre  d'aver 
più  speso  per  la  nuora  di  quello  che  abbia  ricevuto 
dal  contratto  matrimoniale  di  lei  ;  mostra  a  tutti  la 
nota  delle  spese  fatte  per  lei  ;  la  porta  sempre  ad- 
dosso; la  legge  tre  o  quattro  volte  al  giorno,  la  tiene 
sotto  il  capezzale...  Un  amante  però  più  accorto  de- 
gli altri,  offre  a  don  Ambrogio  di  sposare  sua  nuora 
senza  sborso  di  dote ,  purché  il  suocero  si  obblighi 
di  dargliela  dopo  la  sua  morte.  L'avaro  vi  acconsente, 
Tia  a  condizione  che  il  marito  pensi  ad  alimentarla. 
L  amante  trova  la  proposta  ridicola  ,  ma  siccome  è 
innamorato  teme  di  perdere  l'occasione  di  sposare  la 
iua  bella.  Ha  anche  timore  dell'uomo  sordido  perchè 
o  minaccia  di  una  lite ,  onde  accorda  tutto  ,  e  così 
segue  il  matrimonio  (1)."  Trattò  il  Goldoni  per  la  terza 
'cita  lo  stesso  argomento  durante  il  suo  soggiorno  di 

(1)  Mem.    Part.   Il,  Gap.   XLV. 


—  304  ~ 

Parigi,  dopo  V  esito  felice  del  Burbero  Benefico,  ed 
intitolò  la  sua  commedia  Y^varo  Fastoso.  "  Un  ca- 
rattere simile  —  egli  scrisse  (1)  —  è  tanto  in  natura^ 
che  non  mi  dava  fastidio  se  non  per  la  quantità 
troppo  grande  di  originali,  onde  credetti  bene  di  ri- 
cavare il  mio  protagonista  dalla  classe  delle  persone 
divenute  facoltose  per  guadagni  a  fine  d'evitare  cosi 
il  rischio  d'offendere  i  grandi  ".  Il  signor  di  Castel- 
doro,  difatti,  e  un  parvenu,  è  ricco,  ma  le  ricchezze 
non  gli  hanno  fatto  perdere  il  brutto  vizio  che  lo  tra- 
vaglia sin  dalla  giovinezza  ,  1'  avarizia.  Se  non  che, 
quest'ultimo  sentimento  è  nell'  animo  suo  insieme  al 
desiderio  di  grandezza;  vuol  mostrarsi  fastoso  ,  come 
un  ricco  autentico  ,  ma  ha  paura  di  metter  fuori  il 
denaro.  Vuol  prender  moglie  ,  ma  la  spesa  lo  spa-  i 
venta;  e'  è  però  un  partito  che  potrebbe  convenirgli: 
è  la  figlia  della  signora  Araminta  che  ha  una  dote 
di  centomila  scudi.  Il  signor  di  Casteldoro  fa  il  sa- 
grifìcio  di  dare  un  pranzo  sontuoso  alla  sposa  a  patto 
che  Frontino,  suo  cameriere,  suo  agente,  suo  factotum, 
faccia  economia:  ordina,  quindi,  degli  abiti  sfarzosi, 
ma  a  condizione  che  i  ricami  d'oro  si  possano  stac- 
care e  vendere,  che  gli  abiti  sieno  restituiti  al  sarto 
pagandone  il  nolo.  Compra  ,  ma  realmente  prende  a 
prestito,  una  ricchissima  fornitura  di  brillanti  per  la 
sposa,  ed  acquista  subito  fama  di  fastoso,  di  prodigo; 
ma  le  sue  arti  sono  scoperte,  la  sua  avarizia  lo  rende 
indegno  della  stima   della  buona    società,  che  lo  cir-i 

(I)   Mem.;  Part.    Ili,  Gap.   XX. 


—  305  — 

conda,  compresa  la  sposa,  la  quale    finisce  per  pian- 
tarlo. 

Certamente,  nessun  delle  tre  predette  commedie 
goldoniane  va  annoverata  tra  i  capo-lavori  dello  scrit- 
tore veneziano,  e  se  ci  siamo  alquanto  indugiati  sulle 
stesse,  è  stato  per  dimostrare  come  il  Goldoni  anche 
trattando  un  argomento  vieto,  frusto,  sapesse  far  da 
se.  Come  già  dicemmo,  il  Molière  che  trattò  lo  stesso 
tema,  non  seppe  che  assai  leggermente  discostarsi  dal 
suo  originale  :  Arpagone  è  una  evidente  derivazione 
di  Euclione ,  V  avaro  plautino  ;  qualche  scena  della 
commedia  molièriana  più  che  una  derivazione,  è  una 
pura  imitazione.  Per  esempio;  alla  scena  terza  dell'atto 
quinto  dell'  J^varo  del  Molière,  Arpagone  ,  il  quale 
crede  che  Valerio ,  amante  segreto  della  figlia  ,  gli 
abbia  rubato  il  tesoro,  lo  rimprovera  del  suo  delitto. 
Valerio,  che  nulla  sa  del  tesoro,  crede  che  il  vecchio 
lo  rimproveri  per  l'amore,  che  porta  alla  fanciulla.  E' 
una  scena  così  detta  d'equivoco,  molto  comune  nella 
commedia  dell'arte,  e  che  come  tanti  altri  elementi 
che  formavano  il  contenuto  di  quest'  ultima,  risale  al 
teatro  comico  latino.  Difatti,  Plauto  ,  nell'  Aulularia 
(Atto  IV,  Se.  Vili),  ha  una  scena  perfettamente  si- 
mile :  Licoride,  che  ha  sedotto  la  figlia  di  Euclione 
r  avaro,  confessa  a  quest'  ultimo  che  ha  commesso  un 
fallo;  Euclione  il  quale  crede  che  l'altro  gli  parli  del 
furto  del  suo  tesoro,  l' investe,  l'  ingiuria;  Licoride  ri- 
sponde che  è  pronto  a  riparare  il  fallo  commesso  e 
chiede  il  consenso  di  lui  per  farla  sua.  Il  vecchio 
crede  che  si  tratti  dell'olla,  dove    stava    racchiuso  il 

^tl  Regno  delle  Maschere  20 


—  306  - 

tesoro,  e  non  della  figlia,  e  l'equivoco  continua    per 
un  pezzo. 

« 

L'esempio  da  noi  citato  del  carattere  dell'avaro,  che 
sebbene  trattato  dal  Goldoni  per  ben  tre  volte,  pure 
fu  sempre  da  lui  presentato  in  modo  diverso,  ci  mostra 
anche  come  il  commediografo  veneziano  s'allontanasse 
già  di  molto  da  quella  rappresentazione  generica  di 
caratteri  viziosi  o  ridicoli  che  costituiva  il  fulcro  del 
teatro  latino  e  di  quello  italiano  venuto  su  con  la 
Rinascenza  e  continuato  con  quello  improvviso  o  a 
soggetto  sino  ai  tempi  del  Goldoni  stesso.  L'avarizia 
—  per  spiegarci  con  un  esempio  —  non  era  rappre- 
sentata che  nei  suoi  caratteri  principali  ed  anche  più 
grossolani,  in  modo  che  l'avrebbe  pure  potuto  rilevare 
la  persona  meno  fornita  di  spirito  di  osservazione. 
Euclione  —  o  dopo  di  lui  Arpagone  —  non  è  che 
l'avaro  quale  può  essere  rappresentato  in  una  società 
grossolana,  primitiva,  poiché  l'avarizia  del  personaggio 
plautino  non  si  mostra  che  sotto  l'aspetto  più  comune: 
Euclione  ha  un  tesoro,  lo  tiene  nascosto  ed  ha  sem- 
pre paura  che  glielo  rubino  ;  esso  lo  preoccupa  da 
mane  a  sera,  di  notte  lo  sogna,  negli  amici  non  vede 
che  degli  insidiatori  del  suo  tesoro.  E  spilorcio,  veste 
male,  si  lascia  morire  di  fame  pur  di  non  metter  fuori 
il  becco  d'  un  quattrino.  11  Goldoni,  pur  venuto  dopo 
Plauto  e  Molière,  ha  saputo  trovare  altri  tipi  d'avaro: 
l'avaro  geloso,  V  avaro  ^fastoso,  infine,  l'avaro  sempli- 
cemente avaro,  senza  l'indispensabile  olla  d'Euclione, 
di  Plauto,  o  la  non  meno  indispensabile  cassetta  d'Ar- 


11 


~  307  - 

pagone  del  Molière.  E  questo  accadeva  perchè  il 
Goldoni,  come  già  dicemmo,  era  uno  studioso  della 
natura.  I  caratteri  egli  non  li  cercava  nei  libri,  ma 
intorno  a  sé,  sapendone  rilevare  non  solo  le  linee  prin- 
cipali, visibili  ad  occhio  nudo,  ma  anche  le  non  ap- 
pariscenti. In  tutta  la  sua  vita  egli  non  fece  che  creare. 
Le  sue  Memorie  ce  lo  mostrano  sempre  alla  ricerca 
di  Ccu^atteri  vissuti,  di  personaggi,  non  di  tipi  dive- 
nuti convenzionali,  o  manechini.  Già  abbiamo  parlato 
di  Momolo  Cortesan  e  del  Prodigo,  ì  cui  caratteri 
furono  riprodotti  dal  vero  ;  in  ^onin  ^ellagrazia  è 
riprodotto  il  paroncino  veneziano  (petit  maitre  fran- 
cese) del  secolo  XVIII  ;  nella  Donna  di  Garbo  è  il 
carattere  d' una  donna  che  con  le  sue  arti  sa  raggiun- 
gere un  fine  onesto  ;  nell'  Uomo  Prudente  è  quello  di 
un  padre  il  quale  attraverso  varie  peripezie,  che  ad 
altri  avrebbero  fatto  perdere  la  testa,  sa  conservare  la 
ragione  e  mercè  la  sua  prudenza  salva  1'  onore  della 
famiglia;  nella  %)edova  Scaltra  è  una  donna  che  prima 
di  riprender  marito  mette  alla  prova  i  suoi  preten- 
denti per  assicurarsi  della  sincerità  dei  loro  sentimenti; 
nella  'Putta  Onorata,  il  carattere  di  Bettina,  la  pro- 
tagonista, è  quello  di  una  fanciulla,  che  a  malgrado 
delle  traversie  della  vita,  sa  mantenersi  virtuosa,  ri- 
cevendone un  giusto  premio  ;  nella  Buona  Moglie, 
continvazione  della  commedia  precedente,  il  Goldoni 
ci  conduce  presso  una  di  quelle  vecchie  famiglie  dove 
tutte  le  virtù  adornano  la  padrona  di  casa;  nel  Ca- 
valiere e  la  T)ama,  e  imbattiamo  in  quelle  macchiette 
così  caratteristiche  del  secolo  XVIII  che  rispondono 


-  308  - 

al  nome  di  cicisbei  ;  nelle  Donne  'T^untigliose,  la  se- 
conda delle  sedici  commedie  nuove,  ci  troviamo  di- 
nanzi a  due  Cciratteri  di  donne,  Rosaura,  moglie  d*un 
ricco  negoziante,  e  l' altra,  contessa,  di  vecchia  no- 
biltà, ma  povera,  che  portano  nell'azione  l'una  insieme 
ali*  inesperienza  della  gioventù  e  della  vita  della  pro- 
vincia l'aspirazione  ad  uno  stato  sociale  più  elevato, 
r  altra  i  suoi  intrighi,  i  suoi  ripieghi  ed  anche  le  sue 
arti  losche  per  cavar  danaro  dalla  vanità  altrui;  nella 
bottega  del  Caffé,  il  caratterere  di  Don  Marzio,  il 
maldicente,  è  divenuto  leggendario  come  il  Miles 
Qloriosus  di  Plauto,  o  ^artuffo  del  Molière;  nel  (Bu- 
giardo, Lelio,  il  protagonista,  con  le  sue  spiritose  in- 
venzioni, è  un  carattere  divenuto  non  meno  leggen- 
dario del  precedente;  un  altro  carattere  che  non  ha 
nulla  di  comune  col  vecchio  e  classico  tipo  del  pa- 
rassita, è  quello  del  protagonista  àeX\' Adulatore  ;  nel 
Vero  Amico  è  il  carattere  d'un  giovane  virtuoso  che 
sagrifìca  all'  amicizia  un  dolce  e  tenero  affetto.  Nella 
Finta  Jlmmalata  la  protagonista  è  la  stessa  prima  at- 
trice della  compagnia  comica  con  la  quale  erasi  scrittu- 
rato il  Goldoni,  la  signora  Medebac  "attrice  eccellen- 
te... ma  sottoposta  a  fisime;  era  spesso  ammalata  o  cre- 
deva d'esser  tale,  qualche  volta  non  avendo  altro  in 
sostanza  che  alcune  volontarie  ipocondrie  :  in  questo 
ultimo  caso,  l'unico  rimedio  era  quello  di  dare  a  recitare 
una  bella  parte  ad  una  attrice  subalterna;  allora  l'am- 
malata guariva  all'istante.  (1)"   Nella  Donna  Prudente 

(1)  Mem.,  Parte  II;  Gap.  X. 


-  309  - 

donna  Eularia  è  un  tipo  di  moglie  saggia  e  giudi- 
ziosa, e  come  scrisse  lo  stesso  Goldoni  "  il  soggetto 
gli  fu  somministrato  da  quelle  medesime  società  dalle 
quali  prese  quello  del  Cavaliere  e  la  'Dama  ,  cioè, 
dalla  classe  dei  cicisbei  (  1  ).  "  Neil'  jìvventuriere  O- 
norato  l'autore  dipinge,  in  gran  parte,  se  stesso  ;  un'al- 
tra attiice  della  compagnia  Medebac  ritrae  nella  pro- 
tagonista della  Donna  Volubile,  intorno  alla  quale  egli 
scrisse:  "  Avevamo  appunto  nella  nostra  compagnia 
un'  attrice,  che  era  la  donna  più  capricciosa  del  mondo, 
non  feci  altro  che  farne  la  copia...  Un  carattere  di 
tal  sorta  per  se  stesso  è  molto  comico,  ma  potrebbe 
bensì  facilmente  divenire  noioso ,  quando  non  fosse 
sostenuto  da  scene  e  tratti  piacevoli.  La  continua  mu- 
tazione delle  mode,  dalle  voglie,  dei  divertimenti  può, 
e  vero,  fornir  materie  di  ridicolezze,  ma  per  rendere 
la  donna  volubile  un  soggetto  veramente  da  comme- 
dia, bisogna  che  ne  somministrino  il  ridicolo  i  ca- 
pricci dell'animo.  Una  donna  poco  fa  amante  ,  che 
un'  ora  dopo  non  vuol  più  amore  ,  e  che  nel  tempo 
stesso  in  cui  spaccia  massime  rigide,  si  accende  d'una 
passione  del  tutto  contraria  alla  sua  maniera  di  pen- 
sare, ecco  il  personaggio  comico  (2)  ".  E  questo  stu- 
dio di  caratteri  umani  ,  viventi ,  che  nulla  avessero 
della  rigididità,  dell'  immobilità  e  del  convenzionali- 
smo delle  maschere  o  tipi  della  commedia  dell'  arte, 
nel  Goldoni  è  assiduo,  pertinace  e  lo  accompagna  per 

(1)  Mem  ,   Parte  II;  Cap.  X. 

(2)  Idem;   Parte    II;  Cap.  XI. 


—  310  — 

tutta  la  sua  non  breve  vita.  Commedie  dirette  a  met- 
tere in  evidenza  un  carattere  sono  altresì  :  la  Madre 
Amorosa,  la  Donna  Forte,  la  Buona  Figlia,  il  Me- 
dico Olandese,  il  T^icco  Insidiato,  Toderv  Brontolon , 
/'  Uomo  di  Spirito,  V  Jlpatista,  la  T)onna  di  Spirito, 
infine,  //  Burbero  benefico.  Ma  di  caratteri  o  di  mac- 
chiette sono  piene  tutte  le  commedie  dello  scrittore 
veneziano.  Chi  non  ricorda  il  Florindo  e  la  Rosaura 
degli  Innamorati,  due  amanti  ai  quali  per  ogni  più  indif- 
ferente pcuola  offre  occasione  di  bisticciarsi  per  poscia 
subito  rappattumarsi  ?  E  il  Brighella  della  Figlia  Ub- 
bidiente ,  padre  d'  una  ballerina  ,  che  esalta  i  pregi 
della  figlia,  anche  quelli  che  meno  dovrebbero  esal- 
tarsi? E  i  tre  gentiluomini  che  spasimano  per  Miran- 
dolina ,  la  furba  locandiera,  che  li  tiene  tutti  e  tre 
a  bada?  E  i  vecchi  dei  Quattro  ^usteghi?  E  le 
donne  delle  baruffe  Chiozzotte  ?  E  Ottavio,  il  vec- 
chio avaro  del  Vero  Amico,  che  accetta  soltanto  dal 
suo  vecchio  servo  Trappola  le  uova  che  non  passano 
da  un  certo  anello  e  rifiuta  le  altre  ?  E  l'altro  Otta- 
vio, non  avaro,  ma  ridicolo  fondatore  dell'accademia 
dei  Novelli  nel  Poeta  Fanatico  ?  Ma  chi  potrebbe 
ricordare  tutte  le  macchiette  gustose  che  popolano  le 
commedie  del  nostro  grande  veneziano  ? 

11  Goldoni  non  è  soltanto  un  creatore  di  caratteri, 
di  macchiette  ;  e  anche  un  riproduttore  d'  ambienti  : 
nelle  sue  commedie  V  Italia  ,  e  soprattutto  Venezia, 
della  metà  del  secolo  XVIII  vi  si  riflette  come  in 
uno    specchio.   S'ingannerebbe    a    partito    chi,  senza 


-  311  — 

tener  presente  il  profondo  mutamento  politico  e  so- 
ciale che  si  è  verificato  da  quel  tempo  in  qua , 
ritenesse  di  maniera  la  vita  italiana  riprodotta  nel  suo 
teatro  comico  dal  Goldoni.  Per  comprendere  la  vita 
italiana  di  quei  tempi,  sia  nelle  sue  grandi  linee, 
sia  nelle  sue  più  leggiere  sfumature,  occorre  che  i 
lettori  si  trasportino  con  1'  aiuto  delle  memorie,  dei 
diari ,  dei  ricordi  dei  contemporanei ,  tanto  italiani 
che  stranieri,  sino  a  quell'  età.  L'  Italia  della  metà 
del  secolo  XVIII  aveva  una  fisionomia  tutta  pro- 
pria e  con  questa  un'  anima  speciale ,  assai  diversa 
non  solo  da  quella  del  principio  del  secolo  stesso, 
ma  anche  da  quella  che  assunse  col  chiudersi  di  que- 
st'ultimo. Spesso  codesta  distinzione,  sebbene  tanto 
importante,  si  dimentica  ed  è  causa  di  errati  giudizi. 
Molti  credono  che  tutto  il  nostro  Settecento  sia  tutto 
d' un  p  ezzo,  d'  un  sol  colore,  senza  variazioni  e  sfu- 
mature, quasi  sinonimo  di  rococò,  di  merletti,  di  nei, 
di  falbalà,  di  belletto,  di  cicisbei  e  di  arcadi.  Ma 
non  è  così;  esso  è  vario.  Se  il  teatro  è  più  di  qualsiasi 
altro  ramo  della  letteratura  quello  che  meglio  rispec- 
chia la  società,  possiamo  dire  che  i  nostri  tre  grandi 
maggiori  scrittori  teatrali  di  quel  tempo  fanno  fede  di 
quanto  affermiamo.  Il  Metastasio,  il  Goldoni  e  l'Al- 
fieri, tutti  e  tre  figli  e  rappresentanti  del  Settecento 
italiano,  sono  indici  di  tre  società  diverse.  Ciascnno 
di  loro  non  riproduce  che  l' età  propria,  l'  ambiente 
in  cui  visse,  senza  che  nessuno  di  loro  abbia  punti 
importanti  di  contatto  con  gli  altri.  Basta  per  com- 
prenderlo che  si  ponga  mente  al  tempo  in  cui  ciascuno 


—  312  — 

di  loro  cominciò  a  scrivere  ed  attinse  la  maturità  del 
proprio  ingegno;  poiché  soltanto  in  questo  momento 
può  dirsi  eh'  essi  sieno  i  rappresentanti  della  soci  età 
in  mezzo  alla  quale  vissero  e  pensarono.  Si  consi- 
deri un  pò*  :  il  Metastasio  fece  rappresentare  la  sua 
Didone  jlbhandonata  nel  1 723  e  quando  fu  chia- 
mato a  Vienna,  nel  1 730,  a  sostituire  nel  posto  di 
poeta  dei  reali  ed  imperiali  teatri  Apostolo  Zeno, 
r  ingegno  di  lui  era  nel  suo  pieno  sviluppo.  11  Gol- 
doni scrisse  le  sue  famose  sedici  commedie  per  la 
compagnia  del  Medebac  nell'anno  comico  1 730-5 1 , 
mentre  l'Alfieri  mandò  alle  stampe  il  primo  volume 
delle  sue  tragedie  nel  1 783.  Ebbene,  non  s' inganne- 
rebbe chi  non  volesse  vedere  nessuna  diversità  fra  l'a- 
nima italiana  del  terzo  decennio  del  Settecento  con 
quella  della  metà  del  secolo  e,  peggio,  con  quella  della 
fine  del  secolo  stesso  ?  Una  grande  evoluzione  nello 
spirito  pubblico  italiano  s' era  fatta  dall'  anno  in  cui 
fu  rappresentata  la  Didone  Abbandonata  del  Meta- 
stasio a  quello  in  cui  l'Alfieri  stampava  la  Virginia; 
evoluzione  che  soltanto  in  parte  s'  era  compiuta  quando 
il  Goldoni  con  propositi  fermi  ed  idee  precise  s' ac- 
cinse alla  riforma  del  teatro  comico  nostrano.  Come 
si  sa,  il  principale  fattore  di  codesta  evoluzione  fu  la 
filosofia  francese ,  eh'  ebbe  per  principali  interpreti  il 
Voltaire,  il  Rousseau,  il  d'Alembert,  il  Diderot,  l'Hol- 
bach,  il  Volney  ed  altri.  Fu  codesta  una  vera  corrente 
d' idee  nuove  che  passando  attraverso  le  Alpi  sull'ani- 
ma italiana,  la  modificò  e  con  essa  gli  usi,  i  costumi,  le 
credenze,  le  opinioni.  Laonde   possiamo  affermare  che 


—  313  — 

alla  metà  del  secolo  XVIII  ,  al  momento  della  ri- 
forma goldoniana ,  1'  ambiente  italiano  non  era  più 
quello  della  giovinezza  del  Metastasio ,  sebbene  an- 
cora non  fosse  quello  dell'  Alfieri.  Le  nuove  idee  non 
avevano  fatto  breccia  che  in  pochi  intelletti,  in  pochi 
studiosi,  i  quali  se  formavano  V  élite  ,  non  potevano 
certamente  costituire  non  diremo  la  maggioranza,  ma 
nemmeno  un  gruppo  importante  della  società  italiana 
di  quel  tempo.  Erano  codesti  apostoli  di  riforme,  di 
rinnovamenti,  scarsi  ma  coraggiosi  bersaglieri  lanciati 
air  assalto  del  vecchio  edificio  italiano  uscito  dal  Con- 
cilio di  Trento  e  consolidato  dalla  lunga  pace  go- 
duta dalla  penisola:  con  gli  anni  ,  certamente ,  quei 
pochi  bersaglieri  si  sarebbero  fatti  battaglioni,  legione; 
ma  allora  non  formavano  che  un'avanguardia;  o  se  il 
paragone  militare  non  piace,  diciamo  eh'  erano  dei 
seminatori  d' idee  :  altri,  più  tardi,  avrebbero  raccolto. 
L'alito  delle  riforme  scaldava,  dunque,  parecchi  petti; 
ma,  sostanzialmente,  nulla  s'  era  cambiato.  L'interno 
della  famiglia  presentava  ancora  tutta  l' aria  patriarcale 
d' una  volta,  specie  nella  borghesia.  Il  padre  n'  era 
sempre  il  capo  non  solo  secondo  la  parola  della 
legge,  ma  anche  secondo  lo  spirito  :  era  rispettato  , 
venerato  ;  i  suoi  ordini  non  erano  discussi  e  i  casi 
di  ribellione  erano  rarissimi.  I  matrimoni  si  com- 
binavano in  famiglia,  e  quasi  sempre  la  sposa  o  lo 
sposo  era  designato  dal  genitore.  Questi  non  discu- 
teva dell'  importante  argomento  che  dal  lato  della  con- 
venienza economica,  del  decoro  della  famiglia,  dei  co- 
stumi della  sposa  e  dello  sposo.  Anche  nei    casi  di 


—  314   - 

ribellione,  il  padre  sapeva  mantenere  fermi  i  suoi  di- 
ritti. Eccone  uno  veramente  tipico,  che  togliamo  dal 
Bugiardo  (Atto  li,  Scena  XII).  Sono  in  iscena  Pan- 
talone (padre)  e  Lelio  (figlio). 

PANT.  Fio  mio,  sappi  che  za  t'ho  maridà,  e  giusto  stamattina  ho 
stabilito  el  contratto  delle  to  nozze. 

LELIO    Come!  Senza  di  me! 

PANT.  L'occasion  non  poteva  esser  maggio.  Una  buona  putta  da 
casa,  e  da  qualcossa,  con  una  bona  dote,  fia  d'  un  uomo  civil 
bolognese...  Te  dirò  anca  a  to  consolazion,  bella  e  spiritosa.. 
Cossa  vostù  de  più  ? 

LELIO  Signor  padre,  perdonatemi,  è  vero  che  i  padri  pensano  bene 
per  i  figliuoli,  ma  i  figliuoli  devono  star  essi  colla  moglie, 
ed  è  giusto  ohe  si  soddisfacciano. 

PANT.  Sior  fio,  questi  no  xe  quei  sentimenti  de  rassegnazion  coi 
quali  me  ave  fin  adesso  parla.  Finalmeute  son  pare,  e  se 
per  esser  sta  arlevà  lontan  da  mi,  no  ave  impara  a  rispet- 
tarmi, sono  ancora  a  tempo  per  insegnarve. 

Le  giovinette,  se  di  nascosto  potevano  disporre  del 
loro  cuore  ,  non  potevano  mai  liberamente  disporre 
della  loro  mano:  quando  non  trovavano  marito,  o  era 
difficile  trovarne  per  mancanza  di  dote,  entravano  in 
convento.  Giammai  ,  come  in  quel  tempo  ,  caddero 
tante  lucide  chiome  di  fanciulle  sotto  le  forbici  clau- 
strali ;  ma  giammai  come  in  quel  tempo  si  credette , 
o  si  finse  di  creder  volontario  quel  sagrificio  di  gio- 
vani vite,  quello  spegnersi,  dentro  melanconiche  celle, 
di  tante  speranze,  di  tanti  ardori.  II  sagrificio  di  quasi 
tutte  quelle  giovinette,  era  evidente,  ma  nessuno  pen- 
sava a  protestare  ,  nemmeno  le  vittime.  Era  un  por- 
tato del  tempo  ,  e  si  taceva.  Ne  i    giovani    avevano 


I 


—  315  — 

maggior  scelta  d'  elezione  :  il  loro  avvenire  era  pre- 
disposto dai  genitori  ;  nelle  classi  borghesi  e  popo- 
lane, la  professione  ,  1'  arte  o  il  mestiere  esercitato 
dal  padre  era  quello  del  figlio  ;  nelle  classi  dirigenti, 
la  scelta  era  bella  e  fatta  ;  il  primogenito  continuava 
il  nome  della  famiglia  con  un  matrimonio  di  conve- 
nienza, pei  cadetti  e'  era  1*  esercito ,  le  cariche  dello 
Stato  ,  il  convento  o  V  ordine  di  Malta  o  quello  di 
Santo  Stefano  o  altro  simile  ,  quando  non  si  restava 
a  casa  col  modesto  assegnamento  fissato  dal  fratello 
maggiore.  Le  opinioni,  poi,  erano  infrenate  dalla  reli- 
gione e  dalla  consuetudine.  Già  di  politica  non  si 
discuteva  affatto:  a  Venezia,  Stato  repubblicano,  co- 
me a  Roma,  Stato  teocratico,  come  a  Napoli,  Stato 
monarchico,  era  assolutamente  proibito  ai  cittadini  di 
occup2a"si  delle  faccende  pubbliche  ,  a  meno  che  la 
legge  oppure  il  principe  non  chiamasse  il  cittadino 
ad  occuparsene.  Del  resto  ,  il  divieto  era  inutile  ;  i 
cittadini  avevano  tutt'  altra  voglia  che  di  mettere  il 
naso  nei  negozi  di  Stato  ;  se  ne  era  perduta  1'  abi- 
tudine e  s'  amava  meglio  d'  occuparsi  d'  una  pau^tita 
a  tarocchi,  dell'  ultimo  matrimonio  aristocratico  ,  del- 
l' ultima  monacazione  ,  dell'  ultima  pubblicazione  di 
versi  che  di  questioni  riflettenti  la  cosa  pubblica.  11 
cittadino,  la  mattina,  svegliandosi,  non  sentiva  affatto 
il  bisogno  di  leggere  1*  articolo  di  fondo  d'  una  gaz- 
zetta per  farsi  un'  opinione  più  o  meno  chiara  sulla 
questione  del  giorno  ;  ma  se  era  un  signore,  ed  an- 
che galante  ,  pensava  alla  dama  che  nel  corso  della 
giornata  avrebbe  visitato  ,  o  servito  nella  sua  qualità 


—  3!6  - 

di  bracciere  o  cavalier  servente  alla  passeggiata,  alla 
chiesa,  al  teatro;  se  scapestrato  e  giuocatore,  pensava 
alle  donnine  allegre  insieme  alle  quali  avrebbe  fatto 
una  partita  alle  carte  e  poi  cenato  ;  se  popolano  ,  si 
risparmiava  la  fatica  d'occuparsi  di  quello  che  avrebbe 
fatto  lungo  la  giornata  :  sapeva  già  d'  avanzo ,  che 
avrebbe  lavorato  come  una  bestia.  Certa  libertà  di 
costumi,  che  a  noi  ora  fa  arricciare  il  naso,  quasi  che 
la  nostra  morale  sia  superiore  a  quella  degli  italiani 
del  secolo  XVIII,  per  esempio,  il  cicisbeismo^  in  fondo 
non  era  la  più  brutta  casa  di  questa  terra  :  non  sem- 
pre sotto  il  cicisbeo  si  nascondeva  1'  amante  ;  era  un 
uso,  che  spesso  serviva  di  paracadute,  o  di  paraven- 
to. L*  amore  in  tre,  come  e'  è  adesso ,  e'  era  anche 
allora  ;  ma  sotto  questo  aspetto  oggi  non  si  sta  me- 
glio di  quei  tempi,  che  noi  chiamiamo  immorali. 

Il  c/c/sèeo-amante  si  chiama  oggi  amico  di  casa , 
amico  di  famiglia  ,  o  diversamente  ;  non  porta  anche 
nome,  poiché  non  si  fa  vedere  nemmeno  in  famiglia, 
e  il  marito  spesso  non  lo  conosce.  La  libertà  cui  oggi 
godono  le  signore  è  certamente  superiore  a  quella  che 
godevano  ai  tempi  del  Goldoni  ;  i  gabinetti  partico- 
lari, i  quartierini  mobigliati,  oggi  così  frequenti  nelle 
grandi  città  ,  ed  anche  nelle  piccole  ,  sono  testimoni 
di  drammi  che  se  potessero  essere  interrogati  da  un 
Pantalone  dei  Bisognosi  o  da  un  dottor  Graziano  Ba- 
lanzon  del  1  750,  farebbero  gridare  allo  scandalo  quelle 
due  povere  maschere.  Le  mogli  d'  allora ,  per  altro , 
erano ,  nella  grande  maggioranza  ,  meno  capricciose  , 
meno  fantastiche  e  meno  libertine  d'ora  :  sicuro  meno 


-  317  — 

libertine,  poiché  se  l'adulterio  si  coltivava  nelle  classi 
superiori,  le  madame  Bovary  erano  scarse,  anzi,  scar- 
sissime nella  borghesia.  Così  se  e  vero  che  il  teatro 
riproduce  la  vita  di  un  popolo,  egli  è  anche  vero  che 
parecchie  scene  goldoniane,  dove  la  moglie  spinge  la 
sua  obbedienza  verso  il  marito  sino  al  sagrifìcio,  con- 
tengono la  prova  del  nostro  dire,  mentre  esse  non  sa- 
rebbero state  ne  apprezzate,  ne  applaudite  se  non  aves- 
sero trovato  il  loro  riscontro  nella  realtà,  o,  per  lo  meno, 
nelle  idee  e  negli  animi  degli  spettatori.  Certe  rassegna- 
zioni di  mogli  dinanzi  all'abbandono  del  marito,  oggi 
forse  parrebbero  troppo  ingenue  ,    improntate  ad  una 
I  visione    della  vita  troppo  ottimista  ;  ma    allora  passa- 
mano lisce.   Gli    spettatori    nulla    vi    riscontravano    di 
falso  o  di    convenzionale.   Nella    bottega    del  Caffè 
(Atto  I,  Se.  XX),  Eugenio  non  si  è  ritirato  a  casa, 
idove  la  sua  buona  moglie.  Vittoria,  l'aspetta  invano  : 
jegli  passa  la  notte  in  una  casa  da  giuoco  dove  perde 
jcento  zecchini,  che  teneva  addosso,  e  trenta  sulla  pa- 
frola  ;  la  moglie  lo  raggiunge  ;  egli  la  sgrida  ;    quella 
l;erca  di  rabbonirlo,  ma  l'altro  la  scaccia  via.  Ecco 
Ila  risposta  della  moglie  : 

i  "  Vado,  vi  obbedisco ,  perchè  una  moglie  onesta 
|jeve  obbedire  anche  un  marito  indiscreto.  Ma  forse 
I  orse  sospirerete  d  avermi  quando  non  mi  potrete  ve- 
pere.  Chiamerete  forse  per  nome  la  vostra  cara  con- 
jiorte  quando  ella  non  sarà  in  grado  di  rispondervi  e 
t  il*  aiutarvi.  Non  vi  potete  dolere  dell'  amor  mio.  Ho 
[atto  quanto  far  poteva  una  moglie  innamorata  di  suo 
I  ^narito.   Mi    avete  con  ingratitudine    corrisposto  ;    pa- 


—  318  —  . 

zienza.  Piangerò  da  voi  lontano  ;   ma  non  saprò   così 

spesso  i  torti  che  mi  fate.  V  amerò  sempre,  ma  non 
•        1  •     •  %    ti  ^ 

mi  vedrete  mai  più  " .  -  ■ 

Del  resto  ,  la  generazione  per  la  quale  scrisse  il 
Goldoni  si  apparecchiava  alla  così  detta  "  sensible- 
rie  ",  uno  stato  d'animo,  che  potrebbe  anche  appel- 
larsi il  precursore  del  futuro  romanticismo  della  prima 
metà  del  secolo  XIX;  quella  "  sensiblerie  "  come  la 
indica  la  stessa  parola ,  era  un'  importazione  francese 
portante  la  marca  di  Gian  Giacomo  Rousseau.  Questi 
aveva  scoperto  che  1'  uomo  ,  sebbene  con  la  civiltà 
avesse  dato  un  addio  a  quello  stato  idillico  di  natu- 
ra, che  egli  aveva  scoperto,  e  quindi  fosse  divenuto 
meno  buono  e  sincero,  anzi,  fosse  divenuto  addirit- 
tura cattivo  ,  pure  del  suo  vecchio  stato  aveva  con- 
servato il  "  sentimento  ",  una  specie  di  tenerezza  più 
o  meno  profonda  per  le  cose  belle  ed  oneste,  soprat- 
tutto pei  casi  pietosi,  compassionevoli.  Siffatto  "  sen- 
timento "  si  coltivò  a  tutto  spiano;  si  volle  essere  od 
apparire  "  sensible  "  a  ogni  costo  ;  "  sensible  "  al- 
l' arte  ,  alla  letteratura  ,  alla  natura  ;  "  sensible  "  in 
società,  specie  verso  il  prossimo  se  giovane  ,  bello  e 
di  sesso  diverso  dal  proprio.  Paolo  e  Virginia,  creati 
da  Bernardin  de  Saint- Pierre  ,  diremmo  quasi  un 
vice-pontefice  della  religione  della  natura  (il  ponte- 
fice ,  l'abbiamo  detto  ,  era  il  Rousseau)  diventarono 
persone  vere,  viventi,  mentre  la  No  avelie  Eloise  di- 
venne il  codice  di  tutte  le  anime  "  sensibles  "  ed 
innamorate.  In  verità  ,  1'  Inghilterra  aveva  preceduto 
la  Francia  in  codesta  via  mercè  i  romanzi  di  Richar- 


—  319  - 

donson    e  di  qualchedun'  altro ,  come  V  aveva  prece- 
duto col  Lok^,  con  V  Hume  ed  altri,  nel  rinnovamento 
filosofico  ;  ma  in  Italia  le  novità    non  arrivavano  che 
dalla  Francia  e  soltanto  con  V  impronta  o  il  suggello 
di  questa.   Era,  per  altro,  codesta   "  sensiblerie  "   una 
mania  garbata  ,    onesta    ed  anche   innocente  ,  poiché 
spingendo  gli  animi  ad  amare ,    ad  impietosirsi  facil- 
mente, ad  aver  lagrime  per  tutto  e  per  tutti,  rendeva 
gli  uomini  migliori.   Trasportato  questo   "  stato  d'ani- 
mo "   in  Germania ,  si  arrivò  col   Goethe    al  suicidio 
del  povero  \\  erther,   e  in  Italia,  col  Foscolo,  al  sui- 
cidio di  Jacopo   Ortis  ;    ma  nella  sua   forma    genuina 
o  francese,  la   "  sensiblerie  "   non  andava  sino  al  pu- 
gnale o  alla  pistola  :   gì'  innamorati    infelici  si  conso- 
lavano più    o  meno  presto  ,    mentre  i   leggitori  delle 
loro  avventure  si   limitavano  a  spargere    sulle   pagine 
del  libro  lagrime  abbondanti.   La   "  sensiblerie  "   non 
invase  e  pervase  l'  Italia  che    quando  già  il  Goldoni 
s'  era  messo    risolutamente  per    la  via  della  riforma  ; 
pur  egli  non  seppe  andarne  esente.   Per  altro,  code- 
sta tendenza  al  tenero,  al  sentimentale,  alle  facili  la- 
grime —  in  teatro     le  commedie    che    s' ispirarono    a 
siffatta  tendenza  si  chiamarono   appunto   lagrimose  — 
imprimeva  alla  società  del  tempo   un'  aria  di  sempli- 
cità, un  sapore  di  latte  e  miele  che  smussava,  levigava 
:  caratteri ,  levava  ogni  agrume    ai  temperamenti.   La 
vita  scorreva  placidamente  fra  una  tazza  di  cioccolata 
)  di  caffè  e  un  minuetto,  tra  un  giro  in  piazza  e  una 
visita  golante  ,  fra  la  lettura  d'  un  romanzo    e   la  re- 
cita d'una  commedia,  fra  una  seduta  d'Arcadia  e  la 


_  320  — 

rappresentazione  a  un'  opera  dell'  Hesse  o  del  Por- 
pora. 

Il  "  pessimismo  "  dello  Schopenhauer  e  il  "  do- 
lore universale  "  di  Giacomo  Leopardi  non  erano 
stati  ancora  scoperti  ;  i  ragazzi  non  si  suicidavano  per 
una  bocciatura  presa  agli  esami  di  greco  o  di  mate- 
matica e  due  amanti  infelici  non  andavano  aa  avve- 
lenarsi in  un  albergo  dopo  una  copiosa  cena  inaffiata 
da  una  bottiglia  di  Champagne  più  o  meno  autenti- 
co. 11  sistema  nervoso,  segnatamente,  non  si  mostrava 
così  malconcio,  immiserito,  sconquassato  come  poi  si 
mostrò  :  gli  uomini  e  le  donne  se  facilmente  sorride- 
vano ,  anche  facilmente  si  rassegnavano  ai  dolori.  Il 
cervello,  in  tutta  codesta  gente,  se  non  lavorava  mol- 
to, funzionava  regolarmente ,  a  velocità  normale  ;  ma 
che  importava  ?  Lavorava  il  cuore  ;  questo  si  nutriva 
di   "  sensiblerie  ". 

Il  Goldoni  tutta  codesta  vita  ritrasse  nelle  sue  com- 
medie, anche  in  quelle  che  oggi  hanno  perduto  ogni 
valore  artistico,  per  esempio,  nella  Trilogia  Persiana, 
per  usare  l'espressione  del  Caprin  (1).  Che  cosa  sono 
tutti  quei  personaggi  persiani  (il  Montesquieu  con  le 
Lettres  Persannes  aveva  reso  popolare  la  Persia)  se 
non  un'  eco  della  vita  d'allora  a  base  di  "  sensible- 
rie "  ?  Parecchi  hanno  detto  che  in  quelle  tre  com- 
medie d'argomento  persiano,  che  pur  tanto  entusiasmo 
suscitarono  quando  furono  recitate,  manca  il  "  color 
locale  " ,  come  vi  mancava  affatto  la  Persia.  Sicuro  ; 


1)  Op.  cit.;  pag.  294. 


I 


—  321   — 

ma  chi  degli  spettatori  del  tempo  vi  cercava  1*  uno 
o  r  altra  ?  C  era  la  "  sensiblerie  "  e  bastava.  Ma 
ripetiamo  ;  il  Goldoni,  il  Goldoni  tuttavia  vivente  nelle 
sue  opere,  è  il  Goldoni  delle  commedie  di  carattere 
e  d'  ambiente. 

Abbiamo  già  studiato  —  di  fretta ,  s' intende  —  le 
commedie  di  carattere  ;  quelle  d'  ambiente  avevano 
bisogno  delle  considerazioni  che  sin*  ora  abbiamo  e- 
sposto  perchè  sieno  comprese.  Chi  può  negare  che  sif- 
fatto ambiente  ,  che  noi  ci  siamo  indugiati  a  descri- 
vere, non  si  rispecchi  in  decine  e  decine  di  comme- 
die del  grande  scrittore  comico  veneziano  ? 

E  per  non  stare  sulle  generali,  esaminiamone  bre- 
vemente qualcuna. 

Diversi  ambienti  rispecchia  la  commedia  goldonia- 
na, l'aristocratico,  il  borghese,  ed  infine  un  terzo  pret- 
tamente popolare.  A  quest'  ultimo  appartengono  la 
Trutta  Onorata,  le  Donne  Gelose,  le  Baruffe  Chioz- 
zolle,  i  Qualtro  Rusleghi ,  la  Massere  ,  la  Donna  di 
casa  soa,  i  T^ellegolezzi,  il  Campielo,  per  non  citare 
che  le  più  note,  alle  quali  si  potrebbe  aggiungere  il 
Venlaglìo,  se  l'elemento  borghese  ed  aristocratico  che 
ne  fa  parte  ,  non  togliesse  alla  commedia  la  fisiono- 
mia schiettamente  popolare.  Più  numerose  sono  quelle 
che  rispecchiano  l' ambiente  aristocratico  o  borghese, 
o  tutti  e  due  insieme  riuniti  ;  citiamo ,  per  esempio  , 
come  riproduzione  di  vita  aristocratica  :  il  Cavaliere 
e  la  T)ama,  il  Cavalier  Giocondo,  il  Cavaliere  di  Spi- 
rilo ,  e  come  riproduzione  d'  ambiente  borghese  ,  il 
bugiardo,  la  Collega  del  Caffè ,   la  Casa  Nova  ,   la 

!^Cel  Regno  delle  Maschere.  21 


—  322  — 

Cameriera  Amorosa,  VUomo  Prudente,  il  Vero  Ami- 
co, V  Avventuriere  Onorato,  X  Jlwocato  Veneziano, 
la  trilogia  della  X)illeggiatura,  e  d'ambiente  misto,  le 
T)onne  Puntigliose  ,  la  Sposa  Sagace  ,  la  Cameriera 
Brillante,  Y  Avaro,  la  Moglie  Saggia. 

In  verità,  codeste  divisioni  non  sono  perfettamente 
esatte;  poiché  spesso  le  commedie  del  Goldoni  sono 
insieme  di  carattere  e  d'ambiente.  La  favola  è  spesso 
sottile,  sottile  ;  ma  il  tocco  con  che  è  riprodotta  la 
vita  che  s'aggira  intorno  a  quel  debol  filo  è  così  ma- 
gico da  far  stare  inchiodati  gli  spettatori  sulla  sedia, 
o  il  lettore  al  tavolino  per  tutti  e  tre  gli  atti.  Ecco 
le  Baruffe  Chiozzotte;  è  la  vita  semplice  ,  senza  in- 
cidenti d' importanza  della  popolazione  marinara  di 
Chioggia;  i  personaggi  sono  dei  pescatori  con  le  loro 
mogli,  le  loro  figliuole  ;  due  soli,  cioè,  il  Canocchia, 
eh'  è  un  venditore  ambulante  di  zucca  arrostita  ,  ed 
Isidoro,  che  è  il  coadiutore  del  cancelliere  criminale, 
fra  tutti  quei  personaggi  non  appartengono  alla  gente 
di  mcire.  Delle  famiglinole  di  marinai ,  aspettando  il 
ritorno  dei  padri  e  dei  figli  dalla  pesca  ,  attendono 
alle  loro  ordinarie  occupazioni  dinanzi  alle  loro  ca- 
sette :  il  Canocchia  ,  il  venditore  di  zucca  ,  coi  suoi 
modi  familiari,  getta  la  fiaccola  della  gelosia  in  quel 
cantuccio  tranquillo  ;  con  la  gelosia  viene  innanzi  la 
maldicenza  ;  le  donne  s*  ingiuriano  ,  si  picchiano  ;  si 
va  in  criminale.  Ecco  una  querela  da  una  parte,  alla 
quale  se  ne  oppone  un'  altra  ;  Isidoro ,  il  coadiutore, 
che  si  sente  rinascere  fra  le  donne,  s'intromette,  cerca 
di  calmare  tanto  le  vecchie  quanto  le  giovani  ;  s' in- 


1 


—  323  - 

tromettono  anche  gli  uomini  ,  e  quando  la  matassa  , 
fra  le  ire,  i  ripicchi,  i  malintesi  femminili,  è  bene  ar- 
ruffata ,  ecco  che  essa  comincia  a  dipanarsi  e  tutte 
quelle  baruffe  terminano  con  le  nozze.  Nel  Ventaglio 
la  trama  della  favola  non  è  meno  sottile  ;  ma  V  at- 
tenzione dello  spettatore  per  tutti  e  tre  gli  atti  è  sem- 
pre desta.  11  sig,  Evaristo  ama  Candida  ,  la  nipote 
della  signora  Geltrude  ;  in  un  colloquio  eh'  egli  ha 
con  la  giovine,  a  questa,  che  sta  sulla  terrazza,  cade 
il  ventaglio,  che  si  rompe;  il  sig.  Evaristo  lo  racco- 
glie e  vuol  farne  avere  alla  giovane  uno  nuovo  senza 
che  ne  sappia  nulla  la  zia.  Ne  compra  uno,  difatti, 
ne  inccirica  Giannina ,  le  cui  grazie  sono  disputate 
dall'oste  Coronato  e  dal  calzolaio  Crespino,  per  con- 
segnarlo a  Candida.  Di  qui,  come  un  filo  sottile,  sot- 
tile, si  svolge  tutta  la  trama  della  commedia;  ma  in- 
torno a  quel  filo  ,  che  serve  all'  autore  per  spingersi 
sino  alla  fine,  sorgono  i  più  imprevisti ,  i  più  curiosi 
incidenti  ;  la  trama  per  quanto  trasparente  ,  pure  in- 
teressa, e  il  successo  e  ottenuto. 

Ma  non  sempre  la  trama  della  commedia  goldo- 
niana e  sottile;  il  nostro  commediografo  sa  addensare 
gli  avvenimenti  senza  rendere  pesante  la  favola.  Ecco 
l'argomento  della  elogile  Saggia,  che  Paolo  Ferrari 
con  senso  di  modernità  rifece  sotto  il  titolo  di  Amore 
senza  stima.  La  contessa  Rosaura,  una  giovane  dama 
d'  una  inesprimibile  dolcezza  d'  animo  ,  ha  sposato  , 
come  ha  scritto  lo  stesso  Goldoni  nell'  analisi  della 
commedia  che  si  legge  nelle  Memorie  (I),  un  uomo 

(1)  Parte  li;  Gap.   XIV. 


—  324  — 

brutale,  disprezzatore  della  dolcezza  di  sua  moglie  , 
e  cicisbeo  della  marchesa  Beatrice,  di  carattere  cat- 
tivo quanto  lui...  La  contessa  Rosaura  faceva  tutto  il 
possibile  per  guadagnare  il  cuore  del  suo  consorte  , 
ma  quest'  uomo,  duro  e  senza  senno ,  preferiva  piut- 
tosto alle  carezze  d'una  moglie  amabile  il  pazzo  or- 
goglio d'  un'  amante  imperiosa  e  piena  di  capricci. 
Un  giorno  Rosaura  prende  il  partito  d'  andeu"e  ella 
stessa  a  fcu*e  una  visita  alla  marchesa,  a  cui  pone  sotto 
gli  occhi ,  con  tutta  la  possibile  decenza  ,  i  disgusti 
eh'  era  forzata  a  soffrire ,  pregandola  di  compiacersi 
d'adoperare  tutto  il  suo  credito  presso  il  conte  a  fine 
d'impegnarlo  a  renderle  un  poco  più  di  giustizia.  Bea- 
trice ,  punto  balorda ,  comprende  subito  la  maniera 
d*  agire  della  contessa ,  onde  se  la  cava  con  espres- 
sioni vaghe  e  complimentose.  Essa  però  spiega  al  conte 
tutto  il  suo  furore  e  malanimo,  e  Io  istiga  a  tal  segno 
cbe  finalmente  lo  determina  a  disfarsi  della  moglie. 
Questo  mEu^ito  crudele  concepisce  pertanto  il  barbaro 
disegno  d'  avvelenarla  :  per  buona  sorte  la  contessa 
ne  è  avvertita  e  lo  inganna,  facendogli  credere  d'aver 
trangugiato  la  micidiale  bevanda;  onde  parla  al  me- 
desimo come  una  vittima  spirante,  che  sempre  più  lo 
ama  e  lo  perdona.  Il  conte  penetrato  e  pentito,  con- 
fessa i  suoi  falli  e  grida  aiuto  per  richiamare  in  vita 
la  moglie:  comparisce  allora  la  cameriera  che  si  ac- 
cusa di  aver  saputo  il  segreto  ,  di  aver  barattato  la 
fiala,  e  d'  aver  così ,  a  dispetto  del  padrone ,  salvato 
la  vita  alla  contessa.  A  questo  dire  egli  resta  rapito 
dalla  gioia,  abbraccia  di  cuore  la  moglie,  ricompensa 


I 


-  325  — 

la  cameriera ,  detesta  la  marchesa  ,  e  da  essa  imme- 
diatamente prende  congedo   ". 

Un'  altra  trama  di  commedia ,  quella  dei  Pettego- 
lezzi. Cediamo  ancora  la  parola  al  Goldoni.  "  Chec- 
china  passa  per  figlia  d'un  marinaio  veneziano,  a  cui 
essa  era  stata  affidata  fin  dalla  sua  infanzia.  Venuta 
all'  età  nubile,  le  si  trova  un  convenevole  partito;  ma 
nascono  pettegolezzi,  che  guastano  tutto.  Una  donna 
ammessa  al  segreto,  confida  ad  una  delle  sue  amiche 
che  Checchina  non  è  altrimenti  figlia  del  marinaio  ; 
costei  rifa  il  discorso  ad  un'  altra  ,  e  così  di  bocca 
in  bocca  ,  d'  orecchio  in  orecchio  (sempre  però  col 
patto  della  circospezione)  si  disvela  1'  arcano.  Ecco 
pertanto  riguardata  la  giovine  promessa  in  matrimonio 
come  bastarda ,  ed  ecco  per  tali  ragioni  interrotte  le 
nozze.  Giunge  a  Venezia  il  vero  padre  della  fan- 
ciulla che  torna  dalla  schiavitù  e  sembra  alla  maniera 
un  levantino  ;  trovatosi  egli  per  caso  con  1'  armeno 
mercante  Ababigi  (l),  vengono  presi  in  iscambio  l'uno 
per  r  altro  ,  e  per  questo  solo  motivo  Checchina  si 
crede  figlia  del  brutto  barbone.  Ecco  nuovi  pettego- 
lezzi. Checchina,  dunque,  e  disprezzata,  le  si  ride  in 
faccia,  si  chiama  signorina  Ababigi,  ed  è  ridotta  alla 
disperazione.  Finalmente  il  padre  putativo  ed  il  vero 
un  giorno  s'  incontrano  ;  si  viene  in  chiaro  di  tutto  ; 
Checchina  ritorna  al  suo  stato,  sposa    il    suo  preten- 

(  I  )  Personaggio  preso  dal  vero.  Era  un  vecchio  con  una  grande 
barba,  vestito  alla  levantina,  che  girava  per  Venezia  vendendo  frutta 
secca.  Era  assai  noto  e  volendo  burlarsi  d'  una  giovane  ,  che  non 
avesse  ancora  trovato  marito,  le  si  proponeva  Ababigi. 


—  326  — 

dente  ,  mutan  tono  i  pettegolezzi  e  così  termina  la 
commedia  molto  allegramente  (1)."  Si  direbbe  quasi 
una  commedia  d' intreccio  del  teatro  improvviso  o  a 
soggetto  quanto  alla  trama  ;  ma  il  Goldoni  vi  seppe 
ritrarre  il  cicaleccio  maldicente,  maligno  delle  don- 
nicciuole  veneziane,  e  il  suo  quadretto,  sebbene  porti 
addosso  la  bellezza  d*un  secolo  e  mezzo,  pure  sembra 
fatto  non  più  tardi  d' ieri  o  di  ieri  1'  altro. 

Intorno  a  codeste  trame,  così  semplici,  nelle  com- 
medie d'ambiente,  si  svolge  la  vita  italiana  ,  soprat- 
tutto veneziana,  del  tempo.  Il  "  cicisbeismo,  che  in- 
sieme alle  parrucche,  ai  ricci,  ai  guardinfanti,  ai  nei,  al 
minuetto,  agli  abiti  ricamati  e  ai  tacchetti  rossi,  co- 
stituì la  nota  più  caratteristica  dell'  haute  del  seco- 
lo XVIII,  trovò  nel  Goldoni  un  arguto  censore.  La  sua 
satira  però  deriva  da  Orazio,  e  non  da  Giovenale, 
sia  perchè  il  temperamento  di  lui  non  era  fatto  per 
r  attacco  impetuoso,  a  fondo,  per  la  critica  acre,  bi- 
liosa, sia  anche  perchè,  sulla  scena  d'allora,  la  libertà 
di  linguaggio,  e  in  modo  particolare  di  critica,  era 
assai  limitata.  La  nobiltà,  allora,  dopo  il  trono  o  il 
capo  dello  Stato,  era  tutto,  anche  a  Venezia,  e  Piombi 
nella  capitale  della  Serenissima,  e  altrove  le  Vicarie  o 
le  Grandi  Prigioni,  o  altre  case  decorate  con  nomi  più 
o  meno  di  mal'augurio,  avrebbero  rinchiuso  nelle  loro 
non  allegre  celle  l'impertinente  che  avesse  osato  mor- 
dere con  forza  una  casta  o  un  ordine  di  cittadini  che 
formava  la  pietra  angolare  dell'  edificio  sociale  di  quel 

(1)  Mem.  Parte  II;  Gap.   XI. 


il 


—  327  — 

tempo.  Ma  il  riso  caustico  decente  del  poeta  vene- 
sino,  il  castigai  ridendo  mores  era  ammesso  e  il  Gol- 
doni ne  approfittò  ed  anche  largamente.  Se  non  che 
il  "  cicisbeismo  "  come  già  accennammo  ,  non  era, 
in  fondo  in  fondo,  quella  cosa  tanto  brutta,  soprattutto 
immorale,  che  certuni  hanno  creduto  che  fosse  in 
base  alle  satire  e  alle  caricature  che  da  esso  presero 
origine.  Non  sempre  il  "  cavalier  servente  "  era  un 
amante;  se  fosse  stato  diversamente,  i  mariti  di  que 
tempi  avrebbero  dato  dei  punti  anche  a  re  Menelao 
buon'  anima  :  essi  non  amavano  che  la  loro  proprietà 
coniugale  divenisse  collettiva;  però  non  sempre  im- 
berciavano nel  segno,  e  il  "  cicisbeo  "  o  il  "  cava- 
lier servente  "  o  il  "  bracciere  "  diventava  l'amante 
della  moglie;  ma  non  di  rado  egli  era  un  personag- 
gio innocuo,  scelto  con  molta  cura  dal  marito  fra  i 
gentiluomini  stagionati  ;  e  in  questo  caso,  se  la  si- 
gnora voleva  distrarsi  fuori  del  campo  legittimo,  ma- 
ritale, il  "  cicisbeo  "  serviva  di  scudo  all'amante  (1). 
Così,  nella  Sposa  Sagace,  del  Goldoni,  donna  Petro 
nilla,  la  matrigna  di  Barbara,  non  ha  ritegno  di  dire 
in  pubblico  al  conte  d'Altomare,  uno  dei  frequenta- 
tori della  sua  "  conversazione  "  e  che  vorrebbe  in- 
nalzare alla  dignità  di  suo   "  bracciere  "   titolare  : 

"  Conte,  alfin  lo  confesso,  a  sostener  m' ingegno. 

Che  voi  siete  fra  tutti  il  cavalier  più  degno. 

So  che  vi  feci  torto  dando  la  preferenza 

A  chi  non  ha  guadagnato  con  l' arte  e  l' insistenza. 

(1)  C.   Cantò;  St.  degli  Italiani,  Lib.  XV;  Cap.    CLXXI,  Ved. 
V.  Alfieri;  Satire.  "  11  Cavalier    Servente  ". 


—  328  — 

Conosco  or  più  che  mai  le  vostre  qualità, 
Venero  il  vostro  sangue,  la  vostra  nobiltà, 
E  se  di  me  vi  cale,  come  vi  calse  in  prima 
Vi  protesto,  signore,   venerazione  e  stima. 
Non  offrisco  amori;  tanto  non  si  concede 
A  femmina  onorata  che  altrui  giurò  la  fede; 
Ma  se  dell'  amicizia  pago  di  me  sarete. 
Ad  esclusion  d'ogni  altro,  mio  cavalier  sarete. 

(Atto  II.  Se.  XII) 

Una  satira  fine,  pieno  di  spirito,  del  "  cicisbeismo  " 
contiene  la  commedia  il  Cavalier  e  la  Dama.  Per 
non  destare  suscettibilità,  il  Goldoni  non  l' intitolò  i 
Cicisbei,  "  quest'esseri  strani...  martiri  della  galanteria 
e  schiavi  dei  capricci  del  bel  sesso  (1).  "  Però;  con 
prudenza  tutta  veneziana,  seppe  mettere  accanto  alle 
signore  servite  da  "  cicisbei  ",  una  donna  che  i  ser- 
vizi del  cavaliere,  sebbeno  ispirati  da  un  fine  one- 
sto e  delicato,  respinge.  Siffatto  contrasto,  artistica- 
mente, dà  pregio  alla  commedia  e  ne  rende  le  situa- 
zioni più  curiose  e  divertenti.  I  "  cicisbei  "  che  fanno 
alle  signore  da  vice-mariti,  che  sono  consultati  sulla 
scelta  del  colore  d'un  abito  o  d'un  nastro  ,  che  as- 
sistono alla  toletta  della  donna  che  servono  e  danno 
consigli  al  parrucchiere  sul  modo  di  disporre  una 
treccia  o  di  fare  un  ricciolo,  non  comprendono  come 
una  signora  (è  la  protagonista  della  commedia)  possa 
far  senza  un  "  bracciere  "  e  la  burlano  e  le  danno 
della  provinciale  a  tutto  spiano.  Essi  medesimi  e  le 
loro  dame  per  paura   che    un  tale  esempio  non  inizi 


(I)  Mem.  Parte  II,  Gap.  IV. 


I 


-  329  — 

un'era  di  decadenza  per  la  buona  e  legittima  galan- 
teria riuniscono  i  loro  sforzi  allo  scopo  che  la  signora, 
quintessenza  del  puritanismo,  prenda  anche  lei  un  ca- 
valier  servente  ".  Il  Goldoni,  prima  della  rappresen- 
tazione della  sua  commedia,  credeva  raccoglierne  cri- 
tiche, e  forse  fischi ,  ma  le  signore  e  i  loro  "  cici- 
sbei "  non  si  ritennero  offesi  dalla  satira,  anzi,  risero 
di  cuore  e  chiamarono  "  villani  e  selvaggi  "  i  "  ci- 
cisbei "  della  commedia,  che  volevano  dare  a  quella 
povera  signora  un  "  cavalier  servente  "  per  forza  (1). 
Il  Goldoni  trattò  più  d'  una  volta  il  tema  del  "  ci- 
cisbeismo "  ;  e  come  non  tornarvi  su  se  quell'usanza 
costituiva,  per  cosi  dire,  lo  sfondo  dell'  alta  società 
italiana  del  Settecento?  Ampiamente  trattò  tale  ar- 
gomento nella  Dama  Prudente,  sebbene  in  questa 
sua  commedia  non  avesse  voluto  presentare  che  un 
"  carattere  ",  quello  di  don  Roberto,  un  gentiluomo 
innamorato  della  propria  moglie,  e  per  giunta  geloso, 
il  quale  per  non  rendersi  ridicolo,  tollera,  adenti  stretti, 
che  i  "  cicisbei  "  farfalleggino  intorno  alla  sua  signora. 
Anche  nelle  Femmine  Puntigliose  ì  "  cicisbei  "  sono 
posti  in   ridicolo  ;    ma    in    quest'  ultima    commedia  il 

(  I  )  Il  Goldoni  (scrive  Ernesto  Masi  in  Commedie  Scelte  di  Qol- 
doni;  Firenze,  Sansoni,  1897;  voi.  I,  p.  3)  nel  pigliare  in  giro  il 
"  cicisbeismo  ",  fu  un  precursore  ;  la  commedia  :  //  Cavaliere  e  la 
Dama  è  del  1 749,  mentre  il  lattino  del  Parini  è  del  1 763.  In 
verità,  il  "  cicisbeismo"  non  fu  posto  per  la  prima  volta  in  ridicolo  dal 
Goldoni;  questi  ebbe,  a  sua  volta,  un  precursore  nel  Fagiuoli  con  la 
commedia  (e  noi  già  lo  notammo):  Ciò  che  pare  non  è.  Anche  una 
satira  del  "  cicisbeo  "  contiene  l'altra  commedia  del  Fagiuoli  :  //  cO' 
Veliere   Parigino. 


-  330 

Goldoni  ha  avuto  uno  scopo  di  gran  lunga  superiore 
a  quello  di  sferzare  una  ridicola  usanza.  Egli,  sebbene 
con  molta  cautela,  ha  voluto  mirare  ad  un  fine  altis- 
simo, eminentemente  sociale,  e  se  col  Cavaliere  e  la 
Dama  precorse  il  Parini  nel  rimettere  in  ridicolo  il 
Giovine  Signore,  con  le  Femmine  Puntigliose  precorse 
il  Beaumarchais,  l'autore  del  Mariage  de  Figaro,  nel 
dare  battaglia  alla  casta  temuta  ed  assorbente  del 
tempo,  la  nobiltà.  Ma  non  tutti,  però,  hanno  saputo 
scorgere  V  importanza  sociale  ,  ed  anche  politica , 
delle  Femmine  ^Puntigliose,  forse  perchè  lo  stesso 
Goldoni  cercò  di  dissimularla  affibbiando  alla  com- 
media un  tìtolo  che  non  le  va  che  sino  ad  certo  punto. 
La  contessa  Beatrice  ,  la  contessa  Eleonora  e  la 
contessa  Clarice,  le  tre  donne  di  nobile  lingnaggio 
che  figurano  nella  commedia,  sono  certamente  punti- 
gliose ;  nessuno  può  metterlo  in  dubbio  come  sia 
estremamente  puntigliosa  tutta  la  società  che  quelle 
signore  praticano  ;  ma  se  il  puntiglio  è  la  nota  do- 
minante del  carattere  di  quelle  dame,  V  argomento 
della  commedia  è  tutt*  altro  :  è  la  scalata  all'Olimpo, 
è  lo  sforzo  che  fa  una  casta  inferione,  condannata  a 
rimanere  in  seconda  linea,  nell'ombra ,  per  prenetcìre 
nelle  file  della  classe  superiore.  Donna  Rosaura,  mo- 
glie d*  un  ricco  mercante,  aspira  a  prender  posto  fra 
le  dame  della  nobiltà;  le  usanze  e  gli  ordinamenti  del 
tempo  non  gliene  danno  il  diritto,  ma  essa  cerca  di 
prenetarvi  mercè  la  compiacenza  della  contessa  Bea- 
trice a  cui  sotto  forma  di  perdita  d'  una  scommessa 
paga  cento  doppie  di  Spagna,  e  del  conte  Lelio,  che 


-  331    - 

mette  dalla  sua  mediante  il  regalo  d' un  ricco  orolo- 
gio. Le  altre  dame,  donna  Eleonora  e  donna  Cla- 
rice, difendono  tenacemente  i  loro  privilegi  e  respingono 
indietro  donna  Rosaura,  la  quale,  finalmente,  comprende 
come  la  società  modesta,  lavoratrice,  ma  sana,  dalla 
quale  ella  proviene,  sia  da  preferirsi  a  quella  incivile, 
corrotta,  a  cui  con  tanto  ardore  aspirava.  Il  Beaumar- 
chais,  più  tcu^di,  non  disse  cose  peggiori  della  no- 
biltà del  suo  tempo.  Il  Goldoni  con  donna  Beatrice 
e  il  conte  Lelio  metteva  alla  gogna  tutta  Taristocrazia 
della  seconda  metà  del  Settecento  (1).  Altro  che  Esaù 
che  vende  per  un  piatto  di  lenti  il  suo  diritto  di  primo- 
genitura !  Per  un  centinaio  di  doppie  di  Spagna  ed  un 
orologio,  una  dama  e  un  gentiluomo  facevano  mercato 
insieme  alla  loro  dignità  della  loro  coscienza  ! 

Molto  audace  quel  Goldoni  !  dirà  qualche  nostro 
lettore.  Forse;  il  certo  s'è  che  la  sua  audacia  il  no- 
stro commediografo  sapeva  nascondere  così  bene  che 

(1)  Il  Caprin,  Op.  cit.  pag.  289,  scrive  parlando  delle  Femmine 
'Puntigliose  e  di  qualche  altra  commedia  del  Goldoni  ;  "  Nessuna  sa- 
tira dunque  contro  l' aristocrazia,  non  ostante  qualche  apparenza  in 
contrario.  "  Parole  che  il  Caprin  ha  scritto  perchè  il  Goldoni,  fra 
r  altro,  nelle  Femmine  Puntigliose  fa  dire  al  conte  Ottavio  :  "  Conser- 
vare illibato  il  nostro  decoro,  questo  è  il  vero  puntiglio  della  nobiltà  ". 
Se  non  che,  non  è  detto  che  il  Goldoni,  mettendo  quelle  parole  in 
bocca  di  un  nobile,  abbia  voluto  parlare  per  proprio  conto.  La  sa- 
tira stava  nei  due  ritratti  di  donna  Beatrice  e  del  conte  Lelio,  due 
losche  Bgure  d'aristocratici,  senza  tener  conto  del  marito  di  donna  Bea- 
trice, il  conte  Onofrio,  scroccone  I  Le  parole  del  conte  Ottavio,  di  sopra 
riportate,  non  devono  quindi  intendersi  che  come  un  ripiego  a  cui  il 
Goldoni  era  costretto  ricorrere  per  non  destar  di  troppo  le  suscettibilità 
dei  nobili. 


—  332  — 

anche  oggi,  un  secolo  e  più  dopo  la  sua  morte,  sten-  \ 
tiamo  a  rappresentarci  un  Goldoni  ribelle  ;  gli  è  ap-  1 
pena  se  lo  riteniamo  malizioso.  Ma  la  malizia  ha  le  i 
sue  audacie,  e  queste  il  Goldoni  seppe  avere  senza 
che  nessuno  se  ne  accorgesse  di  troppo.  Egli  sapeva 
nasconderle,  sapeva  farle  passare  senza  che  gli  spet- 
tatori ne  rimanessero  offesi.  Nelle  Femmine  Punti- 
gliose,  difatti,  qual' è  il  titolo?  E  un  titolo  innocuo; 
esso  deriva  da  un  vizio,  da  un  difetto  femminile.  E 
la  scena  dove  ha  luogo  ?  Forse  a  Venezia,  a  Padova, 
a  Bergamo,  o  in  qualche  altra  città  del  dominio  della 
Serenissima  ?  Ma  no  ;  egli  mette  la  scena,  nientemeno, 
a  Palermo,  città  mezzo  spnaguola  e  mezzo  italiana, 
e  dove  egli  non  è  stato,  e  forse  dove  non  porrà  mai 
il  piede.  Se  non  che,  fatta  una  tale  concessione,  egli 
senza  smettere  quella  sua  aria  bonaria,  pone  in  bocca 
al  conte  Ottavio  le  seguenti  parole,  che  più  tardi  il 
Beaumarchais  avrebbe  volentieri  fatto  sue  :  "  Oimè  ! 
Che  orribili  cose  ci  tocca  ai  giorni  nostri  a  sentire  ! 
Una  dama  vende  la  sua  protezione,  mercanteggia  sul- 
r  onore  della  nobiltà,  mette  a  repentaglio  il  decoro 
della  città,  della  nazione,  dell'  ordine  nostro,  del  no- 
stro sangue  !  Un  cavaliere  non  solo  tollera  e  permette 
che  si  profanino  i  diritti  della  nostre  adunanze,  ma 
si  coopera  e  vi  presta  mano  e  ne  promuove  gli  scan- 
dali !  (1)"  Parole  nobilissime,  piene  di  sdegno  gran- 
dissimo, pronunzia  quel  conte  Ottavio,  specie  di  pa- 
ladino della  nobiltà  e  della  dignitè    del    ceto  aristo- 

(1)  Atto  III;  Se.  XIII. 


—  333  — 

:ratico  !   Ma  quanto  disprezzo  non  versa    sui  membri 
ji  codesto  ceto! 

Non  meno  coraggio  ebbe  certamente  il  Goldoni 
lel  rompere  una  lancia  contro  il  duello.  Sebbene 
questo  da  un  pezzo  sia  entrato  nei  nostri  costumi, 
Dure  è  anche  da  un  pezzo  che  moralisti  e  filosofi  lo 
:ombattono.  Appunto  nelle  Femmine  Puntigliose  , 
Pantalone ,  il  quale  apprende  che  Florindo  per  ven- 
dicare un  affronro  fatto  alla  propria  moglie  vuol 
sfidare  il  conte  Onofrio,  dice  :  "  Anca  eia  è  xe  de 
quei  crede,  che  un  duello  possa  resarcir  ogni  offesa? 
Che  una  sfida  sia  bastante  a  render  la  reputation  a  chi 
l'ha  persa?  Pregiudizi,  errori,  pazzie!  (1)  ".  Ma  qual- 
che tempo  prima  che  facesse  rappresentare  le  Fem- 
mine Puntigliose,  il  Goldoni,  nel  Cavaliere  e  la  Dama, 
aveva  avuto  il  coraggio  —  e  questa  volta  si  trattava 
di  avere  un  coraggio  non  ordinairio  —  non  di  fcu'  par- 
Icire  contro  il  duello  un  pacifico  mercante,  qual'  è 
Pantalone,  e  quindi  un  plebeo  che  nulla  s' intendeva 
d'onore  e  di  leggi  cavalleresche,  ma  di  far  rifiutare 
da  un  nobile  una  sfida  senza  che  questo  rifiuto  fosse 
preso  per  vigliaccheria.  Don  Flaminio,  non  riuscendo 
a  farsi  amare  da  Eleonora,  la  quale  nutriva  un  pro- 
fondo ciffetto  per  don  Rodrigo,  sfida  costui;  ma  don 
Rodrigo,  un  gentiluomo  serio,  onesto,  non  accetta  il 
cartello,  e  un  altro  gentiluomo,  don  Alonzo,  trova  co- 
desto rifiuto  onorevolissimo  (2).  11  pubblico  applaudì; 


(1)  Alto  III;  Se.  V. 

(2)  Atto  III;  Se.  III. 


—  334  —  j 

segno,  questo,  che  la  commedia  dell'arte,  nella  quale  i 
il  così  detto  punto  d'onore  era  elevato  a  dignità  d'i- 
stituzione, aveva  fatto  il  suo  tempo,  e  che  una  con- 
cezione della  vita  più  sana  di  quella  che  aveva  im- 
perato sotto  r  influenza  della  letteratura  e  dei  costumi 
di  Spagna  s' era  fatta  strada  a  poco  a  poco  nella 
mente  e  nell'  animo  del  pubblico. 

L'educazione  delle  fanciulle,  quasi  sempre  fatta  in 
un  chiostro,  con  intendimenti  angusti ,  ascetici,  piena 
di  pregiudizi  e  di  falsi  pudori,  sarebbe  stato  un  ottimo 
bersaglio  per  un  commediografo  di  quei  tempi:  ne  al 
Goldoni,  fine  osservatore ,  sfuggì  ;  se  non  che ,  com- 
prendendo bene  le  difficoltà  che  presentava  la  satira 
d'un  sistema  educativo  che  aveva  per  se  quasi  i  quattro 
quinti  della  società  d' allora ,  e  quel  che  è  di  più,  i 
poteri  pubbhci,  si  limitò  ad  una  semplice  ricognizione 
e  questa  fece  nel  Padre  di  famiglia  ,  dove  mise  in 
iscena  due  sorelle,  l' una  educata  in  famiglia ,  anima 
retta,  virtuosa,  l'altra  educata  —  i  tempi  non  gli  per- 
mettevano di  dire  in  convento  (  1  )  —  da  una  zia  bac- 
chettona fra  le  pratiche  religiose  e  di  pietà.  Quest'ul- 
tima sorella,  in  apparenza  buona,  tutta  timor  di  Dio, 
in  fondo  è  leggiera  ,  civetta  ,  un  piccolo  Tartuffo  in 
gonnella,  e  mentre  la  sorella  educata  liberamente  re- 
siste alle  tentazioni,  l'altra  s'innamora  d'un  pilastro  di 
prigione  sotto  forma  di  collotorto  che  le  hanno  posto 
attorno  come  educatore,  e  col  quale  scappa  di  casa. 

L' evocazione    di    quest'  ultima    macchietta    goldo- 

(1)  Mem.   Part.  II,  Gap.  XII. 


-  335   - 

niana  —  quella  dell'  ipocrita  —  ci  ricorda  quella  di 
Pirlone,  altra  macchietta  goldoniana.  Pirlone  è  uno 
dei  personaggi  del  Molière  che  il  nostro  commedio- 
grafo scrisse  appositamente  per  un  teatro  di  Torino, 
dove,  le  commedie  dell'avvocato  veneziano,  sebbene 
trovassero  buona  accoglienza,  pure,  dopo  ciascuna  re- 
cita delle  medesime ,  si  diceva  :  C'est  hon  ,  mais  ce 
nest  de  Molière  (1).  Nella  sua  nuova  commedia,  il 
Goldoni  introdusse  un  ipocrita ,  precisamente  Pir- 
lone. Certo  la  figura  di  quest'ultimo  non  oscurò  quella 
di  Tartuffo  del  grande  commediografo  francese  ;  però 
l'aver  posto  in  iscena  un  ipocrita  e  di  tartassarlo  ben 
bene  in  un  tempo  in  cui  l'ipocrisia,  per  non  offendere 
la  virtù,  era  tenuta  in  pregio  quasi  quanto  quest'ul- 
tima, fu  da  parte  del  Goldoni  un  atto  di  coraggio, 
che  smentisce  quella  leggenda  di  timidità  ,  e  di  ri- 
guardi e  compiacenze  verso  le  istituzioni  esistenti  ai 
suoi  tempi  e  che  da  un  pezzo  s' è  andata  formando 
intorno  al  nome  dello  scrittore  veneziano.  Questi,  al- 
l'occasione, sapeva  porre  in  luce,  e  mettere  in  ridicolo 
i  difetti  e  i  vizi  della  società,  anche  se  protetti  dallo 
Stato  e  dalla  Chiesa;  se  non  che,  in  codesti  casi,  la 
sua  satira  era  piìi  riguardosa  ,  meno  aperta  ,  ma  non 
meno  pungente.  Nessun  vizio  del  suo  tempo  risparmiò 
compreso  quello  dell'ipocrisia  ch'era  uno  dei  maggiori 
e  che  inquinava  la  società  forse  più  del  "  cicisbei- 
smo " ,  o  dell'  ozio  in  cui  beatamente  poltrivano  le 
classi  dirigenti  d'allora.  Alla    fama    della    commedia 

(1)  Mem.  Par.  II;  Cap.  XII. 


—  336  — 

del  Molière  giovò  in  Francia  soprattutto  la  guerra  che 
gli  ipocriti  in  sottana  nera  o  in  abito  corto  le  mossero 
cinche  prima  che  essa  fosse  posta  in  iscena;  ma  non 
bisogna  dimenticare,  come  anche  i  più  sinceri  ammi- 
ratori dello  scrittore  francese  sono  costretti  ad  ammet- 
tere, che  l'ultimo  atto  di  Tartuffo  è  assai  povera  cosa 
e  che  il  Ccirattere  d*  Orgone  ,  il  marito  credenzone, 
rasenta  l'inverosimile.  Del  resto,  si  sa,  che  Molière, 
pur  dando  al  carattere  di  Tartuffo  una  vita  da  ren- 
derlo scultorio,  adoperò  per  metter  su  la  sua  commedia 
molto  materiale  italiano.  Il  carattere  dell'ipocrita  non 
era  ciffatto  nuovo  nel  teatro,  non  in  quello  francese, 
dove  certi  ardimenti  per  lunga  pezza  parvero  impos- 
sibiH  ,  ma  in  quello  itaHano.  Difatti,  il  Moland  (1) 
osserva  che  il  Molière  pel  '^artuffe  attinse,  e  larga- 
mente, dalla  commedia  l' Ipocrito  di  Pietro  Aretino  : 
"  Les  analogies...  entre  Toeuvre  de  l'Aretin  et  1'  oevre 
de  Molière  sont  trés  sensibles.  Le  personnage  prin- 
cipal  de  la  comédie  lo  Ipocrito  a  de  comun  avec 
Tartuffe  non  seulement  1'  hypocrisie  ,  mais  encore  la 
gourmandise  et  la  sensualité.  Il  employe  les  mémes 
moyens  pour  conquérir  son  prestige  et  son  influence: 
simagrèes  pieuses,  humilté  feinte,  jargon  de  la  devotion. 
Il  est  place  dans  un  milieu  pareil,  au  sein  de  la  fa- 
mille  ,  ou  il  exer-ce  une  autorité  dangereuse.  Une 
égale  débilitè  d'  esprit  caractérise  les  deux  chefs  de 
maison  et  les  valets  de  Liseo  (2)  n'  ont    pas    1'  oeil 

(1)  Op.  citata;  p.  222. 

(2)  Carattere  di  vecchio  credenzone  che  si  fa  infinocchiare  dall'  ipo- 
crita e  corrispondente  a  quello  d'Orgone  nella  commedia  del  Molière. 


—  337  — 

moins  clairvoyant  ni  la  parole  moins  impertinente  que  la 
servante  de  Dorine  ".  Il  Moland  seguita  facendo  giu- 
stamente rilevare  l'abisso  che  dal  punto  puramente 
artistico  separa  la  creazione  dell'italiano  da  quella  del 
francese  ;  ma  non  possiamo  ritenere  con  lui  che  lo 
scioglimento  dell'  azione  immaginato  dal  commedio- 
grafo francese  sia  migliore  di  quello  dell'italiano.  L'A- 
retino con  una  finezza  di  spirito  degna  d'uno  scrittore 
che  visse  ai  tempi  della  Rinascenza,  immagina  che  il 
suo  protagonista  componga  tutte  le  divergenze,  allon- 
tani tutti  i  sospetti  e  resti  tranquillo  e  rispettato  in 
seno  alla  famiglia  dove  egli  ha  portata  tutta  la  bava 
schifosa  dei  suoi  vizi  ;  il  Molière  all'  incontro,  vivendo 
n  pieno  gesuitismo,  fa  scoprire  le  marachelle  di  Tar- 
luffo  e  lo  fa  chiudere  in  prigione. 

Uno  dei  vizi  contro  il  quale  maggiormente  si  eser- 
:itò  la  vena  comica  del  Goldoni  fu  certamente  il  giuoco. 
3i  giuocava,  allora,  nelle  classi  elevate,  arrabbiata- 
nente,  forse  perchè  non  si  giuocava  alla  borsa  come 
)ggi.  Giuocavano  non  meno  arrabbiatamente  degli 
lomini  ,  le  signore  ;  il  che  oggi  non  è  lo  stesso.  A 
V^enezia  (  1  )  il  giuoco  era  una    frenesia  ,  una  febbre 

(1)  Si  giuocava  allora  sfrenatamente  iu  tutte  le  grandi  città.  La  Du- 
hessa  d'Orléans  scriveva  da  Parigi  il  14  maggio  1695:  "  On  joue 
:i  des  sommes  affrayantes,  et  les  joeurs  sont  comme  des  insensés;  l'un 
urie,  l'autre  frappe  si  fort  la  table  du  poing  que  toute  la  salle  en 
etentit;  le  troisiéme  blasphème  d'une  fagon  qui  fait  dreisserles  cheveux 
iir  la  téte;  tous  pàrassient  hors  d'eux  mémes  et  sont  effrayssants  à 
oir  ".  Revue  des  Deux  Mondes,  16  dee.  1907  {Madame,  mere  du 
\egent,  di  Arvcde  Barine):  Probabilmente,  un  mezzo  secolo  dopo,  ai 
empi  del  Goldoni,  i  gentiluomini  si  saranno  condotti  meno  villanamente. 

3\Cel  'Regno  delle  ^^aschere  22 


338 


J 


furiosa,  come  scrive  il  Caprin  (op.  cit.  p.  1 0).  La  "  co 
versazione  "  che  all'uso  francese  penetrava  nelle  città 
d'Italia,  non  si  teneva  soltanto  di  sera;  si  teneva  an- 
che di  giorno,  di  mattina.  Le  signore  ricevevano  fra 
le  dieci  e  il  mezzogiorno,  come  oggi  si  fa  in  qualche 
minuscola  città  del  mezzogiorno  d' Italia,  e  la  "  con- 
versazione "  sarebbe  riuscita  poco  interessante,  se  non 
fosse  stata  accompagnata  dal  giuoco.  In  ogni  salotto 
erano  sempre  pronti  due  tavolini  per  la  bassetta  e  il 
faraone.  Si  giuocava  anche  più  semplicemente  ,  per 
esempio,  a  primiera.  Quest'ultimo  giuoco  era  preferito 
dalle  signore,  le  quali,  giuocando,  non  volevano  smet- 
tere dal  conversare.  Nella  Dama  Prudente,  (Atto  II, 
Se.  XIX),  donna  Redegonda  che  sta  insieme  ad  altre 
dame,  dice  a  don  Roberto:  "  Noi  vogliamo  giuocare  ". 
Don  Roberto  risponde:  "  Servitevi,  siete  padrone:  a 
che  giuoco,  signora,  volete  divertirvi  ?  "  Donna  Rede- 
gonda:  "  A  un  giuoco  facile.  Giuochiamo  a  primiera  ". 

DONNA  EULARIA.  Primiera  è  un  giuoco  d'invito.  Perdonatemi, 
non  mi  par  giuoco  da  conversazione. 

DONNA  REDEG.  A  me  piace  giuocare  a  quei  giuochi,  che  non 
impegnano  l'attenzione.  Voglio  nello  stesso 
tempo  giuocare  e  discorrere. 

DONNA  EMILIA        Dite  bene;  è  un  giuoco  facile  ". 

Era  obbligo ,  per  chi  volesse  aver  fama  di  vita 
elegante,  possedere  nelle  vicinanze  di  San  Marco  un 
appartamentino,  dove  accogliere  gli  amici  e  le  amiche 
"a  conversazione",  vale  a  dire  a  giuocare:  altre  volte 
questi  ritrovi  assumevano  tutte  le  apparenze  di  quelli 


—  339  — 

che  ai  nostri  giorni  sono  i  clubs;  avevano  i  socii  fissi, 
le  cariche  e  servivano,  oltre  che  al  giuoco,  a  pranzi 
e  cene;  altri  erano  quasi  pubblici  ,  accoglievano  in- 
sieme ai  nobili  tutta  la  feccia  dei  trivi...  Anche  le 
dame  tenevano  case  da  giuoco  (1)  "  II  governo,  cre- 
dendo di  riparare  con  la  pubblicità,  che  secondo  lui, 
avrebbe  tolto  gl'inconvenienti  lamentati  nelle  case  pri- 
vate, acconsentì  che  si  aprisse  in  calle  Vallaressa,  il 
famoso  Ridotto  dove  si  continuò  a  giuocare  con  la 
stessa  frenesia  di  prima,  sino  a  che  nel  1774  il  go- 
verno stesso  non  stimò  prudente  di  chiuderlo.  Il  Goldoni 
scrisse  appositamente  contro  la  passione  del  giuoco 
imperante  a  Venezia  il  Qiuocatore,  una  commedia  che 
non  ebbe  esito  felice;  ma  in  altre  commedie  non  tia- 
scurò  di  flagellare  più  o  meno  aspramente  quel  vizio. 
Tutti  ricordano,  nella  bottega  del  Caffé,  il  giuoca- 
tore  Eugenio  non  che  Patrizio,  il  losco  tenitore  della 
bisca. 

Andremmo  per  le  lunghe  se  noi  qui  volessimo  pas- 
sare in  rassegna  tutti  i  vizi,  tutte  le  debolezze,  tutte 
le  manie  più  o  meno  ridicole  che  il  Goldoni  prese 
di  mira  nel  suo  teatro  comico.  Nessun  vizio  nascose, 
nessuna  classe  di  cittadini  risparmiò.  Dei  nobili  punse 
e  spesso  sferzò  la  crassa  ignoranza;  nel  Raggiratore, 
il  conte  Eraclio  è  un  perfetto  asino  ,  ed  essendogli 
stati  presentati  due  brutti  quadri  come  spera  di  Raf- 
faello, egli  lo  crede  ed  aggiunge  : 

"  E  vero,  sono  di  Raffaello  da  Pesaro. 
(I)  Caprln;  op.  clt.   p.    10-11. 


—  340  ^ 
Il  suo  interlocutore  osserva: 

"  D'Urbino  vuol  dire  ..  " 

Ed  il  conte: 

"  Da  Pesaro  ad  Urbino  non  ci  sono  che  poche  miglia  "" 

Un  altro  nobile  ignorante  è  il  conte  Ottavio,  fon- 
datore dell'Accademia  dei  Novelli ,  nella  commedia 
il  Poeta  Fanatico,  come  ugualmente  ignorante  è,  nel 
Torquato  Tasso,  il  conte  del  Fiocco,  che  toscaneggia; 
ne  meno  ignorante  con  l'aggiunta  del  ridicolo  è,  nella 
Fomiglia  dell' Antiquario  y  il  conte  Anselmo.  Sempli- 
cemente ridicoli  sono  poi  altri  nobili,  per  esempio,  il 
cavaliere  di  Ripafratta,  il  marchese  di  Forlimpopoli  e 
il  conte  d*  Albafiorita  nella  Locandiera.  Anche  la  mania 
del  viaggiare  infecondo ,  incosciente  ,  come  se  viag- 
giassero non  persone,  ma  bauli,  dà  occasione  al  Gol- 
doni di  dare  una  tiratina  d'orecchie  ai  nobili,  i  quali 
in  quei  tempi,  a  preferenza  dei  borghesi ,  potevano 
prendersi  quel  gusto.  Il  Cavalier  Giocondo  e  la  pa- 
rodia di  codesti  viaggiatori,  compreso  il  protagonista, 
il  quale,  tutto  sommato,  non  ha  visitato  che  qualche 
città  o  bicocca  della  provincia  in  cui  è  nato.  Nella 
Pamela  Nubile,  sebbene  i  personaggi  sieno  inglesi, 
pure  attraverso  i  nomi  stranieri ,  il  contenuto  è  roba  ; 
paesana.  Neil'  atto  I,  e'  è  una  scena  (la  XVI)  che 
anche  oggi,  mediante  qualche  piccola  modificazione, 
potrebbe  essere  d'attualità.  Vi  è  dipinto    un  giovine 


—  341   — 

signore  che  nei  suoi  viaggi  non  ha  saputo  osservare 
che  il  solo  lato  futile  delle  cose  vedute.  Entra  in 
iscena  il  cavaliere  Ernold;  già  vi  sono  milord  Bonfil 
e  milord  Artur: 

ERN.   Milord  Bonfil,  milord  Artur,  cari  amici. 

BON.  Amico,  siate  il  ben  venuto.  Accomodatevi. 

ART.  Mi  rallegro  vedervi  ritornato  alla  patria. 

ERN.    Mi  ci  vedrete  per  poco. 

ART.  Per  qual  causa  ? 

ERN.  In  Londra  non  ci  posso  più  stare.  Oh,  bella  cosa  il  viaggiare!... 
Oggi  qua,  domani  là.  Vedere  i  magnifici  trattamenti,  le  splen- 
dide corti,  l'abbondanza  delle  merci,  la  quantità  del  popolo, 
la  sontuosità  delle  fabbriche  !  Che  volete  eh'  io  faccia  a  Londra? 

ART.  Londra  non  è  città  che  ceda  facilmente  il  posto  ad  un*  altra. 

ERN.  Eh,  perdonatemi,  non  sapete  nulla.  Non  avete  veduto  Parigi, 
Madrid,  Lisbona,  Vienna,  Roma,  Firenze,  Milano,  Venezia. 
Credetemi,  non  sapete  nulla. 

ART.  Un  viaggiatore  prudente  non  disprezza  mai  il  suo  paese.  Ca- 
valiere, volete  il  thè? 

ERN.  Vi  ringrazio,  ho  bevuto  la  cioccolata.  In  Ispagna  si  beve  della 
cioccolata  preziosa.  Anche  in  Italia  comunemente  si  usa....  A 
Venezia  si  beve  il  caffè  squisito.  Caffè  d'  Alessand  ria  vero  e 
lo  fanno  a  meraviglia;  a  Napoli,  poi  convien  cedere  la  mano 
per  i  sorbetti.  Hanno  dei  sapori  squisiti.  Ogni  città  ha  la  sua 
prerogativa.  Vienna  per  i  trattamenti,  e  Parigi,  oh  il  mio  caro 
Parigi  poi,  per  la  galanteria,  per  l'amore.  Bel  conversar  senza 
sospetti.  Che  bell'amarsi  senza  larve  di  gelosia  ,  sempre  feste, 
sempre  giardini,  sempre  allegrie,  passatempi,  tripudi.  Oh,  che 
bel  mondo... 

BON.  (chiamando)  Ehi? 

ISAC.  Signore   (entrando) 

BON.  Porta  un  bicchier  d'acqua  al  cavaliere, 

ERN.   Perchè  mi  volete  far  portare  dell'acqua  ? 

BON.  Temo  che  il  parlar  tanto  v'abbia  disseccato  la  gola. 


-  342  — 

ERN.   No,  no,  risparmiatevi  questa  briga.  Dacché  son  partito  da  Londra 

ho  imparato  a  parlare. 
BON.  S'impara  più  facilmente  a  parlare  che  a  tacere. 
ERN.   A  parlar  bene  non  s'impara  così  facilmente. 
BON.  Ma  chi  parla  troppo  non  può  parlar  sempre  bene. 
ERN.    Caro  milord,   voi  non  avete  viaggiato. 
BON.   E  voi  mi  fate  perdere  il  desio  di  viaggiare. 
ERN.    Perchè? 
BON.   Perchè  temerei  anch'io  d'acquistare  dei  pregiudizii. 

Se  la  mania  dei  viaggi  affliggeva  i  nobili,  quella 
della  villeggiatura  affliggeva  tutti,  comprese  le  modeste 
famiglie  della  borghesia,  le  quali  per  sfoggiare  abiti  e 
darsi  aria  di  ricchi,  s*  indebitavano  maledettamente. 
Codesta  mania  che  aveva  i  suoi  lati  ridicoli,  il  Gol- 
doni ritrasse  in  tre  commedie  :  le  Smanie  per  la  Vii- 
leggiatura,  la  Villeggiatura  e  il  Ritorno  dalla  Villeg- 
giatura, che  sono  certamente  fra  le  sue  migliori  pro- 
duzioni. 

11  teatro  del  Goldoni,  dove  sfilano  ,  come  nota  il 
Caprin  (1),  quasi  duemila  personaggi,  non  è  sfuggito 
alla  sorte  che  tocca  pur  troppo  a  tanta  parte  della 
produzione  letteraria:  una  parte  di  esso  è  morta  sen- 
za speranza  di  resurrezione.  Ma  ciò  non  costituisce 
un  demerito  pel  fecondo  commediografo  veneziano. 
Altri  scrittori  di  commedie ,  sebbene  collocati  dalla 
pubblica  opinione  in  un  posto  non  meno  alto  di  quello 
assegnato  al  Goldoni,  hanno  visto  perire,  anche  prima 
della  loro  morte,  una  parte    della    loro    opera    senza 

(1)  Op.  cit.  p.  291. 


—  343  — 

che  per  questo  la  loro  fama  ne  soffrisse  ;  altri  non 
sono  passati  alla  posterità  che  con  uno  o  due  lavori 
dei  dieci  o  venti  o  più  da  loro  messi  alla  luce.  Per 
cominciare  da  Plauto  o  da  Terenzio,  quando  il  loro 
culto  fu  ripristinato  col  trionfo  dell'umanesimo,  appena 
tie  o  quattro  delle  loro  commedie  ressero  in  certo 
modo  alla  luce  della  ribalta;  di  Guglielmo  Shakspeare 
non  si  recitano,  in  Inghilterra,  più  di  mezza  dozzina 
di  lavori,  e  assai  meno  fuori,  e  del  Molière  nessuno 
potrà  sostenere  che  il  Mariage  Force  o  V  jlmour  Me- 
dicin  ,  o,  peggio.  Don  Garda  de  Navarre  sia  cono- 
sciuto come  il  Tartuffe  o  il  Mìsantrophe.  Non  par- 
Hamo  ne  di  Lope  de  Vega  ,  ne  del  Calderon  dei 
quali  appena,  a  titolo  di  saggio,  si  recita,  qua  e  là, 
qualche  dramma.  Ne  le  ragioni  di  queste  obblivioni, 
di  questo  dissolversi  di  glorie  che  sembravano  ai  con- 
temporanei eterne,  sono  da  ricercarsi  —  parliamo  sem- 
pre di  teatro  —  nella  povertà  organica  dei  lavori  caduti 
m  dimenticanza;  no.  Il  teatro,  che  è  la  rappresenta- 
zione della  vita,  non  può  fare  a  meno  d' ispirarsi  a 
sentimenti,  a  idee,  a  usi,  o  a  mettere  in  ridicolo  vizi 
o  debolezze  umane,  che  pel  loro  carattere  di  conti- 
genza  non  possono  in  gran  parte  interessare  che  una 
generazione,  e  qualche  volta  nemmeno  ;  passato  il  mo- 
mento dell'  attualità,  il  lavoro  diventa  irriconoscibile, 
assume  T  aria  d*  un  fossile  ;  e  se  qualche  volta  per 
l'eccellenza  della  forma  resiste  alla  lettura,  non  resiste 
mai  all'esperimento  della  scena.  Vi  manca  la  vita  che 
prima  vi  alitava  dentro. 

Della  produzione  teatrale  del  Goldoni,   certamente 


—  344  — 

una  parte  è  morta:  è  morta  senza  speranza  d'essere 
esumata  dal  sepolcro  in  cui  giace ,  quella  parte  che 
sente  troppo  da  vicino  la  presenza  della  commedia 
dell'  arte  ;  è  anche  morta  quell'altra  che  chiameremo 
storica,  sebbene  molto  impropriamente,  come  il  Mo- 
lière, il  Torquato  ^asso,  il  'Terenzio  per  difetto  asso- 
luto di  senso  storico  ;  è  morta  ugualmente  quella  parte 
che  chiameremo  esotica,  come  la  Sposa  Peruviana, 
le  tre  Ir  cane,  perchè  nulla  hanno  di  esotico,  meno  il 
titolo;  è  morta,  infine,  quella  parte  che  sebbene  in- 
formata ai  nuovi  criteri  di  riforma  dell'  autore  ,  pure, 
a  parte  la  povertà  dell'  intreccio,  o  la  fiacchezza  dei 
caratteri  o  della  vis  comica,  se  rappresentata,  non  de- 
sterebbe più  l'interesse  del  pubblico.  Ma  di  fronte 
a  siffatte  produzioni  morte,  quante  non  ne  rimangono 
tuttavia  vive!  Già,  tutte,  o  quasi  tutte  le  commedie 
in  dialetto  veneziano  sono  piene  di  vita  e  bestemmie- 
rebbe  chi  dicesse  che  le  Baruffe  Chiozzote,  i  Quattro 
^usteghi  e  il  Campielo  non  sono  più  rappresentabili. 
E  ugualmente  bestemmierebbe  chi  non  ritenesse  più 
degne  della  ribalta  il  Bugiardo ,  la  Bottega  del 
Caffè,  un  Curioso  Accidente,  la  Locandiera,  il  Ven- 
taglio, gli  Innamorati  e  il  Burbero  Benefico.  Altre 
quattro  o  sei  commedie  meriterebbero  tale  onore,  e 
così  si  vedrebbe  come  del  nostro  Goldoni,  sommato 
tutto,  sarebbe  ancora  vivo  un  numero  di  commedie 
rappresentabili  assai  maggiore  di  quello  che  non  s'abbia 
in  Francia  pel  Molière,  senza  tener  conto  che  a  man- 
tener vivo  il  culto  per  quest'  ultimo  ,  presso  i  suoi 
connazionali,  ha  potentemente  contribuito  la  istituzione 


—  345  — 

d*un  teatro  stabile  (1)  con  repertorio,  in  parte,  clas- 
sico ;  il  che  non  è  avvenuto  fra  noi  pel  Goldoni. 

A  ripristinare  ,  o  se  questa  pcuola  non  sembrasse 
esatta,  a  rinverdire  il  culto  pel  sommo  veneziano , 
gioverebbe  certamente  la  istituzione  in  Italia  d'  un 
teatro  stabile,  di  Stato,  o  sovvenzionato  dallo  Stato, 
una  Casa  di  Qoldoni ,  la  quale  ,  a  somiglianza  della 
Maison  de  ^Jì^olière,  dovrebbe  recitare  non  solo  i  ca- 
polavori del  teatro  italiano,  ma  conservarne  le  tradi- 
zioni, specie  intorno  alla  interpretazione.  Con  ciò  non 
intendiamo  dire  che  l'artista  odierno  interpretando  una 
commedia  del  Goldoni  ,  dovrebbe  recitare  al  modo 
d' uno  dei  comici  della  compagnia  del  Medebac  ; 
sarebbe  un  anacronismo  confinante  col  grottesco  :  ma 
se  la  commedia  goldoniana  è  cosa  tutta  settecentesca, 
egli  è  certo  che  la  sua  interpretazione,  nello  spirito, 
debba  essere  anche  cosa  tutta  settecentesca.  La  sua 
esecuzione  ,  secondo  noi  ,  non  dovrebbe  essere  che 
una  visione  dell'  Italia  dei  tempi  del  Goldoni.  Del 
resto,  i  "  personaggi  goldoniani  "  sono  così  immede- 
simati ai  tempi  e  alla  società  in  cui  l'ha  posto  il  loro 
autore,  che  basterebbe  spostarli  anche  un  pò  dal  loro 
ambiente  naturale  perchè  perdano  ogni  loro  sapore 
ed  originalità.  Ne  queste  Cciratteristiche  si  riscontie- 
rebbero  in  loro  anche  se  gli  uomini  fossero  in  pcir- 
Tucca  ,  in  abito  gallonato  e  in  iscarpette  con  fìbbie  , 
je  le  donne  in  guEu-dinfante  ed  avessero  la  cipria  sui 
capelli  e  i  nei  sul  viso  ;  poiché  tutto  ciò  non  darebbe 

(1)  La  Comedie  Frangaise. 


—  346  — 

loro  che  la  parvenza  —  e  sola  la  parvenza  —  di  perso- 
naggi settecenteschi,  non  lo  spirito,  1*  anima  del  tem- 
po. In  questo  futuro  ed  ideale  nostro  teatro  goldo- 
niano, noi  vorremmo  che  i  personaggi  non  solo  par- 
lassero e  vestissero  come  i  contemporanei  del  Gol- 
doni, ma  vorremmo  pure  che  i  loro  modi  ,  compresi 
i  meno  appariscenti,  fossero  quelli  dei  tempi  rappre- 
sentati e  non  quelli  del  moderno  galateo  ;  che  le  da- 
me, per  esempio,  non  ricevessero  i  cavalieri  nel  modo 
stesso  come  lo  farebbe  una  signora  d'  oggi  di  ritorno 
da  una  gita  a  Parigi  o  a  Londra  ;  vorremmo  ,  par- 
lando sempre  di  dame,  che  al  saluto  cerimonioso  d*un 
cavaliere  rispondessero  con  quelF  arte  che  le  Grade- 
nigo ,  le  Foscari  ,  le  Mocenigo  di  cento  e  cinquanta 
anni  fa  mettevano  in  tutta  la  loro  persona.  Come  tutti 
sanno,  il  modo  di  salutare,  di  parlare,  di  passeggiare, 
di  ricevere,  d*  entrare  in  un  salotto  e  d'  uscirne,  era 
per  una  dama  del  Settecento  tutto  un  poema  sapien- 
tissimo di  cose ,  di  delicatezze  ,  di  riguardi  ,  di  ele- 
ganza. Già  la  riverenza  per  se  stessa  era  un  poema; 
c'erano  riverenze  d'ogni  specie,  per  le  dame  anziane 
e  per  quelle  giovani  ,  per  un  cavaliere  ,  e  per  una 
persona  di  riguardo  :  l' impararle  ed  eseguirle  a  tem- 
po, secondo  le  circostanze,  richiedeva  tempo  non  breve 
e  quel  "  savoir  faire  "  che  non  s'  acquista  in  venti- 
quattro ne  in  quarant'  otto  ore.  La  Francia  non  im- 
poneva allora    soltanto    il  suo  figurino    di    mode  (1), 

(  1  )  A  Venezia  si  esponeva,  nelle  botteghe  di  mode,  in  piazza  San 
Marco,  un  fantoccio  che  indossava  V  abito  di  moda,  ed  era  chiamato 
la  piavola. 


—  347  — 

ma  anche  il  suo  galateo,  il  suo  modo  di  stare  in  con- 
versazione. Le  dame  italiane  della  seconda  metà  del 
Settecento  imitavano  insieme  alle  mode,  gli  usi  e  le 
maniere  delle  dame  della  corte  di  Francia,  una  corte 
modello  ,  dove  ,  sovrani  ,  regnavano  il  buon  gusto  e 
r  eleganza.  Una  signora  francese  dell'  haute  di  quel 
tempo  salutava  —  scriveva  un  testimonio  de  visu  — 
dieci  persone  piegandosi  una  sola  volta  e  dando  con 
la  testa  e  con  lo  sguardo  a  ciascuno  quello  che  gli 
spettava,  cioè,  la  sfumatura  di  riguardi  appropriata  ad 
ogni  varietà  di  stato,  di  considerazione  e  di  nascita. 
Essa  ,  aggiungeva  quello  scrittore  ,  ha  sempre  a  fare 
con  degli  amor  propri  facili  a  irritcìrsi,  di  modo  che 
il  più  leggiero  sbaglio  di  misura  sarebbe  prontamente 
afferrato.  Ma  essa  non  s'  ingannava  mai  ;  essa  aveva 
tatto  e  destrezza  incomparabili,  e  da  buon  pilota  sa- 
peva cavarsi  con  onore  da  tutti  quei  bassifondi ,  da 
tutti  quegli  scogli  più  o  meno  traditori.  Nel  ricevere, 
la  sua  accoglienza  aveva  dei  gradi  infiniti.  "  Ne  ha 
una  per  le  donne  di  qualità,  una  per  le  donne  della 
Corte  ,  una  per  le  donne  titolate  ,  una  per  le  donne 
che  hanno  un  nome  storico  ,  un'  altra  per  le  donne 
d'  una  grande  nascita  personale  ,  ma  unite  ad  un 
marito  inferiore  a  loro  ,  un'  altra  per  le  donne  che 
hanno  cambiato  col  matrimonio  il  loro  nome  comune 
in  un  nome  distinto,  un'altra  ancora  per  le  donne  che 
hanno  un  buon  nome  nella  magistratura ,  un'  altra  fi- 
nalmente per  quelle  il  cui  lustro  principale  e  una  casa 
dispendiosa  e  di  buone  cene  (1).  "    Sempre  quel  te- 

(1)  Taine,  Antico  Regime;  Voi.  I,   lib.   II,  Cap.  2. 


—  348  — 

stimonio  de  visu  :  "  Essa  {la  dama)  sa  esprimere  tutto 
con  la  maniera  delle  sue  riverenze,  maniera  varia  che 
si  estende,  per  sfumature  impercettibili  ,  dall'  accom- 
pagnamento di  una  sola  spalla  ,  che  è  quasi  un'  im- 
pertinenza, fino  a  quella  riverenza  nobile  e  rispettosa 
che  poche  dame  ,  anche  a  corte  ,  sanno  fare  bene  , 
quella  piegatura  lenta,  cogli  occhi  chini,  il  busto  di- 
ritto, ed  il  modo  di  rialzarsi  guardando  allora  mode- 
stamente la  persona  e  gettando  con  grazia  tutto  il  corpo 
all'  indietro  (  1  ).  "La  ineleganza  delle  signore  della 
borghesia,  anzi  la  loro  inettitudine  a  piegarsi  alla  si- 
gnorilità dell*  haute,  ecco  come  è  punzecchiata  in  un 
Vaudeville  del  tempo.  E  il  maestro  di  ballo  che  dà 
la  sua  lezione  ad  una  signorina  : 

"  Fi,  donc,  mademoiselle,  vous  saluez  des  genoux 
comme  une  bourgeoise.  Une  femme  de  condition  salue 
de  la  banche,  de  méme  que  un  petit-maitre  salue  de 
r  epaule,  un  jeune  conseiller  de  la  chevèlure,  un  fi- 
nancier  de  la  main  et  du  ventre,  un  abbé  de  la  téte 
et  des  jeux.  C'est  le  salut  qui  nous  distingue  (2)  ". 

Tutto  in  quella  società  del  secolo  XVIII  armoniz- 
zava; non  era  soltanto  rococò  il  mobilio  dei  salotti  e 
dei  houdoirs  ;  era  anche  rococò  la  gente  che  frequen- 
tava quest'  ultimi.  Ne  soltanto  la  parte  eletta  della 
società  aveva  il  suo  carattere  particolare,  e  nella  in- 
terpretazione della  commedia  goldoniana  si  trascure- 
rebbe uno  dei  caratteri  di    quel  tempo  ,    se  1'  artista 

(1)  Taine;  loc.  clt. 

(2)  Favart,  S*^'  ^ourgeois. 


—  349  — 

riproducendo  un  personaggio  anche  della  borghesia 
non  tenesse  conto  del  così  detto  "  ambiente  ".  Certi 
tipi,  come  quelli  di  Pantalone  o  del  Dottore  Balanzon, 
perderebbero  ogni  sapore  goldoniano  se  fossero  ripro- 
dotti con  la  "  tecnica  "  con  la  quale  recita  un  padre 
nobile  o  un  generico  primario  moderno.  Così  Corallina 
del  Goldoni  non  sarebbe  più  1*  erede  della  "  ser- 
vetta "  o  "  fantesca  "  della  commedia  dell*  arte  se 
fosse  riprodotta  con  la  "  tecnica  "  d*  una  "  femme  de 
chambre  "  del  secolo  XX  ;  Arlecchino,  Brighella  e 
qualche  altra  maschera,  che  sebbene  con  profonde 
modificazioni  pur  furono  conservate  dal  Goldoni  nelle 
sue  commedie  appartenenti  al  ciclo  della  riforma,  per- 
derebbero ogni  loro  originalità  se  si  facessero  rivivere 
sotto  r  abito  del  servitore  moderno.  Ed  ora  si  dica  : 
recitandosi  in  tal  modo  le  commedie  del  Goldoni , 
non  acquisterebbero  esse  una  vera  attrattiva,  evocando 
con  la  precisa,  esatta  riproduzione  dei  costumi,  tante 
deliziose  scene  d'un  mondo,  che  sebbene  scomparso, 
pur  per  quello  che  il  genio  di  Carlo  Goldoni  seppe 
trarne,  si  rannoda  in  tanta  parte  al  mondo  in  cui  vi- 
viamo ? 


CAPITOLO  QUARTO 

L'  Originalità  della  Commedia  Goldoniana. 

j 

Giuseppe  Martucci,  in  un  articolo  stampato  parec-  ! 
chi  anni  fa  sulla  Nuova  Jlntologia  (1),  scriveva  che  • 
se  ad  imitazione  di  quanto  aveva  fatto  in  Francia  il 
Moland  pel  Molière,  qualcuno,  in  Italia,  avesse  potuto 
pazientemente  mettere  in  confronto  il  teatro  del  Gol- 
doni col  materiale  della  commedia  dell'Arte,  che  gia- 
ceva inedito  nelle  nostre  biblioteche,  avrebbe  trovato 
parecchie  attinenze  fra  il  primo  e  quest'ultimo.  In  altri 
termini,  1'  esame  avrebbe  rivelato  più  d'  un  plagio  e 
il  Goldoni  avrebbe  dovuto  restituire  più  d'  una  sua 
commedia  a  qualche  suo  modesto  ed  oscuro  prede- 
cessore. 

Il  Martucci  s' ingannava.  A  sua  scusa  diremo  che 
ai  suoi  tempi  il  materiale  della  commedia  dell'  arte 
era  poco  noto  e  soltanto  dagli  studiosi  erano  conosciute 

(1)  Uno  Scenario  Inedito  della  Commedia  dell'  jl rie  (N.  A.  15 
maggio    1885). 


—  351    — 

due  raccolte  di  soggetti,  quella,  cioè,  dello  Scala,  di- 
venuta, per  altro,  una  rarità  bibliografica,  e  l'altra 
fiorentina  edita  da  Adolfo  Bartoli.  Se  non  che,  quasi 
contemporaneamente  alla  pubblicazione  dell'  articolo 
del  Martucci  sulla  Nuova  Jlntologia,  Albino  Zanatti, 
sulla  l^wista  Critica  della  Letteratura  Italiana  (II,  1 56, 
maggio  1 885)  annunziava  il  ritrovamento  ,  nella  bi- 
bliateca  Corsiniana  di  Roma,  di  cento  Scenari  del  se- 
colo XVII  ;  più  tardi ,  il  De  Simone  Brouwer  ,  sul 
Giornale  Storico  della  Letteratura  italiana  (1891  , 
voi.  XVIII,  p.  277-90)  stampava  due  di  codesti  sce- 
narii  ,  Li  Due  Fratelli  Rivali  e  La  Tr appaiar ia; 
Valeri  (Carletta),  nella  ^Njiova  Rassegna  di  Roma 
(secondo  semestre  del  1 894)  stampava  uno  studio  su- 
gli scenari  di  Basilio  Loccatello  esistenti  nella  Biblio- 
teca Casanatense  e  dei  quali,  sino  allora,  non  si  co- 
noscevano che  i  soli  titoli,  e  non  tutti  esattamente  ri- 
prodotti, mercè  l'opera  di  Leone  Allacci  :  T)ramma' 
turgia  (1).  Inoltre,  due  grossi  volumi  di  Scenari  do- 
nava Benedetto  Croce  alla  Biblioteca  Nazionale  di 
Napoli  e  lo  stesso  Croce  richiamava  l'attenzione  de- 
gli studiosi  sopra  un'altra  raccolta  di  Soggetti  esistente 
nella  Biblioteca  Comunale  di  Perugia.  Non  riuscirà 
poi  inutile  avvertire  che  gli  scenari  corsiniani,  in  gran 
pcirte  ,  per  non  dire  quasi  tutti  ,  non  sono    che  ridu- 

(1)  A  completare  quanto  abbiamo  detto  nel  testo,  aggiungiamo  che 
due  Scenari  furono  pubblicati  dallo  Stoppato  nel  suo  studio  sulla  Com- 
media Popolare  in  Italia  (Padova,  1 887)  ;  che  uno  scenario  {Fla- 
minio disperato)  si  legge  nel  sopra  ricordato  articolo  del  Martucci 
stampato  sulla   Nuova  jlntologia. 


—  352  — 

zioni  degli  Scenari  del  Loccatello.  Per  esempio  ,  le 
Due  '^urchesche  della  raccolta  corsiniana  non  sono  che 
due  scenarii  del  Loccatello;  si  dica  lo  stesso  dei  T)ue 
Fratelli  Rivali  e  deW j^cconcia-SerVe.  Per  quest'  ul- 
timo scenario  vedasi  lo  studio  dello  stesso  Valeri 
(Carletta). 

Ebbene,  noi  abbiamo  potuto  esaminare  tutto  code- 
sto materiale  (  1  )  e  possiamo  affermare  che  dall'esame 
da  noi  fatto  l' originalità  dell'  opera  goldoniana  esce 
senza  macchia. 

Pel  Molière  era  tutt'  altro;  già  si  sapeva  come  il 
guande  commediografo  francese ,  in  materia  di  pro- 
prietà letteraria,  non  avesse  scrupoli.  Egli  rubava  — 
la  parola  è  cruda,  ma  esatta  —  a  man  salva,  a  destra 
e  a  sinistra,  senza  farne  mistero  ,  da  vero  comico  o 
capo-comico,  abituato,  per  ragion  di  mestiere,  a  ri- 
fare i  lavori  che  si  recitano  ,  a  sopprimere  scene  o 
atti,  ad  adattarli  più  o  meno  alle  esigenze  della  scena 
o  del  pubblico.  Era  un  commediografo  che  quasi  sem- 
pre non  si  decideva  mai  a  scrivere  un  lavoro  senza  che 
ne  prendesse  l' idea  da  un  altro.  Uno  studio  compeirato 
era  per  ciò  facile.  Il  Molière,  certamente,  fu  un  genio, 
le  sue  creazioni  portano  tutte  V  impronta  del  suo  spi- 

(  1  )  A  Venezia  esiste  una  raccolta  di  commedie  dell'  arte,  quella 
Correr,  {Qior.  St.  della  Letterat.  It.  XXIX),  ed  abbraccia  51  sog- 
getti. Il  Valeri  nello  studio  da  noi  citato  accenna  ad  altri  soggetti  del 
teatro  a  braccia,  nove  d'  un  manoscritto  della  Vaticano  (fondo  Bar- 
berini) che  noi  non  abbiamo  potuto  esaminare  perchè  il  manoscritto  (giu- 
gno 1913)  era  in  riparazione,  ed  uno  della  stessa  Vaticano,  fondo  Otto- 
boni.  Esaminammo  quest'ultimo,  ma  si  trattava  d'una  selva  di  commedia 
erudita  o  sostenuta  e  non  d'un  vero  scenario. 


—  353  — 

rito  creatore;  ma  quasi  sempre  egli  per  scrivere  una 
commedia  doveva  tener  presente  quella  di  un  altro. 
"  Molière  —  scrive  il  Moland  (  1  )  —  dut  principalent 
aux  Italiens  le  mouvement  de  son  théàtre.  L'action  dra- 
matique  ne  pairait  pas  avoir  été  très-naturelle  à  l'esprit 
fran^ais  qui  a  toujours  été  fort  enclin  aux  discours...  En 
Italie,  au  contraire,  le  mouvement,  V  action  règne  sou- 
verainement  sur  le  théatre...  Aussi  quelle  source  abon- 
dante  de  jeux  de  scène,  de  combinations  ingenieuses, 
de  brusques  et  saissantes  expositions  ils  nous  offrenti... 
Molière  n'eut  garde  de  dédaigner  les  lecons  de  ces 
excellents  praticiéns."  Egli  imitò  non  solo  gl'italiani,  ma 
il  suo  bene — come  egli  stesso  confessava — lo  prendeva 
un  po'  dappertutto!  Il  suo  capolavoro,  Tartuffe,  deriva 
dall'  Ipocrita  di  Pietro  Aretino.  E  anche  una  deri- 
vazione il  T)on  Juan;  il  Molière,  scrivendo  la  sua 
commedia,  ebbe  dinanzi  a  sé  il  Convitato  di  Pietra, 
una  commedia  italiana  dell'  arte  ,  derivata  alla  sua 
volta  dal  teatro  spagnuolo  e  recitata  per  la  prima 
volta  a  Parigi,  nel  1667;  V  Etour  di  ou  les  Contre- 
temps  è  una  imitazione  dell' /naver/r7o  del  comico  Bel- 
trame, cioè  di  Niccolò  Barbieri,  e  quella  parte  che 
vi  aggiunse,  e  che  apparve  farina  del  suo  sacco ,  la 
prese  da  altre  due  commedie  italiane,  l' Emilia,  di 
Luigi  Groto,  e  V  j^ngelica,  di  Fabrizio  de  Fornaris. 
"  11  lui  restait  en  propre  l'art  avec  lequel  il  avait 
su  fondre  ces  elements  divers,  en  conservant  la  verve 
la  plus  franche,  le  trait  le  plus  net  et  le  style  le  plus 

(I)  Op.  cit.  pp.  5-6. 

Nel  Regno  delle  Maschere  23 


-  354  — 

vif  (1)  ".  Il  Dèpit  Amoreux  e  la  riduzione  d*un'al- 
tra  commedia  italiana,  V  Interesse,  di  Niccolò  Secchi, 
il  Medecin  Volani  è  il  Medico  Volante,  commedia  a 
braccia,  e  la  Jalousie  de  Barbouìllè  non  è  che  una 
riduzione  o  un  rifacimento  d*una  farsa  italiana,  come 
il  Coca  Imaginaire  trova  la  sua  origine  nel  Ritratto, 
ovvero  Arlecchino  cornuto  per  opinione,  e  Don  Qar- 
eie  de  Navarre  è  una  riduzione  un  po'  libera  delle 
Gelosie  Fortunate  del  principe  Rodrigo  ,  di  Giacinto  | 
Andrea  Cicognini.  Fortunatamente,  il  Molière  non  sa- 
peva soltanto  appropriarsi  la  roba  altrui,  sapeva  anche 
crccire.  U  Ecole  des  Maris,  le  Précièuses  T^idicules, 
il  Misanthrope  :  V  Ecole  des  femmes,  le  Femmes  sa- 
vantes  non  hanno  precedenti  negli  altri  teatri. 

Il  nostro  Goldoni,  all'  incontro,  non  ebbe    bisogno 
deir  aiuto  degli  altri  per  far  la  sua  strada.  1  suoi  plagi , 
o  prestiti  sono  quasi  insensibili;  la  Sposa  Sagace,  per 
esempio,   è  derivata  dal    ^hilosophe  marie,    del  De- ^ 
stouches,  il  bugiardo  trova  qualche  somiglianza  con 
una  commedia  del  Corneille  e  dell' Alarcon,  il  Padre 
per  Amore  ricorda  Cénie,  della  signora  De  Graffìgny, 
la    ^eraviana    discende    dalle    Lettres    d'  une    Perw 
Vienne  della  stessa  signora  De  Graffigny,  la   Dalma'  , 
tino  dalle  Amazzoni  del  Du  Boccage  (2);  ma  sono  j 
eccezioni  rarissime  in    una  produzione    varia  ,  nume- , 
rosa,  e  non  paragonabile  a    quella  del    Molière,  che 
fu  ristretta. 


(1)  Moland;  op.   clt.  pag.   226-27. 

(2)  Caprln;  op.  cit.  292-93. 


—  355  — 

Generalmente  il  Goldoni,  creando,  non  ricavava  la 
la  sua  ispirazione  che  dal  vero,  dalle  cose  che  lo  cir- 
condavano, dalla  società  in  cui  viveva.  Il  suo  studio 
dal  vero  era  di  prima  mano,  diretto  non  riflesso,  non 
rispecchio  d'altri  studi.  Del  resto,  il  suo  modo  di  com- 
porre non  gli  permetteva  le  scorrerie  nel  campo  de- 
gli altri.  D' ordinario,  era  un  carattere,  al  momento 
che  cominciava  a  scrivere  una  commedia,  che  richia- 
mava la  sua  attenzione  ;  si  studiava,  soprattutto,  di  e- 
saminarlo  da  un  nuovo  punto  di  vista  ,  specie  se  il 
carattere  da  lui  preso  in  esame  era  già  stato  trattato 
da  altri.  Guardi  il  signor  lettore  il  carattere  dell'  a- 
varo.  Il  Goldoni  era  stato  preceduto  nella  riprodu- 
zione di  codesto  carattere  da  molti  e  molti  commedio- 
grafi con  Plauto  e  il  Molière  alla  testa;  le  commedie 
dell'  arte  non  avevano,  generalmente,  che  vecchi  a- 
vari;  vecchi  avari  avevano  le  commedie  sostenute  o 
scritte,  comprese  quelle  del  Fagiuoli  che  nella  prima 
giovinezza  del  Goldoni  ebbero  in  Italia  molta  noto- 
rietà; ma  era  sempre  l' a vsu'o  comune,  volgare,  custode 
sospettoso  del  tesoro,  come  in  Plauto ,  della  cassetta 
preziosa  come  in  Molière,  spilorcio,  sudicio,  che  vi- 
veva d'  aria  e  d' acqua  fresca,  sempre  contrario  al  ma- 
matrimonio  della  figlia  per  non  metter  fuori  i  danari 
della  dote  :  ma  ecco  il  Goldoni  ;  egli  prende  l' avaro 
a  protagonista  di  ben  sue  tre  commedie,  e  mai  ricalca 
le  orme  degli  altri.  Se  qualche  volta,  nella  riprodu- 
zione del  carattere  dell'avaro,  si  ricorda  di  Plauto  e 
del  Molière,  fu  in  qualche  macchietta,  come  nell'O/- 
iavio  del    Vero  Jlmico. 


—  356  - 

Con  siffatto  metodo  le  imitazioni  o  i  rifacimenti  non 
erano  possibili.  Il  Goldoni  cercava  del  nuovo,  sempre 
del  nuovo;  ne  il  ritrovarlo  gli  era  diffìcile  :  bastava 
cercarlo  intorno  a  se,  poiché  soltanto  coloro  che  non 
si  vogliono  dare  questa  briga  sono  costretti  a  cercarlo 
nei  libri  degli  altri  e  a  spacciare  per  nuovo  ciò  che 
è  vecchio.  S'aggiunga,  che  il  Goldoni,  così  innamo- 
rato della  commedia  di  carattere,  in  quella  a  soggetto 
nulla  o  quasi  poteva  rinvenire  che  potesse  fare  al  suo 
caso:  il  teatro  comico  improvviso  non  aveva  caratteri  nel 
vero  significato  della  parola,  ma  tipi  fìssi,  cristallizzati 
nelle  maschere,  ed  egli  per  popolare  la  scena  cercava 
persone  vive,  di  sangue  e  carne,  non  mummie  o  ma- 
nechini. 

Si  sa  che  quando  il  grande  commediografo  vene- 
ziano non  prendeva  un  carattere  per  protagonista  del 
suo  lavoro,  riproduceva  un  ambiente.  Commedie  d'am- 
biente, prima  di  lui,  non  esistevano,  o  per  lo  meno 
il  teatro  comico  a  soggetto  non  ne  conosceva.  La 
commedia  dell'arte,  come  in  gran  parte  quella  soste- 
nuta, non  riproduceva  che  una  società  convenzionale, 
che  un  po'  alla  volta  s'  era  andata  formando  sulla 
scena:  gli  usi,  i  costumi  non  erano  che  usi  e  costumi  f 
di  convenzione,  come  di  convenzione  era  fin'  anco  il 
luogo  dell'  azione.  Erano  fiorentini,  o  romani  i  perso- 
naggi che  si  presentavano  sulla  scena?  Spesse  volte^ 
certamente,  lo  erano  pel  linguaggio  che  adoperavano; 
ma  non  lo  erano  affatto  per  tutto  il  resto  ;  e  la  prova 
si  ricava  da  questo  ;  più  d' una  volta  lo  scrittore  o  il 
comico  cambiava  il   luo^o    dell'  azione,    si    sostituiva^ 


—  357  - 

per  esempio ,  Milano  a  Roma  o  a  Firenze  ,  senza 
che  siffatto  cambiamento  influisse  per  nulla  suH'  anda- 
mento dell'azione.  Si  potrebbe  aggiungere  che  tutto 
o  quasi  tutto  il  teatro  comico  improvviso  non  rappre- 
sentava che  una  società  perfettamente  ideale  non  ri- 
levando da  quella  reale  che  poche  linee  schematiche, 
generali.  Tutti  quei  Lelii  ,  tutti  quegli  Orazi  ,  tutte 
quelle  Isabelle,  tutte  quelle  Flaminie  potevano  essere 
ugualmente  cresciute  a  Milano  o  a  Bologna;  di  carat- 
teristico, di  particolare,  non  avevano  nulla. 

C  è  una  commedia  del  Goldoni,  la  Putta  Ono- 
rata, la  quale  prova  come  anche  scegliendo  per  punto 
di  partenza  una  commedia  a  soggetto,  il  nostro  scrit- 
tore sapesse  dare  all'  opera  sua  l'impronta  dell'origi- 
nalità. La  Putta  Onorata,  come  egli  ricorda  nella  Memo- 
rie, gli  fu  ispirata  da  una  commedia  a  soggetto  molto 
triviale,  e  il  cui  fondo  è  passato  in  quella  del  vene- 
ziano e  si  tratta,  come  in  centinaia  di  commedie  del- 
l' arte,  dello  scombio  di  due  bambini;  ma  nella  Putta 
del  Goldoni  lo  scambio  del  figlio  di  Pantalone  con 
quello  del  gondoliere  Menego  Cainello  se  serve  ad 
alimentare  l'azione,  non  è  la  commedia.  Questa,  seb- 
bene sia  di  carattere  nei  rapporti  di  Bettina,  la  pro- 
tagonista, è  d'  ambiente  :  il  Goldoni  volle  ritrarvi  la 
vita  dei  barcaiuoli  veneziani  così  caretteristica  ,  così 
vivace,  così  pittoresca.  Non  la  studiò  punto  nella  com- 
media degli  altri,  ma  dal  vero ,  e  la  riprodusse  con 
tale  esattezza,  con  tale  brio,  che  quelle  scene  pos- 
sono prender  posto  accanto  a  quelle  famose  delle  Ba- 
ruffe Chiozzotte. 


—  358  - 

Nella  stessa  commedia  noi  troviamo  una  di  quelle 
rare  sopravvivenze  della  commedia  dell'arte  ,  che  il 
Goldoni,  prima  di  mettersi  arditamente  sulla  via  della 
riforma,  sino  ad  un  certo  punto  rispettò  :  vogliamo 
parlare  delle  chiusette;  ma  anche  qui  volle  essere  lui, 
Goldoni,  e  non  uno  dei  soliti  autori  del  teatro  a  sog- 
getto. La  chiusetta,  nella  commedia  dell'  arte,  non  era 
che  una  specie  di  coda  in  versi  ad  un  discorso,  come 
le  cabalatte  nei  melodrammi  di  vecchio  stampo  ;  al- 
l' incontro,  nella  Putta  Onorata^  essa  s' immedesima  al 
discorso.  Bettina  amoreggia,  dalla  finestra  ,  con  Pa- 
squalino; questi  però  si  stanca  a  scambiar  parole  d'a- 
more dalla  strada  e  vorrebbe  salire  in  casa  della  gio- 
vane; ma  Bettina,  che  è  onesta,  non  acconsente;  sarebbe 
troppo  presto  ;  prima  un  impegno  formale,  poi  si  ve- 
drebbe. 

BETTINA.  Vegnirè  co  sarà  so  tempo.  No  vogio  far  come  ha  fata 
tante  altre.  Le  ha  tira  in  casa  i  morosi,  i  morosi  s'ha  de- 
sgustà  e  eie  le  ha  perso  el  credito.  Me  aricordo,  che 
me  diseva  mia  mare  povereta: 

Pute  da  maridar,  prudenza  e  inzegno  ; 
No  stè  a  tirar  i  moroseti  in  casa. 
Perchè  i  ve  impianta  al  fin  con  bela  rasa, 
E  pò  i  ve  lassa  qualche  bruto  segno. 

Nella  stessa  commedia,  Bettina  riceve  una  proposta 
disonesta  dal  marchese  Ottavio  e  risponde  : 

BETTINA.  El  ghe  ha  muggier,  e  el  vien  in  casa  d' una  puta  da  ben, 
e  onorata  ?  Chi  credelo  che  fia  ?  Qualchieduna  de  quel 
del  tempo  ?  Semo  a  Venezia,  sala.  A  Venezia  gha  xé  del 


—  359  - 

bagolo  {passatempo)  per  chi  Io  voi,  ma  se  va  sul  Liston 
in  Piazza ,  sé  va  dove  ghe  xè  le  zelosie  e  i  cussini  sul 
balcon,  o  veramente,  da  quele,  che  sta  su  la  porte;  ma 
inte  le  case  onorate  a  Venezia  no  se  va  a  bater  da  le 
pute  co  sta  facilitae...  Le  pute  veneziane  le  xè  vistose, 
e  matazze ,  ma  in  materia  d'onor  dirò  come  dise  quelo  : 

Le  pute  veneziane  xe  un  tesoro, 
Che  no,  se  acquista  cusì  facilmente. 
Perchè  le  xè  onorate  come  l' oro  ; 
E  chi  le  voi  far  zoso  non  fa  gnente, 
Roma  vanta  per  gloria  una  Lugrezia. 
Chi  voi  prova  d'onore  venga  a  Venezia. 

In  tal  modo  il  Goldoni  ,  anche  tenendo  gli  occhi 
al  passato,  sapeva  mantenersi  originale.  Che  di  più? 
Anche  quando  nello  stesso  soggetto  preso  da  lui  a 
trattare  avrebbe  potuto  trovare  una  scusa  per  seguire 
una  via  già  battuta,  si  tenne  lontano  dall*  imitazione. 
Il  D.  Giovanni  Tenario,  sebbene  scritto  quando  egli  an- 
cora non  era  che  alle  sue  prime  armi,  e  la  sua  mente 
ondeggiava  tra  il  vecchio  repertorio  e  le  idee  di  ri- 
forma, ce  ne  porge  un  esempio.  Come  si  sa,  tutti  i 
commediografi  che  avevano  trattato  quel  soggetto  ave- 
vano fatto  del  famoso  convito  la  scena  principale  dei 
loro  lavori  :  il  Goldoni,  pur  sapendo  che  la  sua  com- 
media avrebbe  perduta  una  grande  attrattiva,  rinunziò 
al  banchetto  lasciando  la  statua  del  Commendatore  al 
suo  posto. 

Vogliamo  ripeterlo  anche  a  costo  di  riuscir  noiosi: 
il  Goldoni,  meno  pochissime  volte,  fu  originale,  sem- 
pre originale;  caratteri,  macchiette,  intrecci,  situazioni, 


—  360  — 

tutto  nel  suo  teatro  porta  Y  impronta  dell' originalità, 
dello  studio  diretto  dal  vero.  Egli,  nella  riproduzione 
dei  caratteri,  non  arrivò  forse  al  fare  scultorio  del  Mo- 
lière; ma  nessuno  lo  potrà  mai  collocare  fra  i  pla- 
giari, non  importa  se  anche  di  genio. 


CAPITOLO  QUINTO 

Un  risveglio  della  Commedia  dell'arte 


Il  Goldoni  aveva  insediato  la  "  nuova  commedia  " 
sulle  scene  senza  combattere  grosse  battaglie.  Le  "  se- 
dici commedie  nuove  "  da  lui  promesse  al  pubblico 
veneziano  nel  febbraio  del  1 750  furono  quasi  tutte 
accolte  trionfalmente.  Se  non  che,  quando  la  riforma 
così  arditamente  iniziata  sembrava  già  entrata  in  porto 
e  la  vecchia  commedia  a  soggetto  sembrava  scesa  nel 
sepolcro,  ecco  che  dalla  stessa  città  in  cui  la  riforma 
aveva  fatto  i  suoi  primi  passi,  sorgere  una  voce  per 
protestare  contro  V  affrettata  tumulazione  della  com- 
media improvvisa.  Si  diceva  che  si  fosse  tumulato 
non  un  cadavere,  ma  una  persona  viva,  poiché  la  com- 
media a  braccia,  o  improvvisa,  non  era  mai  morta, 
ne  aveva  mai  avuto  voglia  di  morire.  Si  mettono  forse 
nel  cataletto  e  s'  aspergono  d'acqua  benedetta  le  per- 
sone sane,  fiorenti  di   giovinezza? 

Quel  grido  si  sarebbe  prestamente  disperso  fra  gli 
applausi  che  si  prodigavano  dai  veneziani  al  loro  con- 


—  362  — 

cittadino,  al  quale  già  si  dava  il  titolo  di  "  Molière 
redivivo  ",  se  fosse  stato  emesso  dai  soliti  critici  di 
corto  intelletto;  esso  però  era  stato  emesso  da  un  uomo 
dotato  d*un  ingegno  poderoso,  sebbene  strano,  biz- 
zarro. Abbiamo  fatto  il  nome  di  Carlo  Gozzi;  e  per 
un  istante  la  riforma  goldoniona  vacillò.  Le  maschere 
ritornarono  a  godere  la  simpatia  del  pubblico. 

Di  codesto  episodio  della  riforma  del  teatro  comico 
italiano  s*  è  voluto  fare  un  grosso  avvenimento,  specie 
in  questi  ultimi  tempi  in  cui  la  storia  divenendo  sem-  [ 
pre  più  anedottica,  un  semplice  fatto  di  cronaca  as- 
sume tutta  r  importanza  d*  una  pagina  d*  epopea.  Forse 
nemmeno  oggi  avrebbe  oltrepassato  i  limiti  d'un  in- 
crescioso episodio  della  vita  del  Goldoni,  se  all'alba 
del  romanticismo,  che  doveva  imperare  in  Italia  per 
oltre  mezzo  secolo,  due  tedeschi ,  i  fratelli  Federico 
e  Guglielmo  Schlegel,  che  di  quel  movimento  let- 
terario furono  in  Germania  i  pontefici  massimi,  non 
avessero  rilasciato  a  Carlo  Gozzi  le  patenti  non  ri- 
chieste di  genio  (I).  Certamente  il  teatro  fiabesco  del 
Gozzi  racchiude  dei  pregi,  segnatamente  in  ordine  alla 
fantasia;  ma  le  soverchie  lodi  prodigategli    dai  critici 

(1)   In  Germania  il  Gozzi  ebbe  fortuna.  Laggiù,  forse  perchè  gl'in- 
gegni cercavano  di  liberarsi  dall'imitazione  della  letteratura  francese,  tutta 
accademica,  trovavano  originale  ciò  che  era  fantastico,  ingenuo  ciò  che 
era  rozzo,  primitivo,  e  quindi  il  teatro  fiabesco   del    conte    veneziano 
ebbe  ammiratori,  anche  dopo  che  in    Italia  non  ne  aveva  più  alcuno.  [ 
Le  fiabe  del  Gozzi  apparvero  tradotte  in  tedesco  dal   1777  al  1 779,  ! 
a  Berna.  Federico  Schlegel,  nel  1  797,  poneva  il  Gozzi  accanto  a  Shak-  { 
speare;  Lodovico  Tieck  lo  imitava  in  una  sua  fiaba;  lo  Schiller  ridu*-  j 


—  363  — 

tedeschi  e  la  traduzione  che  lo  Schiller  fece  della  Tw 
randoty  sebbene  abbiano  messo  gl'italiani  sulla  via  di 
rileggerlo  e  di  studiarlo,  pure  non  hanno  invogliato 
quest'ultimi  a  collocare  il  Gozzi  fra  i  grandi  uomini. 
Per  loro  resta  sempre  uno  scrittore  pieno  di  fantasia, 
bizzarro,  battagliero,  e  nulla  più.  Quelle  sue  Fiabe  non 
costituiscono  che  un  genere  letterario,  che  se  può  sino 
a  un  certo  punto  stuzzicare  la  curiosità  dello  studioso, 
non  può  giungere  all'altezza  del  capolavoro.  Se  non 
che,  a  noi  sembra  che  discorrendo  i  critici  della  guerra 
fatta  dal  Gozzi  al  Goldoni  si  sieno  scambiati  i  ter- 
mini della  questione  :  ed  invero  non  si  tratta  di  co- 
noscere se  Carlo  Gozzi  sia  stato  uomo  d'ingegno 
straordinario  oppure  comune,  se  le  sue  Fiabe  meritino 
r  oblio  o  r  ammirazione  degli  italiani,  ma  sibbene  se 
la  guerra  mossa  dal  conte  veneziano  al  suo  fortunato 
rivale  corrisponda  al  programma  che  lo  stesso  Gozzi 
tracciò  nello  scendere  nell'cu^ena,  cioè,  se  realmente 
la  commedia  dell'  arte,  di  cui  il  Gozzi  sposò  la  causa, 
conservasse  ancora  con  la  rappresentcìzione  delle  Fiabe 
tali  elementi  di  vitalità  da  farla  ritenere,  dopo  la  ri- 
forma goldoniana,  anziché  morta,  viva. 

Posta  così  la  questione,  essa  si  riduce  a  cosa  assai 
meschina;  imperocché,  basta  mettere  le  Fiabe  del  Gozzi 
a  riscontro  del  vecchio  repertorio  della  commedia  del- 

ceva  Turandot  pel  teatro  di  Weimar;  infine,  F.  G.  Schlegel  nel  suo 
Corso  di  Letteratura  Drammatica,  dando  1*  imbeccata  ai  romantici  te- 
deschi ed  italiani,  collocò  il  Gozzi  in  un  posto  dove  tedeschi  ed  italiani, 
oggi,  difficilmente  lo  riporrebbero.  Ved.  per  maggiori  notizie  :  Le  Fiabe 
di  Carlo  Gozzi  procedute  da  uno  studio  di  E.  Masi.  Bologna,    1885. 


—  364  — 

l'arte  per  persuadersi  come  si  tratti  non  di  un  ritorno 
air  antico,  come  voleva  Niccolò  Machiavelli  si  facesse 
per  le  vecchie  istituzioni  deviate  dalle  loro  origini , 
ma  d'  un  nuovo  genere  di  spettacolo,  sebbene  a  com- 
porre quest*  ultimo  concorressero  parecchi  ingredienti 
dell'  antica  commedia  ,  specie  le  maschere.  L'  opera 
del  Gozzi,  si  sa,  ebbe  dapprima  intendimenti  più  di 
battaglia  e  di  satira  che  d'  cu-te  :  il  conte  veneziano 
volle  provare  contro  1'  avvocato-commediografo  suo 
avversario  che  bastava  anche  la  favola  più  sciocca  , 
più  infantile,  ma  fantasiosamente  svolta,  perchè  il  pub- 
blico corresse  a  teatro  e  fosse  prodigo  di  quegli  stessi 
applausi ,  che  sino  allora  avevano  accolto  il  Goldoni 
per  la  sua  riforma.  Egli  seppe  abilmente  approfittare 
del  malcontento  che  la  stessa  riforma  aveva  gettato  , 
con  l'abolizione  delle  maschere  e  del  dire  improv- 
viso, nelle  file  dei  comici,  per  far  concorrere  codesti 
frondeurs  all'  opera  sua  ;  ed  ottenne  realmente  un 
grande  successo.  Ma  1'  Amore  delle  tre  melarance  , 
che  fu  la  prima  fiaba  fatta  recitare  dal  Gozzi,  se  nella 
sua  struttura  è  una  commedia  deli'  arte,  poiché  l'au- 
tore non  scrisse  che  il  solo  Scenario,  e  qualche  cosa 
di  simile  ad  una  narrazione  del  soggetto,  nel  suo  con- 
tenuto si  discosta  in  modo  assoluto  dalla  vecchia  com- 
media a  braccia  quale  fu  consacrata  dalla  tradizione 
italiana.  Non  si  tratta  più  della  nipote  o  pronipote  del 
teatro  di  Plauto  e  di  Terenzio  che  un  successo  di 
oltre  due  secoli  aveva  reso  celebre  sui  teatri  d'Italia 
e  d'oltralpi,  ma  d' un  genere  teatrale  che  quasi  nulla 
aveva  di  comune  col  vecchio  spettacolo.  La   fantasia 


—  3Ó5  — 

più  sfrenata,  sorella  d'  quella  dell'Ariosto,  vi  regnava. 
Altro  che  vita  reale  nelle  fiabe  de!  Gozzi  !  Sicuro,  e'  e 
Pantalone,  e'  e  Brighella,  e'  è  Tartaglia,  e'  è  Truffal- 
dino, tutte  maschere  della  commedia  improvvisa,  che 
parlano  veneziano  o  bergamasco,  ma  l'argomento  è  una 
fiaba,  una  féerie.  La  satira  personale,  come  nelle  com- 
medie d'  Aristofane  ,  scoppietta  qua  e  là  investendo 
in  pieno  petto,  insieme  ad  altri,  il  Goldoni,  il  grande 
trionfatore  di  quel  tempo  ;  ma  se  questo  poteva  ren- 
dere più  gustosa  la  commedia  e  procurare  lo  straor- 
dinario concorso  del  pubblico  ,  che  s'  appassionava 
grandemente  alla  lotta  fra  i  due  commediografi ,  non 
c'era  però  ne  vis  comica,  ne  creazione  di  caratteri,  ne 
riproduzione  d'  ambiente  ,  ne  analisi  di  passioni.  La 
commedia  dell'  cirte,  materialmente ,  esisteva  sempre  , 
perchè  nell'  Jlmore  delle  tre  melarance  lo  scrittore 
non  forniva  ai  comici  che  il  solo  canovaccio  ,  ma  il 
contenuto  non  l'avrebbero  riconosciuto  per  proprio  ne 
i  Flamini  Scala,  ne  i  Biancolelli,  ne  gli  infiniti  au- 
tori dei  Soggetti  o  Scenari  dell'  antica  commedia.  Si 
viveva,  nel  teatro  fiabesco  del  Gozzi,  non  in  quella 
certa  vita  comica  come  era  stata  foggiata  dalla  tradi- 
zione, ma  come  in  un  sogno,  come  in  un  mondo  fan- 
tastico. 

Del  resto  ,  il  Gozzi  riteneva    che   la    riproduzione 
i  sulla  scena  della  vita  popolare  ,    come  aveva  fatto  il 
I Goldoni  nella  'Putta  Onorata,  nel  Campielo,  neWe  Ba- 
ruffe Chiozzotte ,  nelle  Massere  ,  fosse  cosa  anti-arti- 
stica,  anti-teatrale.   Per  lui  le  commedie  popolari  del 
Goldoni,  veri  capolavori,  erano  cose  plebee  e  lo  di- 


—  366  — 

chiara  espressamente  nel  breve  commento  al  urologo 
delle  Tre  Melarance.  Egli  era  un  aristocratico ,  un 
conservatore  della  più  beli'  acqua,  e  sebbene  fosse 
non  meno  spiantato  di  suo  fratello  Gaspare,  pure  te- 
meva d' insudiciare  il  suo  abito  gallonato  di  conte  al 
contatto  della  plebe  della  sua  città.  La  plebe,  se  la 
tollerava  in  piazza,  non  l'ammetteva  sulla  scena.  In 
sostanza,  il  suo  teatro  ,  anziché  una  fedele  rappre- 
sentazione della  vita  ,  era  un'  aberrazione.  Ne  ,  sino 
a  certo  punto  ,  potrebbe  dirsi  che  fosse  nuovo.  Le 
sue  origini,  senza  rimontare  a  spettacoli  di  tempi 
molto  remoti,  possono  trovarsi  nel  teatro  francese  dei 
primi  anni  del  secolo  XVIII ,  dopo  1'  espulsione  dei 
comici  italiani  da  Parigi.  Vivevano  quivi,  un  pò  nel-- 
l'ombra,  alcuni  teatri  popolari,  i  thèàtres  de  la  Foire  (1), 
ai  quali ,  in  vista  del  privilegio  goduto  dal  Théàtre 
FrancaiSy  cioè  ,  la  maggior  scena  della  Francia  ,  era 
interdetto  di  recitare  lavori  teatrali,  meno  il  monolo- 
go. Stretti  quei  comici  in  questo  letto  di  Procuste  , 
s'ingegnarono  di  trarne  alla  meglio  profìtto,  e  non  po- 
tendo fare  agire  due  personaggi  alla  volta  sulla  scena, 
ne  introdussero  un  secondo  muto.  Era  anche  loro  in- 
terdetto, sempre  per  quel  famoso  privilegio,  di  can- 
tare dei  coupletSy  ma  essi  li  fecero  cantare  dagli  spet- 
tari,  fra  i  quali  qualcuno  ,  appositamente  addestrato  , 
dava  la  prima  nota,  mentre  l'orchestra  accompagnava 
il  canto.  Quest'  ultima  innovazione    si  eseguiva  così  ; 


(1)  Bernardin,  La  Comedie  Italienne  et  le  '^hèàtre  de  la  Foire;  , 
Paris,  ed.  della  T^euue  ^leu,   1902. 


—  367  — 


scendevano  dall'alto,  sulla  scena,  due  piccoli  amori, 
i  quali  spiegavano  un  cartello    dove  a  grandi    lettere 
stava  trascritto  il  couplet  ed  indicato  il  motivo  popo- 
lare sul  quale  doveva  cantarsi  lo  stesso  couplet;  indi, 
tre  o  quattro  suonatori  davano  principio    al  motivo  e 
gli  spettatori  cantavano.  Il  primo  tentativo  fu  coronato 
da  un  lieto  successo  ,    e  a  malgrado  delle  ordinanze 
e  degli  uscieri,    ai  quali  ricorrevano    i    signori  della 
Maison  de  Molière  per  mantenere  integro  il  loro  pri- 
vilegio e  delle  cause  che  ne  seguivano,   crebbe  l'ar- 
dimento dei  comici  dei  teatri  della  Foire.  Delle  vere 
produzioni  teatrali  scritte  dai  migliori    autori    francesi 
del  tempo,  diedero  importanza  artistica  a  quei  teatri, 
e  le  maschere  italiane  cacciate  dall'  Hotel  Bourgogne, 
sotto  vesti  francesi,  trovarono  ospitalità  nei  nuovi  77?ea- 
tres  de  la  Foire  costruiti  appositamente  nei  luoghi  stessi 
dove  prima  non  esistevano  che  povere  baracche.  In- 
fine ,  arrivarono  quei  comici  ad  ottenere    il  permesso 
del  dialogo  e  del  couplet-,  e  così  gli  écriteaux  coi  re- 
lativi Amorini,  che  scendevano  dell'alto,  scomparvero, 
come  pure  scomparvero  i  libretti  che  si  distribuivano' 
perchè  gli  spettatori  potessero  avere  sott'occhio  i  cow 
plets  che  si    cantavano.  Lo    spettacolo    divenne    così 
più  interessante,  più  vario.   Il  Bernardin  si  occupa  di 
questo  nuovo  teatro  comico,  dal  quale  poi  derivarono 
il  monologo,  il  vaudeville,  V opera-comique,  la  revue,  la 
féerie  e...  le  fiabe  del  Gozzi.   Un    brevissimo    esame 
Ji  qualcuna  delle    pieces  del    repertorio  dei  teatri  di 
^oire  ci  metterà  al  corrente  del  contenuto  delle  stesse 
'^ièces. 


—  368  — 

Una  di  codeste  commedie  recitate  sui  teatri  di  Foire 
è  del  Le  Sage:  Arlequin  roi  de  Serendih.  Nonostante 
il  nome  della  maschera  italiana  ,  la  commedia  del- 
l' arte,  la  commedia  di  Flaminio  Scala  non  e*  entra 
per  nulla.  La  commedia  del  Le  Sage  è  una  parodia 
dell'  Iphigenie  en  Tauride  di  Duchet  e  Sauchet.  L'a- 
zione si  finge  in  Serendib,  un'  isola  misterinsa  ,  e  la 
scena,  all'  alzarsi  del  sipario,  rappresenta  una  riva  de- 
serta. Il  mare  è  in  tempesta;  un  legno  naufraga,  ed 
Arlecchino,  salvandosi  a  nuoto,  tocca  la  terra.  Egli 
ha  con  se  una  grossa  borsa  piena  di  zecchini,  se  non 
che,  tre  briganti,  l' uno  dopo  l'altro,  e  tutti  e  tre  di- 
versamente camuffati,  lo  costringono,  armata  mano,  ai 
consegnare  loro  il  denaro.  Arlecchino  strilla,  protesta, 
piange;  i  ladri  decidono  d' ucciderlo,  ma  uno  di  loro 
s'intenerisce  della  sorte  di  quel  disgraziato  e  gli  fa 
salva  la  vita;  perchè  non  fugga,  lo  chiudono  in  una 
botte  vuota.  Arlecchino  piange  ancora;  un  lupo  affa- 
mato accorre,  fiuta  la  carne  fresca  e  con  le  zanne 
cerca  di  sfondare  la  botte;  ma  Arlecchino  da  una 
fessura  di  questa  afferra  la  coda  del  lupo,  il  quale, 
sentendosela  stringere  cerca  di  darsela  a  gambe:  Ar- 
lecchino tira  ancora;  la  coda  del  lupo  gli  resta  fra  le 
mani,  la  botte  si  sfascia  e  mentre  1'  animale  fugge  de 
un  lato,  Arlecchino  si  salva  dall'  altro. 

A  Serendib,  intanto,  esiste  l'uso  che  lo  straniere 
che  vi  sbarca  deve  essere  eletto  re  per  un  mese.  Ar 
lecchino  non  può  sfuggire  a  questo  onore.  Accolte 
trionfalmente,  è  condotto  al  palazzo  reale ,  dove ,  il 
mezzo  ad  una  magnificenza  straordinaria,  riceve  la  co^ 


-  369  — 

rona.  Ma  non  e*  è  gaudio  senza  dolore;  il  nuovo  re 
apprende  che  dopo  il  mese  di  regno  voluto  dall'uso, 
questo  vuole  che  il  nuovo  re  o  monarca  sia  immolato 
dalla  grande  sacerdotessa  al  Dio  del  paese,  Kesaya. 
La  grande  sacerdotessa  è  Mezzettino,  un'  altra  ma- 
schera italiana,  e  il  suo  confidente  è  un'altra  maschera 
ma  francese;  Pierrot  :  il  sacrificio  è  imminente;  Mez- 
zettino, vestito  da  sacerdotessa  di  Kesaya,  imbrandi- 
sce il  pugnale  e  prima  d'immergerlo  nel  seno  della 
vittima,  domanda  ad  Arlecchino  il  nome  del  suo 
paese.    L'ex  re  gli  risponde: 

"  C  est  à  Bergame,  hélas  !  en  Italie 

Que  une  tripiére  en  ses  flancs  m*a  porte. 

II  pugnale  cade  di  mano  a  Mezzettino,  il  quale  ri- 
conosce nell'ex-sovrano  il  suo  famoso  compatriotta  Ar- 
lecchino :  tutti  e  tre  (perchè  anche  Pierrot  è  della 
partita)  s'abbracciano  ,  rinunziano  al  sagrificio  e  sva- 
ligiano il  tempio  ;  ma  quando  stanno  per  mettere  le 
mani  su  Kesaya,  il  dio  di  quel  paese,  il  tempio  co- 
mincia a  crollare.   I  tre  amici  si  mettono  in  salvo. 

Nel  Monde  Renversè,  dello    stesso  Le  Sage  ,  noi 
siamo  nel  regno  del  Mago   Merlino,  dove  tutto  suc- 
cede a  rovescio  di  quello    che    succede    nei    mondi 
:onosciuti:  ivi  arrivano  Arlecchino  e  Pierrot,  i  quali 
estano  sorpresi  di  trovarvi  procuratori    onesti ,    petits 
naitres  austeri,  discreti  e  sobri  ,  filosofi    pazzarelloni , 
ìttrici  pudiche,  comici  modesti,  e  mariti    fedeli.  Ar- 
ecchino  ,    domanda    subito  se  la    bestia    marito-cocu 
iva  anche  in  quello  strano  paese,  ma  nessuno  com- 

Nel  Regno  delle  Maschere  24 


I 


—  370  — 

prende  la  natura  di  quell'animale,  ed  Arlecchino  s'af- 
fretta a  spiegare  che  quella  bestia  è  d'origine  europea 
ed  aggiunge  :  "  Le  cocu  est  le  contraire  du  coq.  Le 
coq  a  plus  d' une  poule  et  la  femme  d'  un  coq  est 
une  poule  qui  a  plus  d'  un  coq.  "  In  un'  altra  com- 
media, le  Eaux  de  Merlin,  Arlecchino  e  Mezzettino 
s' imbattono,  nella  foresta  delle  Ardennes  ,  nel  mago 
Merlino  che  rivela  loro  le  virtù  meravigliose  di  due 
fontane  colà  esistenti  : 

"  De  ces  eaux  une  goutte  cu  deux 
Guérissent  un  homme  hamoureux; 
L' amour  méme  se  change  en  haine, 
Mais  l'eau  de  cette  autre  fontaine 
Fait  un  effet  bien  diffèrent: 
Dés  qu'on  en  boit  on  seint  son  àme 
S'  enflemmer  d'une  vive  ardeur  ". 

Arlecchino  e  Mezzettino  decidono  di  stabilirsi  nel 
paese  e  di  vendere  quelle  acque  prodigiose.  Si  ca- 
muffano da  ciarlatani  perchè 

"  Un  homme  d'étrange  apparence 
Gagne  d'abord  la  confidence. 
Et  surtout  du  peuple  de  France. 

Aprono,  intanto,  bottega.  Qui  segue  lo  sfilare  dei 
compratori,  uomini  e  donne  d'ogni  età  e  condizione, 
che  sono  tanti  caratteri  disegnati  con  quello  spirito- 
ch'era  proprio  dell'autore  del  Diahle  Boiteux  e  di  Qil 
Blas,  poiché  la  commedia  è  del  Le  Sage.  Ecco  una 
giovane  contessa  che  chiede  l'acqua  per    calmare  gli 


-  371    - 

ardori  d'un  marito  troppo  innamorato;  poi  un  giovane 
che  vorrebbe  estinguere  con  V  acqua  miracolosa  l'a- 
more che  sente  per  una  principessa...  da  palcoscenico; 
poi  un  contadino  ingenuo  che  vorrebbe  farsi  amare 
da  una  sua  giovane  vicina  di  casa,  che  gli  dà  dei... 
pizzicotti  e  lo  guarda...  con  certi  occhi!;  poi  un  ma- 
rito che  vorrebbe  conoscere  ciò  che  fa  l'  onesta  sua 
metà  durante  l'assenza  di  lui.  Negli  j^nimaux  ^ai- 
sonnahles  del  Fulizier,  la  scena  si  svolge  nell'isola  di 
Circe.  Ulisse  ha  ottenuto  dalla  maga  che  i  suoi  com- 
pagni trasformati  da  lei  in  animali  riprendano  la  loro 
forma  umana;  ma  nessuno  di  loro  vuol  riprendere  le 
antiche  sembianze.  A  che  servirebbe  ,  per  esempio, 
alla  pollastra  di  ritornare  una  giovine  civetta,  al  lupo 
un  procuratore,  alla  beccaccina  una  ragazza  stordita, 
al  toro  un  marito  ingannato,  e  al  maiale  un  appalta- 
tore d'imposte?  NeWylrlequin-DeucaUon,  del  Piron, 
la  scena,  nel  primo  atto,  rappresenta  la  vetta  del  Par- 
naso, soggiorno  d'Apollo  e  delle  Muse;  di  là  si  scorge 
il  mare,  che  occupa  tutto  il  fondo  del  teatro.  E  il 
diluvio.  Subito  Arlecchino-Deucalione  arriva  a  caval- 
cioni d'una  botte  e  d'un  salto  mette  piede  a  terra. 
Egli  si  rallegra  d'essere  lui  solo  scampato  dalla  morte 
che  ha  colpito  tutto  il  genere  umano  e  fa  quattro  ca- 
priole per  essersi  liberato  dalla  moglie  Pirra,  bugiarda, 
ciarliera,  gelosa  e  taccagna:  poi  pensa  a  far  colazione 
e  dalla  sua  sacca  da  viaggio  —  poiché  egli  ha  potuto 
salvare  dal  diluvio  una  sacca  —  tira  fuori  due  lingue 
affamicate,  una  coscia  di  castrato  al  forno  e  un  pro- 
sciutto di  ventotto  libbre.    Divora  la  sua  colazione  e 


-  372  — 

si  disseta  ad  una  vicina  sorgente  d'  acqua.  Quindi 
improvvisa  alcuni  versi  e  comprende  così  che  si  trova 
nel  paese  d'Apollo.  Ma  già  Arlecchino  comincia  ad 
annoiarsi  della  sua  solitudine;  se  non  che  esce  una 
bella  signora,  vestita  alla  romana,  che  passeggia  gra- 
vemente, meditando  una  scena  tragica:  è  Melpomene. 
Arlecchino,  che  se  odia  Pirra  comincia  pure  a  sen- 
tire il  vuoto  della  sua  assenza,  s'avvicina  alla  Musa 
e  l'invita  ad  unirsi  a  lui  in  un'opera  altamente  civi- 
lizzatrice ed  umanitaria,  quella,  cioè,  di  procreare  il 
nuovo  genere  umano.  Ma  la  severa  musa  non  gli  dà 
ascolto;  allora  Arlecchino  tira  fuori  la  chiave  di  casa, 
se  la  mette  alla  bocca  e  fischia.  A  questo  solo  ru- 
more, la  Musa  della  tragedia  si  scuote,  getta  un'oc- 
chiata terribile  al  sibilatore  e  dignitosamente  si  ritira 
come  un'attrice  fischiata.  Entra  subito  in  iscena  Talia 
danzando  e  facendo  scoppiettare  come  un'andalusa  le 
castagnole.  La  Musa  della  commedia  sta  per  parlare... 
Era  il  tempo  in  cui  ai  teatri  della  Foire  era  proibito 
di  far  recitare  produzioni  dialogate;  diffatti,  nella  scena 
precedente.  Melpomene  era  stata  sempre  muta,  anche 
quando  Arlecchino  la  fischia.  Ma  questa  volta  la  brava 
maschera  bergamasca  comprende  il  pericolo  e  vol- 
gendosi verso  la  loggia  dove  sta  il  signor  luogotenente 
di  polizia,  grida  spaventato,  accennando  a  Talia,  che 
resta  intanto  interdetta:  "Signor  luogotenente,  all'erta! 
Io  non  garantisco  nulla...  Salvateci  dalla  multa!"  E  fra 
le  risate  del  pubblico  si  precipita  sulla  Musa  e  con 
una  mano  le  tappa  la  bocca  gridando  :  "  Silenzio, 
chiacchierona!  Vorresti  forse    far    morire  di  rabbia  i 


—  373  — 

signori  del  Teatro  Francese?  "  E  cosi  dicendo  la 
spinge  fra  le  quinte. 

Un  ballo  di  Silfidi  chiude  l'atto. 

Nell'atto  secondo,  Pirra,  la  moglie  di  Arlecchino- 
Deucalione,  scende  dal  cielo  a  cavallo  di  Pegaso,  il 
quale,  dopo  d'averla  deposta  a  terra,  sparisce.  Pirra, 
in  una  scena  muta  —  ella,  dallo  spavento  del  diluvio, 
aveva  perduta  la  voce  —  si  rallegra  d'essersi  salvata 
dalle  acque,  si  rassegna  a  viver  sola  sulla  terra  e  fi- 
nisce con  l'addormentarsi  su  d' un  banco  di  pietra. 
Arriva  Apollo  cantando  un'arietta,  vede  Pirra,  e  chi- 
natosi su  di  lei,  intuona  una  canzoncina.  Qui  entra 
Arlecchino  disperato  di  non  aver  potuto  costringere 
nessuna  delle  nove  muse  a  prendere  il  posto  di  Pirra 
presso  di  lui;  ma  scorge  la  moglie  ed  Apollo  e  resta 
interdetto  ;  quindi  s'  avvicina  e  trovando  indecoroso 
per  la  sua  dignità  maritale  l'atteggiamento  d'Apollo, 
lascia  cadere  sulle  spalle  di  questo  mezza  dozzina  di 
colpi  di  bastone.  Il  biondo  iddio  fugge. 

I  due  sposi  passano  alle  spiegazioni  ;  Arlecchino, 
loquacemente,  narra  come  potè  salvarsi  dalle  acque; 
Pirra  lo  fa  con  gesti.  Il  primo  va  in  cerca  di  Pegaso; 
lo  ritrova:  è  un  divino  cavallo  con  le  orecchie  d'asino 
e  le  ali  di  tacchino  con  addosso  una  coperta  ,  che 
spcirisce  sotto  diversi  avvisi  teatrali.  Qui  succede  una 
rivista  dei  fatti  più  importanti  accaduti  a  Parigi  nel 
corso  dell'anno.  Infine  Pegaso  con  Arlecchino  addosso 
riprende  le  vie  aeree,  ma  il  suo  compagno ,  con  un 
dito  salto,  ritorna  sulla  terra. 

Arlecchino  riflette  che  sebbene  ora  abbia  una  com- 


—  374  - 

pagna,  Pirra ,  pure  ciò  non  può  andare  alle  lunghe  ; 
egli  dovrà  orribilmente  annoiarsi  con  una  muta.  Con- 
sultiamo gli  Dei ,  dice  ,  e  si  propone  d'  entrare  nel 
tempio  di  Temi.  "  Con  un  pò  di  denaro  si  ha  un 
oracolo  ";  esclama  ;  e  picchia  alla  porta.  Questa  è 
aperta,  e  i  due  sposi  entrano  per  consultare  la  Dea. 
Un  secondo  balletto  chiude  l'atto. 

Neir  atto  terzo  ,  Arlecchino  e  Pirra  ,  in  ossequio 
agli  ordini  di  Temi,  si  collocano  ciascuno  accanto  ad 
una  quinta  gettando  dietro  di  questa  delle  pietre:  su- 
bito, dalla  quinta  dove  sta  Arlecchino  vengono  fuori 
dei  giovani,  e  da  quella  dove  sta  Pirra  delle  giova- 
nette.  I  giovani  appena  sono  sul  palco  vengono  alle 
mani  ed  Arlecchino  grida  e  suda  per  dividerli.  Egli 
osserva:  "  E*  un  grazioso  presagio  per  la  fraternità  e  la 
solidarietà  dei  popoli  :  "  I  giovani  smettono  d*  acca- 
pigliarsi fra  loro,  ma  si  gettano  sulle  donne:  altra  fa- 
tica d'Arlecchino  per  tenerli  nei  limiti  della  decenza. 
Infine,  Arlecchino,  dopo  che  ha  posto  un  pò  d'ordine 
in  quella  "  canaille  ",  recita  un  discorso  pieno  di  sen- 
tenze morali  e  assai  sensato;  al  contadino,  all'operaio, 
al  soldato,  a  tutti  i  componenti  della  nuova  umanità, 
giacche  quei  giovani  rappresentano  le  diverse  classi 
sociali,  lancia  un  motto ,  un  frizzo  ,  un  monito.  Per 
esempio,  al  soldato  che  gli  sta  dinanzi  col  cappello 
in  testa  e  la  destra  sull'  elsa  della  spada,  strappa  il 
cappello  e  gli  dice  : 

"  Chapeau  bas  devant  ton  pere,  quand  tes  deux 
amis  (il  contadino  e  V operaio)  sont  dans  leur  devoir, 
ne  croit-il  pas  avoir  été  forme  d'une  pierre  plus  pre- 


1 


-  375   - 

cieuse  que  les  autres?  Mon  gentilhomme,  un  peu  de 
modestie!  Tout  ton  ta-lent  est  de  savoir  tuer!  " 

E  prevedendo  le  sciagure  a  cui  va  incontro  la  nuova 
umanità,  esclama: 

"  Je  voudrais,  quand  j'  ai  jeté  la  maudite  pierre 
dont  il  est  forme  {Fuomo),  l'avoir  poussée  à  cent  lieues 
en  mer  ". 

Arlecchino  però  non  si  lascia  vincere  completa- 
mente dal  suo  pessimismo  e  consacra  le  nozze  fra 
quei  giovani  e  quelle  giovinette.  In  questo  momento 
un  cuculo  fa  sentire  il  suo  canto.  "  Ah  ,  esclama 
Arlecchino ,  brutto  animale  ,  potevi  aspettare  che  la 
nuova  umanità  fosse  almeno  alla  sua  seconda  gene- 
razione! ". 

Come  nelle  fiabe  del  Gozzi,  nelle  commedie  del 
Le  Sage,  del  Piron,  del  Fuzilier  e  d'altri,  l'argomento 
è  fantastico;  la  fantasia,  la  mitologia,  la  poesia,  la  leg- 
genda, tutto  è  buono,  purché  strano,  purché  bizzarro, 
a  fornire  la  trama  dello  spettacolo.  Talvolta  basta  un 
tenue  filo  tratto  dalle  Mille  ed  una  Notte  del  Galland, 
o  dai  poemi  omerici  o  daW Eneide  di  Virgilio  perchè 
lo  scrittore  vi  ricami  intorno  una  favola  piena  di  spi- 
rito, di  comicità,  d'interesse.  C'è  un  pò  di  tutto,  la 
strada  come  il  palazzo ,  la  casa  borghese  come  la 
reggia,  il  "boudoir"  della  dama  come  la  bottega  del 
ciarlatano,  il  riso  sguaiato  delle  antiche  farse  e  il 
bon  mot  dei  salotti.  Né  il  teatro  della  Foire  dimen- 
ticò l'attualità  il  fatto  del  giorno,  che  presentò  ed  in- 
corniciò in  quadri  satirici ,  dalla  fuga  del  cassiere 
alle  gare  dei  comici,  alle  guerre  dei  letterati,  ai  sue- 


—  376  - 

cessi  o  ai  fiaschi  del  teatro  e  della  letteratura.  Nelle 
Fiabe  del  Gozzi  c'è  qualche  cosa  di  simile.  L'Amo- 
re delle  tre  Melar ancie,  Turandot ,  V  Jlngellin  bel-  | 
verde,  il  Corvo  e  le  altre  fiabe  del  conte  veneto  non 
rassomigliano  un  poco  alle  commedie  del  Le  Sage,  del 
Piron,  del  Fuzilier  ?  Non  vi  si  riscontra  lo  stesso  sen- 
timento fantastico  ?  Le  Maschere  della  commedia  del- 
l'arte non  agiscono  in  un  ambiente  affatto  diverso  da 
quello  in  cui  vissero  per  tanti  anni?  Del  resto,  anche 
il  teatro  a  braccia  italiano  aveva  reso  popolare  la 
commedia  a  base  di  fantasia,  di  meraviglioso.  U Ar- 
cadia incantata,  difatti,  del  p.  Adriani,  ha  boschi  in- 
cantati ,  maghi  ,  trasformazioni  fantastiche,  insomma, 
tutto  il  fa-bisogno  d'un  teatro  de  la  foire.  L'origina 
lità,  dunque,  del  teatro  del  Gozzi  deve  intendersi  in 
modo  limitato.  I  chiosatori  delle  fiabe,  e  particolar- 
mente il  Magrini ,  che  come  giustamente  osservò  il 
Masi,  con  molto  amore  trattò  questo  tema,  hanno  vo- 
luto indicarci  assai  minuziosamente  le  fonti  alle  quali 
il  Gozzi  attinse  i  diversi  argomenti  da  lui  trattati.  Ma 
attingere  ad  una  fonte  non  significa  difetto  d'origina- 
lità. Questa  sta  nell'anima,  diremmo  quasi,  che  l'au- 
tore sa  imprimere  all'opera  sua.  Un  poco  dopo  la 
metà  del  secolo  XVIII,  a  Venezia,  le  commedie-fiabe 
del  Gozzi  parvero  originali;  ma  sarebbero  apparse  tali 
se  accanto  al  teatro  in  cui  si  recitavano,  in  un  altro 
teatro,  con  una  compagnia  francese  ,  si  fossero  reci- 
tate le  commedie  del  Le  Sage,  del  Piron  e  d'  altri  | 
scrittori  del   Thèàtre  de  la  Foire  ? 

Ma  come  già  accennammo,  pel    Gozzi  la  rivendi- 


—  317  — 

cazione  dei  diritti  della  commedia  dell*  2U*te  non  fu 
che  un  pretesto.  Egli  non  ripristinò  affatto  quest'  ulti- 
ma sulla  scena.  Le  sue  commedie  non  costitui- 
scono la  continuazione  del  regno  della  commedia  a 
soggetto;  esse  iniziarono  in  Italia  uno  spettacolo  af- 
fatto nuovo  o  quasi  nuovo,  per  noi,  un  miscuglio  dei 
due  vecchi  generi,  la  commedia  improvvisa  e  quella 
sostenuta,  su  d'un  fondo  fantastico,  dove  le  bizzarrie 
sostituivano  le  situazioni,  con  visibile  derivazione  dal 
teatro  francese.  Ma  il  successso  del  Gozzi  fu  di  breve 
durata;  i  veneziani,  dopo  d'avere  accolto  festosamente 
le  Fiabe,  ebbero  il  buon  senso  di  ricredersi.  La  prima 
fiaba  —  Vylmore  delle  tre  Melarance  —  andò  in  iscena 
la  sera  del  25  gennaio  1761  ;  la  seconda,  il  CorvOj 
che  il  Masi  ritiene  la  più  drammatica  di  tutte,  la  sera 
del  24  ottobre  dello  stesso  anno;  la  terza,  il  T^e  Cervo, 
la  sera  del  5  gennaio  1 762;  è  dello  stesso  anno  la 
prima  recita  della  quarta  fiaba,  Turandot  ;  la  quinta 
fiaba,  la  T)orìna  Serpente,  fu  per  la  prima  volta  reci- 
tata la  sera  del  29  ottobre  dello  stesso  anno.  Qui  c'è 
una  breve  sosta  nella  produzione  fiabesca;  la  sesta 
fiaba,  la  Zobeide,  fu  recitata  la  sera  dell'  1  1  novem- 
bre 1  763;  la  settima,  i  Pitocchi  Fortunati,  la  sera  del 
29  novembre  1 764,  ed  ebbe  un  successo  bazzotto  e 
fu  immediatamente  seguita  dal  Mostro  Turchino,  (8 
dicembre  1  704).  U jìugellin  Bel  'Verde  e  Zeim  re 
dei  Geni,  le  ultime  due  fiabe  del  Gozzi ,  furono  re- 
citate l'una  la  sera  del  1 7  gennaio  e  1'  altra  la  sera 
del  25  novembre  1765.  Dopo,  non  più  ^aèe,  non  più 
ritorno  air  antico;  il  Gozzi,  è  vero,  ritornò  a  scrivere, 


-  378  — 

pel  teatro,  ma  non  trattò  più  il  genere  fiabesco ,  ne 
si  curò  più  della  commedia  dell'  arte.  Quando  ,  nel 
1806,  scese  nel  sepolcro,  nessuno,  o  quasi  nessuno, 
s'accorse  della  sua  scomparsa.  11  suo  avversario,  Carlo 
Goldoni,  cinque  anni  dopo  la  recita  dell'ultima  fiaba 
gozziana,  faceva  rappresentare  a  Parigi  ,  al  Thèàtre 
Francais,  il  burbero  benefico.  Era  il  più  gran  trionfo 
che  sin'allora  avesse  ottenuto  il  grande  scrittore  ve- 
neziano! La  commedia  dell'arte  non  era  più  che  un 
ricordo. 


Fine. 


APPENDICE 

a)  Scenari  di  B»  Loccatello» 
bj  Scenari  Napoletani^ 
cj  Scenari  del  p»  Adriani^ 


A. 


DAGLI  SCENARI  D'  BASILIO  LOCCATELLO 

a)  Il  Giuoco  della  Primiera. 

b)  La  Commedia  in  Commedia. 

Di  Basilio  Loccatello^  o  come  anche  è  stato  chia- 
mato, Locatello  o  Locatelli,  romano,  scrittore  di  sce- 
nari, poco  o  assai  poco  si  sapeva  sino  a  non  molti 
anni  fa:  appena  il  nome  e  i  titoli,  parecchi  dei  quali 
errati,  delle  sue  commedie  a  braccia.  Il  primo  a  par- 
larne era  stato  V  Allacci  nella  sua  DrammaturgiQy 
stampata  la  prima  volta  un  poco  dopo  la  metà  del 
secolo  XVII  ;  poi,  per  rivedere  il  suo  nome,  bisognava 
saltare  sino  a  Francesco  Bartoli  (1),  vissuto  nella  se- 
conda metà  del  secolo  XVIII.  Il  Bartoli  aggiunse,  di 
suo,  qualche  notizia  biografica,  spacciando  non  si  sa 

Scriviamo  Loccatello,  e  non  diversamente,  p>erchè  così  sta  scritto 
nel  manoscritto  casanatense  e  precisamente  nel  Discorso  che  precede 
i  Soggetti, 

(I)  Notizie  Storiche  dei  Comici  Italiani;  Padova,    1781. 


—  382  — 

come  per  comico  il  Loccatello,  il  quale,  d*  allora  in 
poi,  come  comico  fu  da  tutti  ritenuto.  Nel  1894,  il 
Valeri  fCarletta)  dissipò  un  po'  le  tenebre  che  si  ad- 
densavano intorno  al  nostro  commediografo  (1).  E- 
rano  già  stati  rinvenuti  gli  Scenari,  manoscritti,  presso 
la  Biblioteca  Casanatense,  di  Roma,  e  dai  quali  noi 
abbiamo  trascritto  i  due  che  ora  pubblichiamo  (2). 
Il  loro  autore  fu  certamente  romano;  ma  quando  nac- 
que? quando  morì?  Il  Valeri,  che  cercò  di  accer- 
tarlo, non  potè  venirne  a  capo  ;  ritiene  però  che  fosse 
nato  sugli  ultimi  anni  del  Cinquecento  e  morto  poco 
oltre  la  metà  del  Seicento  :  e  se  non  fu  comico  di 
professione,  ebbe  certamente  a  far  péu^te  d'  una  di 
quelle  tante  società  filodrammatiche,  che  allora  si  chia- 
mavano Accademie.  Mandò  alle  stampe  una  commedia 
della  quale  non  si  conosce  che  il  titolo  :  Li  Sei  Ri- 
trovati. 


(  1  )  Gli  Scenari  Inediti  di  ^.  Localelli  in  ;  La  ^uova  Rasse- 
gna,  Roma    1864.  Questo  studio  fu  stampato  anche  a  parte. 

(2)  Sono  in  due  volumi  e  il  titolo  preciso  è  il  seguente  :  Della  Scena 
dei  Soggetti  Comici  di  B.  L.  R.  (Romano),  in  Roma.  Il  primo  vo- 
lume è  del  MDCXVIII  e  il  secondo  del  MDCXXII.  L'opera  è  prece- 
duta da  un  discorso  "  per  il  quale  si  mostra  esser  necessarie  le  facetie 
a  la  vita  humana,  et  faceto  chiamarsi  il  comico  ". 


IL  GIUOCO  DELLA  PRIMIERA 

COMMEDIA 

PERSONAGGI 

Pantalone 
Lelio,  figlio 
Zanni,  servo 

COVIELLO 

Flaminia,  figlia 
Furbo 

ROBBE 

Un  abito  da  Pantalone  -  Una  borsa  di  denari  -  Una  sporta  - 
Un  mazzo  di  carte  da  giuoco. 

La  scena  si  finge   a   Roma 

N.  B.  (Niella  trascrizione  non  conserviamo  perfettamente  la  vec- 
chia grafia  del  manoscritto  per  non  islancare  il  lettore.  Vogliamo 
solo  avvertire  che  nel  manoscritto  si  legge  ora   azzi  ed  ora  azi. 


Atto  Primo 

Pantalone  con  Zanni,  di  casa,  sopra  1*  amore  che 
porta  a  Flaminia  figlia  di  Coviello  ;  dice  di  volerla 
pigliar  per  moglie  ;  fanno  lazzi  ;  alla  fine  basta  ;  in 
questo 

Coviello,  di  casa,  intende  come  Pantalone  è  inna- 
morato di  Flaminia  e  volerla  pigliar  per  moglie  ;  fanno 
lazzi;  alla  fine  s'accordano  della  dote;  chiama 

Flaminia,  di  casa,  intende  essser  maritata  a  Pan- 
talone, ricusa  voler  mau^ito,  fanno  altri  discorsi ,  alla 
fine  obbedisce  al  padre  e  dà  la  mano  a  Pantalone. 
Flaminia  rientra  in  casa  ;  Coviello  dice  a  Pantalone: 
fra  un'  ora  si  trovi  al  Banco  della  Scimia  che  gli  fo 
pagare  quattro  mila  scudi  per  la  dote.  Coviello  parte, 
Pantalone  dice  che  coi  denari  della  dote  comprerà  gli 
abiti  per  le  nozze.   Entra  in  casa. 

Lelio,  di  strada  ;  sopra  l'amore  che  porta  a  Fla- 
minia, figlia  di  Coviello  ;  volerle  scoprire  1'  amor  suo  ; 
in  questo 

Flaminia,  di  casa  ;  intende  l' amor  di  Lelio,  gli  dice 
come  suo  padre  l' ha  maritata  con  Pantalone,  lo  prega 

Nel  Regno  delle  Maschere  25 


—  386  - 

guastar  le  nozze  dandole  la    fede    di    consorte.  Fla- 
minia in  casa. 

Lelio  disperato  vuol  cercare  Pantalone  per  gua- 
stare le  nozze,  in  questo 

Zanni,  di  casa,  con  sporta  e  denari  per  spendere; 
intende  l'amor  di  Lelio  e  Flaminia,  gli  dice  delle 
nozze,  è  pregato  di  guastarle.  Zanni  dice.  Pantalone 
deve  andare  a  pigliare  quattro  mila  scudi  della  dote 
volergli  mandare  un  altro  in  luogo  di  lui  e  fargli  la 
burla.  Lelio  dice  aspettarlo  dal  rigattiere  e  parte. 
Zanni  sulla  spesa  che  ha  da  fare  facendo  lazzi  col 
contare  li  danari  ;  in  questo 

Furbo,  di  strada,  con  un  par  di  carte  da  giuocare; 
fa  lazzi  con  Zanni  sopra  il  giuoco  della  primiera  ; 
impara  a  giuocare  a  Zanni,  facendo  lazzi  vince  li  de- 
nari, e  le  vesti  a  Zanni,  facendolo  restare  in  camicia. 
Zanni,  disperato,  ruba  li  denari  e  li  vestiti  e  fugge 
per  la  strada  gridando:  al  ladro! 


Atto  Secondo 

Lelio,  di  strada,  cerca  di  Zanni  per  sapere  se  ha 
avuto  la  dote  per  aver  fatta  la  burla  ;  in  questo 

Flaminia,  di  casa,  intende  come  vogliono  guastare 
le  nozze  dandole  il  cenno  nell'  orecchie.  Flaminia  è 
contenta,  entra  in  casa;  Lelio  per  trovar  Zanni  parte 
per  la   strada. 

Coviello,  di  strada,  aver  pagato  la  dote  a  Panta- 
lone, voler  fare  le  nozze  ;  in  questo 


_  387  — 

Pantalone,  di  casa,  volere  andare  al  Banco  e  pi- 
gliar la  dote,  fa  lazzi  a  Coviello  che  voglia  fargli  pa- 
gar la  dote.  Coviello  dice  avergliela  data,  Pantalone 
dice  non  esser  vero,  nega,  vengono  a  parole  ;  Pan- 
talone dice  voler  andare  alla  giustizia,  e  parte.  Co- 
viello resta  in  collera  lamentandosi  di  Pantalone  che 
gli  nega  la  dote  che  ha  pagato  poco  fa;    in    questo 

Zanni,  di  strada,  in  abito  da  Pantalone,  facendo 
lazzi  dice  andar  cercando  Lelio.  Coviello  gli  dice 
della  dote.  Zanni  conferma  d'averla  avuta;  Coviello 
si  lamenta  perchè  lui  glielo  abbia  negato  poca  fa; 
Zanni  dice  burlava  e  parte  per  la  strada.  Coviello 
di  non  piacergli  queste  burle,  in  questo 

Pantalone,  di  strada,  esser  stato  alla  giustizia  e  vo- 
ler far  castigare  Coviello.  Fanno  lazzi,  Coviello  d'a- 
ver avuto  la  dote.  Pantalone  dice  non  esser  vero,  ven- 
gono a  parole,  poi  a  pugni.  Partono  Coviello  in  casa, 
Pantalone  per  la  strada. 

Atto  Terzo 

Lelio  con  Zanni,  di  strada,  intende  aver  fatto  la 
burla  con  l'avere  avuto  la  dote  :  fanno  allegrezze  ; 
Zanni  dice  voler  fingere  Pantalone  e  dire  a  Coviello 
di  non  voler  più  Flaminia,  ma  di  darla  per  moglie  a 
Lelio.  S'accordano  lodando  l'invenzione.  Fanno  lazzi 
del  Pantalone  e  dell'  esser  Lelio  figlio  di  questo  ; 
Zanni  dice:  figlio  d'un  castronaccio,  ti  darò  la  mia 
maledizione,  non  ti  voglio  esser  padre  ;    infine,    Lelio 


—  388  - 

s' accorda  di  tutto  quello  che  deve  farsi,  fa  a  Zanni 
riverenza  dicendo  :  signor  padre,  gli  faccio  aver  Fla- 
minia per  moglie;  infine  vanno  via. 

Coviello,  di  casa,  in  collera  per  la  dote  che  gli  ha 
negato  Pantalone.  Zanni,  fingendo  Pantalone,  dice  a- 
ver  burlato,  e  confessa  averla  avuta,  ma  non  voler 
più  Flaminia  per  moglie  per  esser  vecchio,  ma  vo- 
lerla dare  a  Lelio  suo  figliuolo,  facendo  lazzi  a  Le- 
lio^, dicendo  :  fio  d*un  castronaccio,  sei  contento  ?  Alla 
fine,  tutti  contenti  ;  in  questo 

Flaminia,  di  casa,  intende  esser  maritata  a  Lelio  ; 
lei  contenta,  si  toccano  la  mano  facendo  lazzi  ;  tutti 
in  casa  ;  Zanni  resta  ridendosi  della  burla,  dice  vo- 
ler restituire  li  abiti  al  rigattiere  ;  parte  per  la  strada. 

Pantalone,  di  strada,  in  collera  contro  Coviello,  dice 
volersi  vendicare  e  castigarlo  per  via  di  giustizia  ;  in 
questo 

Coviello,  di  casa,  invita  Pantalone  andare  alle  nozze; 
Pantalone  dice  non  voler  fare  le  nozze  se  prima  non 
ha  la  dote  ;  Coviello  si  meraviglia  facendo  lazzi  dal- 
l' aver  confessato  d'averla  avuta,  vengono  di  nuovo  a 
parole  facendo  rumore  ;  in  questo 

Lelio  e  Flaminia,  di  casa,  corrono  al  rumore,  si 
scopre  Lelio  esser  marito  di  Flaminia  e  Pantalone 
aver  fatto  il  parentado.  Pantalone  si  meraviglia,  di- 
cendo non  esser  vero  ;  tutti  confermano  esser  vero; 
alla  fine  Lelio  scopre  ch'essendo  innamorato  di  Fla- 

*  Deve  intendersi  presente  in  iscena,  sebbene  non  risulti  dallo  Sce- 
nario. 


—  389  — 

minia,  Zanni  ha  finto  esser  Pantalone  ed  ha  avuto  la 
dote,  e  poi  ha  finto  non  voler  moglie  ed  averla  data 
a  lui.  Pantalone  avendo  udito  va  in  collera  contro 
Zanni,  questi  entra  e  dice  che  vuole  andcire  a  man- 
giare alle  nozze.  Pantalone  perdona  facendo  allegrezza. 
Tutti  entrano  in  casa. 


FINE  DELLA  COMMEDIA 


LA  COMMEDIA  IN  COMMEDIA 

COMMEDIA 

PERSONAGGI 

Pantalone 
Lidia,  figlia 
Zanni,  servo 

COVIELLO 
ArDELIA,  figlia 

Tofano,  medico 
Lelio,  poi 

Curzio,  figlio  di  Coviello 
Graziano,  recitante 
Capitano,  recitante,  poi 

Orazio,   figlio  di  Pantalone 
ROBBE 

Una  scena  -  Sedie    -  Armi  assai. 

La  scena  si  finge  a  Sermoneta 


Atto  Primo 

Pantalone  e  Zanni  ;  Pantalone  dice  voler  maritare 
Lidia  sua  figliuola  ;  Coviello  averla  domandata  e  vo- 
ylierla  dare;  batte 

Coviello,  di  casa,  intende  come  Pantalone  è  con- 
ento  di  volergli  dare  Lidia  per  moglie  ;  fanno  lazzi  ; 
estano  d'  accordo  sulla  dote  ;  Coviello  chiama ,  in 
questo 

Lidia,  di  casa,  intende  esser  maritata  a  Coviello, 
lei  ricusa,  fanno  lazzi,  alla  fine,  a  furia  di  minacce, 
Jdia  cede  e  tocca  la  mano  di  Coviello.  Lidia,  mal- 
ontenta,  rientra  in  casa.  Coviello  dice  andare  all'of- 
cio  pei  capitoli  ed  ivi  aspettar  Pantalone.  Parte,  Pan- 
alone  dice  a  Zanni  vada  ad  avvisare  i  commedianti 
li  parenti  per  far  recitare  una  commedia  per  alle- 
rezza.   Zanni  parte  ;  parte  pure   Pantalone. 

Lelio,  di  strada,  dice  esser  partito  dallo  studio  di 
*adova,  dove  fu  mandato  dal  padre,  per  riveder  Li- 
ia  che  ama  ;   batte,  in  questo 

Lidia,  di  casa,  riconosce  Lelio,  quale  va  incognito 
3n  barba  posticcia,  avendo  mutato  nome    ed  essersi 


-  394 

partito  dallo  studio  di  Padova.  Lidia  si  dispera  perchè 
Pantalone  suo  padre  V  abbia  maritata  a  Coviello.  Lelio 
dolendosi  dice  stia  di  buon'  animo,  e  vuol  cercare  di 
guastar  tutto;  parte.   Lidia  rientra  in  casa. 

Pantalone,  di  strada,  dice  aver  fatto  li  capitoli  e 
Coviello  vuol  far  presto  le  nozze;  in  questo 

Zanni  e  Graziano,  di  strada;  Zanni  dice  a  Pan- 
talone d' avere  avvisato  li  parenti  ed  aver  menato  il 
capo  dei  commedianti,  Graziano.  Pantalone  gli  do- 
manda qual'  è  la  sua  parte  ;  Graziano  dice  fare  l' in- 
namorato. Pantalone  se  ne  ride  dicendo  :  Guarda  mo- 
staccio da  far  d' innamorato  ;  alla  fine  fanno  il  patto 
della  commedia  di  dieci  scudi  ;  li  dà  la  caparra.  Gra- 
ziano dice  che  va  a  chiamare  i  compagni  ;  parte.  Pan- 
talone fa  metter  fuori  V  occorrente  e  le  sedie  ;  dice 
voler  aspettare  V  ora.   Tutti  in  casa. 

Coviello,  di  strada,  allegro  per  le  nozze  e  le  feste; 
dice  che  vuol  far  godere  delle  nozze  Ardelia  sua  fi- 
gliola; batte,  in  questo 

Ardelia,  di  casa,  intende  come  suo  padre  Coviello 
vuol  prender  moglie  senza  dar  marito  a  lei  e  vuole 
che  assista  alle  nozze  e  alla  commedia;  batte,  m  questo 

Pantalone,  Lidia,  Zanni  ,  di  casa.  Pantalone  ab- 
braccia Coviello  suo  genero  facendo  allegrezze  ;  Lidia 
di  mala  voglia  lo  riceve  ;  poi  siedono  avendo  inteso 
da  Zanni  che  li  commedianti  sono  in  ondine.  In  questo 

Tofano,  di  strada,  essendo  venuto  alla  commedia 
lo  ricevono,  e  siede  ;  in  questo 

Lelio,  di  strada,  si  mette  da  parte  insieme  ad  altri 


n 


-  395    - 

3er  sentire  la  commedia.  Si  danno  ordini  per  comin- 
:iare  la  commedia.   In  questo 

Prologo,  essendosi  prima  suonato  musica,  annunzia 
iilenzio  perchè  si  ha  da  fare  una  commedia  all'  im- 
provviso;  entra  in  questo 

Capitano,  discorre  dell'amore  che  porta  ad  Isabella 
ìglia  di  Graziano,  dice  volerla  dimandare  al  padre 
3er  moglie,  batte. 

Graziano,  di  casa,  avendo  inteso  il  tutto  dal  Ca- 
pitano, si  mette  d*  accordo  con  questo  per  le  nozze. 
[n  questo,  casca  in  terra  a  Lidia  un  guanto,  Lelio  su- 
DÌto  corre  a  raccoglierlo  e  baciandolo  lo  rende  a  Li- 
dia. Coviello  si  leva  in  piede  dicendo  a  quello  che 
lui  ci  abbia  da  fare;  si  fa  rumore;  tutti  in  bisbiglio, 
uggono  chi  per  la  strada,  chi  per  le  case. 


Atto  Secondo 

Pantalone  e  Zanni  di  casa  ;  Pantalone  fa  levar  via 
e  sedie  e  li  apparati  dispiacendosi  dello  sconveniente 
liuccesso,  che  ha  messo  una  gran  paura  alla  figlia  e 
nanda  Zanni  a  chiamare  il  medico,  in  questo 

Coviello,  di  casa,  armato,  dice  volersi  risentire  con- 
fo Lelio,  perchè  non  doveva  far  quello  che  ha  fatto; 
olerlo  ammazzare.  Pantalone  lo  riprende  e  dice  che 
lon  faccia  il  gradasso  ;  Coviello  dice  che  Pantalone 
D  ingiuria  ;  V  altro  lo  consiglia  a  star  tranquillo.  Rien- 
rano  in  casa,  anche  perchè  Pantalone  ha  mandato  a 
hiamara  il  medico  per  Lidia;   Zanni  resta. 


—  396  — 

Lelio,  di  strada,  intende  il  tutto  e  promette  mancia 
a  Zanni  se  lo  aiuta.  In  questo 

Lidia ,  di  casa,  parlano  del  loro  amoreggiamento, 
dandosi  la  fede;  pigliano  appuntamento  di  fuggirsene 
insieme  alle  due  ore  di  notte.  Lidia  rientra  in  casa, 
Lelio  va  via. 

Capitano,  di  strada,  parla  italiano,  quando  recitava 
la  commedia  parlava  spagnuolo,  e  dice  che  quando 
lui  recitò  la  commedia  alla  presenza  di  Pantalone, 
vide  una  giovane  ed   essersene  innamorato;  in  questo 

Ardelia,  dalla  finestra,  vede  il  Capitano,  si  salutano 
insieme  ;  lei  è  pregata  di  venire  in  basso,  lei  viene, 
intende  V  amore  del  Capitano,  lei  lo  accetta,  dice  che 
il  padre  la  vuol  maritare,  ma  lei  vuole  scegliersi  da 
se  il  marito;  dice  volerlo  rivedere,  ma  in  casa  d'una 
sua  vicina  ;  si  danno  la  posta  per  le  due  ore  di  notte. 
Capitano,  allegro,  parte  ;  lei  rientra  in  casa. 

Tofano,  di  strada,  dice  esser  medico  mandato  da 
Pantalone  a  visitar  Lidia  sua  figliola  sposa  tiovandosi 
inferma;  batte,  in  questo 

Zanni,  dalla  finestra,  crede  che  si  tratti  del  medico 
per  veder  la  sposa,  lo  fa  salire  in  casa. 

Pantalone  e  Coviello,  di  strada,  dicono  aver  man- 
dato il  medico  per  veder  la  sposa,  dicono  voler  sa- 
pere come  stia  ;  battono,  in  questo 

Tofano,  di  casa,  dice  che  l'ammalata  è  gucirita  ed 
esser  niente,  e  sta  bene ,  tutti  si  rallegrano  ;  Coviello 
dice  volersi  levar  l' arma  d'addosso,  entra  in  casa;  gli 
altri  restano,  in  questo 

Graziano,  di  strada,  vede  Pantalone,  gli  domanda 


11 


—  397  — 

facendolo  tirar  da  parte  i  danari  della  commedia.  Pan- 
talone dice  che  non  V  ha  finito  di  recitare  ;  Graziano 
dice  che  farà  pagare  Coviello;  Pantalone,  che  non  vuol 
far  questione,  dice  che  li  danari  li  pagherà  suo  fra- 
tello e  mostra  Tofano,  che  ha  dei  denari  addosso  ; 
Graziano  si  mostra  contento;  Pantalone  dice  a  Tofano 
che  Graziano  ha  bisogno  dell'opera  sua;  Tofano  ri- 
sponde che  è  pronto  ;  Pantalone  va  via.  Tofano  dice 
1  Graziano  che  si  accosti  ;  Graziano  crede  che  lo  pa- 
?hi  ;  r  avvicina  ;  Tofano  risponde  che  è  pronto;  Pan- 
alone  va  via.  Tofano  gli  prende  il  polso,  l'altro  si 
icusa,  in  fine  si  fa  toccare  il  polso.  Tofano  gli  ordina 
in  serviziale  ;  Graziano  gli  chiede  otto  scudi  che  Pan- 
alone  è  rimasto  a  dare;  Tofano  dice  che  lui  ha  la 
lebbre,  che  lo  fa  farneticare  ;  ritiene  che  la  febbre  sia 
Hi  quelle  maligne;  bisogna  cavargli  sangue  facendo 
,azzi;  alla  fine  vengono  alle  mani,  si  danno  pugni  e 
j)artono. 

i 

Atto  Terzo 

Capitano ,  di  strada,  finge  notte ,  dice  non  saper 
uale  sia  la  casa  d'Ardelia,  dice  esser  ora  di  ritro- 
arsi  secondo  si  sono   data  la  posta;  in  questo 

Lidia,  di  casa,  fingendo  notte  oscura  la  scena  cre- 
ando il  Capitano  sia  Lelio,  e  il  Capitano  credendo 
he  Lidia  sia  Ardelia  ;  si  abbracciano  e  partono  per 
i  strada. 

Lelio,  di  strada,  fingendo  notte,  dice  voler  vedere 
la  Lidia,  e  tenerla  in  casa  d'una  sua  amica  ;  in  questo 


-  398  - 

Ardelia,  di  casa,  fa  il  cenno;  si  credono  V  una  il 
Capitano,  l'altro  Lidia,  senza  parlare  s'abbracciano  e 
partono  per  la  strada. 

Capitano  e  Lidia,  di  strada,  essendosi  scoperti  non 
essere  amanti.  Lidia  lo  prega  a  salvcir  l'onor  suo  per 
amar  Lelio,  che  in  grazia  la  meni  in  casa  d'una  sua 
amica  per  rispetto  di  suo  padre,  e  dove  spera  trovar 
Lelio.  Capitano  si  lamenta  e  poi  alla  fine  pregato  si 
contenta,  e  partono. 

Lelio  ed  Ardelia  ,  di  stiada  ,  essendosi  anch'  essi 
scoperti  e  non  essere  amanti,  Ardelia  si  raccomanda 
pensandosi  fosse  Capitano;  Lelio  dolendosi  di  Lidia 
accompagna  Ardelia  a  casa;  in  questo 

Capitano,  di  strada,  lamentandosi  della  mala  sorte 
non  aver  veduto  Ardelia  ;  la  vede,  intende  il  brutto 
successo,  alla  fine  scoprono  lui  e  Lelio  l'uno  avere  l'in- 
namorata dell'  altro,  e  niuno  avere  pregiudicato  l' a- 
mico  neir  onore  ;  dicono  volerle  andare  a  godere,  par- 
tono. 

Coviello,  di  casa,  fingendo    la    mattina  a  buon'or? 
dicendo  di  non  aver  mai  dormito  tutta  la  notte  pen 
sando  a  Lidia  che  vuole  sempre  pigliar  per  moglie 
dubitandosi  qualche  male  ;  in  questo 

Pantalone,  dalla  finestra,  fingendo  levarsi  allora  di 
letto,  intende  da  Coviello  voler  la  moglie  ,  che  ver 
rebbe  menéu*  via  senza  far  nozze,  ne  feste.  Pantalon» 
vien  fuori  e  dice  che  Lidia  sta  molto  bene  e  ch« 
tutta  notte  l'ha  intesa  andare  e  venire  per  casa;  ali 
fine,  pregato,  chiama  ;  in  questo 

Zanni,  di  casa;  intende  Pantalone  che  chiama  Lidi 


-  399  — 

5  che  è  venuto  Io  sposo  ;  Zanni  esce  fuori  più  volte 
accodo  lazzi,  guardando  verso  la  strada,  e  rientra  in 
:asa;  infine,  dice  che  Lidia  non  è  in  casa.  Coviello 
g  Pantalone  si  disperano,  entrano  in  casa,  escono  fuori, 
dubitano  che  Lidia  sia  stata  rubata  ;  dicono  volersi 
irmare  e  cercarla.  Pantalone  e  Coviello  rientrano  nelle 
loro  case. 

Lelio  e  Capitano  dicono  aver  lasciato  le  amorose 
donne  vicino  e  volerle  dimandare  alli  loro  genitori 
per  mogli,  e  se  essi  non  vogliono  darle  a  loro,  le  me- 
neranno pel  mondo,  ma  si  ritirano  vedendo  venire  in 
questo 

Coviello,  di  casa,  e   Pantalone    e  Zanni ,  di  casa, 
jgualmente  armati.  Coviello  dice  che  Ardelia  ancora 
jei  è  fuggita  di  casa  ;   lui  e  Pantalone    vogliono  am- 
Inazzare  chi  ha  tenuto  mano  alla  fuga.  Capitano,  s'ac- 
|:osta  a  Coviello  pregandolo  dargli  Ardelia  per  moglie  ; 
oviello  dice  di  non  volerla  dare  a  un  commediante. 
Capitano  si  sdegna  ;   lui  e  un  galantuomo;  tutto  il  resto 
|0  dirà  Graziano,   il  quale  dirà  d'  averlo  levato  da  pic- 
:olo  a  Francesca  sua  balia,  e  suo  padre    si  chimava 
Pantalone  de'  Bisognosi.   Pantalone  ode  questo,  rico- 
losce  nel  Capitano  Orazio  suo  figliolo,  il  quale  fu  por- 
ato  via  alla  balia  da  Graziano;  fa  allegrezze,  lo  ab- 
braccia. Coviello  avendo  inteso  che  il  Capitano  è  fi- 
;liolo  di  Pantalone,  gli  concede  per  moglie  Ardelia. 
-elio  s' inginocchia  davanti    Coviello    sua    padre,  le- 
gandosi dal   volto  la  barba  posticcia  per  non  esser  co- 
osciuto  dice  stare  incognito  e  venire  dallo  studio  di 
*adova  per  amor  di    Lidia.    Coviello    lo    perdona  e 


—  400  — 

Pantalone  gli  concede  in  moglie  la  figlia.  Tutti  fanno 
allegrezza. 

Graziano,  di  strada,  domanda  a  Pantalone  gli  otto 
scndi  della  commedia  fatta.  Pantalone  lo  piglia  e  gli 
discopre  il  tutto  d'  averlo  menato  via  da  Francesca 
Orazio  suo  figliolo;  Graziano  gli  domanda  perdonanza 
per  campare  recitava  commedie.  Pantalone  lo  per- 
dona; in  questo 

Capitano,  Lelio,  Lidia  ed  Ardelia,  di  strada  ;  le 
donne  domandano  perdono  alli  loro  padri;  Lidia,  sposa 
Lelio;  Ardelia,  sposa  il  Capitano  ;  fanno  allegrezze  e 
vanno  a  fare  le  nozze. 


FINE  DELLA  COMMEDIA 


1 


B. 

DAGLI  SCENARII  DELLA  RACCOLTA  SER- 
BALE DI  CASAMARCIANO       J'    J-    J'    J' 

a)  L'Amante  Gelosa. 

h)  Le  Disgrazie  di  Pulcinella. 

e)  Nerone  Imperatore,  tragicomedia. 

La  raccolta  posseduta  dalla  Biblioteca  Nazionale  di 
Napoli,  ^  alla  quale  fu  donata  da  Benedetto  Croce, 
è  in  due  volumi  (manoscritti).  Il  primo  volume  porta 
il  seguente  titolo  :  Sibaldone  de  Soggetti  da  recitarsi 
air  Impronto —  A  Izuni  propri  e  gli  altri  da  diversi  rac- 
colti— Di  T).  ylnnihale  Sersale  conte  di  Casamarciano. 
Il  secondo  :  Sibaldone  comico  di  %Jarj  Soggetti  di  com- 
medie ed  opere  bellissime  copiate  da  me  Jìntonino  Pas' 
sante  detto  Oratio  il  Calabrese  per  comando  dell* ecc.mo 
sig.  conte  di  Casamarciano.  1 700. 

*  Segnatura:   Mss.  XI,  AA.  41. 

\e/  Regno  delle  v^aschere  26 


L'AMANTE  GELOSA 

COMMEDIA 

PERSONAGGI 

GlANGURGOLO,  padre  di 

Luzio 

COVIELLO,  servo 
PaSCARIELLO,  padre  di 

Vittoria 
Fiammetta,  serva 
Angela 
Flaminio 
Pulcinella,  servo 
Brunetta,  serva 

ROBBE 

Un  sacco  -   Vestito  da  mago  -    Bastone 

Città:  Napoli 


ATTO  PRIMO 
Scena  I. 

Giangurgolo  e  Pascariello 

Fanno  parentela,  cioè  Pascariello  dà  Vittoria  sua 
figlia  a  Luzio  figlio  di  Giangurgolo;  PasccU*iello  via; 
Giangurgolo  batte 

Scena  11. 

Coviello  e  Giangurgolo 

Inteso  da  Giangurgolo  il  parentado  ,  fanno  lazzi  ; 
Coviello  però  da  prima  accennerà  che  Luzio  è  amante 
d' Angela  ;  Giangurgolo  via;  Coviello  resta  ;  in  questo 

Scena  III. 

Luzio  e  Coviello 
L'amore  di  Angela  ;  vede  Coviello,  il  quale  dopo 


—  406  — 

lazzi  gli  dice  come  il  padre  l'ha  accasato  con  Vittoria; 
Luzio  si  lamenta  volendo  Angela  e    la  fa  chiamare. 

Scena  IV. 

Brunetta  e  Detti. 

Fa  lazzi  con  Coviello  e  dopo  scena  la  fannno  chia- 
mare. 

Scena  V. 

Angela  e  Detti. 

Coviello,  il  lazzo  dell'acqua  calda  e  della  fredda, 
poi  Luzio  si  fa  avanti,  fanno  scena  amorosa,  si  danno 
la  fede  ;  donne  in  casa,  loro  via. 

Scena  VI. 

Flaminio  e  Pulcinella. 

L*uno  r  amore  di  Vittoria,  l'altro  l'amore  di  Fiam- 
metta e  mentre  stanno  per  chiamarle 

Scena  VII. 

Pascarielloy  %)ittoria,  Fiammetta  e  Detti. 

Esce  Pascariello  contrastando  con  la  figlia  perchè 
vuole  che  si  accasi  con  Luzio;  Flaminio  e  Pulcinella 


—  407  - 

dopo  lazzi  nascosti  si  fanno  avanti  facendo  loro  par- 
iate ;  Pascciriello  entra  più  in  sospetto,  sgrida  sua  fi- 
glia e  parte  per  ritrovare  Giangurgolo  e  concludere 
il  matrimonio;  donne  restano  facendo  scena  amorosa 
r  una  con  Flaminio,  Taltra  con  Pulcinella  ;  Vittoria 
poi  dirà  del  matrimonio  che  vuol  fare  il  padre  con 
Luzio  e  crede  che  Luzio  lo  procuri;  Flaminio  si  a- 
dira  contro  Luzio,  promette  disturbare  ;  donne  entrano 
in  casa;  loro  restano  ;  in  questo 

Scena  Vili. 

Luzio,  Coviello,  Flaminio  e  Pulcinella, 

Saluta  Flaminio,  il  quale  fa  l'alterato,  fanno  diversi 
lazzi,  alla  fine  si  chiariscono,  1'  una  ama  Angela  l'al- 
tro Vittoria,  inteso  che  poi  la  darà  a  Flaminio  e  lui 
sarà  sposo  di  nome  e  questo  di  fatto  ;  sono  d'accordo, 
Flaminio  e  Pulcinella  vanno  via ,  Luzio  e  Coviello 
restano  ;  in  questo 

Scena  IX. 

Pascariello,  Giangurgolo,   Coviello  e  Luzio. 

Vedono  Luzio,  gli  dicono  il  parentado  fatto,  lui 
finge  contentarsi  ;   loro  battono. 


—  408  — 

Scena  X. 

Vittoria,  Fiammetta  e  Detti. 

Pascariello  dice  che  tocchi  la  mano  a  Luzio,  essa 
ricusa,  loro  gliela  fanno  toccare  per  forza;  in  questo 

Scena  XI. 

Jlngela,  brunetta  e  Detti. 

Vedono  il  tutto  di  nascosto,  ed  Angela  si  altera; 
tutti  via,  Angela  e  Brunetta  restano  ;  poi  Angela  fa 
entrare  la  serva,  ed  essa  resta  lamentandosi  ;  in  questo 

Scena  XII. 

Coviello  ed  Angela. 

Coviello  esce  dicendo  che  vuole  avvisare  Angela 
deir  invenzione  presa  ;  Angela  in  vederlo  senza  dargli 
tempo  di  parlare  gli  dà  una  grande  bastonata  ed  entra, 
Coviello  resta  meravigliato  ;  in  questo 

Scena  XIII. 

Fiammetta  e  Coviello. 
Fa  scena  amorosa  con  Coviello;  in   questo 


-  409  — 

Scena  XIV. 

Pulcinella  e  Detti. 

Pulcinella  fa  suoi  lazzi  di  dietro,  poi  si  fa  avanti 
e  contrasta  con  Coviello  per  Fiammetta  ;  ia  questo 

Scena  XV. 

Brunetta  e  Detti. 

Piglia  gelosia,  attaccano  rumore  uomini  e  donne  e 
finisce  Tatto. 

ATTO  SECONDO 
Scena  I. 

Giangurgolo,  Luzio  e  Coviello. 

Giangurgolo  dice  a  suo  figlio  che  entri  da  sua  mo- 
glie, perchè  lui  vuole  andare  a  convitcìre  i  peu^enti,  e 
via  ;  Coviello  dice  a  Luzio  che  Angela  1*  ha  basta- 
nato  ;   Luzio  batte  da 

Scena  II. 

Angela,  Luzio  e  Coviello. 

Angela  rimprovera  Luzio  in  vederlo  dicendogli  che 
non  l'ama  più,  gli  serra  la  parta  in  faccia  ed  entra; 
Luzio,  sua  disperazione;  in  questo 


410 


Scena  III. 

Qiangurgoloy   Coviello  e  Luzio. 

Giangurgolo  dice  che  ha  invitato  i  parenti  ;  Luzio 
delira,  in  questo 

Scena  IV. 

Angela  e  Detti 

Angela,  dalla  finestra,  si  rimproverano  con  Luzio  ; 
Giangurgolo  fa  suoi  lazzi  ;  infine  Angela  entra  ;  Gian- 
gurgolo dice  a  Luzio  che  entri  da  sua  moglie;  Luzio 
fa  spropositi  e  parte  ;  Coviello  fa  la  signa  (  l  )  di  Lu- 
zio e  parte  ;  Giangurgolo  appresso. 

Scena  V. 

Flaminio  e  Pulcinella, 

Desiderosi  di  sapere  1*  invenzione  di  Coviello,  in 
questo 

Scena  VI. 

angela,  brunetta  e  Detti. 

Angela  domanda  a  Flaminio  chi  sia  il  suo  più  caro 
amico  ;  questi  dice  essere  Luzio  ;  essa  dice  che  Luzio 

(I)  Scimmia. 


—  411   — 

è  traditore  atteso  che  cerca  accasarsi  con  Vittoria  sua 
innamorata;  Flaminio  la  sincera  dicendo  che  Luzio 
ama  lei,  e  che  questa  era  invenzione  fatta  da  Coviello 
per  amor  suo,  contandole  il  tutto  ;  Angela  per  alle- 
grezza l'abbraccia  ;  in  questo 

Scena  VII. 

'Vittoria,  Fiammetta  e  Detti, 

Vedono  il  tutto  di  nascosto.  Vittoria  s' adira,  tutti 
via;  restano  Fiammetta  e  Vittoria  quale  poi  manda 
la  serva  :  ed  essa  resta  facendo  suo  lamento;  in  questo 

Scena  Vili. 

T^ulcinella  e  Angela. 

In  veder  Pulcinella  lo  bastona  ed  entra,  lui  resta, 
in  questo 

Scena  IX. 

Flaminio  e  Pulcinella. 

Pulcinella  dice  che  Vittoria  Tha  bastonato,  e  via  ; 
Flaminio  batte 

Scena  X. 

Vittoria  e  Flaminio. 

In  veder  Flaminio  gli  dà  uno  schiaffo  ed  entra;  lui 
si  lamenta;  e  via. 


-  412  — 

Scena  XI. 

Luzìo  e  Coviello. 
Malinconici  pel  disamore  d'Angela;  in  questo 

Scena  XII. 

Angela  e  Detti. 

In  veder  Luzio  gli  domanda  perdono,  perchè  cre- 
deva che  lui  l'avesse  tradita;  Luzio  l'abbraccia,  si 
danno  di  nuovo  la  fede,  Angela  in  casa,  Luzio  via 
con  Coviello. 

Scena  XIII. 

Pulcinella  solo. 
Sopra  il  passato,  in  questo 

Scena  XIV. 

Brunetta  e  Detto. 
Fa  scena  amorosa  con  Pulcinella  ;  in  questo 

Scena  XV. 

Coviello  e  Detti. 

Coviello  fa  suoi  lazzi  da  dietro,  poi  si  fa  avanti  e 
contrasta    con    Pulcinella    per  Brunetta ,   in  questo 


—  413  — 

Scena  XVI. 

Fiammetta  e  Detti. 

Piglia  gelosia  di  Pulcinella,  attaccano  rumore  uo- 
mini e  donne  e  finiscono  Tatto  secondo. 

ATTO  TERZO 
Scena  I. 

Flaminio  e  Pulcinella, 
Per  sincerarsi  e  pacificarsi  con  Vittoria,  battono 

Scena  II. 

Vittoria  e  Detti. 

Si  sincerano,  si  pacificano  ;  si  danno  la  fede  ed 
entra  Vittoria  ;  Flaminio  via  ;  Pulcinella  resta  in  questo 

Scena  III. 

Cornelio  e  Detto. 

Coviello  e  Pulcinella,  dopo  lazzi,  si  pacificano  ; 
dopo  Coviello  gli  dice  che  se  vuole  aiutare  il  suo 
padrone  si  vesta  da  negromante  e  dica  che  Luzio  è 
spiritato,  che  per  levar  gli  spiriti  vuol  portare  un  sacco 


—  414  — 

di  demonj  sotto  il  letto  della  sposa,  e  con  questa  scusa 
faranno  entrare  Flaminio  nel  sacco  ;  Pulcinella  entra  a 
vestirsi,  Coviello  resta  ;  in  questo 

Scena  IV. 

Qiangurgolo,   Pascariello    e  Coviello. 

Ascoltano  da  Coviello  che  Luzio  è  spiritato  e  che 
ha  trovato  un  mago  che  vuol  sanarlo  ;  loro  dicono  che 
lo  chiami,  e  Coviello  chiama 

Scena  V. 

Pulcinella  e  Detti. 

Pulcinella  da  mago  fa  suoi  lazzi,  poi  dice  che  per 
sanare  Luzio  porterà  un  sacco  di  demonj  sotto  il  letto 
della  sposa;  loro  si  contentano  e  vanno  a  battere  da 

Scena  VI. 

littoria,  Fiammetta  e  Detti. 

Li  Vecchi  le  danno  ordine  che  quando  verrà  Co- 
viello con  un  sacco  che  lo  piglino  e  lo  pongano  sotto 
il  letto,  perchè  è  mercanzia  ;  Coviello  di  nascosto  av- 
visa Vittoria  che  questa  è  sua  invenzione  per  farle 
avere  Flaminio  ;  essa  risponde  ai  Vecchi  che  si  con- 
tenta. Donne  in  casa.  Vecchi  via;  restano  Pulcinella 
e  Coviello;  questi  manda  Pulcinella  a  pigliare  un  sacco; 
Pulcinella  via,  Coviello  resta  ;  in  questo 


—  415  — 

Scena  VII. 

Flaminio  e  Cornelio. 
Coviello  gli  conta  il  tutto,  lui  si  contenta,  in  questo 

Scena  Vili. 

Pulcinella  e  Detti. 

Pulcinella  porta  il  sacco ,  vi  pongono  dentro    Fla- 
minio, e  battono 

Scena  IX. 

Vittoria,  Fiammetta  e  Detti. 

Ricevono  il  sacco  e  via   tutti,  resta    Coviello  ;    in 
questo 

Scena  X. 

Lazio  e  Coviello. 

Ascolta  il  tutto  di    Flaminio,  si  rallegra ,  Coviello 
batte  da 

Scena  XI. 

Angela,  Brunetta  e  Detti. 

Si  sposa  Angela  con  Luzio  e  Brunetta  con  Coviello; 
m  questo 


—  416  — 

Scena  XII. 

Pulcinella  e  Detti. 

Domanda  Fiammetta  per  moglie,  Coviello  dice  che 
già  sta  per  lui,  ed  entrano  tutti  in  casa    di  Vittoria. 

Scena  XIII. 

Giangurgolo  e   l^ascariello. 

Per  vedere  se  il  mago  ha  sanato  Luzio  ;  battono 
alla  casa  di  Vittoria. 

Scena  ultima. 

Tutti  ;  si  possono  fare  diversi  lazzi  per  finire  1'  o- 
pera  ridicola,  cioè,  o  con  il  lazzo  uscendo  uno  ad  uno 
del  La  la  la,  o  con  quello  d*  allegrezza ,  allegrezza, 
oppure  della  fenestra  ;  tutto  questo  è  arbitrario  ;  poi 
Coviello  cerca  perdono,  si  concludono  i  matrimoni  e 
finiscono  V  opera. 


fine  della  commedia 


LE  DISGRAZIE  DI  PULCINELLA  ^ 

COMMEDIA 

PERSONAGGI 

Dottore,  padre 
Isabella,  lìalia 

COVIELLO,   servo 

Luzio 

Tartaglia,  padre 

Cinzia,  figlia 

Rosetta,  serva 

Orazio 

Pulcinella,  napoletano 

Facchino 

Servì 

Ponno  anche  intervenire  sei  figlietti  vestiti  alla  Pulcinella. 

Città  :  Bologna 

*  11  presente  scenario  fu  riprodotto  per  sommi  capi  dal  Caprin  nel 
suo  libro  sul   Goldoni. 

tKd  "Regno  delle  ^JiCaschtre  27 


ATTO  PRIMO 

Isabella,  da  casa,  viene  lamentandosi  con  Coviello 
suo  servo  del  poco  affetto  d'Orazio  e  della  fede  do- 
natagli prima  che  andasse  allo  studio,  e  dopo  un  così 
lungo  tempo  dopo  la  sua  partenza,  non  aver  potuto 
avere  lettera  ;  lui  la  consola  dicendole  che  non  dubiti 
della  fede  di  quello  ;  lei  domandi  al  procaccia  per 
lettere  ed  entra  ;   Coviello  va  via. 

Orazio,  ritorno  alla  patria  e  l'amore  d' Isabella  ,  e 
volerla  domandare  per  isposa  al  padre  ;  in  questo  Dot- 
tore, vede  quello,  si  rallegra  di  sua  venuta  ;  dopo  sce- 
na Orazio  gli  chiede  la  figlia  per  isposa  ;  lui  dice 
averla  casata  con  un  mercante  di  pietre  pomici  di  Na- 
poli ed  avere  avuto  la  lettera  che  in  breve  sarà  per 
isposare  la  figlia  in  Bologna  ,  mostrandogli  la  lettera 
di  quello  e  lasciandosela  cadere,  parte  ;  lui  doloroso 
resta  e  voler  rimproverare  la  sua  donna  ;  batte. 

Isabella,  vedendo  Orazio  con  allegrezza  corre  per 
abbracciarlo;  lui  discostandosi  da  quella  la  rimprove- 
ra ;  lei  per  non  poter  parlare,  s'affligge  ;  in  questo 

Coviello  vede  Orazio,   corre  con  allegrezza  ;  lui  tira 


—  420  — 

la  spada  per  uccidersi  ;  Coviello  chiede  la  causa  del 
suo  cordoglio  ;  lui  dice  il  tutto  del  matrimonio  d'Isa- 
bella; loro  dicono  non  saperne  niente  :  vedono  un  fo- 
glio in  terra  ;  Orazio  conosce  esser  la  lettera  dello 
sposo  caduta  al  Dottore  ;  la  pigliano,  la  leggono  e  ri- 
dono delli  spropositi;  Coviello  dice  loro  che  lui  di- 
sturberà il  tutto  ;  concerta  Orazio  da  Pulcinella  ,  gli 
dà  il  modo  di  quello  ;  donna  entra,  Orazio  e  Coviello 
vanno. 

Pulcinella  e  Facchino.  Pulcinella  viene  raccontan- 
do all'altro  molte  cose.  11  Facchino  con  molte  valigie 
in  collo  posa  le  robbe  e  chiede  esser  pagato,  lui  gli 
dice  esser  sposo  e  fa  il  mercante  di  pietre  pomici  ; 
quello  non  volerne  saper  niente  e  voler  essere  pagato; 
quello  che  quando  piglia  la  dote  lo  pagherà  ;  sono  in 
contrasti  ;  in  questo 

Coviello,  acquieta  il  rumore,  sente  esser  quello  Pul- 
cinella lo  sposo,  manda  via  il  facchino,  e  lui  resta  con 
Pulcinella,  quale  gli  chiede  del  Dottore  ;  Coviello  con 
lazzi  lo  manda  in  villa  :  Pulcinella  prendesi  le  valigie 
in  collo,  via  ;  Coviello  resta,  ed  accenna  all'amore  di 
Rosetta  ;  in  questo 

Luzio,  sopra  l'amore  di  Cinzia,  chiede  aiuto  a  Co-^ 
viello,  quale  gli  dice  anche  lui  essere  amante  della 
serva  :  batte  da 

Rosetta,  fa  scena  amorosa  con  Coviello  ,  e  dopa 
scena  chiama 

Cinzia,  fa  scena  d'amore  con  Luzio;  Coviello  dice 
che  se  loro  vogliono  essere  aiutati  occorre  che  s'ado- 
perino ancora  con  lui  ad  una  sua  invenzione  ;  quelli 


—  421   - 

promettono  ;  Coviello  parla  all'orecchio  di  Cinzia  ,  e 
poi  le  dice  che  vestendosi  come  le  dice  sia  lesta 
alla  sua  chiamata  ;  poi  parla  all'  orecchio  di  Luzio  e 
poi  concerta  Rosetta  da  Dottore  e  che  stiano  pronte 
al  suo  cenno  ;  in  questo 

Tartaglia,  da  strada,  vede  le  donne  con  quelli,  adi- 
rato le  sgrida  :  Luzio  fa  il  lazzo  del  passeggio  sino 
alla  porta  con  la  riverenza  alla  muta,  e  via;  Coviello 
il  simile  con  Rosetta,  e  via  ;  gli  altri  restano. 

Tartaglia  e  Donne.  Tartaglia  dice  alla  figlia  :  che 
cosa  quelli  volevano  ?  Lei  dice  :  signor  padre,  quelli 
volevano  di  me...  S'imbroglia  e  col  lazzo  che  lo  dica 
lei,  più  volte  fatta  la  scena.  Tartaglia  le  fa  rientrare; 
in  questo 

Orazio,  accappottato,  fa  passata  da  bravo,  e  via  ; 
Tartaglia,  sua  paura,   e  resta  :  in  questo 

Coviello  r  istesso  e  parte;  Tartaglia  disperato  e  pau- 
roso resta  ;  in  questo 

Dottore  ;  Tartaglia  fa  il  lazzo  del  passeggio  por- 
tandolo per  mano  e  la  passata  dell'accappottato;  Dot- 
tore se  ne  ride  e  lo  stima  per  matto;  lui  gli  racconta 
ii  tutto  ;  Dottore  lo  consiglia  di  casare  la  figlia  ;  lui 
approva  il  suo  parere,  infine  via  ;  Dottore  ridendo  re- 
sta; in  questo 

Coviello,  di  fretta,  dice  essere  venuto  in  piazza  un 
forestiero  e  domandava  di  lui  ;  Dottore  dubita  non 
sia  lo  sposo  di  sua  figlia;  in  questo 

Orazio,  da  Pulcinella,  con  lazzi  sciocchi  dice  d'an- 
dar cercando  Dottore  e  lui  esser  lo  sposo  di  sua  fi- 


—  422  — 

glia  chiamato  Pulcinella  ;  Dottore  1'  abbraccia  e  con 
allegrezza  chiama 

Isabella,  intende  esser  Io  sposo,  lo  guarda;  Coviello 
di  dietro  fa  lazzi  :  le  accenna  esser  Orazio;  lei  in- 
teso si  contenta  ,  ed  abbracciati  entrano  in  casa  ,  il 
Dottore  li  segue  ;  Coviello  resta  ,  ed  allegro  per  la 
riuscita  nell'  invenzione,  via. 

Pulcinella,  dice  aver  camminato  dieci  miglia  con  le 
valigie  in  collo,  ed  essere  stato  burlato  ;  dice  essergli 
stata  insegnata  casa  Dottore  e  voler  chiamare  .  in 
questo,  di  dentro,  lazzi  d'allegrezza  dicendo  :  Sia  il 
ben  venuto  il  signor  Pulcinella  :  lui  intende,  si  ralle- 
gra credendo  l'abbiano  veduto  venire,  e  tacendo  al- 
legrezza e  con  sollecitudine  batte. 

Dottore,  di  dentro,  dice  accomodare  la  tavola  per 
far  desinare  il  signor  Pulcinella  ;  lui  si  rallegra  ;  in 
questo  Dottore  vien  fuori  e  dice  a  quello,  stimandolo 
povero,  che  torni  dopo  pranzo,  ed  entra  ;  lui,  attonito 
resta,  e  di  nuovo  batte. 

Dottore,  il  lazzo  :  è  fatta  la  carità  ;  ed  entra  ;  lui 
s'adira  e  di  nuovo  batte. 

Dottore,  lo  minaccia  perchè  disturba  la  cena  ;  lui 
dice  esser  Pulcinella  ;  Dottore  ridere  dice  esser  matto, 
perchè  Pulcinella  è  in  casa  ;  Pulcinella  dice  esser  lui 
ch'era  venuto  per  la  sposa  ;  Dottore  lo  chiama  furbo; 
sono  a  contrasti,   e   Dottore  adirato  chiama. 

Orazio,  da  casa,  da  Pulcinella,  fa  lazzi,  spropositi; 
s'attaccano  a  pugni,  pongono  il  Dottore  in  mezzo  e 
con  lazzi  e  rumori  finiscono  l'atto  primo. 


—  423  — 

ATTO  SECONDO 

Cinzia,  da  casa,  chiedendo  a  Tartaglia,  suo  padre, 
marito  ;  lui  s'adira  dicendo  che  attenda  a  star  mode- 
sta ,  che  lui  avendo  buona  occasione  ,  la  caserà  :  la 
manda  in  casa,  e  lui  adirato  contro  di  quella,  via. 

Pulcinella,  doloroso  del  passato  pel  Pulcinella  falso; 
in  questo 

Coviello  finge  di  non  conoscerlo  :  Pulcinella  Io  sa- 
luta ;  egli  dice  che  dal  giorno  in  cui  lo  mandò  in  villa 
non  ha  potuto  più  vedere  il  Dottore;  gli  racconta  es- 
sere stato  burlato  per  essergli  stata  insegnata  la  casa 
di  un  altro  Dottore  con  un  Pulcinella  falsario  ;  Co- 
viello finge  di  non  saper  chi  sia,  ne  che  dica,  e  non 
averlo  mai  veduto,  e  che  quelli  che  hanno  insegnato 
la  casa  vedendo  esser  lui  forestiero ,  hanno  voluto 
prendersi  gusto  con  burlarlo  ,  che  il  dottore  suo  pa- 
drone non  stava  in  quel  loco  ,  e  gli  mostra  la  casa, 
dicendo  essergli  lui  servo,  e  chiamarsi  Meìi,  e  batte  da 

Rosetta,  da  Dottore,  dopo  lazzi,  chiama 

Cinzia,  con  stampelle  da  stroppiata,  con  empiastri, 
tutta  fasciata,  fa  lazzi  con  lo  sposo  ;  lui  non  volerla  , 
donna  fingendo  adirarsi  entrano.  Pulcinella  con  Co- 
viello resta  ,  e  Coviello  finge  compatirlo,  e  che  lui 
aveva  fatto  molto  male  a  venire  a  prendersi  una  sposa 
che  non  sapeva  senza  prima  informarsi  del  vero  ;  lo 
consiglia  che  se  ne  torni  ;  lui  di  sì  ;  Coviello  via;  Pul- 
cinella resta  dicendo  male  del  Dottore  ;  in  questo 

Tartaglia,  vede  Pulcinella  ,  lo  conosce ,  essendogli 


—  424  — 

stato  amico,  gli  fa  cerimonie,  chiede  che  cosa  era  ve- 
nuto a  fare  a  Bologna  ;  lui  gli  dice  il  tutto  dei  ma- 
trimonio e  della  sposa  stroppiata  e  del  Pulcinella  fal- 
sario ;  Tartaglia  dice  che  l'avevano  burlato  e  che  il 
Dottore  era  un  uomo  di  molto  garbo  e  la  figlia  una 
compita  dama,  la  più  bella  della  città  ;  s'offre  far  fede 
di  lui  ch'era  il  vero  Pulcinella,  e  lo  vuol  portar  seco 
per  parlargli  ;  Pulcinella  ringraziandolo  lo  prega  aiu- 
tarlo ;  in  questo 

Dottore,  sopra  il  successo  dei  due  Pulcinella,  vede 
quello,  si  adira,  lo  chiama  furbo  ;  Tartaglia  fa  fede 
esser  lui  stato  ingannato,  che  quello  era  il  vero  Pul- 
cinella ,  mercante  di  pietre  pomici ,  napoletano  ,  suo 
amico,  e  parte  :  Dottore  gli  chiede  perdono  di  non 
averlo  conosciuto  e  con  allegrezza  chiama 

Isabella,  le  dice  essere  stati  ingannati,  che  questo 
era  il  vero  Pulcinella  ;  in  questo 

Coviello  osserva  e  si  dispera  ;  Dottore  fa  loro  toc- 
care la  mano  ;  Coviello  porge  loro  cose  ridicole,  ed 
entra;  loro  rimangono  facendo  cerimonie  e  dicendo 
che  nella  città  vi  sono  molti  belli  umori  che  vogliono 
pigliarsi  gusto  ;  in  questo 

Orazio,  da  medico,  dice  a  Pulcinella  d'aver  fatto 
l'unguento  del  mal  francese  :  lui  si  adira  e  bastona 
quello,  il  quale  fugge  ;   loro  restano  ;  in  questo 

Coviello  da  mammana,  dice  ad  Isabella  quando 
sarà  il  tempo  del  parto  che  la  mandi  a  chiamare  sol- 
citamente  ;  Pulcinella  s'adira,  lo  ributta  ;  lui  parte,  e 
loro  restano  ;  in  questo  fanno  entrare  Isabella  in  casa 
e  loro  vanno  via. 


—  425  — 

Coviello  viene  dicendo  ad  Orazio  che  non  dubiti 
e  lasci  fare  a  lui  per  imbrogliar  tutti,  gli  parla  all'o- 
recchio e  lo  manda  via  ;  e  lui  accenna  prepararsi  per 
altre  furberie   e  chiama 

Rosetta,  gli  dice  se  ha  sortito  bene  1*  invenzione; 
Coviello  accenna  di  fare  il  meglio,  la  concerta  a  porsi 
un  manto  che  quando  sarà  tempo  che  giunga  esser  la 
moglie  di  Pulcinella  ch'era  venuta  a  posta  da  Napoli 
per  ritrovarlo  e  averla  lasciata  con  sei  figli  e  mezzo 
(incinta)  ;  lei  dice  di  sì,  e  lui  la  manda  a  vestirsi  e 
che  sia  lesta  ,  e  che  quando  lui  darà  il  segno  che 
venga  ;  lei  entra,  lui  resta,  poi  parte  per  la  strada. 

Dottore  e  Pulcinella  allegri  per  aver  fatti  li  scritti 
ed  ora  non  esserci  più  impedimento,  e  chiamano 

Isabella,  loro  dicono  che  abbracci  lo  sposo,  quella 
ricusa,  in   questo 

Coviello    osserva  e  chiama  con  cenni 

Rosetta,  con  manto  ;  Coviello,  via  ;  lei  rimprovera 
Pulcinella  d'  ingrato  per  averla  lasciata  con  sei  figli 
e  mezzo  in  Napoli  (1)  e  piena  di  debiti  e  volere  an- 
dare alla  giustizia,  e  parte  ;  Dottore  s' adira  con  Pul- 
cinella per  averlo  ingannato  ed  esser  sposo  d'un'altra 
moglie,  e  voler  andare  a  farlo  castigare  dalla  giusti- 
zia ;  fa  entrare  la  figlia  e  lui  adirato  parte  ;  Pulci- 
nella disperato  resta  ;  in  questo 

Coviello,  fìnge  parlar  dentro,  che  trattengano  la  fo- 


(  1  )  Nota  nel  manoscritto  :  "  Qui  ponno  uscire  sei  figlioli  vestiti  da 
Pulcinella  dicendo  esser  figli  di  Pulcinella,  chiamandolo:  Papà,  papà, 
e  gridando  :  Pane,   pane  ". 


—  426  — 

Testiera  e  il  Dottore,  quali  volevano  con  la  Corte  car- 
cerare Pulcinella  ;  Pulcinella  lo  vede,  lo  chiama  signor 
Meìi  ;  Coviello  nega  constar  chi  sia,  e  chiamarsi:  Te 
r  ho  detto,  ed  esser  lavandaio  di  panni  sporchi ,  e 
chiede  chi  sia  lui.  Pulcinella  glie  lo  dice  ;  poi  Co- 
viello gli  dice  che  si  salvi  perchè  una  donna  napo- 
letana, che  dice  essergli  moglie,  e  il  Dottore,  l'hanno 
querelato  alla  giustizia  e  che  vanno  per  la  città  coi 
birri  per  querelarlo  ,  ed  andrà  in  galera:  Pulcinella 
comprende  e  lo  prega  di  aiutarlo.  Coviello  finge  di 
non  saperne  il  modo,  infine  gli  dice  volerlo  servire  e 
volerlo  cacciare  fuori  la  città  dentro  un  sacco  di  panni 
sporchi,  che  se  per  fortuna  s'  incontrano  con  la  Corte 
e  chiesto  che  robba  era  nel  sacco,  lui  dirà  esser  panni 
sporchi  e  che  poi  essendo  fuori  le  porte  della  città 
anderà  via  ;  lui  si  contenta  e  lo  ringrazia  ;  Coviello 
entra,   e  poi  fuori. 

Coviello,  con  sacco,  pone  Pulcinella  dentro  e  lo 
lega  ;  in  questo 

Orazio  e  Luzio  ;  Coviello  dice  il  tutto  di  Pulci- 
nella nel  sacco  e  li  concerta  fingere  la  Corte  ;  loro 
voler  prima  le  donne  ;  in  questo  lui  chiama 

Isabella,  la  consegna  ad  Orazio  e  li  manda  via  ; 
Luzio  resta  con  Coviello  quale  chiama 

Cinzia,  e  gliela  consegna,  e  li  mando  via;  lui  resta 
aspettando  i  Servi  di  quelli  per  fingersi  la  Corte,  se- 
condo come  sono  rimasti  appuntati  ;  in  questo 

Servi,  fingono  la  Corte,  dicono  che  vi  sia  nel  sacco; 
Coviello  dice  :  panni  sporchi  ;  Pulcinella  di  dentro, 
fa  il  lazzo  di  panni  sporchi  ;  loro  lo  sciolgono;  Pul- 


il 


—  427  — 

cinella  scappa  fuori  e  con  paura  fugge  ;   loro    basto- 
nando l' inseguono  e  finiscono  l'atto  secondo. 

ATTO   TERZO 

Pulcinella,  sopra  le  sue  disgrazie  ;  in  questo  Co- 
viello  ;  Pulcinella  vedendolo  lo  chiama:  Te  l'ho  detto; 
Coviello  dice  di  non  conoscerlo,  e  che  lui  si  chiama: 
Tu  lo  sai,  tei  dirò,  e  con  te  l'ho  detto.  Fanno  lazzi 
sopra  del  nome  ;  Pulcinella  gli  narra  le  sue  disgrazie; 
Coviello  che  il  Dottore  era  un  mago  stregone  e  che 
la  figlia  era  bruttissima  e  lui  per  incanti  la  fa  parer 
bella  a  tutti,  ma  aveva  le  gambe  di  legno,  gli  occhi 
di  vetro,  la  testa  di  cocozza,  li  denti  di  cera  e  che 
sotto  portava  la  bocca  della  montagna  di  Somma,  lun- 
ga sei  miglia  e  fonda  in  quantità  e  che  stia  in  cer- 
vello, e  che  tutto  quello  che  gli  era  successo  erano 
macchine  del  Dottore;  Pulcinella  lo  ringrazia,  dopo 
Coviello  va   via,  e  lui  rimane  ;  in  questo 

Dottore  lo  vede,  lo  rimprovera  uomo  di  due  mogli, 
e  Pulcinella  lo  chiama  stregone,  sono  a  contrasti,  in 
questo 

Tartaglia  li  riprende  che  sempre  facevano  lite:  Pul- 
cinella gli  dice  che  il  Dottore  era  uno  stregone  e  tutte 
le  sue  disgrazie  erano  sue  finzioni  e  che  la  figlia  era 
bruttissima,  con  le  gambe  di  legno,  li  occhi  di  vetro, 
la  capa  di  cocozza  e  li  denti  di  cera,  come  sotto  ha 
la  bocca  del  monte  Somma  larga  sei  miglia  e  fonda 
in  quantità.  11  Dottore  adirato  vuole    ucciderlo;   Pul- 


-  428  — 

cinella  fugge  ;  Taitaglia  placa  il  Dottore  e  tutti  e  due 
risolvono  di  pigliarsi  loro  l'uno  con  V  altro  le  loro  fi- 
glie e  chiamano  ;  in  questo 

Coviello,  dice  d'avere  incontrato  Pulcinella  con  cin- 
que o  sei  persone  armate ,  che  portavano  via  le  loro 
figlie  ;  loro  dicono  volerlo  inseguire  ,  ma  aver  paura 
della  gente  d'armi  e  pregano  Coviello,  quale  dice  che 
se  loro  vogliono  pagare  un  bravo  ,  li  accompagnerà  ; 
loro  promettono  e  Coviello  chiama 

Orazio,  da  bravo,  tira  la  spada  facendo  bravure  ; 
loro  fuggono  per  la  paura  ;  Coviello  li  trattiene,  che 
non  temano  che  quello  fosse  così  furioso.  Orazio  pro- 
mette aiutarli  ed  esce  con  loro  ;  Coviello  resta  e  dice 
volere  imbrogliare  tutti  ;  in  questo 

Pulcinella  disperato,  vede  Coviello,  lo  chiama:  Tu 
lo  sai,  tei  dirò  ;  gli  dice  avere  ingiuriato  il  Dottore, 
quale,  vedendosi  scoverto  voleva  ucciderlo,  e  lui  era 
fuggito  ;  Coviello  gli  dice  che  stia  sulla  sua,  perchè 
il  Dottore  con  due  bravi  lo  vanno  cercando  per  uc- 
ciderlo :  Pulcinella  lo  prega  a  salvarlo  ;  Coviello  gli 
dice  di  volerlo  difendere  ed  armarsi  con  un  altro  suo 
amico  ed  accompagnarlo.  Pulcinella  lo  ringrazia  e 
vanno  ad  armarsi. 

Tartaglia,  Dottore  ed  Orazio,  armati  alla  ridicola, 
cercano  Pulcinella;  in  questo 

Luzio,  Coviello  e  Pulcinella,  armati,  si  vedono  con 
quelli  ;  fanno  lazzi  di  passeggi  ;  Orazio  dice  a  Luzio: 
Mi  conosci  chi  sono  ?  Luzio  di  no  ;  Orazio  dice:  Io 
sono  Orlando  :  Orazio  risponde  :  Io  sono  Rinaldo;  ed 
abbracciati  partono  col  lazzo  :  O  signor  parente.  Gli 


—  429  — 

altri  restano  ;  Coviello  dice  a  Tartaglia  :  Io  sono  Man- 
ricardo,  e  Tartaglia  :  Io  sono  Ferrali  ;  abbracciati  fan- 
no il  simile  ;  Pulcinella  e  il  Dottore  restano  ;  Pulci- 
nella dice  :  E  tu  chi  sei  ?  Il  Dottore  dice  :  Io  sono 
Angelica,  e  Pulcinella  risponde:  Io  sono  Marfisa  biz- 
zarra :  ed  abbracciati  partono  facendo  il  simile. 

Isabella  e  Cinzia,  non  hanno  veduto  più  i  loro  a- 
morosi,   temono  di  qualche  inconveniente  .  in    questo 

Luzio,  Orazio  e  Coviello,  travestiti,  ridono  del  pas- 
sato: in  questo  s'avvedono  delle  donne,  si  danno  a  cono- 
scere, le  narrano  le  burle  fatte  a  Pulcinella,  e  ridendo 
tutti  via  nel  casino    per  prepararsi  a  nuovi    imbrogli. 

Pulcinella,  armato  alla  ridicola,  dice  aver  per^o  i 
suoi  compagni  ;  in  questo 

I  Vecchi  lo  vedono  solo,  cacciano  la  mano  per  uc- 
ciderlo ;  lui  grida,   in   questo 

Orazio  da  giudice,  Luzio  da  scrivano,  Coviello  da 
caporale,  gridano  loro  di  fermarsi;  li  arrestano;  li  Vec- 
chi d'aver  perso  le  figlie  e  averle  Pulcinella  rubate; 
quelli  che  le  figlie  sono  in  potere  della  Corte  e  di 
volere  il  loro  consenso  per  poterle  casare  a  gusto  loro; 
i  Vecchi  di  no  ;  loro  che  andranno  carcerati;  i  Vec- 
chi per  paura  acconsentono  ;   loro  chiamano 

Isabella  dice  voler  Orazio. 

Cinzia,   domandata,  lei  voler  Luzio. 

Rosetta,  lei  voler  Coviello.  I  giovani  si  levano  le 
barbe,  scoprono  il  tutto,  e  con  matrimoni  finiscono  la 
commedia. 

FINE  DELLA  COMMEDIA 


NERONE  IMPERATORE 

TRAGICOMMEDIA 

PERSONAGGI 

Nerone,  imperatore 

Ottavia,  moglie 
Agrippina,  madre 
Seneca,  maestro 

DO'iTORE        /  .   ,.     . 

rr^  (   consiglieri 

Tartaglia  ^         ^ 

Ottone,  cavaliere 
POPPEA,  moglie 
TlRIDATE,  re  d'Armenia 

Sergio  Galea 
Giustizia  Divina 
coviello      /        ... 

r^  i    cortigiani 

Pulcinella  i         ^ 

Paggi 

Soldati 

ROBBE 

Trono  in  iscena  -  Trombe  e  tamburi  -  Più  lettere  -  Letto,  stile,  scato- 
lino  di  veleno  -  Tumolo  -  Bacile  d'argento  -  Due  corone,  due  scet- 
tri -  Conca  dove  svenare  Seneca  -  Catena  per  schiavo  -  Due  tra- 
vestiti Pulcinella  e  Coviello  -  Sangue  -  Due  sedie  d'appoggio. 

Città  :  ^oma 


ATTO  PRIMO 
Scena  I.  perone,  Ottone,  Seneca,  Consiglieri,  Corte 

(Trono  in  camera) 

Nerone  sopra  l' incendio  di  Roma  ;  ordina  la  sua 
rinnovazione  nello  spazio  di  sol  trenta  giorni  e  che 
fosse  riedificata  con  più  superbi  palcizzi  e  sontuosi  e- 
difizi  ;  tratta  di  deporre  la  madre  dal  trono  e  la  sua 
incoronazione  ;  chiede  consiglio  a  tutti,  ognuno  dà  suo 
parere  ;  a  chi  approva  promette  premj,  chi  contradice 
li  minaccia  ;  in  questo 

Scena  II.  Paggio  con  lettere  su  d*un  bacile. 

Lui  legge  che  Portogallo  chiede  per  mancanza  del 
Governo  il  nuovo  dominante  ;  lui  assegnerà  ad  Ot- 
tone la  carica  e  che  parta  prima  del  nuovo  giorno  ; 
e  via  tutti. 

!Kel  Regno  delle  ^^aschere.  28 


—  434  - 

Scena  III. 

(In  Città) 

Poppea,  Tamor  di  Nerone,  in  questo. 

Scena  IV.  "Dottore  e  'tartaglia. 

La  riveriscono  ;  lei  li  chiede  che  si  dice  in  Corte 
e  se  sarà  regina  ;  loro  di  sì  e  danno  notizia  della  par- 
tenza d*Ottone  suo  marito  con  la  carica  di  governa- 
tore di  Portogallo  ;  lei ,  ciò  inteso  ,  si  rallegra  della 
partenza  di  suo  meu'ito  per  aver  campo  di  maggior- 
mente godersi  col  suo  amato  Nerone,  e  con  allegrezza 
entra  ;  tutti  la  seguono  mormorando  della  sua  sfaccia 
taggine. 

Scena  V.  Ottavia. 

(Camera) 

Sopra  la  sua  sventura  e  l'odio  di  Nerone  suo  sposo 
e  la  sfacciataggine  di  Poppea  lasciva  ;  in  questo 

Scena  VI.  Pulcinella  e  detta. 

Pulcinella  dice  come  Ottone  vuol  riverire  la  Sua 
Maestà  ;  lei  intende  Ottone,  dice  :  che  vada  a  rive- 
rire la  maestà  di  sua  moglie,  e  senza  accettare  la  vi- 
sita, via.  Pulcinella  rimane;  in  questo 


-  435  — 

Scena  VII.  Ottone  e  Pulcinella. 

Ottone  chiede  a  Pulcinella  se  fece  Y  imbasciata  ; 
lui  dice  che  la  regina  gli  disse  :  che  vada  a  riverire 
la  maestà  di  sua  moglie,  e  senz'altro  dire  s'era  par- 
tita, e  via  Pulcinella.  Lui  intende  la  cifra  e  discorre 
che  Nerone  cerca  obbligarlo  con  cariche  e  dividerlo 
dalla  moglie  ;  giura  vendetta  ;  in  questo 

Scena  Vili.  Nerone  e  detto. 

Nerone  vede  non  esser  partito ,  lo  minaccia  di 
morte  ;  Ottone  via,  e  lui  rimane  :  in  questo 

Scena  IX.   Ottavia  e  Nerone. 

Ottavia  vede  il  marito,  lo  prega  di  non  essere  sì 
rigoroso  verso  di  lei  in  disprezzarla  ;  annoiato  della 
5ua  vista,  le  volge  le  spalle  e  lasciandola  parte  ;  in 
questo 

Scena  X.  JJgrippina  ed  Ottavia. 

Agrippina  vede  turbata  Ottavia,  le  chiede  la  causa; 
quella,  che  Nerone  suo  figlio,  per  l'amore  della  dru- 
da, la  disprezza  e  la  disdegna  ;  congiurano  unitamente 
la  morte  di  questa  e  partono. 


-  436  — 

Scena  XI.  Pulcinella  e  Coviello. 

Avere  inteso  il  tutto  della  congiura  della  morte  di 
Poppea  e  volerlo  riferire  a  Nerone,  e  partono. 

Scena  XII.  Poppea  coricata  e  Nerone, 

f  Camera  con  Ietto) 

Nerone  V  amoreggia  ,  fanno  scena  amorosa  a  loro 
gusto  ;  in  questo 

Scena  XIII.  Coviello  e  "Pulcinella  e  detti. 

Coviello  e  Pulcinella  scoprono  come  Agrippina  sua 
madre  ha  consigliato  ad  Ottavia  sua  moglie  la  morte 
di  Poppea.  Nerone  ciò  inteso  ordina  a  Pulcinella  e 
Coviello  portino  la  madre  alle  Quinquatrie,  luogo  di 
sue  delizie,  e  dentro  una  barca  forata,  le  dieno  nel- 
l'acqua, sommergendola,  la  morte.  Loro  per  l*  effetto 
impostoli  da  Nerone,  partono,  e  tutti  via. 

Scena  XIV.  Seneca. 

(Camera) 

Sopra  la  tirannide  del  discepolo  e  la  ruina  di  Ro- 
ma ;  in  questo 


437  — 


Scena  XV.  Nerone,  T>oitore,  Tartaglia,  Corte  e  detto. 

Nerone  dice  a  Seneca  come  sua  moglie  Ottavia 
era  discoperta  impudica  e  voleva  fosse  castigata;  Se- 
neca dice  essere  calunnie  ed  accingersi  per  la  difesa 
di  quella;  Nerone  dice  che  intende  fare  il  ripudio, 
minaccia  Seneca  quale  mormorando  parte;  loro  re- 
stano: in  questo 

Scena  XVI.  Coviello  e  detti. 

Coviello  dice  a  Nerone  come  un  marinaro,  mentre 
Agrippina  stava  sommergendosi  nell'onde ,  opponen- 
dosi agli  ordini  suoi,  ha  liberata  la  madre  ;  Nerone 
adirato  gli  dà  uno  stile  ed  ordina  che  uccida  il  ma- 
rinaio, e  morto  quello,  vadano  a  svenar  la  madre,  e 
parte  ;  Corte  lo  siegue  ;  Coviello  e  Pulcinella  sono 
contenti  perchè  uccidendo  quella  saranno  premiati,  e 
viano. 

Scena  XVII.   Serìeca. 

Sopra  la  sfacciataggine  di  Nerone,  e  sua  crudel- 
tade  ;  in  questo 

Scena  XVIII.  T)ottore,  "tartaglia  e  detto. 

Dottore  e  Tartaglia,  d'ordine  regio,  lo  fanno  pri- 
gioniero, e  partono. 


-  438  — 
Scena  XIX.  Agrippina. 

(Camerone) 

Assisa  in  una  sedia,  esagerando  la  crudeltà  del  fi- 
glio; in  questo 

Scena  XX.  Coviello  e  Pulcinella. 

Entrano  per  ucciderla,  fanno  i  loro  timori;  in  questo 

Scena  XXI.  tNsrone  e  detti. 

Nerone  anima  Coviello  e  Pulcinella  ad  ucciderla; 
loro  le  danno  con  lo  stile  e  Tuccidono. 

ATTO  SECONDO 

(Camerone  con  tumolo  d'Agrippina;  poi  Trono) 

Scena  I.  Ottavia. 

Piangendo  la  morte  d'Agrippina  ;  in  questo 

Scena  II.  Toppea. 

Esce  parlando  sopra  V  amore  di  Nerone  ;  Ottavia 
Tascolta,  la  chiama;  Poppea  disprezzandola,  non  le  dà 
orecchio,  chiamandola  ripudiata  d'un  Cesare;  Ottavia 
vedendosi  abbiettata  e  schernita,   la  chiama  adultera,. 


—  439  — 

impudica  e  le  dà  uno  schiaffo  ;  lei  grida    chiamando 
soccorso  ;  in  questo 

Scena  III.  Nerone  e  della. 

Nerone  placa  Poppea,  chiede  del  suo  rammarico  ; 
Poppea  cerca  vendetta  contro  la  moglie  per  averla 
chiamata  adultera  e  averle  dato  uno  schiaffo;  Nerone 
promette  vendicarla,  l'acquieta,  e  chiama 

Scena  IV.  Dollore,   TarlagUa  e  detti. 

Nerone  ordina  sia  sprigionato  Seneca  e  lo  si  con- 
duca in  quel  luogo  ;  fa  salire  Poppea  sul  trono  ;  in 
questo 

Scena  V.  Seneca  accompagnato    dal    T)ollore  e  da 
'^arlaglia  e  detti. 

Nerone  voler  ripudiare  per  adulterio  Ottavia;  fa  ve- 
nire dei  testimoni  che  si  sentono. 

Scena  VI. 

Coviello,  da  suonatore,  accusa  Ottavia,  e  parte.  Se- 
neca dice,  se  v*  è  altro  ;  in  questo 

Scena  VII. 

Pulcinella  ,  da  cieco  ,  fa  l' istesso,  e  via  ;  Seneca 
dice  :  che  venga  un  altro  ;  in  questo 


-    440  — 

Scena  Vili. 

Un  testimonio,  fa  l'istesso,  e  via;  Seneca  asserisce 
essere  quelli  falsi,  difende  Ottavia,  e  parte.  Nerone 
fa  venire  le  insegne  imperiali  per  coronare  Poppea  e 
ordina  che  vada  esule  Ottavia  dal   regno  ;  in  questo 

Scena  IX.  Paggio  e  detti. 

Dice  essere  venuto  Tiridate  d*Ai*menia  ;  Nerone 
che  entri  ;  in  questo 

Scena  X.   Tiridate  e  detti. 

Tiridate  s*  inginocchia  avanti  al  Trono,  chiede  di 
essere  incoronato  ;  Nerone  fa  venire  un'altra  corona  e 
scettro  e  incorona  Tiridate  ;  offre  la  sua  protezione. 
Tiridate  via,  Poppea  facendo  segni  d*  allegrezza  lo 
segue,  mentre  Tiridate  mostra  segni  d'amore  verso  di 
quella. 

Scena  XI.  Coviello  e  "Pulcinella, 
(Città) 

Avere  ucciso  Agrippina  e  sperarne  premi  da  Ne- 
rone, e  via. 

Scena  XII.  Ottavia  sola. 

Sopra  la  sua  partenza  dolorosa,  e  via. 


—  441   — 

Scena  XIII.  "Poppea. 

(Camera) 

Si  rallegra  della  sua  incoronazione. 

Scena  XIV.  "Virìdate  e  detta. 
Tiridate  le  si  scopre  amante  ;  in  questo 

Scena  XV.   Alerone  e  detti. 
Nerone  avere  osservato,  minaccia  Tiridate,  e  chiama 

Scena  XVI.  Consiglieri  e  detti. 

Nerone  ordina  che  Tiridate  sia  posto  quale  schiavo 
in  catena  e  con  dialogo  in  tre  finiscono  l'atto. 

ATTO  TERZO 

(Camerone  con  conca  di  rame) 

Scena  I. 

Seneca  svenato,  suo  lamento  e  muore. 

Scena  II. 

(Camerone  con  Trono) 

Tiridate  con  catena  al  piede  viene  pregando  Ne- 
rone per  la  sua  libertà  ;   lui  non  ammettendo  discolpe 


—  442  - 

lo  caccia  dal  suo  cospetto  :  licenzia  tutti,  si   siede  e 
s'addorme  ;  in  questo 

Scena  III. 

Giustizia,  lo  minaccia,  e  via  ;  lui  si  sveglia  e  pre- 
cipita dal  trono  ;  in  questo 

Scena  IV. 

Dottore,  gli  dà  una  lettera  ;  lui  legge  la  ribellione 
di  alcuni  regni  ;  s*  imperversa  e  giura  farne  vendetta; 

Scena  V. 

Tartaglia  l' istesso,  con  altra  lettera  di  ribellione  e 
parte  ;  Nerone  adirato  risolve  d'andar  di  persona  a 
far  strage  dei  sudditi  ;  in  questo 

Scena  VI. 

Poppea,  esorta  Nerone  alla  fuga  dicendogli  come 
Sergio  Galba  ed  Ottavia  sua  consorte,  fuori  le  porte 
di  Roma,  con  grossissimo  esercito,  tentano  imposses- 
szu'si  del  dominio  :  lui  sdegnato  le  dà  un  calcio  ,  e 
via  ;  lei  resta,  e  con  un  discorso  sorpresa  dal  veleno 
muore  a  pie  del  Trono. 

Scena  VII. 

Pulcinella  e  Coviello,  disperati,  come  la  città  era 
piena  di  nemici,  e  Nerone    spensierato    dimora  ;  ve- 


—  443  — 

dono  quella,  la  stimano  ubbriaca  ,  fanno  molti   lazzi» 
infine,   la  vedono  morta,  la  portano  via. 

Scena  Vili. 

^^Camero  con  Trono) 

Nerone,  suo  pensiero  dando  in  furore  per  non  po- 
ter fare  vendetta  ;  in  questo,  di  dentro  trombe,  tam- 
buri, gridi  :  Mora  Nerone  ,  lui  più  imperversa  ;  in 
questo 

Scena  IX. 

Coviello  con  stile  al  fianco  gli  dice  salvarsi,  che  il 
palazzo  era  dei  nemici  pieno  e  cercano  di  sorpren- 
derlo ed  ucciderlo  ;  lui  vede  lo  stile  ,  gli  dice  che 
l'uccida  ;  quello  ricusa,  e  dando  lo  stile  e  il  veleno 
in  suo  potere,  via  ;  Nerone  esagerando  dice  volersi 
avvelenare,  infine,  si  risolve,  butta  il  veleno  e  s'ucci- 
de ;  in  questo 

Scena  X. 

Galba,  Ottavia,  Tiridate,  soldati,  sopra  li  loro  trionfi, 
ringraziano  soldati,  vedono  morto  Nerone  ed  ordinano 
la  sepoltura,  danno  la  libertà  a  Tiridate,  pongono  Ot- 
tavia nel  dominio  e  finiscono  l'opera. 


e. 

DAGLI  SCENARI  DI  D.  PLACIDO  ADRIANI 
Le  Metamorfosi  di  Pulcinella. 

Del  p.  d.  Placido  Adriani  si  sa  questo  soltanto  : 
che  nacque  a  Lucca  nella  seconda  metà  del  secolo  XVII 
ed  entrato  nell'  ordine  dei  pp.  Benedettini  dimorò  a 
lungo  nelle  provincie  napoletane  ,  precisamente  nelle 
Calabrie:  poi  fu  a  Perugia,  indi  a  Montecassino.  Si 
ignora  dove  sia  morto  e  in  quale  anno.  Da  un  suo 
grosso  manoscritto  posseduto  dalla  Biblioteca  Comu- 
nale di  Perugia  (man.  A.  20)  ed  intitolato  :  Selva 
oppure  Sihaldone  di  concetti  comici  ecc.  con  la  data  : 
MDCCXXXVIII  ,  si  rileva  che  amò  appassionata- 
mente l'arte  della  recitazione  all'improvviso,  col  recitare 
lui  stesso  le  peuti  del  Pulcinella  parlando  assai  bene 
il  dialetto  napoletano  ;  che  nel  1  7 1 9,  fu  a  Castrovillari, 
per  rappresentare  un  San  Francesco  di  Paola  il  quale 
"  riuscì  assai  bene  ";  che  nel    1732,  ad  Assisi,  co- 


—  446  - 

mandato  da  una  dama,  compose  una  commedia  :  La 
Pietra  Incantata  e  nella  quale  recitarono  i  figli  della 
predetta  dama;  che  nel  1730  e  1731  recitò,  ali*  im- 
provviso, a  Perugia;  che  negli  anni  seguenti  (1735 
1 736  e  1737)  recitò  a  Montecassino,  all'  Albaneta, 
nella  stagione  di  carnevale.  Nello  stesso  manoscritto 
leggiamo  che  nel  1 737  scrisse:  "  U  Omo  al  punto 
"  d'Onore  d' Jlmore  e  d'Amicizia,  e  dopo  d'averne 
"  ritrovato  la  Historia  in  Tito  Livio,  fu  concluso  re- 
"  citarsi  all'impronto;  così  venne  da  Napoli  il  signor 
"  Cristoforo  Rossi  bravo  ingegnere  e  pittore  ed  ec- 
"  cellentissimo  in  rappresentare  la  parte  di  Pulcinella 
"  con  un  bravo  Coviello  ed  altri  recitanti  in  musica 
"  per  gli  intermezzi  ".  La  commedia:  Le  Metamor- 
fosi di  Pulcinella  fu  recitata  nel  carnevale  del  1 730 
nel  monastero  di  San  Pietro  a  Perugia,  sostenendone 
i  monaci  le  parti  e  lo  stesso  suo  autore  quella  di 
Pulcinella.  Altri  tempi,  altri  monaci! 

Di  codesti  Scenari,  quello  che  porta  il  titolo  :  Non 
può  essere,  ovvero.  La  donna  può  ciò  che  vuole,  è  stato 
<la  noi  pubblicato  in:  Rivista  d* Italia,  di  Roma,  fa- 
scicolo   d' agosto   1911.    (Un  Commediografo  dimen-  | 
ticatoj. 


I 


LE  METAMORFOSI  DI  PULCINELLA 

Commedia  in  tre  atti 

PERSONAGGI 

Dottore,  padre  di 

Clelia  e  Rosaura 

Rosetta,  loro  serva 

Orazio 

Luzio 

Pulcinella 

coviello 


ATTO  PRIMO 

Scena  I.   "Pulcinella  solo 

(Città) 

Pulcinella  esce  cantando,  poi  fa  scena  sopra  l'A- 
more della  vajassa  del  Dottore,  e  la  grande  gelosia 
con  cui  tiene  la  serva  e  le  figlie.  Sua  scena  contro 
l'Amore,  poi  esce. 

Scena  II.  Covìello  e  T>etto 

Pulcinella  cerca  aiuto  a  Coviello  ;  lui  pure  cerca 
aiuto  e  dice  come  il  suo  padrone  è  innamorato  d'una 
delle  figlie  del  Dottore;  in  questo 

Scena  III.   Orazio,  Luzio  e  T>etti 

Innamorati  dicono  essere  invaghiti  delle  figlie  del 
Dottore  e  avere  scritto  una  lettera  ,  ne  sapere  come 
fare  a  fargliela  ricapitsu^e  in  mano.  Buffi  loro  lazzi 
muti.  Orazio  scorge  Coviello;  lui  dice  se  regaleranno 

Nel  Regno  delle  Maschere  29 


—  450  - 

dieci  ducati  a  Pulcinella  lui  farà  subito.  Loro  pro- 
mettono denaro;  e  via  Innamorati.  Coviello  concerta 
Pulcinella  da  moretto  statua  a  uso  di  tavolino;  Pul- 
cinella, suoi  lazzi;  poi  via  tutti  per  vestirsi. 

Scena  IV.   Dottore  solo 

(Camera) 

Sua  scena  contro  il  sesso  femminile  e  potià  dire 
le  seguenti  parole  notare  a  pag.  83  (1)  ove  nella 
tirata  si  spiega  la  scena,  acciò  Pulcinella  si  vesta  da 
moretto;  poi  chiama 

Scena  V.  Clelia,  %osaura.  Rosetta  e  Detto. 

Dottore  esorta  le  donne  allo  studio  delle  belle 
lettere;  Rosetta  cercare  belli  fatti  e  non  parole.  Dot- 
tore la  sgrida,  poi  si  sente  bussare,  Rosetta  va  a  ve- 
dere, torna  e  dice  essere  un  falegname.  Dottore  fa 
ritirare  le  donne. 

(1)  Difatti  nello  Zibaldone,  a  pag.  83,  si  legge  la  tirata  contro 
il  sesso  debole  e  di  cui  diamo  soltanto  la  prima  parte:  "  La  donna 
z'è  il  seppo  dell'incostanza,  z'è  il  specche  dell'infedeltà,  z'è  la  maistra 
delie  frodi,  z'  è  l'amiga  delli  inganni,  z'  è  l' inventris  della  simulazion. 
Ora  è  il  dir  ben  colò  che  non  ghè  mal  che  non  vegni  della  femina, 
e  queir  alter  disse  che  zè  mejo  abitar  int'  una  tierra  deserta  che  star 
con  una  femina  stizzosa,  e  un  alter  al  dicea  che  la  femina  zè  più 
dura  della  morte  e  per  questo  sta  scritt ,  che  de  mill'  omine  se  ne 
triova  uno  bon,  ma  fra  tutte  le  femine  non  ghe  n*  è  una;  e  per  quest  se 
dise,  che  tutte  le  malizie  del  mondo  son  corte  a  rispett  della  malizia  de  la 
donna.  E  che  si  sappia  el  ver  sta  scritt ,  che  l'è  miglior  la  iniquità 
pell'omm  che  una  bona  azzione  d'una  femina  ecc.  ecc. 


-  451    - 

Scena  VI.   Pulcinella  Coviello  e  T>etto, 

Pulcinella  da  statua  di  nero  con  tavolozza  in  mano 
per  posare  ;  Pulcinella  viene  portato  da  due.  Coviello 
da  maestro  artefice  dice  essergli  giunto  questo  bel 
tavolino  air  ultima  moda  ,  dice  al  Dottore  che  lo 
compri.  Loro  Icizzi  del  prezzo;  si  accordano  ;  Dottore 
piglia  un  fiasco,  mette  il  vino  nel  bicchiere  e  mentre 
discorrono  Pulcinella  beve,  si  fa  due  volte  il  lazzo  ; 
Dottore  fa  meraviglie;  Coviello  che  sarà  come  l'acqua- 
vite che  va  in  fumo;  poi  beve  Coviello,  e  va  via  lui 
coi  facchini.   Dottore  chiama. 

Scena  VII.   Clelia,  Rosaura,  Tiosetta  e  Detti. 

Dottore  fa  vedere  compra  da  lui  fatta ,  poi  entra. 
Pulcinella,  subito  lazzi  con  Rosetta;  le  donne  gridano; 
esce  Dottore  ;  che  il  tavolino  si  muove  ;  Dottore  le 
tratta  da  sciocche,  e  via;  Pulcinella,  suoi  lazzi;  loro 
grida;  Dottore  come  sopra  ;  la  terza  volta  Dottore 
s'accorge,  bastona  Pulcinella,  e  via  tutti. 

Scena  Vili.   Orazio,  Luzio. 

(Città) 

Ansiosi  cosa  abbia  fatto  Coviello  con  lettera;  loro 
lusinghe  sia  ricapitata  nelle  mani  delle  loro  donne  ; 
speranza  d'esito  felice;   in  questo 


—  452  — 

Scena  IX.  Coviello  e  Detti. 

Coviello  ansioso  per  sapere  l'esito  dell'  invenzione 
fatta  da  Pulcinella.  Innamorati  vedono  Coviello  ,  di- 
mandano cosa  abbia  fatto.  Coviello  racconta  la  tra- 
sformazione di  Pulcinella  in  moretto  e  che  le  cose 
sono  andate  bene  essendo  un'  invenzione  assai  vaga; 
in  questo 

Scena  X.   Pulcinella  e  Detti 

Pulcinella,  suoi  lazzi.  Coviello  cosa  abbia  fatto  della 
lettera;  Pulcinella  che  odori  le  spalle;  poi  dice  non 
volerne  saper  altro.  Innamorati  lo  pregano;  qui  ci  va 
il  lazzo  della  Pellegrina  ;  Pulcinella  promette  aiuto  ; 
Innamorati  via,  Coviello  concerta  Pulcinella  da  Chia- 
ravalle  di  Milano,  e  lui  pure  da  Astrologo;  loro  lazzi 
e  via  a  vestirsi. 

Scena  XI.  T>ottore  solo 

(Camera) 

Uscendo  finge  cadere,  recita  la  tirata  dello  scap- 
puccio; poi  chiama  Rosetta. 

Scena  XII.  Rosetta,  poi  Clelia,  Rosaura,  Detto 

Dottore  dice  alla  serva  che  chiami  le  ragazze;  le 
loda,   la  virtù  esser  necessaria  nelle    donne  ;  si  sente 


—  453  — 

bussare.   Rosetta  va  a  vedere,  dice  essere  due  astro- 
loghi;  Dottore,  che  entrino. 

Scena  XIII.  Pulcinella  e  Coviello  da  astrologhi,  T>etti 

Pulcinella  con  mappamondo  illuminato  e  compasso, 
Coviello  con  gran  libraccio  ;  tutti  siedono  attorno  al 
tavolino.  Dottore,  sua  tirata  d'  astrologia;  Pulcinella, 
suoi  lazzi  con  Rosetta;  poi  considerano  il  globo  ce- 
leste; Pulcinella  fissa  in  cima  al  compasso  la  lettera; 
poi  dice  che  quelle  stelle  significano  un'  arietta  in 
musica;  Dottore,  che  la  dica.  Pulcinella  canta  :  Pi- 
gliatella  sta  cartella  —  Su,  o  figlioletta  —  Nò  me  ffa 
chiù  pantecà  —  e  col  compasso  tocca  verso  Clelia 
quale  ci  guarda  dopo  la  seconda  replica;  se  ne  ac- 
corge il  Dottore;  rumore,  cadono  sedie,  cade  il  Dot- 
tore, e  finisce  Tatto. 

ATTO  SECONDO 

Scena  I.  T>ottore,  Clelia,  ^osaura,   Rosetta 

(Camera) 

Dottore  si  lagna  che  per  causa  loro  succedono  tante 
baronate.  Donne  dicono  che  le  mariti.  Dottore  dice 
che  per  via  d'astrologia  ha  compreso  che  i  due  figli 
d'un  gran  re  delle  Indie  devono  venire  a  sposarle, 
attendano  allo  studio,  e  via.  Donne  si  lagnano  che 
devono  rivoltare  libri,  quando  vorrebbero  abbracciare 
amanti,  ed  entrano. 


-  454  — 

Scena  II.  Pulcinella  solo. 

(Città) 

Fa  una  tirata,  poi  non  volere  saper  altro  ;  in  questo 

Scena  III.  Luzìo,   Orazio,   Coviello,  T^etto. 

Pulcinella  dice  che  li  andava  cercando  ;  Coviello 
che  occorre  che  si  ripiglino  la  lettera  non  volendo 
fare  il  procaccia  amoroso;  loro  lo  pregano;  lui  ricusa; 
loro  che  gli  daranno  20  scudi.  Pulcinella  promette; 
loro  si  raccomandano  a  Coviello,  e  via;  Coviello  con- 
certa da  statua  Pulcinella,  questi  fa  lazzi  che  non  cam- 
minerà ,  ma  girerà  ;  Coviello  che  il  tutto  è  finzione. 
Pulcinella  e  Coviello  via  a  vestirsi. 

Scena  IV.  Dottore,  poi  Rosetta 

(Camera) 

Dottore  dice  ora  essere  innamorato  di  Rosetta  ed 
averla  chiamata  per  iscoprirle  il  suo  amore.  Rosetta, 
suoi  lazzi  di  ciò  che  le  bisogni;  Dottore,  anche  lui  ha 
dei  bisogni;  Rosetta,  che  li  spieghi  ,  Dottore,  essere 
di  lei  innamorato;  sua  scena  amorosa.  Rosetta,  a  parte 
lo  burla;  fìnge  di  corrispondere  ;  Dottore  dice  che 
subito  accasate  le  figliuole  vuole  sposarla,  e  farla  pa- 
drona di  casa  ;  Rosetta ,  che  è  povera  donnicciuola, 
non  esser  degna.  Dottore,  che  lui  vuole  così.  (Si  dia 


—  455  — 

tempo  a  Pulcinella  di  vestirsi).  Si  bussa;  Rosetta  corre, 
torna,  dice  essere  uno  scultore;  Dottore,  che  entri. 

Scena  V.  Covìello  da  scultore,  T^ulcinella  da  Statua, 

T>etti. 

Coviello  con  facchini  che  portano  Pulcinella  da 
statua  sopra  piedistallo.  Coviello  con  cerimonie,  poi, 
a  tempo,  fa  muovere  la  statua,  ora  le  braccia,  ora  le 
gambe,  ora  il  capo,  dicendo  essere  tutta  arte  mate- 
matica. Dottore  domanda  il  prezzo;  si  accordano;  Dot- 
tore paga;  Coviello  via.  Dottore  dice  a  Rosetta,  fac- 
cia vedere  la  statua  alle  donne,  e  via. 

Scena  VI.   Clelia,  Rosauna,  T>ettL 

Rosetta  dice  avere  il  Dottore  comprato  una  statua; 
loro  che  non  se  ne  curano;  vogliamo  robba  viva  e  di 
carne.  Pulcinella  scende  e  si  pone  in  mezzo;  paura. 
Le  donne  hanno  paura.  Dottore  viene ,  domanda  la 
causa;  loro  che  la  statua  si  muove;  lui  saperlo  bene 
che  loro  non  sanno  maneggiare  bene  il  negozio.  Muove 
il  braccio  a  Pulcinella,  sale  sul  piedistallo  ;  Dottore 
via.  Donne  tornano  a  discorrere  che  vogliono  marito; 
Pulcinella  si  pone  in  mezzo,  tutto  come  sopra.  Dot- 
tore entra;  Dottore  si  pone  ai  piedi  della  base;  Donne 
gridano;  Pulcinella  cerca  di  fuggire  ;  Dottore  lo  ba- 
stona e  lui  via. 


-  456  - 

Scena  VII.  Luzh,  Orazio 

(Città) 

Ansiosi  sopra  Fesito  della  lettera  e  delFinvenzione; 
in  questo 

Scena  Vili.  Coviello,  T>ettL 

Orazio  domanda  a  Coviello  cosa  si  sia  fatto;  Co- 
viello  gli  dà  speranza  di  felice  esito  sperando  che 
l'invenzione  della  statua  sia  riuscita;  in  questo 

Scena  IX.  Pulcinella,  Detti. 

Coviello  dimanda  dell'invenzione;  Pulcinella  che  se 
da  statua  non  si  fosse  fatto  corriere  ,  il  Dottore  l' a- 
vrebbe  storpiato.  Innamorati  in  disperazione.  Coviello 
loro  fa  animo;  loro  pregano  Coviello.  Lui  che  vadano, 
che  lascino  fare  a  lui.  Loro  via.  Coviello  concerta 
Pulcinella  da  bamboccio  detto  Cicco  bimbo,  figlio  di 
Porziella  lavandcu*a  del  Dottore  e  lui  si  fìngerà  la- 
vandara.  Pulcinella  ricusa;  Coviello  gli  farà  un  piatto 
di  maccheroni;  Pulcinella  farà    tutto.    Via  a  vestirsi. 

Scena  X.  Donne. 

(Camera; 

Le  donne  assettate  al  tavolino  con  libri  in  mano; 
Rosetta    che    spolvera    libri.   Si  rammaricano    di  non 


I 


-  457  — 

aver  marito;  Rosetta,  che  si  saria  pigliata  la  statua, 
Donne  non  volere  statua,  ma  giovane  di  carne  e  ner- 
boruto; in  questo 

Scena  XI.  T)ottore  e  Detti. 

Dottore  se  hanno  veduto  bene  la  lezione;  loro  di 
sì  ;  si  bussa  ;  Rosetta  va  e  torna  ;  dice  essere  la  la- 
vandara. 

Scema  XII.  Pulcinella,  Coviello,  Detti. 

Pulcinella  da  bamboccio  ,  Coviello  da  lavandara. 
Coviello  prega  Dottore  tenere  in  casa  Cicco  bimbo 
che  deve  andare  a  lavare  i  panni  ;  Dottore  che  lo 
lasci.  Coviello  via.  Pulcinella  ,  suoi  lazzi  ,  di  cacca, 
di  pappa,  Dottore  voler  prendere  una  ricotta  o  altro. 
Pulcinella  fa  lazzi;  donne  gridano;  Dottore  entra  con 
ricotta,  le  sgrida,  poi  imbocca  Pulcinella.  Rosetta  va 
a  prendere  biscottini,  e  torna;  Donne  imboccano  Pul- 
cinella e  finiscono  l'atto. 

ATTO  TERZO 
Scena  1. 

(Città) 
Pulcinella,  Scena  d'Amore. 


—  458  - 

Scena  II.   Orazio,  Lazio,  Coviello  e  Detto 

Coviello  dimanda  a  Pulcinella  come  sia  riuscita 
Tinvenzione;  Pulcinella,  al  solito,  male;  Coviello  dice 
che  ha  saputo  che  il  Dottore  aspetta  una  mummia  da 
levante  e  concerta  Pulcinella  da  mummia.  Sua  scena; 
poi  gli  promettono  Rosetta  per    moglie  e  via  tutti. 

Scena  III. 

(Camera) 

Dottore  solo,  fa  scena  di  voler  maritare  le  figlie  e 
per  poter  poi  sposare  Rosetta,  poi  dice  che  gli  hanno 
scritto  che  un  amico  gli  voleva  mandare  una  mummia 
per  un  mercante  levantino ,  e  lui  volerla  comprare  ; 
poi  chiama 

Scena  IV.  Donne  e  T>etto 

Dottore  dice  se  hanno  studiato  bene  la  lezione  ; 
loro  gettano  in  terra  i  libri  e  dicono  voler  marito. 
Dottore  le  conforta  e  dice  che  fra  breve  verrà  chi  le 
consolerà,  frattanto  siedano  e  studino.  Loro  pigliano 
li  libri  e  studiano.  Dottore,  suoi  lazzi  muti  amorosi 
con  Rosetta.  Si  batte  ;  Rosetta  va  e  torna  dicendo 
essere  un  mercante  levantino;  Dottore,  che  venga,  e 
via  donne. 

Scena  V.  Coviello,  Pulcinella,  Dottore 

Coviello  da  mercante  levantino;  due  vastasi  facchini 
con  la  cassa  e  Pulcinella  da    mummia.    Loro    patto; 


—  459  — 

Dottore  paga,  e  Coviello  via.  Dottore  al  tavolino;  sua 
tirata  d'anatomia,  come  a  f.  11  (1).  Pulcinella,  suoi 
lazzi  muti.  Poi  Dottore  chiama  le  donne,  raccomanda 
lo  studio,  e  via. 

Scena  VI.   Donne  e  Pulcinella. 

Donne  dicono  d'essere  tediate  di  tale  seccaggine; 
volere  mcirito,  si  raccomandano  a  Rosetta.  Lei  che  il 
padre  non  fa  entrare  in  casa  nemmeno  un  gatto  ma-^ 
Schio.  Pulcinella  si  pone  in  mezzo,  loro  paura,  stril- 
lano. Viene  il  Dottore  che  le  tratta  da  spiritate  per 
tre  volte,  poi  scopre,  rumori,    cadute.  Pulcinella  via. 

(1)  Ne  diamo  il  principio.  "  Contro  uno  che  vuole  ammazzare  u» 
uomo.  Ti  voi  ammazzare  un  uomo,  che  la  Mader  Natura  tanto  s' af- 
fatigò  in  formarlo,  e  che  il  sippia  ver,  non  vedi  che  lo  ritondò  nella 
testa,  l'imbridò  nell'occhio,  l'incavò  nell*  orecchie,  lo  breve  nel  volto, 
lo  squadrò  nella  front,  lo  zergevizè  inti  la  tempie,  l'aguzzò  nel  nas, 
lo  dispartì  nelle  gambe,  il  consolidò  su  i  pie,  l'incurvò  nelle  spalle, 
l'organizzò  nei  membri,  l'  articulò  nelle  giunture ,  e  mò  el  voli  am- 
mazzar, cancaraz  ! 

"  Un  uomo,  al  qual  ghe  sta  da  cuor  per  viscer,  polmon  per  re- 
spirar, zervel  per  intender,  senzo  per  penzar ,  fantasia  per  imaginar  , 
intellett  per  discorrer,  memoria  per  ricordar ,  volontà  per  deliberar , 
nervi  per  sosteners,  muscoli  per  muovers,  vertebre  per  piegar,  arterie 
per  vivificar,  vene  f>er  remear,  sangue  p>er  ementar,  diaframma  per  ri- 
der, fià  per  significar,  ventricolo  per  concacer  ,  stomag  per  appetir, 
denti  per  mastegar,  esofagh  per  inghiottir,  pori  per  trasportar ,  polsi 
per  dibatter,  milza  per  camminar,  fiel  per  consumar,  vessiga  per  ri- 
purgar e  mi  el  voi  ammautzar,  cospettonaz  I  ". 


—  460  - 

Scena  VII.  Innamorati,  Coviello. 
(Città) 

Sperano  sia  riuscito  il  loro  disegno  ,  Coviello  lo 
spera  stante  Pulcinella  è  innamorato  di  Rosetta,  in 
questo 

Scena  Vili.  Pulcinella  e  Detti 

Tutti  allegri  gli  sono  attorno ,  cercano  ciò  che  ha 
fatto,  lui  dice  nulla.  Coviello  voler  fare  altra  inven- 
zione. Pulcinella  non  volerne  più  sapere.  Loro  pre- 
gano, Pulcinella  che  vuol  lui  fare  a  suo  modo  con 
nuova  ritrovata,  loro  pregano  glielo  dica,  lui  non  vo- 
lerlo dire,  ma  fare,  e  via  tutti. 

Scena  IX.  Dottore  solo. 

(Camera) 

Non  sapere  di  dove  gli  vengono  tante  trappole,  e 
furberie,  e  però  aver  risoluto  per  guardar  la  casa  voler 
pigliare  un  bravo  ed  averlo  detto  ad  un  suo  pau"ente 
perchè  mandi  un  buono  sgherro  acciò  guardi  bene  la 
casa.  Chiama. 

Scena  X.   Donne  e  Detto 

Si  raccomanda  stare  attente  alla  casa,  perchè  vede 
di  molti    rigiri  di  furbi  e  voler    procurare    un    uomo 


—  461   — 

bravo  che  invigili  ed  averlo  detto  ad  un  suo  parente. 
Donne  avere  necessario  un  uomo,  in  questo  si  sente 
bussare;  Rossetta  va  e  torna  dicendo  essere  un  Bravo  ;. 
Dottore  che  entri. 

Scena  XI.  Pulcinella  e  detti 

Pulcinella  da  Bravo  dice  aver  saputo  che  lui  cerca 
un  uomo  bravo  per  guaidare  la  casa  ;  lui  essere  a 
proposito  e  fcuà  la  sentinella  :  fanno  il  prezzo;  poi  il 
Dottore,  che  si  ponga  in  guardia  e  faccia  vedere  la  sua 
bravura.  Pulcinella  schermisce  con  le  mani,  prima  verso 
il  Dottore,  poi  verso  Rosetta  e  le  donne  alle  quali 
getta  la  lettera  in  seno.  Donne  via.  Pulcinella,  sua 
scena  di  bravura;  poi  tornano  le  donne  con  lettere  di 
risposta  in  seno  ;  Pulcinella  si  schermisce  con  loro  e 
piglia  le  loro  lettere  ;  poi  dice  volersi  provvedere  d'arma 
da  fuoco,  e  subito  tornerà  ;  via.  Dottore  che  atten- 
dano alla  casa,  e  via.  Donne  dicono  come  due  belli 
giovani  sono  innamorati  di  loro  e  le  hanno  scritto  una 
lettera  ed  avere  risposto  la  strettezza  in  cui  sono  te- 
nute, la  pazzia  del  padre  di  volerle  accasare  con  due 
principi  figli  d'un  re  delle  Indie  ;  che  essi  cerchino 
il  modo  d'  indurre  il  padre  che  ora  sono  pronte  di 
volersi  sposare. 

Scena  XII.  Innamorati,  Covici  lo. 
(Città) 

Essere  oramai    stracchi    di    tante    invenzioni   senza 


—  462  — 

avere  avuto  esito  favorevole.  Coviello  non  sapere  più 
-che  trovare  ;  in  questo 

Scena  XIII.   "Pulcinella,  Detti. 

Pulcinella  nel  suo  solito,  allegro,  cantando,  mostra 
la  lettera;  cerca  li  20  scudi  e  volere  Rosetta.  Loro 
promettono  la  donna,  lo  pagano.  Lui  dà  la  lettera, 
loro  la  leggono  e  Coviello  che  bisogna  concertare 
Pulcinella  da  re,  lui  da  ambasciadore,  loro  da  prin- 
cipi indiani  e  così  burlare  il  Dottore;  loro  allegri 
tutti  ;  vanno  a  vestirsi. 

Scena  XIV.  Donne  sole. 

(Camera) 

Ansiose  per  sapere  che  abbiano  fatto  li  loro  amanti; 
Rosetta  che  lei  è  innamorata  del  Bravo  ,  e  le  pare 
averlo  veduto  sotto  altra  figura  e  che  lui  forse  è  quello 
che  altra  volta  è  venuto  sotto  altro  vestito.  Donne 
sono  dello  stesso  parere  e  che  facilmente  ritornerà. 
Rosetta  lo  spera  per  averle  il  predetto  individuo  fatto 
qualche  cenno  amoroso.  Donne  come  farà  essendosi 
accorte  che  il  Dottore  è  innamorato  di  lei  ;  Rosetta 
fìngerà  di  corrispondere,  non  volere  un  vecchio  ricco 
ma  piuttosto  un  giovane  povero  ;  in  questo 

Scena  XV.   Dottore,  Dette. 

Donne,  quando  le  darà  marito;  Dottore,  che  spera 
^i  farlo  in  breve    e  che  il  Bravo  gli  ha  detto  che  a 


—  463  - 

momenti  si  aspettava  un  re  grande  con  due  principi 
suoi  figliuoli  e  spera  che  sia  quello  da  lui  previsto 
con  l'astrologia.  Donne,  che  non  può  essere.  Dottore 
che  se  non  Sca"à  quello  ne  troverà  altro.  Si  batte.  Ro- 
setta va,  torna,  dice:  essere  un  Principe  ambascia- 
tore.  Dottore,  che  entri. 

Scena  XVI.  Covìello  e  Detti. 

Coviello  da  cunbasciatore  chinese.  Loro  lazzi  di  ce- 
rimonie ;  Coviello  dice  essere  lui  principe  di  Sango- 
riccio  ambasciatore  del  re  Tiritappiataccù  il  quale  è 
arrivato  con  due  principi  suoi  figli  ,  Tuno  si  chiama 
Gnagnao,  l'altro  principe  Barabao ,  e  vogliono  spo- 
Scire  le  sue  due  figlie.  Dottore  dice  non  essere  de- 
gna la  casa  sua  di  ricevere  tanti  onori.  Coviello,  così 
vuole  il  re  Tiritappiataccù,  il  quale  già  sente  che 
viene.   Suoni  di  trombe,   tamburi. 

Scena  XVII. 

Pulcinella  da  re  indiano;  Innamorati  da  principi. 
Pulcinella  portato  in  se  Jia.  Loro  atti  di  cerimonia 
chinese  ;  Pulcinella  dice  che  per  via  d'astrologia  nel 
segno  del  Capricorno  ha  saputo  che  lui  tiene  due  figlie 
belle  e  virtuose,  e  lui  le  vuole  per  sue  figlie  sposan- 
dole a  principe  Gnagnao  e  al  princiqe  Barabao.  Dot- 
tore, suoi  lazzi  di  umile  ossequio;  poi  prende  le  figlie. 
Pulcinella  dà  Clelia  ad  Orazio  e  Rosaura  a  Luzio. 
Dottore,   sue  riverenze.    Pulcinella    dice  che    il  prin- 


—  464  — 

cipe  Gnagnao  farà  li  gnagnao'ini  e  il  principe  Barabao 
li  barabaorini.  Poi  farà  accostare  Rosetta,  scherza  con 
lei  ;  Dottore,  sue  smanie,  dice  la  serva  non  essere 
degna  di  stare  vicino  al  re.  Pulcinella,  che  la  lasci 
stare  piacendogli  assai.  Dottore,  sue  smanie  mute.  Pul- 
cinella la  vuole  per  moglie  avendo  fatto  a  Giove  voto 
per  salvarsi  da  una  tempesta  di  sposare  una  fantesca. 
Dottore,  sue  smanie  mute  ;  Pulcinella  sposa  Rosetta  ; 
poi  scopre  tutto.  Dottore  si  quieta  e  tutti  allegri  gri- 
dano: evviva  l'invenzione  di  Pulcinella! 


FINE  DELLA  COMMEDIA 


LAZZI 

{Dal  manoscritto  Adriani) 


1 .  Il  lazzo  del  piangere  e  ridere  è  che  1*  uno  va 
gabbando  l'altro  come  allorché  il  Vecchio  piange  per 
la  partenza  del  figlio  e  ride  per  aver  campo  aperto 
senza  gelosia  di  goder  l'innamorata.  Lo  stesso  fa  il  figlio. 

2.  11  lazzo  di  frutti  e  baci  è  che  Coviello  finge  la 
voce  della  Donna  amata  da  Pulcinella.  Questi  do- 
manda i  frutti  d'amore,  Coviello  di  dietro  lo  batte. 
Pulcinella  dice  non  esser  quelli  i  frutti  d'amore;  Co- 
viello di  dietro  gli  dà  schiaffetti. 

3.  Lazzi  impasticciati  sono  che  Coviello  impara 
(insegna)  a  Pulcinella  a  parlare  amoroso  e  di  dietro 
li  dice  mille  spropositi  ;  Pulcinella  li  replica  ;  Coviello 
da  dietro  per  affogarlo,  e  Pulcinella  fa  lo  stesso  alla 
Donna. 

4.  11  lazzo  della  mosca  è  che  Pulcinella  essendo 
stato  lasciato  a  guardia  della  casa  del  padrone,  e  do- 

i^Cel  Regno  delle  éXaschere  30 


—  466  — 

mandato  se  in  casa  vi  è  nessuno  gli  dice  non  esservi 
una  mosca:  il  padrone  vi  trova  gente  e  rinfaccia  Pul- 
cinella, e  lui  dice  :  Non  ci  hai  trovato  mosche ,  ma 
uomini. 

5.  Il  lazzo  di  polso  e  orina  è  che  Pulcinella  tocca 
il  piede  e  dice:  è  doglia  di  capo,  poi  si  fa  portare 
Torina,  e  la  beve,  e  la  sbruffa  in  faccia  a  Coviello, 
poi  per  fare  la  ricetta  fa  calare  Coviello  a  quattro 
piedi  con  il  preterito  alfudienza,  fa  cacciare  la  mano 
di  dietro  a  Coviello  e  vi  fa  tenere  il  calamaro  ,  e 
quando  piglia  inchiostro  gli  mette  la  penna  nel  pre- 
terito dicendo  :  Galeno,  io  ti  ringrazio ,  ego  medicus. 

6.  Il  lazzo  del  taci,  è  che  il  padrone  parlando  Pul- 
cinella Tinterrompe,  e  il  padrone  per  tre  volte  dice: 
taci;  poi  chiama  Pulcinella,  e  questi  gli  rende  la  pariglia. 

7.  Il  lazzo  di  Pulcinella  nato  prima  di  suo  padre 
è  che  Pulcinella  dice  a  Coviello  esser  nato  prima  di 
suo  padre;  Coviello  lo  nega  essendo  impossibile.  Pul- 
cinella dice  che  camminando  suo  padre  cadde  e  poco 
mancò  che  una  carrozza  non  li  passasse  sopra,  onde 
uno  disse:  Mo'  sii  nato,  onde  ciò  essendo  successo 
Tanno  passato,  lui  è  nato  prima  di  suo  padre. 

8.  Il  lazzo  della  Pellegrina  è  quando  li  Amanti 
pregando  Pulcinella  o  Coviello  s' inginocchiano,  e  Pul- 
cinella o  Coviello  parlando  ad  uno  ad  uno  volta  il 
preterito  alFaltro. 

9.  Il  lazzo  delForina  fresca  è  che  Pulcinella  dice: 
tutte  le  orine  esser  calde  ;  la  servetta  dice  che  fresca 
s'intende  quando  è  fatto  allora,  cioè,  di  fresco,  e  lo 
sincera. 


I 


INDICE 


p.f. 

PREFAZIONE V 

PARTE  PRIMA 

Capitolo  Primo  —  La  Commedia  dell'arte  e  la  sua  storia.  1 
CAPITOLO  Secondo          La  Forma  della  Commedia    del- 
l' Arte 44 

Capitolo  Terzo  —  Il  contenuto  della  Commedia  dell'Arte.  76 
CAPITOLO  Quarto  —  I  Personaggi  della   Commedia  del- 
l'Arte   101 

Capitolo  Quinto  —  Il  Costume  dei  Personaggi  della  Com- 
media dell'Arte     . 159 

CAPITOLO  SESTO  —  L'Arte  nella  Commedia   dell'Arte       .  169 

Capitolo  Settimo  —  Il  pubblico  della  Commedia  dell'Arte.  207 

PARTE   SECONDA 

Capitolo  Primo  —  I  tempi  di  Carlo  Goldoni         .          .        245 
Capitolo  SECONEX)  —  Carlo  Goldoni  e  la  Commedia  del- 
l'Arte  256 

Capitolo  Terzo  —  La  Nuova   Commedia     .  .  .295 

Capitolo  Quarto  —  L' originalità  della  Commedia  goldo- 

diana   ..........        350 

Capitolo  Quinto  —  Un    risveglio    della    Commedia    del- 
l'Arte  360 

APPENDICE 

A).  Dagli  Scenari  di  Basilio  Loccatello  romano   .          .          ,381 
B).    Dagli  Scenari  della   Raccolta  Sersale  della   Biblioteca   Na- 
zionale  di  Napoli .          .          .                     ,          .          .          .        40 1 
C).  Dagli  Scenari  del  p.  D.  Placido  Adriani         .                     .        445 
D).   Lazzi 465 


ERRATA-CORRIGE 

pag.    138  -   Un.    15 

dal  commediografo  è  adi  da!    commediografo    è  azi 

o  atti.  o  azzi ,  forma    volgare  di 

adi  o  atti. 


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